Atari Jaguar: quando la potenza non è tutto

Atari: il marchio che introdusse i videogiochi al mondo negli anni ’80, un tempo magico, in cui la grafica e il suono venivano compensati con l’immaginazione del singolo giocatore. Come sappiamo e abbiamo accennato anche in un nostro precedente articolo, Atari godeva di grandissima fama, tanto da essere sinonimo di videogioco, ma la crisi del 1983 portò alla chiusura di Atari.Inc e il suo marchio cadde nell’oscurità, per sempre eclissato da Nintendo. Sotto la leadership di Jack Tramiel, fondatore di Commodore che acquistò i suoi asset hardware per poi rilanciarli sotto il nuovo brand Atari Corporation, la compagnia si rialzò in piedi con lancio di Atari 7800; sebbene la console non costituì un fallimento, grazie anche alla deliziosa feature della retrocompatibilità con Atari 2600, questa non riusciva a reggere il confronto con Nintendo a livello di marketing, software e supporto di terze parti, neppure con il computer/console Atari XEGS, rimanendo di conseguenza una console di nicchia e per pochi appassionati. Nel 1989 Atari lanciò Lynx, la prima console portatile a colori e con display retroilluminato, un anno prima del più aggressivo Sega Game Gear che presentava più o meno le stesse caratteristiche. Ancora una volta, nonostante le sue ottime capacità, la nuova console Atari (che cominciò il nuovo trend interno di chiamare le proprie console con nomi di specie feline) non ebbe lo stesso supporto del Nintendo Gameboy e Sega Game Gear, finendo dunque per rappresentare la nicchia. Vale ricordare però che il Lynx, come l’Atari 7800 e i computer XEGS e ST, erano molto popolari in Europa, specialmente in Regno Unito che rappresentò, in un certo senso, il nuovo core-market dell’azienda. Dopo il 1992 Atari, che fermò la produzione del 7800, non aveva più nulla sul fronte delle console casalinghe, mentre nel frattempo Nintendo e Sega se le davano di santa ragione “a colpi di bit”. Con l’arrivo di Sega Mega Drive (o Genesis in Nord America) i giocatori vennero messi di fronte alla nuova parolina “bit”, un termine che in realtà nessuno sapeva cosa significasse realmente ma stava a sottolineare, in un qualche modo, la potenza hardware di una determinata console o computer. Grazie “all’esposizione dei bit” Sega potè accaparrarsi un netto vantaggio contro il Nintendo Entertainment System con i suoi 16bit, otto in più rispetto alla controparte, ma con l’arrivo del Super Nintendo la guerra, da lì in poi, fu combattuta ad armi pari.
Atari, visto anche che il Turbografx 16 di NEC non decollava al di fuori del Giappone (dove si chiama PC Engine), capì che bastava “averlo grosso” per vincere la partita… Il numero dei bit – maliziosi che non siete altro –! In questo scenario Atari avviò ben due progetti capitanati dall’esperienza di alcuni ingegneri provenienti dal Regno Unito, uno che avrebbe permesso di sbaragliare la competizione corrente e un altro per la generazione futura, visto che la successiva generazione di console cominciava a prendere qualche sembianza; questa è la storia dell’Atari Jaguar, una console che più di tutti ricordò ai giocatori che la potenza non è tutto.

(Jaguar, Jaguar, JAGUARRRRRRRRRRR!!)

Sete di conquista

Prima di parlare del Jaguar bisogna parlare del Panther, la console 32bit che avrebbe dovuto competere originariamente contro Super Nintendo e Sega Genesis. Il progetto originale risale nel 1988 anno in cui Atari, spinta dal voler riconquistare il cuore dei giocatori di tutto il mondo, avviò il progetto di un prototipo utilizzando la tecnologia di un Atari XEGS e la scheda video del Atari Transputer Workstation. Lo sviluppo andava bene ma i progressi non entusiasmavano nessuno all’interno dell’azienda; Richard Miller, vicepresidente di Atari Corporation (che fonderà più in là la VM Labs che ha portato il mondo il Nuon), andò a chiedere aiuto alla Flare Technolgy, una piccola compagnia inglese fondata da tre ex ingegneri di Sinclair Research, ovvero Martin Brennan, Ben Chese, che andò a lavorare più in là con Argonaut Games alla quale si deve il chip FX montato nelle cartucce dei giochi 3D dello SNES come Star Fox e Stunt Race, e John Mathieson, suo ex collega e amico. Flare era nota per aver prodotto il chip Flare 1 montato in alcune schede arcade ma soprattutto nel Konix Multisystem, console 100% inglese che fu cancellata per diversi motivi: il chip poteva permettere uno scaling mai visto prima, ancora più veloce di quello nell’Atari ST. Atari diede dei fondi a Flare per migliorare il chip esistente e inserirlo nel Panther e avviare parallelamente il progetto del chip Flare 2, che sarebbe stato parte dell’Atari Jaguar.
Grazie al supporto di Atari, Flare potè cominciare lo sviluppo di una nuova console 32bit contenente il nuovo chip migliorato, che venne chiamato Panther come l’automobile della moglie di Martin Brennan (la Panther Kalista) e, presto, la denominazione del chip finì per rinominare l’intero progetto e il prodotto definitivo. In tutto questo, con due progetti avviati, Atari sperava prima di mettere in difficoltà la competizione corrente col Panther e poi, successivamente, lanciare il Jaguar con i suoi 64bit, anticipando la prossima generazione e porsi dunque come la più potente (visto che si vociferava già delle console 32bit). Il Panther era quasi pronto ma i suoi dev kit, da distribuire agli sviluppatori, non funzionavano una volta assemblati; Atari avrebbe dovuto investire ulteriori risorse per risolvere questo problema ma per sua fortuna lo sviluppo del Jaguar era in netto anticipo e perciò si deliberò nel non continuare a produrre il progetto 32bit. Al Consumer Electronic Show del 1991 Atari annunciò la cancellazione del Panther ma in compenso annunciò quella del Jaguar che sarebbe stato pronto per il 1993, un predatore pronto a fare a brandelli la concorrenza e riconquistare il suo trono all’interno del mercato dei videogiochi.

Dall’annuncio al lancio

L’annuncio a sorpresa al CES del 1991 non solo infiammò la stampa ma convinse anche i giocatori; il Jaguar si poneva sia come una console più potente di SNES e Mega Drive che una console di prossima generazione in grado di competere, persino superare, le future rivali 3DO, Sega 32X, Saturn e PlayStation. In tutto questo Atari riuscì anche ad accaparrarsi degli ottimi 3rd party come Micro Prose, Virgin Interactive, Gremlin Graphics, Activision, InterplayUbisoft, che lanciò proprio nel Jaguar il primo Rayman, e molti altri. Per tutto il 1993 Atari svelò a poco a poco le specifiche della console e futuri add-on come il Jaguar CD, un headset VR e un modem per il gioco in rete (questi due prodotti non uscirono mai), il tutto fino all’uscita su tutto il suolo americano previsto per il primissimo 1994. Nel Novembre del 1993 furono inviate 50.000 unità fra New York e San Francisco in test market e i risultati furono strabilianti: la console andò sold out in un giorno e poco dopo i pre-order in Europa toccarono le 2 milioni di unità. Arrivati a questo punto IBM, che produceva i componenti della console, si ritrovò con le spalle al muro non potendo soddisfare una domanda così grossa e così Atari, contro il suo stesso interesse, decise di concentrarsi sul mercato americano, accantonando il mercato dove andavano più forti; di conseguenza, al lancio, in Gran Bretagna arrivarono solamente 2.500 unità.
Ciononostante, per Atari le cose stavano girando per il verso giusto: insieme all’eccellente test market a New York e San Francisco, il Jaguar vinse nel Gennaio del 1994 il premio il “best new game system” su Videogame Magazine, “best new hardware system” su Game Informer e “technical achievement of the year” su DieHard GameFan. I più tecnici furono certamente attratti dalle potenti qualità del Jaguar: la console di base era in grado di creare oggetti 3D con texture, poteva produrre sprite alti 1000 pixel, era possibile cambiare la risoluzione nei background 2D (in modo da poter rendere, per esempio, meno visibile un layer più lontano, creando un ottimo effetto di profondità) e ostentava effetti luce e altri effetti speciali veramente all’avanguardia.
La console attrasse inizialmente una base di giocatori di tutto rispetto grazie sia a un’aggressiva campagna di marketing, il cui slogan principale era “do the math” (più o meno “fai i conti”, in quanto le pubblicità sottolineavano il “gap dei bit” fra il Jaguar e le restanti console), e una buona linea di titoli di lancio e altri che arrivarono man mano; dopo gli iniziali Cybermorph, Raiden e Evolution: Dino Dude arrivarono l’incredibile Tempest 2000, Wolfenstein 3D e Doom, i cui porting erano i più belli e i più vicini al PC (ai tempi) e Alien vs Predator che diventò la killer app del sistema. In aggiunta a tutto questo, a metà del 1994 Atari vinse una causa legale contro Sega per violazione di brevetto: la compagnia giapponese dovette pagare alla compagnia di Jack Tramiel 50 milioni di dollari in spese giudiziarie, fu costretta ad acquistare azioni Atari per 40 milioni e rilasciare alcuni giochi esclusivi Sega su Atari Jaguar (che non uscirono mai). Jaguar aveva tutte le carte in tavola per diventare un competitor importante nel mercato ma Atari non aveva fatto i conti con il nemico numero uno della macchina: la sua stessa scheda madre.

