Shadow of the Tomb Raider – Bellezza Letale

Il reboot di una delle serie più importanti della storia dei videogame, con l’intrinseca riscrittura di un’icona pop come Lara Croft, è stato un successo. Con l’ultimo capitolo di questa ideale trilogia, Shadow of the Tomb Raider, possiamo dirlo ma, diciamocela tutta: era più semplice sbagliare che fare bene.
Sin dal 2013, anno di debutto della nuova archeologa e delle sue avventure, Tomb Raider ha saputo a poco a poco abbattere i pregiudizi dei fan, portando capitoli interessanti dal punto di vista qualitativo (ricordiamo infatti l’eccellente Rise of the Tomb Raider) e soprattutto nella ricostruzione di una Lara Croft più umana, con un percorso di crescita che l’ha portata a essere (quasi) l’eroina che tutti conosciamo. Con Shadow of the Tomb Raider, il focus è incentrato sui tratti caratteriali e conseguenze negative dell’agire dell’archeologa, in un viaggio attraverso i suoi traumi infantili e insicurezze che finora, ha ben mascherato.

E se poi te ne penti?

Da quando Lara era formata da pochi e spigolosi poligoni, il suo agire non ha mai portato a conseguenze particolarmente fatali per il genere umano: si trovava una reliquia e la si prendeva, senza far troppe domande. Ma come Indiana Jones insegna, non è tutto oro ciò che luccica e questa volta, le conseguenza si faranno sentire. Sin dal prologo, assistiamo a un lato che poco si era visto nella trilogia: la superbia, il credere di essere fondamentale per il destino del mondo, unica protettrice dell’umana stirpe. Inutile dire come le cose prenderanno una brutta piega, dopo aver creduto di aver fatto la scelta giusta. L’avverarsi di un’antica profezia Maya getterà nel caos Messico e Perù e Lara, non potrà far altro che sentirsi in colpa per quanto sta avvenendo.
Comincia così un lungo cammino di redenzione per la protagonista, esplorando se stessa, la sua infanzia e il suo ruolo nel mondo, un cammino, come da tradizione, intriso di pericoli, a cominciare dalla Trinità, una presenza costante ma forse fin poco tangibile. L’avventura, tra esplorazione, stealth e azione frenetica, riesce a intrattenere anche grazie a una rinnovata regia non solo nelle cinematografiche cutscene ma anche in game, mostrando sempre i tratti più spettacolari o struggenti dell’azione. Da questo punto di vista Shadow of the Tomb Raider dà il meglio di se, trasponendo una campagna completa, suggestiva e contornata da missioni secondarie presenti nelle località che potremmo utilizzare quasi come degli hub. Queste missioni (forse un po’ troppo vecchia scuola), permettono, alla loro conclusione, lo sblocco di nuove armi ed equipaggiamento ma con l’effetto collaterale di frammentare fin troppo la narrazione. In qualche modo infatti, purché non obbligatorie, queste rallentano, sino quasi ad arrestare le quest principali, che appesantiscono ulteriormente il vero problema (e forse unico) di questo titolo: il ritmo. Se è vero che ci troviamo di fronte a un racconto maturo, con i giusti colpi di scena e la giusta dose di pathos, la narrazione non procede mai con ritmi costanti risultando veramente interessante solo in alcuni frangenti. In qualche modo, con le modifiche di gameplay adottate, non si è riusciti a bilanciare il tutto, anche perché allargare la natura del franchise verso l’open world, non sembra la scelta azzeccata.
A mostrare il fianco – a tratti – è anche la sceneggiatura, che riesce a esaltare molti momenti chiave ma anche a neutralizzare alcuni dei momenti più empatici della protagonista e dei comprimari, svolti forse con troppa fretta e superficialità.
Nonostante tutto però – soprattutto se avete giocato i due prequel – Shadow of the Tomb Raider vi terrà incollati allo schermo, proprio per poter vedere con i vostri occhi come una ragazza fragile, ingenua ma con tanti sogni nel cassetto, sia riuscita a divenire un donna forte, in grado di cambiare il proprio destino.

Sangue e Fango

Come prevedibile Shadow of the Tomb Raider è l’evoluzione (finale?) di quanto visto finora, dal 2013 a Rise of the Tomb Raider. Il cambio di location ha permesso alcune implementazioni, a cominciare dall’uso del rampino, necessario per raggiungere appigli altrimenti inaccessibili, agganciandosi alle pareti o permettendoci di salire o scendere in sicurezza. Questo attrezzo si dimostra utile anche nelle fasi stealth, in cui potremmo letteralmente impiccare il povero malcapitato tra i rami degli alberi, alla stregua di quanto avveniva in Assassin’s Creed III con protagonista Connor Kenway. Ma l’agire nell’ombra è facilitato anche dall’uso di altri nuovi elementi, come trappole da innestare nei cadaveri o speciali frecce in grado di mandare in delirio i nemici, uccidendosi a vicenda. L’approccio rimane dunque abbastanza libero e anche l’ambiente circostante arriva in soccorso, tra innumerevoli alberi e vegetazione in grado di fornire il giusto riparo. All’interazione ambientale consona, si aggiunge anche la possibilità di poter utilizzare del fango per ricoprire il corpo di Lara, rendendola invisibile (soprattutto la notte) a fugaci occhiate. È in questi frangenti che ci si toglie le grosse soddisfazioni, potendo sfruttare tutto l’ambiente a nostro vantaggio tra alberi, cespugli, pareti, alture e acqua. In questi frangenti Lara Croft è la cacciatrice, disposta a tutto pur di fermare la Trinità che, in questi frangenti, può contate su un’intelligenza artificiale leggermente sopra la media, in grado di stanarci con l’utilizzo di granate e di accerchiarci prendendoci alla sprovvista.
Come già accennato, l’avventura di Lara può essere arricchita da incarichi secondari più o meno interessanti, presenti all’interno delle città che visiteremo. In questi ambienti regna la tranquillità dove, interagire con gli abitanti, diventa fondamentale non solo per sbloccare nuovo equipaggiamento ma anche per scovare segreti e tesori sparsi per la mappa. Il problema di queste sezioni, benché ben congegnate, è che hanno l’effetto collaterale di diluire fin troppo la narrazione con elementi che in fin dei conti, non sono fondamentali. Aggiungere tali elementi, quasi da “open world”, in un’avventura nello stile di Tomb Raider è il problema più evidente: manca l’amalgama necessaria per apprezzare queste “pause” dalla narrazione principale e purché si tratti di location suggestive, la voglia di proseguire è fin troppo più grande rispetto a quella di eseguire piccoli incarichi secondari. Fortunatamente però, tornano, più grandi, più complesse e artisticamente più ispirate, le Tombe della Sfida e le Cripte. In questo terzo capitolo, esse assumono un ruolo attivo nello sviluppo della protagonista sbloccando, alla loro risoluzione, equipaggiamento (soprattutto vestiario) ma soprattutto abilità bonus e accessibili solo in questo caso, come la possibilità di trattenere maggiormente il respiro sott’acqua. Questo, regala finalmente la giusta importanza all’esplorazione delle tombe, ovviamente il punto focale dell’intero franchise, rispondendo alle critiche verso i capitoli precedenti in cui tutto ciò risultava del tutto secondario. Le abilità di Lara comunque, sono molteplici e suddivise in tre branche principali; la diversificazione delle capacità è la chiave per la sopravvivenza e in questo Crystal Dynamics ed Eidos Montreal hanno svolto un egregio lavoro dando l’opportunità al giocatore di “lavorare di fino” per personalizzare la nostra eroina. È tutto il gioco a invogliare a esplorare e a potenziale le abilità di Lara, sfruttando le capacità acquisite eventualmente nel new game + e nei contenuti aggiuntivi.
Dal punto di vista meramente action, dove la fasi shooting la fanno da padrone, non vi sono novità rilevanti: probabilmente il punto più debole del pacchetto, non riesce a risaltare quanto dovrebbe, contando su animazioni dedicate troppo legnose; cambiare arma, mirare, sparare e ricaricare non avviene con la giusta fluidità, finendo alle volte per preferire di gran lunga eliminare in silenzio i vari nemici. Nulla che intacchi l’avventura, ma forse è arrivato il momento di “svecchiare” queste sezioni, magari prendendo spunto dal suo rivale maschile (Nathan Drake, ndr).

Sinestesia

Come accaduto soltanto per la recensione di Hellblade: Senua’s Sacrifice, anche questa volta si parte dall’audio, un lavoro eccellente sotto tutti i punti vista. Le musiche, composte e dirette da Rob Bridgett, sono sempre adatte al contesto, creando atmosfere uniche non solo nei momenti riflessivi o nostalgici ma anche quando l’azione si fa via via più frenetica. Tutto viene enfatizzato anche dall’ausilio di alcuni strumenti tipici Maya, atti a ricreare probabilmente una delle migliori colonne sonore di questo 2018. Ma anche il doppiaggio (come da tradizione) non è da meno: l’ormai storica voce di Benedetta Ponticelli riesce a trasporre una Lara in costante conflitto con se stessa, attanagliata dai sensi di colpa senza andar mai sopra le righe. Tutti i dialoghi dell’archeologa restituiscono un personaggio reale, così come lo sono i comprimari, a cominciare dal suo fedele Jonah (Diego Baldoin), amico, guida e fratello maggiore di una Lara in via di maturazione. Ma il lavoro che lascia più di stucco è quello eseguito sugli effetti sonori e la loro tridimensionalità (consigliato vivamente l’utilizzo di un buon paio di headset). Tutti i suoni risentono delle varie superfici presenti, con un contrasto netto tra interni ed esterni; tutto è al posto giusto e in grado di generare ancor di più un forte senso di immedesimazione.
La parte meramente visiva invece spicca come una delle produzioni migliori degli ultimi anni e sicuramente il miglior Tomb Raider visto sinora. Tutti gli ambienti di gioco, dai piccoli villaggi alle intricate foreste godono di innumerevoli particolari, con l’attenzione minuziosa per i dettagli. Che siano baracche o semplici alberi, tutto è realizzato con cura, così come i modelli dei personaggi principali (Lara ovviamente splendida), esaltati da una regia che raramente è visibile in un videogioco. Il salto di qualità a livello narrativo, come detto, è forse mancato, ma il modo in cui vengono raccontate le vicende hanno subito un boost eccezionale, non solo per quanto riguardo le scene più adrenaliniche, mostrando ampie panoramiche in grado di risaltare l’impatto empatico con quanto avviene, ma anche un’attenzione particolare per i primi piani e durante alcuni momenti costruiti ad hoc per rimanere impressi per sempre nella mente dei giocatori. Tutto questo ben di dio, è purtroppo macchiato da qualche imprecisione nella fisica degli oggetti, qualche piccolo glitch e compenetrazione di troppo, quasi a segnalare un ultimo mancato intervento di “pulizia”. Nulla comunque che possa minare l’eccellente lavoro svolto da Crystal Dynimics.

In conclusione

L’ultimo capitolo della trilogia reboot dedicata a Lara Croft, riesce anche questa volta a fare centro. Nonostante la struttura narrativa soffra di alcuni cali di ritmo, dovuti anche all’introduzione di alcuni elementi di gameplay che forse mal si sposano con le caratteristiche dell’avventura proposta, il cammino di redenzione dell’archeologa più famosa al mondo riesce a trasmettere le giuste emozioni e il giusto grado di empatia. Il lavoro svolto da Crystal Dynamics dunque è di ottimo livello, riconfermando quanto di buono svolto dai precedenti  capitoli, migliorando in toto tutta la parte tecnico-artistica, in cui spiccano audio e regia. Shadow of the Tomb Raider chiude il cerchio su una Lara molto diversa dall’icona pop degli anni ’90, ma sicuramente più vicina a noi, tralasciando ricchezza, l’atletismo di Ercole e la bellezza afrodisiaca. Anche questa Lara, ci piace.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10




Assassin’s Creed: vita e morte di un credo

Durante lo speciale dedicato alla storia di Tomb Raider  e alla sua eroina Lara Croft, vi fu un piccolo passaggio in cui si misero in parallelo le travagliate vicende del brand Core Design con saghe successive come Call of Duty o Assassin’s Creed. Per la serie “la storia si ripete” e in concomitanza con l’arrivo di Assassin’s Creed: Odyssey, ripercorriamo le gesta e gli alti e bassi di una delle saghe più famose degli ultimi anni. Sin dalla sua comparsa, Assassin’s Creed è entrato prepotentemente nell’immaginario collettivo, subito riconoscibile e trasposto in innumerevoli modi, tra videogame (ovviamente), romanzi, fumetti, fino al lungometraggio con Michael Fassbender del 2016. Assassin’s Creed è anche il simbolo estremo del cambiamento del mercato videoludico, fatto di serializzazioni, che a lungo andare hanno finito per corrompere la qualità dei titoli, fino al radicale cambiamento avvenuto con Origins e Odyssey, fresco fresco di uscita.

L’inizio è già il futuro?

La crescita di Ubisoft come compagnia accelerò improvvisamente nel 1997, quando a Montréal venne aperto il suo studio più importante, contando all’attivo più di 2100 dipendenti. La svolta reale però, si ebbe con l’acquisizione dei diritti di Prince of Persia, brand storico creato da Jordan Mechner, debuttato nel 1989 e rivoluzionario per l’epoca, creando di fatto gli action moderni e sdoganando l’uso del mo-cap nei videogiochi. La voglia di creare un titolo nuovo di zecca era molta e capo del progetto venne nominato Patrice Désilet che con Prince of Persia: Le Sabbie del Tempo (2003) cambiò per sempre il genere action, divenendo ispirazione per tutti i suoi simili sino ai giorni nostri. Il successo e la stima acquisita dai numerosi riconoscimenti, convinse Ubisoft a dare carta bianca a Désilet per un nuovo progetto, un Prince of Persia (con successivo sottotitolo Assassins) da far uscire sulle console di nuova generazione: PlayStation 3 e Xbox 360. Al suo fianco entra in scena anche Jade Raymond, che nel frattempo si era fatta un nome soprattutto per il successo di The Sims Online (2002). Nel frattempo Patrice si interessò molto alla storia degli ḥashāshīn, una setta che operava durante la Terza Crociata e che sarebbe stato il punto focale del nuovo gioco. Ben presto si accorsero che con Prince of Persia il nuovo progetto aveva ben poco in comune e decisero così di creare una nuova IP: Assassin’s Creed. C’è da notare sin da subito come questo processo potrebbe di nuovo avverarsi, ma lo vedremo meglio in seguito. Mentre lo sviluppo del nuovo brand andava a gonfie vele, un piccolo team era stato preposto alla realizzazione di un progetto parallelo, un Assassin’s Creed da proporre per PlayStation 2 e Xbox. Di questo progetto non se ne seppe più nulla e, stranamente, non fu l’unica volta.
Benché controverso, con alcuni difetti rilevanti, il primo concept è probabilmente il vero e unico Assassin’s Creed, partendo da un ottimo incipit di trama in cui chiunque ha la possibilità di rivivere i ricordi dei propri antenati memorizzati nel D.N.A. attraverso una macchina denominata Animus. Il protagonista era Desmond Miles, un giovane barista rapito dalla Abstergo Industries, con l’intento di trovare un manufatto prezioso perso in medio oriente. Desmond ha un antenato, vissuto all’incirca nel 1191 che potrebbe sapere dove si trova, Altaïr Ibn La-Ahad.
Quando uscì, nel 2007, questo gioco spaccò la critica: chi lo ritenne un capolavoro, chi mediocre a causa di una certa ripetitività. In ogni caso fece segnare un record di vendite. Tecnicamente eccezionale, con texture dettagliate e tanti personaggi su schermo il perno centrale del progetto era però tutt’altro:

«Quando gli altri seguono ciecamente la verità, ricorda: nulla è reale. Quando gli altri si piegano alla morale e alle leggi, ricorda: tutto è lecito. Agiamo nell’ombra per servire la luce. Siamo Assassini. Nulla è reale, tutto è lecito.»