(Il controller del Jaguar, come quello del ColecoVision e Intellivision, aveva un tastierino numerico sulla quale era possibile attaccare degli overlay. È stato, probabilmente, l’ultimo controller con una tale feature.)

Tom & Jerry

Sin dal lancio i giocatori si accorsero che Cybermorph, che era uno shooter sulla falsariga di Star Fox ma presentava una struttura più aperta, era molto più avanzato di Raiden e Evolution: Dino Dudes e che questi due  sembravano dei normalissimi giochi 16 bit. Col tempo, nonostante la console ricevette tanti grandi titoli, i giocatori si accorsero che qualcosa andava storto e che non tutti i giochi sfruttavano le vere capacità dell’Atari Jaguar. Si dice appunto che questa console è in realtà una console 32+32bit e che dunque non è una vera macchina 64bit; ma qual è la verità?
Il cuore della macchina era un processore Motorola 68000 ma in realtà era supportato da altri due processori RISC chiamati “Tom” e “Jerry“: Tom si occupava di tutto il piano grafico, dunque era la GPU e generava gli oggetti in 3D, mentre Jerry si occupava del comparto sonoro, dunque processava i segnali audio e gli effetti sonori. In pratica i programmatori dovevano programmare grafica e sonoro separatamente su quei due chip in modo che venissero mandati al Motorola 68000 che avrebbe processato il tutto e “generato” il gioco al giocatore; John Mathisen descrisse il chip principale come un project manager, che non fa nessun effettivo lavoro ma è lì per dire a tutti cosa fare. Programmare sul Motorola 68000 era molto più facile visto che era un chip montato nei primi computer Macintosh, il Commodore Amiga, l’Atari ST e persino il Sega Mega Drive; per venire in contro alle date di scadenza, visto che il sistema Tom & Jerry non era chiaro a tutti, i giochi venivano programmati direttamente sul Motorola 68000 in quanto molti programmatori avevano già programmato per quel determinato chip, e perciò molti dei giochi vennero fuori con una veste tutt’altro che 64bit, alcuni porting erano persino più carenti delle controparti 16bit. La credibilità del Jaguar si sgretolava piano piano e, contrariamente alle previsioni di Jack Tramiel che si aspettava almeno 500.000 unità vendute in un anno, alla fine del 1994 i dati di vendita riportarono solamente circa 100.000 unità. Adesso per Atari arrivava l’anno 1995, anno in cui il Jaguar sarebbe dovuto entrare in competizione con Sega Saturn e Sony PlayStation.

(I due grossi chip sulla sinistra sono Tom e Jerry, mentre il chip più grosso sulla destra è il Motorola 68000)

La seconda fase

Al CES del Gennaio 1995 Atari comincia l’anno nuovo col botto: vengono annunciate le date di uscita e il prezzo per il Jaguar CD, insieme all’annuncio di dei dischi proprietari dalla capienza di 790Mb, Jaglink, che premette di collegare due Jaguar, per il VR headset (annunciato per il Natale ma mai uscito) e per moltissimi giochi. Due mesi dopo viene annunciato un price drop di 149,99$ e Atari dedide di non sviluppare molti dei suoi prodotti: la produzione di XEGS, ST e Falcon si fermano sin da subito mentre il Lynx verrà abbandonato alla fine del 1995. Era chiaro, a quel punto, che Atari era pronta a tutto pur di vendere il Jaguar. Sam Tramiel, figlio di Jack che prese le redini di Atari alla fine degli anni ’80, per fronteggiare l’imminente uscita di Sega Saturn e Sony PlayStation, si rese disponibile per molte interviste al fine di promuovere la loro console casalinga ma a molti sembrava che si stesse arrampicando sugli specchi: ad Aprile, su Next Generation Magazine, disse che Saturn e PlayStation erano destinate a fallire per il loro prezzo (che a lui sembrava esorbitante), mentre a Luglio, nella medesima rivista, dichiarò che il Jaguar aveva venduto 150.000 unità, che il 50% degli utenti Jaguar avrebbe comprato il Jaguar CD, che “l’interno del Saturn era un casino”, ignorando il proprio complicato sistema Tom & Jerry e che il Jaguar presentava le stesse caratteristiche, se non più potente, del Saturn e poco più debole di PlayStation (mentre in reltà la console Sega era, su carta, più potente di della console Sony!).
Le affermazioni di Sam Tramiel gli si rivoltarono contro quando prima Sega Saturn e poi Sony PlayStation superarono di molto, già nel periodo di lancio, le vendite complessive di Jaguar di un anno di attività; persino 3DO, rimasta inizialmente indietro, superò la console Atari con 500.000 unità vendute. In tutto questo, i giochi promessi al CES 1995 tardavano ad arrivare e l’accordo con Sega, per la perdita di quel caso giudiziario, non uscirono mai. Nell’Ottobre del ’95, un mese dopo l’uscita del Jaguar CD, Atari decise di destinare meno risorse al Jaguar, tentando di reinvestire ciò che è rimasto nella produzione hardware e software PC; successivamente, a Novembre, venne chiuso lo studio Atari che produceva i giochi first party e nel natale del 1995 il Jaguar fu venduto per 99,99$, l’ultimo e definitivo price drop. Come se non bastasse, Sam Tramiel subì un lieve attacco di cuore che costrinse il padre Jack di nuovo alla direzione dell’azienda che aveva comprato dalla Warner Communication.

Dalla chiusura alla seconda vita di Jaguar

Nel Gennaio 1996 furono riportati i disastrosi dati di vendita di Atari Corporation: l’azienda fatturò solamente 14.6 milioni di dollari, significativamente meno dei 38.7 milioni del 1994, mentre nell’anno trascorso furono venduti solamente 125.000 unità, decisamente meno rispetto a quanto dichiarato da Sam Tramiel su Next Generation Magazine; a tutto questo si aggiungevano 100.000 unità invendute e solo 3.000 unità vendute in Giappone, dove fu distribuito in pochissimi negozi. Sebbene nel 1996 alcuni giochi continuavano a uscire, la produzione di Atari Jaguar terminò di lì a poco. Atari Corporation, in Aprile, si fuse con JT Storage e più tardi, nel 1998, vendettero il nome ad Hasbro.
Contrariamente a ogni aspettativa, la sfortunata console riemerse dal dimenticatoio: nel Maggio 1999 Hasbro non rinnovò la licenza sull’Atari Jaguar, facendo ricadere i diritti sul dominio pubblico; da quel momento in poi, qualsiasi sviluppatore, grande o piccolo, è libero di produrre e vendere un gioco per Jaguar senza il permesso di Hasbro. Furono rilasciati subito tre giochi precedentemente cancellati, uno dei quali della Midway e ancora oggi, l’Atari Jaguar è casa di una scena homebrew veramente vasta; l’ultimo titolo uscito per la console è stato Fast Food 64, rilasciato il 23 Giugno del 2017. Dal 2001 al 2007 i rimanenti Jaguar sono stati venduti dalla catena di negozi inglese Game per 30£, fino al price drop finale di 9,99£. E ancora, come se non bastasse, lo stampo industriale per creare la console esterna è stato usato dalla compagnia Imagin per creare un utensile per dentisti e riutilizzata di nuovo per il gaming nel fornire il design esterno della console cancellata Retro VGS/Coleco Chameleon. Che dire? È una bestia che proprio non ne vuole sapere di morire!

(Un video dell’utente bframe che ci mostra tutti i giochi dell’Atari Jaguar)

Mamma, possiamo tenerlo?

Come abbiamo accennato, Atari Jaguar è di dominio pubblico e perciò abbiamo tutto il diritto di emulare la console e i giochi. Tuttavia, al di là dei recenti sviluppi sull’emulazione, stando a molti utenti l’emulazione di Jaguar è ancora un po’ carente e spesso e volentieri molti giochi presentano bug o si bloccano improvvisamente (e non è un problema relativo ai PC). Dunque l’alternativa, visto che ancora nessuno ha prodotto un sistema clone (e Polymega non ha annunciato un modulo dedicato), è proprio quella di comprare un Atari Jaguar originale. Anche se i prezzi sono un po’ più alti del loro prezzo originale, bisogna dire che per una console che ha venduto meno di 300.000 unità è un prezzo equo; andare a caccia dei videogiochi, dunque delle orrende cartucce (in senso buono) con la maniglia in alto, è un discorso a parte in quanto dipende sempre dalla reputazione di un gioco e dalla tiratura e come abbiamo visto, contrariamente a ciò che si possa pensare, ce ne sono tanti. Assicuratevi che la console vi arrivi con il suo cablaggio proprietario per montarlo alla TV via RCA. Discorso a parte va fatto per il Jaguar CD: questo particolare add-on, a differenza dei più comuni Sega CD o PC-Engine CD, è famoso per essere particolarmente fragile ed è facile incappare in uno dei tanti Jaguar CD non funzionanti e, se lo collegherete alla TV, ve lo farà sapere con la famosa “red screen of death” che indica un problema di comunicazione fra la base e l’add-on; come se non bastasse, l’add-on è ancora più raro della console in sé e perciò rischiate di sprecare oltre 200€ per un Jaguar CD morto. È un acquisto che va fatto molto attentamente, anche per la base, ma se state attenti e siete interessati alla sua particolare libreria di giochi potrete portare a casa una gran bella console che ha detto molto e, sorprendentemente, ha ancora molto da dire!