Ma cosa vuol dire “nulla è reale tutto è lecito”? In poche parole, tutto ciò che viviamo, osserviamo e facciamo è ciò che genera in noi il senso di libertà, facendoci credere che solo noi siamo artefici del nostro destino ma, in realtà, è solo una mera illusione. Ogni nostra azione è controllata, tutto ciò che vediamo è solo ciò che ci è stato posto davanti per nascondere la verità. “Tutto è lecito” deriva da questa consapevolezza, che il mondo che vediamo sia finzione e che dobbiamo fare tutto il possibile per trarcene fuori al fine di riconquistare la libertà, prendendo coscienza delle nostre azioni e accettarle, siano esse positive o negative. Ma, come ogni cosa su questa terra, anche il Credo vive di profonde contraddizioni, dove ad esempio si promuove la pace ma si agisce tramite assassinii. Anche il Credo in sé si scontra con la promulgazione del libero arbitrio e la fede assoluta, dato che i membri seguono un rigido regolamento, dando piena fedeltà alla setta.
Sia ben chiaro, non si tratta di errori o disattenzioni nello stilare la sceneggiatura: l’opera di Désilet è ricca di profonde tematiche, sia filosofiche che umastiche che, sommate a un gameplay che prevede un’accurata ricerca di indizi su come approcciare l’assassinio di turno, è ripreso solo successivamente in Dishonored, forse più Assassin’s Creed di molti titoli della saga Ubisoft. Anche lo scontro con i Templari, fazione nemica del gioco, sia in Terra Santa che ai giorni nostri, non è mai mostrato come un semplice “buoni contro cattivi” presentandosi come uno scontro di filosofie diverse: entrambi vogliono la pace ed entrambi, uccidono per ottenerla. Benché si potesse osare di più narrativamente parlando, la sfida tra le due fazioni rimane uno degli elementi più interessanti, pur risultando standardizzato nei capitoli successivi.
L’importanza dell’entrata in scena di Assassin’s Creed la vediamo tuttora: tutti i free roaming successivi prendono in qualche modo spunto dal lavoro di Ubisoft Montréal che è riuscita a rivoluzionare il genere portando su schermo centinaia di NPC, un mondo vivo e variegato oltre alla possibilità di esplorare l’intera mappa nelle tre dimensioni visto che Altaïr è anche un ottimo scalatore. A tal proposito, AC ha anche il merito di aver sdoganato la moda del parkour, dove tantissimi traceur hanno cercato di emulare le gesta degli assassini tra i tetti e le mura delle città moderne; tutto questo rientra nell’iconicità di un brand divenuto uno dei più importanti videogiochi della storia. Ma a proposito di storia: una delle caratteristiche del brand, visibile sin da subito, è lo sfruttamento delle informazioni storiche al fine di ricreare un contesto autentico. È così che gli ambienti, a cominciare da Gerusalemme, agli avvenimenti e personaggi, sono studiati per dare un senso di autenticità. Certo, alcuni avvenimenti sono “romanzati” e adattati alle esigenze videoludiche ma, in generale, già dal primo capitolo, Assassin’s Creed viene utilizzato come supporto alle lezioni di storia nelle varie università.
Con 8 milioni di copie vendute Ubisoft non poté che spremere il brand fino al midollo, ripetendo la storia di Core Design. Poco dopo, infatti, arrivò per Nintendo DS Assassin’s Creed: Altaïr Chronicles, prequel diretto del titolo originale. E siamo solo all’inizio.

Uno tira l’altro

Si arriva così al secondo capitolo, ritenuto dai più il migliore della saga. Si passa dal Medio Oriente con Altaïr all’Italia rinascimentale di Ezio Auditore, che ci accompagnerà per tanto tempo, forse troppo. Siamo nel 2009 e il gioco, anticipato da ottimi trailer in CGI, viene contornato da tre corti in live action, Assassin’s Creed: Lineage, primo tentativo di sfruttamento del brand al di fuori del meta videoludico. Sviluppato da Ubisoft Digital Arts e Hybride Technologies (300, Sin City), riesce nell’intento di introdurre in maniera quasi perfetta le nuove vicende che affrontiamo all’interno del gioco. Assassin’s Creed II rappresenta anche una grande risposta alle tante critiche ricevute al rilascio dell’opera originale, migliorando tutti gli aspetti possibili, dalla componente tecnica, al gameplay passando alla trama, più ricca e coinvolgente, grazie anche a un team composto da 450 persone, numeri difficilmente raggiungibili da altre produzioni. Le tematiche fondanti del franchise erano ancora visibili, ma si cominciava a delinearsi la standardizzazione delle due fazioni, Assassini e Templari, come un mero scontro tra bene e male, alla stregua di Autobot e Decepticon. Ambientato tra la congiura dei Pazzi nei confronti di Lorenzo il Magnifico e il regno di Rodrigo Borgia, il gioco si dipana tra FirenzeVenezia e altre ambientazioni italiche tra cui Monteriggioni, luogo di nascita di Ezio e hub centrale sia nel passato che nelle vicende contemporanee. A colpire è la caratterizzazione di Ezio Auditore, un uomo che vediamo letteralmente nascere e pian piano crescerà sino a diventare un Maestro Assassino. Le sue convinzioni e motivazioni evolveranno nel corso dell’opera e questo, assieme alle splendide ambientazioni e un gameplay estremamente appagante rendono il secondo capitolo una forte rivincita.
Assassin’s Creed II è ricordato anche per il suo finale, coraggioso e rivelatorio, mostrando uno scopo che nel primo Assassin’s Creed  era appena accennato: conosciamo per la prima volta la funzione di Ezio Auditore e di Desmon Miles, chi realizzò i manufatti chiamati Frutti dell’Eden e soprattutto la consapevolezza che la saga sarebbe durata davvero tanto. Inoltre, elemento che diverrà centrale è il cosiddetto Effetto Osmosi che permette a Desmond (ma effettivamente a chiunque interagisca con l’Animus) di assimilare le abilità dei propri antenati e divenire quindi un Assassino a tutti gli effetti.
Per esser stato il gioco più presente sulle copertine di settore, Assassin’s Creed II è entrato nel Guinness World Record, che si aggiunge ai tantissimi riconoscimenti ricevuti in quel periodo. Anche il compositore danese Jesper Kyd, che si è occupato della colonna sonora del prequel, arrivò alle luci della ribalta per la realizzazione del tema Ezio’s Family e le musiche presenti all’interno del gioco. Questo gli diede l’opportunità di dedicarsi ai futuri Assassin’s Creed sino a Revelations. Il suo tema è divenuto così importante da essere associato immediatamente al brand soltanto ascoltando qualche nota ed è divenuto base sulla quale sviluppare i temi successivi , ri-arrangiati per l’occasione. Quasi contemporaneo al capitolo principale, Assassin’s Creed: Bloodlines è il primo titolo di questo franchise ad approdare su PSP e sequel diretto del capostipite, con protagonista Altaïr, accompagnato anche da Assassin’s Creed: Discovery per Nintendo DS e iPhone.
Anticipato dal corto animato Assassin’s Creed: Ascendance, l’approccio alla serializzazione si materializza nel 2010 con Assassin’s Creed: Brotherhood, che introduce per la prima volta elementi multiplayer, mettendoci nei panni di un Ezio divenuto capo della setta di Roma, comandando un manipolo di sottoposti.
La trama, che segue direttamente gli eventi del secondo capitolo, forse è meno coinvolgente, ma è in grado di dare nuovo peso a Desmond e al destino del mondo, tutto ambientato (tranne nel finale) nella sola città di Roma. La nostra Capitale è stata ricostruita minuziosamente, enorme e percorribile interamente a cavallo, altra novità del franchise. Anche qui il finale è riuscito a far parlare di se, essendo a tutti gli effetti un grosso cliffhanger che a molti utenti non è andato giù. Questo espediente, nel bene e nel male ha reso Assassin’s Creed un’enorme “serie TV” e i risultati di questa scelta si sarebbero visti molto presto. Grazie a questo nuovo sequel, lo sceneggiatore Jeffrey Yohalem, vinse il premio per la migliore sceneggiatura.

Ma il 2010 segna anche un addio importante: Patrice Désilet, autore e mente creativa della serie, si dimette, in cerca di maggiore libertà creativa che troverà in THQ lavorando sull’ormai mitologico 1666 Amsterdam  mentre, Jane Raymond viene promossa e messa a capo della produzione di Sprinter Cell: Blacklist.
Senza un timone definitivo e passato a Ubisoft Sofia, il 2011 è il turno di Assassin’s Creed: Revelations. Forse non tutti sanno che le idee alla base di quest’ultimo capitolo sono ricavate da un titolo previsto per Nintendo 3DS, Assassin’s Creed: Lost Legacy, presentato all’E3 2010 ma senza mai vedere la luce.
In questo capitolo diventa centrale scoprire la vera natura del Credo e del reale scopo di Ezio Auditore. Interessante è la possibilità del protagonista di rivivere i ricordi di Altaïr attraverso un Frutto dell’Eden, una sorta di Animus vecchio stampo. Suddivisi in cinque ricordi, le storie dedicate all’Assassino originale restituiscono un personaggio ben più complesso di quanto fatto intravedere in precedenza, mostrando una forte umanità, rappresentando forse il vero pregio di Revelations.
Sotto la guida del nuovo direttore creativo Alexandre Amancio, pur non vantando una trama molto elaborata, questo capitolo riesce ancora a fare centro, non solo per la ricostruzione della vita di Altaïr ma anche per approfondire ulteriormente Desmond Miles, nel frattempo in coma e tenuto in vita dall’Animus. Finalmente si scopriranno innumerevoli segreti e le ragioni per cui si è arrivati a questo punto, aspettando l’ultimo e ufficiale terzo capitolo.
Gli ultimi giorni di Ezio Auditore sono racchiusi in un corto, Assassin’s Creed: Embers, un ultimo saluto a un uomo che abbiamo visto nascere, crescere e maturare fino a diventare una leggenda.

Il paradosso storico

Nonostante le ottime vendite, il pubblico sentiva l’esigenza di qualcosa di realmente nuovo. Assassin’s Creed III (2012), il titolo più ambizioso di sempre nella storia di Ubisoft era la risposta, con la produzione passata da Alexandre Amacio ad Alex Hutchinson.
Nuova ambientazione e nuova location, all’interno della Rivoluzione Americana, che vede Connor Kenway, il nuovo protagonista, muoversi tra le fila degli schieramenti. Per i nativi americani Ratonhnhaké:ton, figlio del templare Haytham Kenway e di una nativa americana Kanien’kehá:ka, Connor è il figlio di due mondi contrapposti. Dopo la distruzione del villaggio dove cresciuto e la morte della madre, egli cerca vendetta unendosi così alla causa degli Assassini. Purtroppo la sua caratterizzazione è forse quella meno riuscita: di potenziale da vendere ce n’era, vista la sua doppia origine (da un lato nativo americano, dall’altro inglese), che avrebbe potuto portare a conflitti interiori del tutto trascurati, come del resto remore sulle idee del Credo visto che il padre ricopre il ruolo di Gran Maestro dei Templari.  Fortunatamente la parte riservata a Desmond è ben gestita, ed è possibile vederne i miglioramenti da Assassino del terzo millennio.
Impianto tecnico ragguardevole con l’avvento del nuovo motore grafico denominato Anvil Next, che ha permesso l’utilizzo di tantissimi personaggi su schermo, animazioni migliori e miglior definizione in generale più l’introduzione della navigazione a bordo di un piccolo vascello, contornati da cambiamenti meteorologici in grado di influenzare il gameplay. Il finale di Assassin’s Creed III è quello che tutti i fan aspettavano e funziona, fino a un certo punto. La conclusione della saga di Desmond Miles trova compimento, anche se tutto risulta forse un po’ troppo accelerato e senza il giusto pathos ad accompagnarci tra le scene. Purtroppo, il post credit non lascia adito a dubbi: la saga di Assassin’s Creed continuerà, anche senza Desmond.
Un piccolo sospetto poteva già nascere una volta notata l’uscita contemporanea di Assassin’s Creed: Liberation per PlayStation Vita, con protagonista la prima donna Assassina Aveline De Grandpré di origini franco-africane e del tutto contemporaneo al terzo capitolo ufficiale. Passa poco più di un anno e la serializzazione comincia a mostrare i primi segni di cedimento. Assassin’s Creed IV: Black Flag (2013) stravolge totalmente le fondamenta del franchise, proponendosi come un prequel del terzo capitolo in cui abbiamo come protagonista Edward Kenway, padre di Haytham e nonno di Connor. L’ambientazione totalmente piratesca a prima vista sembra rappresentare il classico “salto dello squalo”, con scelte che mal si sposano con quanto visto finora. Eppure funziona, dando focus alle prime vere battaglie navali del franchise, estremamente coreografiche e molto belle a vedersi grazie anche alla splendida realizzazione dell’acqua, da qui vero fiore all’occhiello per tutte le produzioni Ubisoft. Purtroppo si riscontrano alcune semplificazioni narrative dovute principalmente a un accelerato effetto osmosi e al quasi totale abbandono della componente moderna.
La serializzazione raggiunge il picco nel 2014 quando, oltre al capitolo ufficiale Unity, arriva anche Rogue, col senno di poi, il più interessante dei due. Assassin’s Creed: Rogue parte da una premessa interessante: Shay Patrick Cormac è un giovane assassino che pian piano comincia a dubitare del Credo. Dopo una serie di vicissitudini decide di passare all’altra sponda, entrando a tutti gli effetti nell’Ordine dei Templari e da qui purtroppo, le cose cadranno nell’anonimato  sul piano narrativo. Interpretare l’altra faccia della moneta è stata un’ottima idea e forse in qualche modo studiata a suo  tempo: impersonare non solo un Templare, ma un ex Assassino che ha rinnegato la causa, nelle mani giuste sarebbe potuto essere un colpo da maestro, mettendo i giocatori nella difficile e “reale” scelta tra le due fazioni, così come nell’idea originale. Piccola nota: Rogue è a tutti gli effetti un prequel di Unity.

Ma tutte le attenzioni, ovviamente, erano su Assassin’s Creed: Unity, nel bene e soprattutto nel male.
Il primo vero passo falso di Ubisoft avviene paradossalmente quando sembrava aver portato le giuste novità e riavvicinare così il franchise alla sua epoca d’oro, al primo debutto sulle console di nuova generazione, PlayStation 4 e Xbox One. È ricordato per aver introdotto il co-op online, una reale modalità stealth e soprattutto la possibilità di variare approccio durante le missioni principali, sfruttando vari elementi dovuto ai tumultuosi giorni della Rivoluzione FranceseArno Victor Dorian, il protagonista storico, rappresenta un’altra occasione mancata, simile negli aspetti caratteriali sia a Ezio Auditore che Altaïr ma, come avvenuto per i recenti predecessori, perso in un bicchier d’acqua. Anche la nuova ambientazione, chiamata a gran voce dal pubblico, non risulta incisiva dando la spiacevole sensazione che le vicende di Assassin’s Creed: Unity sarebbero potute funzionare anche in altre epoche, senza risentirne. Ma i problemi erano ben altri: il poco tempo a disposizione si fece sentire questa volta, portando un gioco affetto da numerosi glitch e bug che diedero al pubblico e alla critica un buon pretesto per affossare il titolo. Fu una mazzata, con il CEO di Ubisoft Yannis Mallat costretto a scusarsi personalmente, oltre che una forte perdita di valore in borsa.
A questo punto, chiunque avrebbe imparato la lezione. Critica e pubblico si erano fatti più esigenti ma, nonostante questo, l’anno dopo (2015) ci fu tempo per un altro Assassin’s Creed. Inizialmente conosciuto come Victory, questo nuovo capitolo si basa su un piccolo aneddoto interessante. Non è stato accennato in questo testo ma, ogni anno, a un certo punto e come ormai una tradizione, scattava il “toto ambientazione” del nuovo Assassin’s Creed e le proposte erano davvero innumerevoli e forse potrete trovare piccole correlazioni con quanto accaduto: chi urlava alla Rivoluzione Francese, chi a quella Russa, chi all’Antico Egitto, al Giappone Feudale e chi altri ancora alla Londra Vittoriana. Proprio su quest’ultima uno sviluppatore interrogato sulla possibilità di vedere il prossimo titolo ambientato in tale epoca lo escluse, facendo notare come l’epoca vittoriana era già stata fin troppo trasposta nei vari media. Ecco dunque Assassin’s Creed: Syndicate, ambientato – pensate un po’ – nella Londra Vittoriana, portando una grandissima novità, probabilmente figlia del successo di GTA V: i protagonisti questa volta erano due, una coppia di gemelli di nome Jacob e Evie Frye, intercambiabili e con missioni dedicate a ognuno di essi. Le loro caratteristiche così diverse rendono questo titolo uno dei più vari del franchise, potendo contare sulla forza bruta di Jacob o sulla furtività letale di Evie. Nonostante in fin dei conti sia uno dei migliori Assassin’s Creed, le vendite non furono all’altezza: il ricordo di Unity era ancora troppo fresco e quindi, fu presa una forte e drastica decisione. Basta. Stop alla serializzazione annuale e puntare su un nuovo capitolo, con nuove idee e soprattutto, più tempo per svilupparle.
Si arriva così al paradosso. Ubisoft ha creato una serie di titoli basati su fatti storici realmente accaduti eppure dalla propria storia non è riuscita a imparare la lezione più importante: bisogna sapersi fermare.