Cambiamenti in vista per Rainbow: Six Siege

Ubisoft si prepara a rilasciare sul territorio asiatico Rainbow: Six Siege e, ovviamente, i nuovi territori comportano nuove regole da rispettare. L’azienda ha annunciato cambiamenti estetici al prodotto, pur mantenendo una propria identità visiva, per non impegnare un solo team su due giochi “diversi”; quindi nessuna modifica al gameplay di base ma soltanto la rimozione di teschi, riferimenti sessualmente espliciti o al gioco d’azzardo e la rimozione del sangue dagli ambienti di gioco, in conformità con i regolamenti di alcuni paesi. Alcune icone verranno infine sostituite, come ad esempio quella della mischia, che passa dal pugnale al pugno.




La crescita della game industry nell’est Europa

Quando si parla delle nazioni più proficue e importanti nell’industria dei videogiochi, pensiamo subito agli Stati Uniti, al Giappone, al Canada e all’Inghilterra, che nel corso degli anni hanno dettato legge e comandato il mercato del settore. Tra gli anni ’80 e ’90 il videogame è passato dall’essere un passatempo per pochi a un vero e proprio bene di consumo per chiunque e ciò portò e porta tutt’ora molti altri paesi a prendere parte a quella che adesso è una vera e propria “corsa all’oro” del terzo millennio. Tra i tanti che sono entrati nel mercato in tempi relativamente recenti, Italia compresa, una menzione speciale va all’Europa dell’Est, che si è aperta a questo tipo di intrattenimento e alla tecnologia in generale molto più tardi rispetto al resto del mondo industrializzato, a causa del regime comunista dell’Unione Sovietica che negava qualsiasi tipo di importazione. Adesso come allora, prodotti come computer e console sono pure espressioni del capitalismo e per la loro diffusione in quelle zone si dovette aspettare la caduta del Muro di Berlino e lo scioglimento dell’URSS.
Nonostante questa partenza a rilento, ora l’est Europa ha una posizione di tutto rispetto nel mondo dell’industry, sia per produzione che per utenza.

Tra le nazioni più presenti nel mercato (oltre alla Russia) spiccano la Polonia e la Romania, che contribuiscono in modo significativo al fatturato annuale che si avvicina ai 4 miliardi di dollari. Quest’ultima, avendo un costo del lavoro molto basso, ha portato alcuni grandi colossi come Ubisoft, King, Bandai Namco e Electronic Arts ad aprirvi delle sedi che spesso e volentieri collaborano alla realizzazione dei franchise più importanti, ma spendendo molto meno rispetto agli uffici in madre patria; inoltre, sono presenti oltre 80 case indipendenti, molte delle quali riunite all’interno della RGDA (Romanian Game Developers Association). Grazie a questa forte presenza all’interno del paese, il ministro delle Comunicazioni e dell’Informazione Petru Bogdan Cojocaru ha stanziato ben 94 milioni di euro di fondi da cui potranno attingere le aziende al 100% rumene che operano sul campo della tecnologia per aiutarne ed accelerarne la crescita. Questa manovra potrebbe rappresentare la nascita e l’affermazione a livello mondiale di una realtà videoludica made in Romania.

Mentre la patria della Transilvania è ancora in fase di evoluzione e senza una vera e propria casa che faccia da riferimento, in Polonia si respira un’aria diversa, che sa di tempi passati e futuri, strighi e mercenari, magia e tecnologia, e una grande insegna rossa troneggia: CD Projekt Red; divisione dedita allo viluppo di videogiochi di CD Projekt (che si occupa invece di localizzare e tradurre i giochi stranieri in lingua polacca) e diventata famosa grazie alla serie di The Witcher. Insomma, grazie a Geralt e più recentemente grazie all’hype generato da Cyberpunk 2077, la Polonia si è potuta fare un nome e una reputazione a livello mondiale e, i contributi di Techland, 11 Bit Studio e Flying Wild Dog non sono certo da sottovalutare. Inoltre all’interno del paese si svolgono annualmente diversi eventi dedicati agli e-sport di importanza internazionale, come l’Intel Extreme Masters.

I perché del successo polacco vanno ricercati all’interno del sistema di istruzione, che forma ragazzi volenterosi e preparati ed è tra i migliori del mondo e dietro al fenomeno The Witcher, che dal suo primo rilascio nel 2007 ha creato un’ondata di entusiasmo generale che, unita al caratteristico spirito indomabile della popolazione, ha spinto molti aspiranti sviluppatori a mettersi in gioco. La scena del gaming polacco, in tutte le sue forme, è più luminosa che mai.
Una domanda però sorge spontanea: perché in Italia tutto ciò non accade nonostante sia discretamente presente nel settore? Principalmente, il governo non crede e non ha interesse in questo media, quindi non mette a disposizione fondi per chiunque voglia avviare un progetto o una startup. Di conseguenza, lo sviluppatore italiano è di fronte a un bivio: rischiare e investire di propria tasca o andare all’estero dove le opportunità sono maggiori; inutile dire che non sono molti quelli che decidono di restare in patria, dimostrato dal fatto che le aziende nostrane sono poco più di una ventina. E a differenza dei paesi dell’est, il costo del lavoro qui è molto più alto e non incentiva i colossi del settore a inserirsi (infatti solo Ubisoft ha una sede italiana). La situazione va sicuramente migliorando di anno in anno grazie al sensibile aumento di indie made in Italy, ma senza una spinta da parte dello stato con finanziamenti, abbassamenti delle tasse e del costo di lavoro, semplificazioni burocratiche e l’estensione della Tax Credit anche ai videogiochi, il progresso italiano in questo campo resterà lento a differenza di altri paesi, che pur provenendo da situazioni economiche e sociali ben peggiori, sono riusciti a fare la differenza.




Videogiocare è soprattutto imparare

Durante un’intervista rilasciata a GameInformer, il creative chief officer di Ubisoft Serge Hascoet, è sembrato molto emozionato riguardo al futuro del settore videoludico.

«Questa è un’industria fantastica» afferma Hascoet, secondo lui il settore è in un momento di crescita esponenziale, l’anno scorso il VR era una tecnologia da poco, ma adesso sembrerebbe prendere piede ed è fantastico che ci sia l’avanzare di giochi come Fortnite, che portano uno “svecchiamento” delle normali tematiche videoludiche.
Tuttavia, secondo il creative chief officer, al settore manca qualcosa di molto importante: un’anima. Il suo pensiero è che, al momento, non si stia facendo abbastanza per migliorare l’esperienza dei giocatori, visto che molti videogiochi sono basati sull’intrattenimento ma, invece, dovrebbero inoltre far apprendere qualcosa ai giocatori.

Il suo principale “punto di riferimento” sono i giochi da tavolo e i card game, i quali, oltre a divertire, aiutano a comprendere il comportamento umano, stimolando la comprensione degli avversari e quanto siano veritieri i loro comportamenti. Infatti, queste nozioni vengono imparate divertendosi, quindi si dovrebbe cercare un modo di portare questo tipo d’insegnamenti all’interno dei giochi.
«I videogame riguardano il gaming, e il gaming non è solo entertainment: riguarda soprattutto l’apprendimento learning. Quando impari, puoi divertirti. Quando il gioco si ferma all’intrattenimento stiamo dunque perdendo qualcosa. Ragiono sempre col team riguardo i benefit che il giocatore trarrà dal gioco per usarli nella vita reale: allo stato attuale stiamo facendo poco in tal senso. Quel che mi emoziona è invece pensare di fare qualcosa che diverta e al contempo che abbia benefici nella vita reale.»
Hascoet ha continuato dicendo che si dovrebbe puntare alla creazione di giochi con modalità simili a quella introdotta in Assassin’s Creed: Origins, cioè, la modalità Discoverydove gli utenti possono effettuare un “tour” delle creazioni storiche egiziane.
Infine, Hascoet ha affermato che Ubisoft è piena di marchi adatti a formare i più giovani, come Child of Light, Rayman, Mario+Rabbids: Kingdom Battle,  ma sono giochi che non vendono tanto quanto giochi del calibro di AC. Infatti, è per questo motivo che i team di sviluppo della software house tendono a cercare di accettare tendenzialmente più titoli che coinvolgano un audience più adulta.




Ha ancora senso Assassin’s Creed?

Sin dalla sua comparsa, Assassin’s Creed è stato capace di dividere il pubblico, anche se per motivi diversi. Se il capitolo originale veniva criticato per l’eccessiva ripetitività o elogiato per le novità apportate ai free roaming e per la narrativa, i successivi hanno cominciato a esser presi di mira per le mancate novità, per la poca incisività della trama, pur comunque mantenendo una buona dose di vendite e di critica in generale. Oggi, con l’avvento di Odyssey, la questione è un’altra: il nuovo capitolo, può essere definito Assassin’s Creed? La mancanza della famosa setta e l’andare così a ritroso nel tempo, ha cominciato a far venire dubbi persino ai fan più accaniti, ma oggi vedremo di analizzare la situazione, concentrandoci prevalentemente sulla narrativa.