Il futuro è già accaduto?

Prima di arrivare al cambiamento radicale e probabilmente irreversibile, c’è tempo per Assassin’s Creed: Chronicles, una piccola trilogia composta da avventure nella Cina del XVI secolo, nell’India britannica del XIX secolo e nella Russia del XX secolo. I tre protagonisti,  Shao Jun (presente in Embers), Arbaaz Mir e Nikolai Orelov, sono immersi in ambientazioni 2.5D, un esperimento riuscito e piccolo segnale di cambiamento per il franchise.
Il tempo passava, il 2016 non vide sulla scena alcun titolo fino a quando cominciarono ad apparire in rete alcuni leak riguardanti la nuova ambientazione e nuove modalità di gioco. Origins, questo era il nome del nuovo capitolo, estremamente diverso dai suoi predecessori e che avrebbe permesso di scoprire come la Setta degli Assassini mosse i suoi primi passi. Ambientato quasi interamente nell’Antico Egitto, questo Assassin’s Creed ci metteva nei panni di Bayek di Siwa ma anche di sua moglie Aya (colei che diede davvero il via a tutto) immersi nei classici stilemi di vendetta nei confronti di cospiratori sparsi per le vie egiziane e non solo. Viene rintrodotta una trama parallela contemporanea con protagonista una ricercatrice dell’Abstergo Leyla Hassan che contravvenendo agli ordini di Sophia Rikkin (antagonista nel lungometraggio) si reca in Egitto per trovare uno dei Frutti dell’Eden. In questa fase i collegamenti diretti ad Assassin’s Creed III si fanno più evidenti, dimostrando la voglia di riprendere quanto lasciato in sospeso precedentemente. In questo capitolo viene introdotto un nuovo tipo di Animus, in grado di far rivivere ricordi anche senza l’uso del proprio D.N.A.
Le novità di Assassin’s Creed: Origins sono molteplici, a cominciare dalla maggior enfasi alla componente RPG, integrata quasi alla perfezione, con la presenza di livelli per il protagonista e nemici, livello di rarità per l’equipaggiamento e molto altro. Anche il criticatissimo combat system viene stravolto, avvicinandosi più a un souls like. La rappresentazione dell’Egitto del Medio Regno è poi da mozzare il fiato, con scorci idilliaci, ambienti molto vari e in grado di restituire quella “magia” che si prova stando ai piedi dei giganteschi monumenti egizi. Viene inoltre introdotto il Discovery Tour, una sorta di visita guidata alla storia dell’Antico Egitto, possibile grazie alla collaborazione con storici e archeologi del settore.
Grazie a queste implementazioni, Assassin’s Creed: Origins è riuscito a riportare quasi in auge il valore del brand, venendo valutato molto positivamente da critica e pubblico.
Ma, nel frattempo, le notizie su un nuovo Assassin’s Creed si facevano sempre più concrete, rimettendo ansia ai fan con un possibile capitolo ogni anno. Arriviamo dunque ad Assassin’s Creed: Odyssey, che fin da subito si presenta molto controverso.
Se i fan si aspettavano un sequel di Origins per ovvi motivi narrativi, Odyssey è invece un prequel sviluppato in contemporanea al suo predecessore. Ambientato nell’antica Grecia di 300 anni prima rispetto agli eventi egizi, la prima novità che salta all’occhio è la possibilità di scelta del sesso del personaggio a inizio partita, simil Fallout 4. Nonostante sia stato specificato dalla stessa Ubisoft che Kassandra è la vera protagonista del gioco, avremo la possibilità di impersonare anche Alexios; entrambi mercenari spartani e discendenti di Leonida I, combatteranno nella Guerra del Peloponneso contro l’esercito ateniese. A livello di gameplay non sembrano esserci grosse novità se non per una maggiore presenza di elementi RPG ed elementi sovrannaturali associati agli dèi greci (quasi sicuramente Frutti dell’Eden). Quello che cambia realmente l’intera natura del brand e che ha lasciato interdetti molti fan è la presenza dei dialoghi a scelta multipla, alla stregua di un Mass Effect: la loro presenza si scontra quasi “violentemente” con quanto narrato finora, in cui, chi rivive i ricordi dei propri antenati, non può in alcun modo alterarne gli eventi. Essendo presente anche la possibilità di mentire al proprio interlocutore, crea un problema di continuity e forse giustificabile in un solo modo: più si va a ritroso, più difficile è la ricostruzione degli eventi dal D.N.A. Che i dialoghi a scelta multipla siano un sistema dell’Animus per riempire le falle? Si tratta di pura e semplice speculazione e non ci resta che verificarlo giocando.
Ma, a questo punto, ritorniamo alla prima domanda; del resto non abbiamo fatto altro che notare come la storia in qualche modo si ripeta. Abbiamo parlato di come Assassin’s Creed sia nato da un Prince of Persia molto diverso dai suoi predecessori e proprio per questo si decise di creare questa nuova IP. E se, appunto, la storia si ripetesse? Assassin’s Creed: Odyssey è qualcosa di completamente diverso, non un frutto di una semplice evoluzione come lo furono Unity o Syndicate. Ha quindi ancora senso sfruttare un brand sì famoso, ma forse stantio? Sappiamo già che nel 2019 non uscirà nessun Assassin’s Creed, dandoci probabilmente appuntamento per il 2020 e la nuova generazione di console. Che sia il primo di una nuova stirpe?