Un passato pericoloso

Partiamo con i periodi storici, punti focali nella saga di Assassin’s Creed: siamo passati dalle Crociate all’Italia Rinascimentale a varie rivoluzioni sino a scoprire l’origine della Setta degli Assassini, nell’Egitto Tolemaico. C’è stato un periodo in cui, a seguito dell’avanzare nel tempo da parte di Ubisoft, il cui sviluppo dei titoli della saga sembrava seguire un progressione temporale costante, molti fan hanno cominciato a sospettare che il brand un giorno avrebbe calcato palcoscenici moderni, magari vedendo Desmond come Maestro Assassino del XXI secolo. Ovviamente sappiamo che non è andata così; Desmond ha trovato il suo destino e con lui la specie umana. Ma se c’è una cosa che è finita nel dimenticatoio, anche per colpa degli stessi sceneggiatori, è un piccolo, grande particolare: la storia degli Assassini ha inizio molto prima della creazione della setta. Se, appunto, in Assassin’s Creed: Origins abbiamo visto la creazione “ufficiale” della congregazione, in realtà l’essere Assassini ha risvolti molto più antichi, un ordine sparso, travagliato, ma con radici molto profonde. Ma ne parleremo dopo.
Assassin’s Creed: Odyssey, come sappiamo, è un prequel di Origins e la domanda posta da molti utenti è stata: qual è il senso di un Assassin’s Creed ambientato prima della creazione del Credo? Prima di rispondere con la parola “soldi”, scendiamo un attimo sui particolari: avete notato come, in Origins, Bayek entri in possesso di una Lama Celata? Se ne entra in possesso, quella lama, deve avere qualche origine. Guarda caso Odyssey è ambientato quasi nello stesso periodo in cui la lama fece la sua prima comparsa per opera di Dario, che con quest’arma eliminò Re Serse I. Questo accadde per una ragione semplicissima: Templari e Assassini esistevano già. Il focus non deve andare dunque sul nome, ma sul credo in sé; l’ideologia, così simile eppure così diversa tra le due sette, è antica come il mondo e poco importa il nome a cui fanno riferimento.
Questo dunque ci porta a un altro elemento: andare ancora a ritroso, prima ancora dell’Antica Grecia ha indubbiamente senso e questo potrebbe portare alla prima civiltà umana conosciuta come i Sumeri ad esempio. Eppure non sarebbe ancora abbastanza.
Grazie ai ricordi ricostruiti dal Soggetto 16Clay Kaczmarek, altra cavia dell’Abstergo oltre a Desmond, sappiamo che gli “Assassini” hanno un’origine risalente a più di 75000 anni fa (no, non è un errore di battitura).
Che Ubisoft sotto sotto voglia portarci tra le città della prima civilizzazione? Non è da escludere a priori anche se potrebbe essere un titolo ben diverso da come lo conosciamo, per via della tecnologia estremamente avanzata che renderebbe questo ipotetico Assassin’s Creed praticamente fantascientifico. Potete già immaginare lame laser e qualunque cosa partorisca la vostra immaginazione.
Assassin’s Creed: Odyssey ha dunque senso senza la setta degli Assassini/Occulti? Certo che sì, e la risposta è contenuta già nel titolo: il Credo degli Assassini è il vero punto focale dell’opera e, volendo essere ancor più precisi, è la parola Creed su cui si concentra davvero tutto il franchise.
Cambiare nome del brand è un’altra possibilità ma questo dipende dalle direttive di Ubisoft per il futuro della serie, se si vuole proseguire o meno nella direzione sopracitata o creare titoli prettamente “usa e getta”, con i piccoli collegamenti necessari per giustificare l’utilizzo della proprietà intellettuale.

Adamo ed Eva

Coloro che vennero prima” è il fantomatico nome della prima civilizzazione sul pianeta Terra, antecedente ovviamente alla razza umana. Durante gli eventi della prima trilogia di Assassin’s Creed, ovvero dall’originale, ai capitoli dedicati a Ezio Auditore e al terzo episodio, sappiamo abbastanza di questa civiltà grazie ai vari documenti presenti ma soprattutto grazie al racconto diretto delle coscienze preservate di Minerva, Giunone e Giove, in grado di raccontare a grandi linee quanto è successo. La razza umana venne creata da Coloro che vennero Prima (da adesso CVP, per facilità d’uso), per utilizzare gli umani come schiavi, controllandoli attraverso il potere dei Frutti dell’Eden. Ma a un certo punto la ribellione di due di loro, Adamo ed Eva appunto, segnò l’inizio della guerra tra le due specie, distraendole da quanto stava per avvenire sulla Terra, una sciagura conosciuta come Catastrofe di Toba, che portò alla quasi estinzione di entrambe le razze. Come sappiamo grazie ad Assassin’s Creed II, tutto ha inizio nell’Eden, alle falde del Kilimangiaro (del resto si presuppone che la razza umana abbia avuto inizio proprio in Africa), in cui possiamo osservare due individui (Adamo ed Eva appunto) scappare da qualcosa o qualcuno con in mano un Frutto dell’Eden, rimanendo immuni ai sui effetti. La loro agilità e forza, nonché l’immunità agli effetti della tecnologia “ancestrale” ci dice due cose: la loro natura è molto probabilmente ibrida, data dall’unione di geni umani e di CVP, e poi, cosa ben più importante, gli Assassini iniziano da loro. Ma attenzione: anche i Templari.
Nulla è reale, tutto è lecito” ha inizio molto probabilmente in questo frangente, più di 75000 anni fa: liberati dall’influsso della tecnologia, gli esseri umani per la prima volta conoscono il libero arbitrio, scoprendo la menzogna posta ai loro occhi con la forza. Le differenze tra Assassini e Templari sono ovviamente post-catastrofe, vedendo la pace in modi diametralmente opposti: grazie alla libertà per i primi, imposta con la forza per i secondi.
Come potete aver capito, parlare del “senso” di Assassin’s Creed ha davvero poco significato. Essere Assassini o Templari è qualcosa che va al di là del nome, mettendo l’accento sul Credo e sul suo significato. Kassandra (semplificando) crede nella pace e nella libertà? È un’Assassina, come lo furono Altaïr ed Ezio Auditore. È altresì vero che questo filone narrativo purtroppo è stato un po’ tralasciato nel corso degli ultimi anni, soprattutto dal termine della trilogia. Che Odyssey sia dunque un piccolo segnale? Non ci resta che attendere ma è davvero un peccato che la saga, narrativamente parlando, abbia perso un po’ la rotta, senza concludere o per lo meno ampliare quanto già narrato. Appuntamento dunque al 2020, con un Assassin’s Creed di nuova generazione.




Assassin’s Creed: vita e morte di un credo

Durante lo speciale dedicato alla storia di Tomb Raider  e alla sua eroina Lara Croft, vi fu un piccolo passaggio in cui si misero in parallelo le travagliate vicende del brand Core Design con saghe successive come Call of Duty o Assassin’s Creed. Per la serie “la storia si ripete” e in concomitanza con l’arrivo di Assassin’s Creed: Odyssey, ripercorriamo le gesta e gli alti e bassi di una delle saghe più famose degli ultimi anni. Sin dalla sua comparsa, Assassin’s Creed è entrato prepotentemente nell’immaginario collettivo, subito riconoscibile e trasposto in innumerevoli modi, tra videogame (ovviamente), romanzi, fumetti, fino al lungometraggio con Michael Fassbender del 2016. Assassin’s Creed è anche il simbolo estremo del cambiamento del mercato videoludico, fatto di serializzazioni, che a lungo andare hanno finito per corrompere la qualità dei titoli, fino al radicale cambiamento avvenuto con Origins e Odyssey, fresco fresco di uscita.

L’inizio è già il futuro?

La crescita di Ubisoft come compagnia accelerò improvvisamente nel 1997, quando a Montréal venne aperto il suo studio più importante, contando all’attivo più di 2100 dipendenti. La svolta reale però, si ebbe con l’acquisizione dei diritti di Prince of Persia, brand storico creato da Jordan Mechner, debuttato nel 1989 e rivoluzionario per l’epoca, creando di fatto gli action moderni e sdoganando l’uso del mo-cap nei videogiochi. La voglia di creare un titolo nuovo di zecca era molta e capo del progetto venne nominato Patrice Désilet che con Prince of Persia: Le Sabbie del Tempo (2003) cambiò per sempre il genere action, divenendo ispirazione per tutti i suoi simili sino ai giorni nostri. Il successo e la stima acquisita dai numerosi riconoscimenti, convinse Ubisoft a dare carta bianca a Désilet per un nuovo progetto, un Prince of Persia (con successivo sottotitolo Assassins) da far uscire sulle console di nuova generazione: PlayStation 3 e Xbox 360. Al suo fianco entra in scena anche Jade Raymond, che nel frattempo si era fatta un nome soprattutto per il successo di The Sims Online (2002). Nel frattempo Patrice si interessò molto alla storia degli ḥashāshīn, una setta che operava durante la Terza Crociata e che sarebbe stato il punto focale del nuovo gioco. Ben presto si accorsero che con Prince of Persia il nuovo progetto aveva ben poco in comune e decisero così di creare una nuova IP: Assassin’s Creed. C’è da notare sin da subito come questo processo potrebbe di nuovo avverarsi, ma lo vedremo meglio in seguito. Mentre lo sviluppo del nuovo brand andava a gonfie vele, un piccolo team era stato preposto alla realizzazione di un progetto parallelo, un Assassin’s Creed da proporre per PlayStation 2 e Xbox. Di questo progetto non se ne seppe più nulla e, stranamente, non fu l’unica volta.
Benché controverso, con alcuni difetti rilevanti, il primo concept è probabilmente il vero e unico Assassin’s Creed, partendo da un ottimo incipit di trama in cui chiunque ha la possibilità di rivivere i ricordi dei propri antenati memorizzati nel D.N.A. attraverso una macchina denominata Animus. Il protagonista era Desmond Miles, un giovane barista rapito dalla Abstergo Industries, con l’intento di trovare un manufatto prezioso perso in medio oriente. Desmond ha un antenato, vissuto all’incirca nel 1191 che potrebbe sapere dove si trova, Altaïr Ibn La-Ahad.
Quando uscì, nel 2007, questo gioco spaccò la critica: chi lo ritenne un capolavoro, chi mediocre a causa di una certa ripetitività. In ogni caso fece segnare un record di vendite. Tecnicamente eccezionale, con texture dettagliate e tanti personaggi su schermo il perno centrale del progetto era però tutt’altro:

«Quando gli altri seguono ciecamente la verità, ricorda: nulla è reale. Quando gli altri si piegano alla morale e alle leggi, ricorda: tutto è lecito. Agiamo nell’ombra per servire la luce. Siamo Assassini. Nulla è reale, tutto è lecito.»

Ma cosa vuol dire “nulla è reale tutto è lecito”? In poche parole, tutto ciò che viviamo, osserviamo e facciamo è ciò che genera in noi il senso di libertà, facendoci credere che solo noi siamo artefici del nostro destino ma, in realtà, è solo una mera illusione. Ogni nostra azione è controllata, tutto ciò che vediamo è solo ciò che ci è stato posto davanti per nascondere la verità. “Tutto è lecito” deriva da questa consapevolezza, che il mondo che vediamo sia finzione e che dobbiamo fare tutto il possibile per trarcene fuori al fine di riconquistare la libertà, prendendo coscienza delle nostre azioni e accettarle, siano esse positive o negative. Ma, come ogni cosa su questa terra, anche il Credo vive di profonde contraddizioni, dove ad esempio si promuove la pace ma si agisce tramite assassinii. Anche il Credo in sé si scontra con la promulgazione del libero arbitrio e la fede assoluta, dato che i membri seguono un rigido regolamento, dando piena fedeltà alla setta.
Sia ben chiaro, non si tratta di errori o disattenzioni nello stilare la sceneggiatura: l’opera di Désilet è ricca di profonde tematiche, sia filosofiche che umastiche che, sommate a un gameplay che prevede un’accurata ricerca di indizi su come approcciare l’assassinio di turno, è ripreso solo successivamente in Dishonored, forse più Assassin’s Creed di molti titoli della saga Ubisoft. Anche lo scontro con i Templari, fazione nemica del gioco, sia in Terra Santa che ai giorni nostri, non è mai mostrato come un semplice “buoni contro cattivi” presentandosi come uno scontro di filosofie diverse: entrambi vogliono la pace ed entrambi, uccidono per ottenerla. Benché si potesse osare di più narrativamente parlando, la sfida tra le due fazioni rimane uno degli elementi più interessanti, pur risultando standardizzato nei capitoli successivi.
L’importanza dell’entrata in scena di Assassin’s Creed la vediamo tuttora: tutti i free roaming successivi prendono in qualche modo spunto dal lavoro di Ubisoft Montréal che è riuscita a rivoluzionare il genere portando su schermo centinaia di NPC, un mondo vivo e variegato oltre alla possibilità di esplorare l’intera mappa nelle tre dimensioni visto che Altaïr è anche un ottimo scalatore. A tal proposito, AC ha anche il merito di aver sdoganato la moda del parkour, dove tantissimi traceur hanno cercato di emulare le gesta degli assassini tra i tetti e le mura delle città moderne; tutto questo rientra nell’iconicità di un brand divenuto uno dei più importanti videogiochi della storia. Ma a proposito di storia: una delle caratteristiche del brand, visibile sin da subito, è lo sfruttamento delle informazioni storiche al fine di ricreare un contesto autentico. È così che gli ambienti, a cominciare da Gerusalemme, agli avvenimenti e personaggi, sono studiati per dare un senso di autenticità. Certo, alcuni avvenimenti sono “romanzati” e adattati alle esigenze videoludiche ma, in generale, già dal primo capitolo, Assassin’s Creed viene utilizzato come supporto alle lezioni di storia nelle varie università.
Con 8 milioni di copie vendute Ubisoft non poté che spremere il brand fino al midollo, ripetendo la storia di Core Design. Poco dopo, infatti, arrivò per Nintendo DS Assassin’s Creed: Altaïr Chronicles, prequel diretto del titolo originale. E siamo solo all’inizio.

Uno tira l’altro

Si arriva così al secondo capitolo, ritenuto dai più il migliore della saga. Si passa dal Medio Oriente con Altaïr all’Italia rinascimentale di Ezio Auditore, che ci accompagnerà per tanto tempo, forse troppo. Siamo nel 2009 e il gioco, anticipato da ottimi trailer in CGI, viene contornato da tre corti in live action, Assassin’s Creed: Lineage, primo tentativo di sfruttamento del brand al di fuori del meta videoludico. Sviluppato da Ubisoft Digital Arts e Hybride Technologies (300, Sin City), riesce nell’intento di introdurre in maniera quasi perfetta le nuove vicende che affrontiamo all’interno del gioco. Assassin’s Creed II rappresenta anche una grande risposta alle tante critiche ricevute al rilascio dell’opera originale, migliorando tutti gli aspetti possibili, dalla componente tecnica, al gameplay passando alla trama, più ricca e coinvolgente, grazie anche a un team composto da 450 persone, numeri difficilmente raggiungibili da altre produzioni. Le tematiche fondanti del franchise erano ancora visibili, ma si cominciava a delinearsi la standardizzazione delle due fazioni, Assassini e Templari, come un mero scontro tra bene e male, alla stregua di Autobot e Decepticon. Ambientato tra la congiura dei Pazzi nei confronti di Lorenzo il Magnifico e il regno di Rodrigo Borgia, il gioco si dipana tra FirenzeVenezia e altre ambientazioni italiche tra cui Monteriggioni, luogo di nascita di Ezio e hub centrale sia nel passato che nelle vicende contemporanee. A colpire è la caratterizzazione di Ezio Auditore, un uomo che vediamo letteralmente nascere e pian piano crescerà sino a diventare un Maestro Assassino. Le sue convinzioni e motivazioni evolveranno nel corso dell’opera e questo, assieme alle splendide ambientazioni e un gameplay estremamente appagante rendono il secondo capitolo una forte rivincita.
Assassin’s Creed II è ricordato anche per il suo finale, coraggioso e rivelatorio, mostrando uno scopo che nel primo Assassin’s Creed  era appena accennato: conosciamo per la prima volta la funzione di Ezio Auditore e di Desmon Miles, chi realizzò i manufatti chiamati Frutti dell’Eden e soprattutto la consapevolezza che la saga sarebbe durata davvero tanto. Inoltre, elemento che diverrà centrale è il cosiddetto Effetto Osmosi che permette a Desmond (ma effettivamente a chiunque interagisca con l’Animus) di assimilare le abilità dei propri antenati e divenire quindi un Assassino a tutti gli effetti.
Per esser stato il gioco più presente sulle copertine di settore, Assassin’s Creed II è entrato nel Guinness World Record, che si aggiunge ai tantissimi riconoscimenti ricevuti in quel periodo. Anche il compositore danese Jesper Kyd, che si è occupato della colonna sonora del prequel, arrivò alle luci della ribalta per la realizzazione del tema Ezio’s Family e le musiche presenti all’interno del gioco. Questo gli diede l’opportunità di dedicarsi ai futuri Assassin’s Creed sino a Revelations. Il suo tema è divenuto così importante da essere associato immediatamente al brand soltanto ascoltando qualche nota ed è divenuto base sulla quale sviluppare i temi successivi , ri-arrangiati per l’occasione. Quasi contemporaneo al capitolo principale, Assassin’s Creed: Bloodlines è il primo titolo di questo franchise ad approdare su PSP e sequel diretto del capostipite, con protagonista Altaïr, accompagnato anche da Assassin’s Creed: Discovery per Nintendo DS e iPhone.
Anticipato dal corto animato Assassin’s Creed: Ascendance, l’approccio alla serializzazione si materializza nel 2010 con Assassin’s Creed: Brotherhood, che introduce per la prima volta elementi multiplayer, mettendoci nei panni di un Ezio divenuto capo della setta di Roma, comandando un manipolo di sottoposti.
La trama, che segue direttamente gli eventi del secondo capitolo, forse è meno coinvolgente, ma è in grado di dare nuovo peso a Desmond e al destino del mondo, tutto ambientato (tranne nel finale) nella sola città di Roma. La nostra Capitale è stata ricostruita minuziosamente, enorme e percorribile interamente a cavallo, altra novità del franchise. Anche qui il finale è riuscito a far parlare di se, essendo a tutti gli effetti un grosso cliffhanger che a molti utenti non è andato giù. Questo espediente, nel bene e nel male ha reso Assassin’s Creed un’enorme “serie TV” e i risultati di questa scelta si sarebbero visti molto presto. Grazie a questo nuovo sequel, lo sceneggiatore Jeffrey Yohalem, vinse il premio per la migliore sceneggiatura.