E fummo tutti assassini

Come già accennato, l’impatto di Assassin’s Creed nella cultura pop è stato un fulmine a ciel sereno. Sin dalla presentazione di Altaïr, del suo cappuccio bianco, delle sue acrobazie, del Salto della Fede e soprattutto della Lama Celata, tutto è divenuto ben presto elemento d’ispirazione per tanti fan e non solo. Proprio la caratteristica arma, la sua meccanica ed estetica, sono diventati uno dei punti di forza del brand, e uno degli elementi più iconici della storia dei videogame. Anche il Parkour è stata disciplina passata dalla nicchia all’esplosione mediatica, con innumerevoli traceur in cosplay da Assassino, realizzare le stesse evoluzioni tra i tetti e i muri delle città. Assassin’s Creed era ovunque, anche all’interno di altri videogiochi: famoso è l’easter egg dedicato al franchise da The Witcher II, in cui era possibile trovare Altaïr a seguito di un salto della fede mal riuscito, steso morente su un pagliaio. Ma anche Kojima si è divertito in tal senso, sfruttando una partnership tra Konami e Ubisoft e il Pesce d’Aprile: in un trailer presentato da Jade Raymond, era possibile osservare un assassino utilizzare armi da fuoco moderne, facendo presagire un Assassin’s Creed ambientato nel futuro. Ma di lì a poco l’inganno venne svelato, mostrando sotto la famosa tunica, niente meno che Solid Snake. Il costume di Altaïr infatti, era una delle skin sbloccabili in Metal Gear Solid 4: Guns of Patriots.
Non sono mancati nemmeno i classici romanzi, da Assassin’s Creed: Rinascimento, il primo della serie, ad Assassin’s Creed: Forsaken, tutti scritti con la speranza di approfondire e ampliare quanto avveniva all’interno del videogioco, anche se non riuscendoci pienamente mentre, sicuramente più interessanti sono i fumetti, come la serie dedicata a Nikolai Orelov con Assassin’s Creed: The Fall, ambientato negli anni antecedenti alla rivoluzione russa con lo scopo di fermare lo Zar Nicola II. Le serie sono molteplici e tutte di discreto successo, come anche Aquilus, ambientato in epoca romana e sempre oggetto di speculazione da parte dei fan su un possibile nuovo capitolo videoludico.
Il successo del brand venne sfruttato sino allo svilimento e in concomitanza con la diminuzione delle vendite e dei risultati deludenti degli ultimi capitoli come Syndicate, la forza di Assassin’s Creed pian piano cominciò a scemare. A mitigare un po’ la situazione intervennero 20th Century Fox e Michael Fassbender, produttore della trasposizione cinematografica del videogioco. Interpretando Callum Lynch e Aguilar, assassino spagnolo durante il periodo di inquisizione spagnola, Fassbender non è riuscito a far centro nel cuore dei fan e soprattutto ad attirare nuovi “credenti”, per via di una sceneggiatura travagliata e la mancanza di spessore dei protagonisti, pur vantando nel cast  Marion CotillardJeremy Irons. Il tentativo di creare dunque un universo espanso si è spento sul nascere e anche le notizie sui futuri sequel non sembrano suggerire il contrario.

Giunti alla fine del nostro viaggio ci accorgiamo di una cosa: le epoche cambiano ma il concetto di saturazione evidentemente, è faticoso da comprendere. Per chi vi scrive, passando dal racconto di Tomb Raider ad Assassin’s Creed, la sensazione di déja vù è lampante, e sono solo due dei tanti brand presenti sul mercato. Perché dunque si ricade negli stessi errori? Avidità? Potrebbe essere una risposta semplice ma forse è proprio la natura dell’Animus a fornirci la risposta: siamo programmati per fare le stesse scelte, indipendentemente dal contesto; a meno che non giochiate Odyssey, sia chiaro.
C’è da dire però che nonostante Assassin’s Creed goda di amore e odio in egual misura, non si può trascurare la forza mediatica e l’importanza che la sua realizzazione ha portato all’interno del mondo videoludico, non solo all’interno degli ambienti free roaming, ma a tutto il panorama, dando il via definitivo all’aumento di personale, costi e contorno nella realizzazione di un videogioco.
Non ci resta dunque che attendere il nuovo capitolo, cercando di capirne il destino e se mai avrà una fine.

 




Lara Croft, storia di un’icona

A volte capita che un brand, una volta creato, sfugga al controllo dei propri creatori, divenendo ben più importante rispetto a quanto preventivato. Questo è il caso di Tomb Raider e della sua eroina Lara Croft, divenuta una dei simboli più importanti della cultura pop degli anni ’90 e prima vera paladina di tutte le donne videoludiche.
In concomitanza con l’uscita di Shadow of the Tomb Raider, ultimo capitolo della nuova trilogia, che ha riportato al pubblico una Lara molto diversa ma sempre in gran forma, e nonostante gli svarioni precedenti, ripercorriamo la storia della prosperosa archeologa, della sua creatrice Core Design sino all’avvento di Square-Enix e l’ultimo lungometraggio con Alicia Vikander. Sarà un viaggio trentennale alla scoperta di aneddoti, scelte sagge e disastrose, in un percorso oggetto di studio in molte università.

Dalla Gran Bretagna con furore

Tutto ebbe inizio a Derby, una piccola cittadina inglese, che nel 1988 vide nascere Core Design, azienda fondata da Chris Shrigley, Andy Green e altri componenti, molti arrivati da Gremlin Graphic, altra software house con sede a Sheffield. Tra i primi lavori del developer spiccò Rick Dangerous, un platform che richiamava in maniera poco velata le gesta di Indiana Jones, riprendendone ambientazioni (I predatori dell’Arca perduta) e nemici, quei Nazisti tanto odiati dagli statunitensi quanto dai britannici. Il gioco ebbe un buon successo, tanto che, l’anno dopo (1990), arrivò il suo sequel diretto: Rick Dangerous II.
Le ambizioni di Core Design erano però molto più grandi e mentre il mondo del 3D cominciava a muovere i suoi primi passi, allo studio venne in mente di replicare quanto realizzato con l’archeologo Rick ma, fortunatamente, il lavoro prese quasi subito un’altra piega.
Nel 1993 i lavori per il nuovo progetto cominciarono a essere abbozzati da un team di sole sei persone, ma solo l’anno dopo si cominciò a entrare nel vivo. Toby Gard stava già lavorando sul protagonista che inizialmente doveva essere di sesso maschile, come da tradizione. È qui che a Core Design e Toby venne in mente un’idea rivoluzionaria e che avrebbe cambiato per sempre il futuro di entrambi. Il nuovo titolo avrebbe avuto per protagonista una donna, lontana dalla classica “principessa da salvare”, forte, indipendente e capace di tenere testa ai vari nemici uomini. Con una caratterizzazione sudamericana, Laura Cruz fu il primo nome scelto per la nuova eroina ma ben presto sostituito con Lara Cruise, più incline a un pubblico americano. Nel frattempo il background della protagonista cominciava a venir fuori e, pian piano, si decise di renderla “british”, una ricca ereditiera con la passione per l’archeologia, nata nel 1968. Dopo aver sfogliato a casaccio un elenco telefonico, il più era fatto. Lara Croft era nata. Ed era nata già… abbondante.
La caratteristica fisica più evidente – è inutile far finta di niente – è indubbiamente il suo seno, divenuto comunque più discreto nel corso degli anni. Tutto nacque da un errore – o almeno è così che ci raccontano – del suo creatore Toby Gard che durante la lavorazione sul modello 3D di Lara, accidentalmente fece scivolare la rotellina del mouse proprio sulla zona incriminata, aumentandone le misure del 150%. Dopo aver ripristinato il tutto, molti si accorsero che quell’abbondanza piaceva e così decisero ben volentieri di mantenere l’errore. La famosa treccia invece, fu rimossa dato che la sua gestione utilizzava fin troppa memoria a discapito della fluidità del gioco. Comparve infatti solo con Tomb Raider II, a seguito anche di una migliore ottimizzazione.
Lara era dunque pronta a farsi conoscere dal grande pubblico, ma non prima di un grande cambiamento per Core Design.