Ma il 2010 segna anche un addio importante: Patrice Désilet, autore e mente creativa della serie, si dimette, in cerca di maggiore libertà creativa che troverà in THQ lavorando sull’ormai mitologico 1666 Amsterdam  mentre, Jane Raymond viene promossa e messa a capo della produzione di Sprinter Cell: Blacklist.
Senza un timone definitivo e passato a Ubisoft Sofia, il 2011 è il turno di Assassin’s Creed: Revelations. Forse non tutti sanno che le idee alla base di quest’ultimo capitolo sono ricavate da un titolo previsto per Nintendo 3DS, Assassin’s Creed: Lost Legacy, presentato all’E3 2010 ma senza mai vedere la luce.
In questo capitolo diventa centrale scoprire la vera natura del Credo e del reale scopo di Ezio Auditore. Interessante è la possibilità del protagonista di rivivere i ricordi di Altaïr attraverso un Frutto dell’Eden, una sorta di Animus vecchio stampo. Suddivisi in cinque ricordi, le storie dedicate all’Assassino originale restituiscono un personaggio ben più complesso di quanto fatto intravedere in precedenza, mostrando una forte umanità, rappresentando forse il vero pregio di Revelations.
Sotto la guida del nuovo direttore creativo Alexandre Amancio, pur non vantando una trama molto elaborata, questo capitolo riesce ancora a fare centro, non solo per la ricostruzione della vita di Altaïr ma anche per approfondire ulteriormente Desmond Miles, nel frattempo in coma e tenuto in vita dall’Animus. Finalmente si scopriranno innumerevoli segreti e le ragioni per cui si è arrivati a questo punto, aspettando l’ultimo e ufficiale terzo capitolo.
Gli ultimi giorni di Ezio Auditore sono racchiusi in un corto, Assassin’s Creed: Embers, un ultimo saluto a un uomo che abbiamo visto nascere, crescere e maturare fino a diventare una leggenda.

Il paradosso storico

Nonostante le ottime vendite, il pubblico sentiva l’esigenza di qualcosa di realmente nuovo. Assassin’s Creed III (2012), il titolo più ambizioso di sempre nella storia di Ubisoft era la risposta, con la produzione passata da Alexandre Amacio ad Alex Hutchinson.
Nuova ambientazione e nuova location, all’interno della Rivoluzione Americana, che vede Connor Kenway, il nuovo protagonista, muoversi tra le fila degli schieramenti. Per i nativi americani Ratonhnhaké:ton, figlio del templare Haytham Kenway e di una nativa americana Kanien’kehá:ka, Connor è il figlio di due mondi contrapposti. Dopo la distruzione del villaggio dove cresciuto e la morte della madre, egli cerca vendetta unendosi così alla causa degli Assassini. Purtroppo la sua caratterizzazione è forse quella meno riuscita: di potenziale da vendere ce n’era, vista la sua doppia origine (da un lato nativo americano, dall’altro inglese), che avrebbe potuto portare a conflitti interiori del tutto trascurati, come del resto remore sulle idee del Credo visto che il padre ricopre il ruolo di Gran Maestro dei Templari.  Fortunatamente la parte riservata a Desmond è ben gestita, ed è possibile vederne i miglioramenti da Assassino del terzo millennio.
Impianto tecnico ragguardevole con l’avvento del nuovo motore grafico denominato Anvil Next, che ha permesso l’utilizzo di tantissimi personaggi su schermo, animazioni migliori e miglior definizione in generale più l’introduzione della navigazione a bordo di un piccolo vascello, contornati da cambiamenti meteorologici in grado di influenzare il gameplay. Il finale di Assassin’s Creed III è quello che tutti i fan aspettavano e funziona, fino a un certo punto. La conclusione della saga di Desmond Miles trova compimento, anche se tutto risulta forse un po’ troppo accelerato e senza il giusto pathos ad accompagnarci tra le scene. Purtroppo, il post credit non lascia adito a dubbi: la saga di Assassin’s Creed continuerà, anche senza Desmond.
Un piccolo sospetto poteva già nascere una volta notata l’uscita contemporanea di Assassin’s Creed: Liberation per PlayStation Vita, con protagonista la prima donna Assassina Aveline De Grandpré di origini franco-africane e del tutto contemporaneo al terzo capitolo ufficiale. Passa poco più di un anno e la serializzazione comincia a mostrare i primi segni di cedimento. Assassin’s Creed IV: Black Flag (2013) stravolge totalmente le fondamenta del franchise, proponendosi come un prequel del terzo capitolo in cui abbiamo come protagonista Edward Kenway, padre di Haytham e nonno di Connor. L’ambientazione totalmente piratesca a prima vista sembra rappresentare il classico “salto dello squalo”, con scelte che mal si sposano con quanto visto finora. Eppure funziona, dando focus alle prime vere battaglie navali del franchise, estremamente coreografiche e molto belle a vedersi grazie anche alla splendida realizzazione dell’acqua, da qui vero fiore all’occhiello per tutte le produzioni Ubisoft. Purtroppo si riscontrano alcune semplificazioni narrative dovute principalmente a un accelerato effetto osmosi e al quasi totale abbandono della componente moderna.
La serializzazione raggiunge il picco nel 2014 quando, oltre al capitolo ufficiale Unity, arriva anche Rogue, col senno di poi, il più interessante dei due. Assassin’s Creed: Rogue parte da una premessa interessante: Shay Patrick Cormac è un giovane assassino che pian piano comincia a dubitare del Credo. Dopo una serie di vicissitudini decide di passare all’altra sponda, entrando a tutti gli effetti nell’Ordine dei Templari e da qui purtroppo, le cose cadranno nell’anonimato  sul piano narrativo. Interpretare l’altra faccia della moneta è stata un’ottima idea e forse in qualche modo studiata a suo  tempo: impersonare non solo un Templare, ma un ex Assassino che ha rinnegato la causa, nelle mani giuste sarebbe potuto essere un colpo da maestro, mettendo i giocatori nella difficile e “reale” scelta tra le due fazioni, così come nell’idea originale. Piccola nota: Rogue è a tutti gli effetti un prequel di Unity.

Ma tutte le attenzioni, ovviamente, erano su Assassin’s Creed: Unity, nel bene e soprattutto nel male.
Il primo vero passo falso di Ubisoft avviene paradossalmente quando sembrava aver portato le giuste novità e riavvicinare così il franchise alla sua epoca d’oro, al primo debutto sulle console di nuova generazione, PlayStation 4 e Xbox One. È ricordato per aver introdotto il co-op online, una reale modalità stealth e soprattutto la possibilità di variare approccio durante le missioni principali, sfruttando vari elementi dovuto ai tumultuosi giorni della Rivoluzione FranceseArno Victor Dorian, il protagonista storico, rappresenta un’altra occasione mancata, simile negli aspetti caratteriali sia a Ezio Auditore che Altaïr ma, come avvenuto per i recenti predecessori, perso in un bicchier d’acqua. Anche la nuova ambientazione, chiamata a gran voce dal pubblico, non risulta incisiva dando la spiacevole sensazione che le vicende di Assassin’s Creed: Unity sarebbero potute funzionare anche in altre epoche, senza risentirne. Ma i problemi erano ben altri: il poco tempo a disposizione si fece sentire questa volta, portando un gioco affetto da numerosi glitch e bug che diedero al pubblico e alla critica un buon pretesto per affossare il titolo. Fu una mazzata, con il CEO di Ubisoft Yannis Mallat costretto a scusarsi personalmente, oltre che una forte perdita di valore in borsa.
A questo punto, chiunque avrebbe imparato la lezione. Critica e pubblico si erano fatti più esigenti ma, nonostante questo, l’anno dopo (2015) ci fu tempo per un altro Assassin’s Creed. Inizialmente conosciuto come Victory, questo nuovo capitolo si basa su un piccolo aneddoto interessante. Non è stato accennato in questo testo ma, ogni anno, a un certo punto e come ormai una tradizione, scattava il “toto ambientazione” del nuovo Assassin’s Creed e le proposte erano davvero innumerevoli e forse potrete trovare piccole correlazioni con quanto accaduto: chi urlava alla Rivoluzione Francese, chi a quella Russa, chi all’Antico Egitto, al Giappone Feudale e chi altri ancora alla Londra Vittoriana. Proprio su quest’ultima uno sviluppatore interrogato sulla possibilità di vedere il prossimo titolo ambientato in tale epoca lo escluse, facendo notare come l’epoca vittoriana era già stata fin troppo trasposta nei vari media. Ecco dunque Assassin’s Creed: Syndicate, ambientato – pensate un po’ – nella Londra Vittoriana, portando una grandissima novità, probabilmente figlia del successo di GTA V: i protagonisti questa volta erano due, una coppia di gemelli di nome Jacob e Evie Frye, intercambiabili e con missioni dedicate a ognuno di essi. Le loro caratteristiche così diverse rendono questo titolo uno dei più vari del franchise, potendo contare sulla forza bruta di Jacob o sulla furtività letale di Evie. Nonostante in fin dei conti sia uno dei migliori Assassin’s Creed, le vendite non furono all’altezza: il ricordo di Unity era ancora troppo fresco e quindi, fu presa una forte e drastica decisione. Basta. Stop alla serializzazione annuale e puntare su un nuovo capitolo, con nuove idee e soprattutto, più tempo per svilupparle.
Si arriva così al paradosso. Ubisoft ha creato una serie di titoli basati su fatti storici realmente accaduti eppure dalla propria storia non è riuscita a imparare la lezione più importante: bisogna sapersi fermare.