Girl Power

Le cose cominciarono a farsi più interessanti una volta che Eidos Interactive acquisì la compagnia, immettendo nuovi capitali da investire in uno dei progetti videoludici più ambiziosi di sempre. Dopo 18 mesi di lavoro dunque, Tomb Raider fece il suo debutto su Sega Saturn per poi approdare su PlayStation (che inizialmente bocciò la prima versione del progetto) e PC il mese successivo. Fu un successo su vasta scala con un’avventura mozzafiato tra le Ande peruviane e le rovine di Atlantide, fluido e innovativo sotto ogni aspetto, con un eccellente level design e la possibilità di muoversi sott’acqua,  tutto in uno spazio 3D. Ovviamente a colpire sin da subito fu Lara, grazie anche alla doppiatrice Shelley Blond, in grado di caratterizzare un’eroina forte e determinata, capace di conquistare immediatamente il pubblico. L’esplorazione, la risoluzione di enigmi ambientali e le fasi action erano qualcosa di sbalorditivo per l’epoca, e questo non fece altro che aumentare il successo di Lara Croft. Ben presto, infatti, la procace archeologa avrebbe conquistato il mondo, apparendo dappertutto, dalla riviste fino ai concerti degli U2 con il loro PopMart Tour; il suo successo però non piacque al suo papà Toby Gard che non apprezzò l’eccessivo sfruttamento commerciale della sua creatura, decidendo di lasciare di punto in bianco Core Design, cosa che probabilmente lo salvò dalle critiche di qualche anno più tardi.
Nel 1997 infatti, è il turno di Tomb Raider II, titolo nato – per così dire – da una costola del suo predecessore: infatti, il sequel venne realizzato per lo più sfruttando asset mai utilizzati per il primo capitolo, spiegando in parte, la mancanza di novità di rilievo.
L’introduzione di effetti d’illuminazione dinamica e location più ampie, oltre ai veicoli guidabili, bastò a bissare il successo, divenendo vera e propria killer application per PlayStation, essendo divenuta nel frattempo sua esclusiva. Fu tra l’altro il primo a essere doppiato in italiano. In questo episodio, Lara si presentò meno spigolosa e con la treccia, grazie anche al lavoro di Stuart Atkinson, nuovo designer della protagonista. Ma questo successo non poteva durare: solamente un anno dopo arrivò il terzo capitolo, Tomb Raider III che, nonostante un buon successo commerciale, cominciò a far storcere il naso a critica e pubblico, che fecero notare come le caratteristiche del franchise cominciavano a risultare ripetitive. In fin dei conti, si è cercato di spremere il successo di Lara sino allo svilimento, come del resto accaduto – anche se con le dovute proporzioni – per altri brand come Call of Duty e Assassin’s Creed. Evidentemente imparare da quanto avvenuto può risultare complicato, eppure i problemi per Eidos e Core Design dovevano ancora arrivare.

Ferro freddo

Battere il ferro finché è caldo non è sempre una buona strategia. Per una piccola compagnia come Core Design, il successo di Tomb Raider fu qualcosa di eccezionale, ma l’incapacità di gestire l’impatto mediatico di Lara Croft e le vendite esagerate cominciarono a portare la società verso il declino. Il ferro era ancora caldo, ma aveva ancora bisogno di essere battuto?
Solo poco tempo dopo arrivarono in versione speciale i primi due capitoli, una collezione di Tomb Raider e Tomb Raider II denominati Gold, che comprendevano alcune migliorie e nuovi livelli. Ma le vere attenzioni erano tutte rivolte al quarto episodio, Tomb Raider: The Last Revelation, arrivato anche su SEGA Dreamcast e criticato aspramente in quanto, tolta la nuova ambientazione, di novità effettive non ve ne erano. La morte di Lara Croft, avvenuta in questa avventura e festeggiata dal team di sviluppo con un paio di birre avrebbe potuto sancire la fine di questo franchise, ma le cose andarono molto diversamente, con l’uscita di Tomb Raider: Chronicles, avvenuta nel 2000, probabilmente il peggiore titolo della saga sino a quel momento, tecnicamente arretrato e ultimo bagliore di luce prima del spegnersi della fiamma.
Se le avventure di Lara Croft su console erano in pausa, sul grande schermo invece era più viva che mai: Lara Croft: Tomb Raider fu il primo film del franchise ad arrivare al cinema, con protagonista un’Angelina Jolie in piena forma e che seppe interpretare un Lara molto simile alla controparte videoludica, anche se forse con una leggera spinta verso l’esaltazione delle “forme” dell’attrice. Fu un successo e questo diede nuova linfa a Core Design, che, nel frattempo, stava preparando il suo debutto su PlayStation 2 ( purtroppo, vien da dire col senno di poi).
Tomb Raider: The Angel of Darkness fu un vero disastro. L’idea di rinnovare il franchise, portandolo al passo con le tendenze del nuovo millennio non trovò mai la giusta direzione: lo sviluppo, infatti, venne affidato a un team interno, cosa che ne decretò l’insuccesso prima ancora di cominciare. I ritardi si accumularono, il gioco venne rimandato per ben tre anni, e quando finalmente uscì pagò il fio di tutti i disaccordi interni e le scelte errate di Core Design. Numerosi problemi di direzione artistica e narrativa impallidivano di fronte ai molteplici bug e alla mancanza di rifinitura, e chi vi scrive lo sa fin troppo bene. The Angel of Darkness è uno dei titoli che non potei mai completare a causa di un bug che ne impediva il prosieguo, portandolo ogni volta all’inevitabile crash. Era il 2001, niente patch riparatorie. Tra i tagli più evidenti, confessati a Edge nell’Agosto 2006 dal team di sviluppo, vi erano un prologo che collegava Last Revelation a questo e molti livelli tra Parigi, Germania e Praga.
Nonostante le buone vendite iniziali, grazie a una campagna marketing aggressiva, il nuovo Tomb Raider fu il colpo di grazia: uno dei cofondatori diede le dimissioni e metà del personale fu licenziato. Ma non c’è mai limite al peggio. Nel 2003 infatti, uscì anche il secondo capitolo cinematografico, intitolato Tomb Raider: La Culla della Vita, stroncato da critica e pubblico, con Angelina Jolie candidata come peggior attrice protagonista ai Razzie Awards dello stesso anno.
Nonostante questo però, Lara Croft non abbandonò mai il cuore dei giocatori. Serviva una scossa, e fortunatamente, avvenne grazie all’intervento di Crystal Dynamics.

Una Fenice dalla breve vita

Viste le enormi perdite e le grosse difficoltà di Core Design, nel 2003 Eidos decise di passare la responsabilità del progetto a Crystal Dynamics, assieme all’ormai storico creatore di Lara, Toby Gard. A dir la verità, nemmeno la società subentrante godeva di un buono stato di salute ma, ciononostante, Eidos era sicura che per dare la svolta necessaria al franchise il nuovo team fosse la scelta giusta. A molti deve essere sfuggito, ma Tomb Raider Legend fu un vero e proprio reboot, in cui venne riscritto – o aggiunto – un nuovo background narrativo e una revisione completa del modello di Lara, più realistico ma mantenendo sempre un non so che di caricaturale. Legend fu un successo, divenendo il Tomb Raider più velocemente venduto della storia, mostrando finalmente una Lara distante dalle gesta di Steven Seagal, divenendo più umana anche caratterialmente e a cui i giocatori poterono legarsi anche empaticamente. Gli anni intorno al 2006 (anno d’uscita) erano contraddistinta dalla moda dei quick time event, che permisero anche a Toby Gard di sviluppare finalmente il desiderio di realizzare un “film interattivo”, idea che mosse i primi passi dell’originale Tomb Raider ma che per ovvie limitazioni tecniche non venne mai realizzato; almeno sino al nuovo progetto, in concomitanza con i primi 10 anni del brand. Tomb Raider Anniversary fu un vero regalo per tutti i fan: realizzato con il nuovo motore di gioco di Legend, si trattava di un remake del primo capitolo a cui, agli ovvi miglioramenti tecnici, furono aggiunti alcuni cambiamenti di gameplay e narrativi oltre che sonori, con una versione riorchestrata del tema e le musiche originali (Nathan McCree), a cura di Troels Folmann. Toby Gard venne promosso da “semplice” consulente a Capo Designer, apparendo anche nel documentario dedicato alla storia di Tomb Raider, presente all’interno della confezione. Anche Anniversary ebbe un buon successo e questo spinse Eidos a dare il via libera a Crystal Dynamics per un nuovo capitolo, che avrebbe preso vagamente spunto anche dai lungometraggi con Angelina Jolie. Il sequel di Legend, Tomb Raider Underworld, portava Lara Croft ad affrontare gli enigmi della mitologia norrena ma, nonostante Toby Gard alla direzione e alla co-sceneggiatura, quest’ultimo capitolo, purtroppo, non seppe conquistare completamente i fan, creando grossi problemi a Eidos.
La compagnia britannica infatti, si trascinava ormai da molti anni alcune difficoltà economiche, tra investimenti falliti e acquisizioni che non furono indolori. Il fallimento era dietro l’angolo ma, nel 2009, Square-Enix lanciò un salvagente dal valore di 84 milioni di sterline, acquisendo l’intero controllo della software house.