Il futuro è già accaduto?

Prima di arrivare al cambiamento radicale e probabilmente irreversibile, c’è tempo per Assassin’s Creed: Chronicles, una piccola trilogia composta da avventure nella Cina del XVI secolo, nell’India britannica del XIX secolo e nella Russia del XX secolo. I tre protagonisti,  Shao Jun (presente in Embers), Arbaaz Mir e Nikolai Orelov, sono immersi in ambientazioni 2.5D, un esperimento riuscito e piccolo segnale di cambiamento per il franchise.
Il tempo passava, il 2016 non vide sulla scena alcun titolo fino a quando cominciarono ad apparire in rete alcuni leak riguardanti la nuova ambientazione e nuove modalità di gioco. Origins, questo era il nome del nuovo capitolo, estremamente diverso dai suoi predecessori e che avrebbe permesso di scoprire come la Setta degli Assassini mosse i suoi primi passi. Ambientato quasi interamente nell’Antico Egitto, questo Assassin’s Creed ci metteva nei panni di Bayek di Siwa ma anche di sua moglie Aya (colei che diede davvero il via a tutto) immersi nei classici stilemi di vendetta nei confronti di cospiratori sparsi per le vie egiziane e non solo. Viene rintrodotta una trama parallela contemporanea con protagonista una ricercatrice dell’Abstergo Leyla Hassan che contravvenendo agli ordini di Sophia Rikkin (antagonista nel lungometraggio) si reca in Egitto per trovare uno dei Frutti dell’Eden. In questa fase i collegamenti diretti ad Assassin’s Creed III si fanno più evidenti, dimostrando la voglia di riprendere quanto lasciato in sospeso precedentemente. In questo capitolo viene introdotto un nuovo tipo di Animus, in grado di far rivivere ricordi anche senza l’uso del proprio D.N.A.
Le novità di Assassin’s Creed: Origins sono molteplici, a cominciare dalla maggior enfasi alla componente RPG, integrata quasi alla perfezione, con la presenza di livelli per il protagonista e nemici, livello di rarità per l’equipaggiamento e molto altro. Anche il criticatissimo combat system viene stravolto, avvicinandosi più a un souls like. La rappresentazione dell’Egitto del Medio Regno è poi da mozzare il fiato, con scorci idilliaci, ambienti molto vari e in grado di restituire quella “magia” che si prova stando ai piedi dei giganteschi monumenti egizi. Viene inoltre introdotto il Discovery Tour, una sorta di visita guidata alla storia dell’Antico Egitto, possibile grazie alla collaborazione con storici e archeologi del settore.
Grazie a queste implementazioni, Assassin’s Creed: Origins è riuscito a riportare quasi in auge il valore del brand, venendo valutato molto positivamente da critica e pubblico.
Ma, nel frattempo, le notizie su un nuovo Assassin’s Creed si facevano sempre più concrete, rimettendo ansia ai fan con un possibile capitolo ogni anno. Arriviamo dunque ad Assassin’s Creed: Odyssey, che fin da subito si presenta molto controverso.
Se i fan si aspettavano un sequel di Origins per ovvi motivi narrativi, Odyssey è invece un prequel sviluppato in contemporanea al suo predecessore. Ambientato nell’antica Grecia di 300 anni prima rispetto agli eventi egizi, la prima novità che salta all’occhio è la possibilità di scelta del sesso del personaggio a inizio partita, simil Fallout 4. Nonostante sia stato specificato dalla stessa Ubisoft che Kassandra è la vera protagonista del gioco, avremo la possibilità di impersonare anche Alexios; entrambi mercenari spartani e discendenti di Leonida I, combatteranno nella Guerra del Peloponneso contro l’esercito ateniese. A livello di gameplay non sembrano esserci grosse novità se non per una maggiore presenza di elementi RPG ed elementi sovrannaturali associati agli dèi greci (quasi sicuramente Frutti dell’Eden). Quello che cambia realmente l’intera natura del brand e che ha lasciato interdetti molti fan è la presenza dei dialoghi a scelta multipla, alla stregua di un Mass Effect: la loro presenza si scontra quasi “violentemente” con quanto narrato finora, in cui, chi rivive i ricordi dei propri antenati, non può in alcun modo alterarne gli eventi. Essendo presente anche la possibilità di mentire al proprio interlocutore, crea un problema di continuity e forse giustificabile in un solo modo: più si va a ritroso, più difficile è la ricostruzione degli eventi dal D.N.A. Che i dialoghi a scelta multipla siano un sistema dell’Animus per riempire le falle? Si tratta di pura e semplice speculazione e non ci resta che verificarlo giocando.
Ma, a questo punto, ritorniamo alla prima domanda; del resto non abbiamo fatto altro che notare come la storia in qualche modo si ripeta. Abbiamo parlato di come Assassin’s Creed sia nato da un Prince of Persia molto diverso dai suoi predecessori e proprio per questo si decise di creare questa nuova IP. E se, appunto, la storia si ripetesse? Assassin’s Creed: Odyssey è qualcosa di completamente diverso, non un frutto di una semplice evoluzione come lo furono Unity o Syndicate. Ha quindi ancora senso sfruttare un brand sì famoso, ma forse stantio? Sappiamo già che nel 2019 non uscirà nessun Assassin’s Creed, dandoci probabilmente appuntamento per il 2020 e la nuova generazione di console. Che sia il primo di una nuova stirpe?

E fummo tutti assassini

Come già accennato, l’impatto di Assassin’s Creed nella cultura pop è stato un fulmine a ciel sereno. Sin dalla presentazione di Altaïr, del suo cappuccio bianco, delle sue acrobazie, del Salto della Fede e soprattutto della Lama Celata, tutto è divenuto ben presto elemento d’ispirazione per tanti fan e non solo. Proprio la caratteristica arma, la sua meccanica ed estetica, sono diventati uno dei punti di forza del brand, e uno degli elementi più iconici della storia dei videogame. Anche il Parkour è stata disciplina passata dalla nicchia all’esplosione mediatica, con innumerevoli traceur in cosplay da Assassino, realizzare le stesse evoluzioni tra i tetti e i muri delle città. Assassin’s Creed era ovunque, anche all’interno di altri videogiochi: famoso è l’easter egg dedicato al franchise da The Witcher II, in cui era possibile trovare Altaïr a seguito di un salto della fede mal riuscito, steso morente su un pagliaio. Ma anche Kojima si è divertito in tal senso, sfruttando una partnership tra Konami e Ubisoft e il Pesce d’Aprile: in un trailer presentato da Jade Raymond, era possibile osservare un assassino utilizzare armi da fuoco moderne, facendo presagire un Assassin’s Creed ambientato nel futuro. Ma di lì a poco l’inganno venne svelato, mostrando sotto la famosa tunica, niente meno che Solid Snake. Il costume di Altaïr infatti, era una delle skin sbloccabili in Metal Gear Solid 4: Guns of Patriots.
Non sono mancati nemmeno i classici romanzi, da Assassin’s Creed: Rinascimento, il primo della serie, ad Assassin’s Creed: Forsaken, tutti scritti con la speranza di approfondire e ampliare quanto avveniva all’interno del videogioco, anche se non riuscendoci pienamente mentre, sicuramente più interessanti sono i fumetti, come la serie dedicata a Nikolai Orelov con Assassin’s Creed: The Fall, ambientato negli anni antecedenti alla rivoluzione russa con lo scopo di fermare lo Zar Nicola II. Le serie sono molteplici e tutte di discreto successo, come anche Aquilus, ambientato in epoca romana e sempre oggetto di speculazione da parte dei fan su un possibile nuovo capitolo videoludico.
Il successo del brand venne sfruttato sino allo svilimento e in concomitanza con la diminuzione delle vendite e dei risultati deludenti degli ultimi capitoli come Syndicate, la forza di Assassin’s Creed pian piano cominciò a scemare. A mitigare un po’ la situazione intervennero 20th Century Fox e Michael Fassbender, produttore della trasposizione cinematografica del videogioco. Interpretando Callum Lynch e Aguilar, assassino spagnolo durante il periodo di inquisizione spagnola, Fassbender non è riuscito a far centro nel cuore dei fan e soprattutto ad attirare nuovi “credenti”, per via di una sceneggiatura travagliata e la mancanza di spessore dei protagonisti, pur vantando nel cast  Marion CotillardJeremy Irons. Il tentativo di creare dunque un universo espanso si è spento sul nascere e anche le notizie sui futuri sequel non sembrano suggerire il contrario.

Giunti alla fine del nostro viaggio ci accorgiamo di una cosa: le epoche cambiano ma il concetto di saturazione evidentemente, è faticoso da comprendere. Per chi vi scrive, passando dal racconto di Tomb Raider ad Assassin’s Creed, la sensazione di déja vù è lampante, e sono solo due dei tanti brand presenti sul mercato. Perché dunque si ricade negli stessi errori? Avidità? Potrebbe essere una risposta semplice ma forse è proprio la natura dell’Animus a fornirci la risposta: siamo programmati per fare le stesse scelte, indipendentemente dal contesto; a meno che non giochiate Odyssey, sia chiaro.
C’è da dire però che nonostante Assassin’s Creed goda di amore e odio in egual misura, non si può trascurare la forza mediatica e l’importanza che la sua realizzazione ha portato all’interno del mondo videoludico, non solo all’interno degli ambienti free roaming, ma a tutto il panorama, dando il via definitivo all’aumento di personale, costi e contorno nella realizzazione di un videogioco.
Non ci resta dunque che attendere il nuovo capitolo, cercando di capirne il destino e se mai avrà una fine.

 




Rockstar Games ha rilasciato un nuovo gameplay di Red Dead Redemption 2

Rockstar Games, ha da poco rilasciato un gameplay di Red Dead Redemption 2 (che trovate qui in fondo), un titolo attesissimo che uscirà il 12 ottobre di quest’anno. Il capitolo precedente si era guadagnato il titolo di una delle migliori IP della grande R*. La domanda che dunque ci poniamo è: riuscirà Red Dead Redemption 2 a riscuotere talmente tanto successo da riuscire a raggiungere le vendite di Grand Theft Auto V? Potrebbe essere possibile, in quanto il titolo conta già su una community ampia, che sicuramente attenderà con fremito l’uscita di questo nuovo sequel.




Cloud gaming = futuro?

Lo scorso giugno, Yves Guillemot, CEO di Ubisoft, ha rilasciato delle dichiarazioni destinate a far discutere: secondo il fondatore dello studio francese, la prossima generazione di console sarà l’ultima per come la conosciamo, destinata a lasciare il posto al cloud gaming. E in effetti il futuro sembra volgere verso questo tipo di servizio, come lasciano intuire gli interessamenti da parte di Activision, Sony col suo PlayStation Now (e prima ancora, l’acquisto di Gaikai), più una miriade di servizi recenti come Nvidia Grid, Liquidsky, Vortex o Snoost. Ma la “bomba di mercato” maggiore proviene da Redmond, Washington; infatti, secondo le ultime voci, pare che Microsoft voglia creare due versioni della nuova Scarlet, nome in codice della prossima Xbox: una console “classica” e l’altra, più economica e completamente incentrata sul GooS (gaming as a service), ovvero, il cloud streaming.

Certo, le intenzioni sono interessanti, e anche sotto il profilo del progresso tecnologico sembra che il GooS rappresenti il futuro prossimo, con servizi più vicini a ciò che offre Netflix: Snoost, per esempio, prende pesantemente ispirazione dal servizio di streaming cinematografico e televisivo californiano, con piani di abbonamento che partono da 12,95€ al mese per un’esperienza a 480p, fino ad arrivare a pagare 38,85€ mensili per il gaming a 1080p. Ma il nodo gordiano della questione cloud gaming è rappresentato sempre dalle infrastrutture di rete, dove i lag spikes la fanno da padrone: prendendo per esempio il nostro paese, secondo il report dell’AGCOM scopriamo che solamente il 25% della popolazione ha accesso a una connessione internet che supera i 100Mbps, e un fortunato 2% che usufruisce di una rete FTTH (fiber to the home). Dato parecchio sconfortante, reso ancora più deprimente se controlliamo la classifica della velocità delle connessioni mondiali pubblicata da M-Lab, dove l’Italia si assesta al 43° posto, quart’ultima nazione europea.

Tornando all’attualità del cloud gaming, al momento abbiamo qualche timido servizio, come quelli citati all’inizio, e tante promesse: è il caso di Microsoft. La voce di una nuova Xbox dedicata solo ed esclusivamente allo streaming potrebbe essere la svolta decisiva per un nuovo modo di intendere i videogiochi. Non a caso, da qualche giorno molte sono le notizie che vedono l’azienda di Bill Gates intenta a tornare nel settore degli smartphone, nonostante il fallimento di Windows Phone e di Surface Phone (che, a inizio anno, rappresentavano solamente lo 0,15% della fetta di mercato!): alla fine, il motto che ha contraddistinto Xbox One è “play anywhere”, con una sorta di interconnessione tra la console e i PC con Windows 10: e se questa connessione si allargasse anche agli smartphone, così come fa Remotr? Rientrerebbe nelle classiche innovazioni a cui Microsoft aspira fin dagli inizi della sua storia.
Ma vi è anche un pericoloso precedente andato male, che riguarda una console dedicata esclusivamente allo streaming: è il caso di PlayStation TV, un piccolo media center creato da Sony per poter giocare sui televisori di casa con i titoli PlayStation Vita, coadiuvato anche dal supporto a PlayStation Now. Fu un fallimento commerciale: la piccola scatolina nera di Sony non aveva nessun appeal per i giocatori, con un costo elevatissimo per ciò che veniva offerto, e il progetto venne accantonato dopo soli due anni dall’uscita nei negozi.

Non basta il caso di PlayStation TV a rendere dubbia l’effettiva funzionalità del GooS; prendiamo sempre come esempio l’ipotetica “doppia” Xbox: come verrebbe impostato il marketing di Microsoft? Quale sarebbe la vera differenza delle due versioni, all’infuori del costo meno elevato per la versione dedicata allo streaming? E se quest’ultima avesse più problemi rispetto a una console classica, essendo legata a doppio filo dalle infrastrutture di rete del proprio territorio? Sarebbe devastante per una Microsoft non più disposta a inseguire le concorrenti nella prossima generazione di console. Certo, in caso contrario verrebbe fuori qualcosa di rivoluzionario, e rappresenterebbe davvero l’inizio di una nuova era nel gaming, ma al momento è tutto un grande “se”, visto che non si sa se effettivamente negli studi di Redmond si stia progettando una Xbox dedita esclusivamente alle funzionalità cloud.
Più concreta, invece, sembra la linea intrapresa da Activision; pochi giorni fa, il COO Coddy Johnson ha rilasciato le seguenti dichiarazioni a proposito del cloud gaming:

«Pensiamo che sul lungo termine l’impatto del gaming basato sul cloud e sullo streaming sarà positivo sia per noi che per l’intera industria videoludica. Innanzitutto perché ha il potenziale di accrescere la base di videogiocatori, raggiungendo quelli che non possono permettersi una console o un PC all’ultimo grido. E, in secondo luogo, venendo in aiuto di chi gioca già, offrendo esperienze più accessibili. C’è ancora tanto lavoro da fare prima che la tecnologia possa essere disponibile per la maggior parte del pubblico, ma crediamo che prima o poi accadrà, probabilmente non a breve, ma quando verrà il momento anche Activision ci sarà.»

Insomma, i piccoli passi verso il futuro, che sia prossimo o più in là nel tempo, ci sono tutti: servizi in abbonamento come Vortex, Snoost o Gamefly sono già disponibili, mentre i giganti del settore come Sony, Microsoft e Activision guardano con interesse il gaming as a service. Il futuro del settore si giocherà su questo campo, e il calcio di inizio aspetta solamente di essere battuto.




Ubisoft Berlin riceve fondi dallo stato

Ubisoft non è certo l’ultima arrivata nel mondo videoludico, creando molti tripla A di successo e in continua espansione. La società francese è arrivata anche in Germania con la creazione di Ubisoft Berlin, studio che alla creazione aveva solo 30 impiegati. Verso l’inizio dell’anno il manager Istvan Tajnay, in un intervista a Gameindustry dichiarò che uno dei modi per crescere sarebbe stato ricevere fondi statali. Ultimamente i suoi desideri sono stati esauditi, vedendosi arrivare un fondo di 1.58 milioni di euro da parte del comune di Berlino, il quale verrà usato per sostenere l’assunzione di nuovi impiegati, 150 per la precisione. L’assessore agli affari economici berlinese Ramona Pop ha affidato a un tweet le proprie dichiarazioni a riguardo, scrivendo di essere contentissima nel poter accogliere nella sua città un’azienda di tale calibro. Questo tipo di comportamento da parte delle istituzioni verso il mondo videoludico potrebbe essere impiegato anche in Italia, in modo da dare slancio alla nostra industria.




Ubisoft e il futuro degli open world

Ubisoft, si è sempre contraddistinta per i suoi titoli open world praticamente immensi. Ma da una intervista al vice president of creative, Lionel Raynaud, sembra che Ubisoft si voglia superare, tramite l’introduzione di viaggi in epoche differenti e mappe paragonabili come dimensione a Origins,  all’interno di un singolo capitolo di Assassin’s Creed, che molto probabilmente arriverà sulle prossime console di nuova generazione.

“Abbiamo una tecnologia in grado di superare i limiti della attuale memoria e con questo, saremmo in grado, di vivere diversi periodi storici in Assassin’s Creed, utilizzando l’Animus per viaggiare da uno all’altro.” 
Sembra inoltre che il passaggio tra una mappa e l’altra possa avvenire senza soluzione di continuità, arrivando a esplorare terre lontane nello spazio e nel tempo in batter d’occhio. Non dimentichiamo che tutto ciò potrebbe essere applicato ad altri franchise come Far Cry e Watch Dogs, anche se più sulle ambientazioni geografiche che temporali. 

Con queste dichiarazioni si spera nell’arrivo di nuovi Assassin’s Creed in cui si potrà seguire una timeline differente in base alle scelte effettuate e magari, avere una storia diversa dagli altri giocatori.