La luce in fondo al tunnel

L’arrivo di Square-Enix cambiò le carte in tavola: serviva un taglio netto col passato, un nuovo Tomb Raider, una nuova Lara contornata da nuove idee. A capo dei nuovi progetti rimase Crystal Dynamics che si mise subito a lavoro su un nuovo titolo, più uno spin-off che un capitolo ufficiale: Lara Croft and the Guardian of Light arrivò solo sul mercato digitale, offrendo ai giocatori una nuova avventura cooperativa e con visuale isometrica. Nonostante il diretto collegamento al brand Tomb Raider mancasse, il nuovo lavoro ebbe un buon successo su tutti i fronti, dando linfa al progetto principale, un reboot totale che avrebbe finalmente portato Lara Croft ai nostri giorni. Scritto da Rhianna Pratchett e con il semplice nome di Tomb Raider, il nuovo capitolo si presentava molto lontano dagli stilemi classici del franchise, presentando una Lara alla prime armi (nata nel 1992) e inesperta, una ragazza costretta ad affrontare mille avversità. Il titolo era più maturo e sopratutto più realistico, non solo nel gameplay ma anche nella costruzione di un personaggio che ormai non era più l’icona pop degli anni ’90. Plasmata sulla modella Megan Falcar, la nuova Lara conquistò i cuori degli appassionati ma anche il gioco in sé seppe sorprendere: ambienti più ampi che favorivano l’esplorazione, una giusta dose d’azione e di sovrannaturale facevano pendant purtroppo con la limitata proposta di tombe ed enigmi che in un gioco dal nome di Tomb Raider esigevano altra cura. Il successo del reboot spinse anche Metro Goldwyn Mayer ad acquisirne i diritti per una trasposizione cinematografica, uscita proprio quest’anno e con protagonista il Premio Oscar Alicia Vikander. Basato proprio su questo reboot, il film non ha avuto però il successo sperato a causa di alcune scelte narrative e di una caratterizzazione di Lara Croft non proprio riuscita.
Il successo del nuovo Tomb Raider (videoludico) fu solo l’inizio: nel 2014 Lara Croft and the Temple of Osiris  continuò quanto realizzato con The Guardian of Light, ma è il 2016 l’anno importante, con un Rise of the Tomb Raider che continuò quanto di buono fatto, elevando la qualità di tutti gli aspetti del gioco su livelli eccellenti. Rise fu un successo su tutta la linea, preparando il pubblico all’imminente Shadow of Tomb Raider che dovrebbe concludere questa nuova trilogia.

L’importanza di Lara

Come detto, Lara Croft è stato un personaggio fondamentale per la scena videoludica, ritornato in auge con i recenti reboot, anche se lontana dai fasti degli anni ’90. Una donna protagonista in un videogioco d’azione sembrava una follia, eppure il ragionamento dietro a tale scelta può portare a delle riflessioni. Ian Livingstone, Creative Director di Eidos e ora Presidente onorario, ha spiegato molto bene come si è arrivati a Lara Croft:

«I giochi avevano sempre avuto personaggi maschili, perché i giocatori erano ragazzi. Ma questi ragazzi non avevano smesso di giocare; erano solo cresciuti e cosa preferirebbero guardare: un riccio, un idraulico o il sedere sodo di Lara Croft? Col senno di poi, la risposta era ovvia.»

Nonostante l’intervento nella scena di Lara e il periodo del “Girl Power” portato avanti dalle Spice Girls, le protagoniste femminili facevano fatica a emergere. Ci volle probabilmente un’evoluzione della società e del pensiero per sdoganare le nuove eroine che ora diamo per scontate, da Aloy di Horizon Zero Dawn alla prorompente Bayonetta. Lara Croft aveva anticipato i tempi: tutti volevano Lara e il merchandising era qualcosa da tenere sotto controllo. Tra le cose più curiose in tal senso, come raccontato nel documentario, un fantino provò a chiamare Lara il suo cavallo da corsa, chiedendo a Eidos di poter pubblicizzare il brand Tomb Raider. La risposta fu no, dettata semplicemente dal rischio che un cavallo con il nome del momento sarebbe potuto cadere alla prima curva, diventando un perdente; l’associazione non era dunque possibile. Al contrario, fu concesso il nome Lara a una variante di Tulipani, del resto sembrava un’idea carina. Ma non finiva quì. Ben presto Lara Croft apparve anche sulla prima pagina di The Face Magazine, famosissima rivista rivolta alla cultura pop dell’epoca e in varie pubblicità, da quelle Visa a Seat. Nel 2006 ricevette anche una stella alla Walk of Fame di San Francisco, una via a Derby, chiamata Lara Croft Way e il Guinness dei Primati per essere l’eroina dei videogame più famosa al mondo. Non mancarono nemmeno i fumetti prodotti da Top Cow per ben cinque anni e alla naturale trasposizione porno (ne abbiamo parlato qui) o “semplicemente” erotica di Lara: Nell McAndrew, modella e testimonial di Tomb Raider III, posò per la nota rivista Playboy, con dicitura “Lara Croft nude“. Questo non piacque a Eidos, che decise di fare causa, imponendo un cambio di copertina. Tralasciando quest’ultimo dettaglio, dunque, fu un successo su tutta la linea, e questo successo non fu solo utile a Core Design ed Eidos, ma all’intera industria videoludica fino a quel momento rinchiusa in un micro cosmo a sé stante e che, grazie a Lara, era all’improvviso al centro della ribalta. Inoltre, uno degli impatti più evidenti fu l’avvicinamento di ulteriore pubblico femminile al mondo videoludico, potendo finalmente contare su un’eroina con la quale identificarsi. Ma era davvero così?
Lara Croft non poteva che aprire dibattiti anche tra le esponenti del femminismo. Ad esempio Jennifer Baumgardner, ex editor della rivista Ms e direttrice e publisher di The Feminist Press, è, ed è tutt’ora, una delle più attive su questo fronte, favorevole alla figura di Lara. L’archeologa rappresentava una donna forte, in grado di competere con i rivali uomini e dunque una figura positiva. Anche l’esaltazione delle forme per Jennifer non fu un problema: «se lo può permettere, perché non farlo. Non credo che le donne si paragonino a un personaggio immaginario di un videogioco».
Di tutt’altro avviso era invece Ismini Roby, all’epoca caporedattrice e fondatrice di WomenGamers.com, un portale dedicato a tutte quelle ragazze che avevo sviluppato la loro passione per i videogame. Secondo Ismini, Lara non era altro che un oggetto sessuale, che sminuiva la figura della donna, cosa che trovò sostegno anche in Germaine Greer, una delle maggiori esponenti del femminismo del XX secolo, considerando l’archeologa come una mera fantasia per adolescenti, un «maresciallo con palloni infilati sotto la maglietta». Inoltre la Greer tornò anche sul fisico, sottolineando come Lara fosse una donna “perfetta”, assolutamente non realistica, cui le donne potevano prendere come modello sbagliato da imitare.

Le polemiche intorno a Lara Croft non cessarono nemmeno con con il reboot del 2013, in cui era presente una scena di tentato stupro su una Lara ferita e spaventata. Immediatamente, riviste, telegiornali, femministe urlarono allo scandalo, scagliandosi su una scena che non era nemmeno esplicita. La risposta di Crystal Dynamics non si fece attendere, raccontando di come Lara, attraverso le difficoltà che comunque una donna affronta oggigiorno, riesce a cavarsela da sola contro le avversità di qualunque natura. Queste polemiche si placarono e non diedero problemi nello sviluppo di Rise of the Tomb Raider ma un altro piccolo “dibattito” si venne a creare, in concomitanza con l’annuncio di Alicia Vikander come attrice protagonista nel film Tomb Raider: “non ha le forme!”, “era meglio Angelina!”, “non somiglia per niente a Lara Croft!”. Risparmiando i commenti più volgari, questa era una buona parte della “voce di internet”, ad avvenuto annuncio. Inutile dire come Alicia Vikander sia una delle migliori attrici attualmente in circolazione, e forse l’insuccesso del film è anche derivato da questi pregiudizi e possibilmente dall’ignoranza sul tema, non essendosi accorti in molti come il film si rifacesse al recente reboot e alla nuova Lara Croft.

Tutto questo è dovuto all’incredibile impatto mediatico dell’eroina, che ha cambiato per sempre la visione dei videogame da parte del pubblico, trasformando il mondo videoludico in un universo di oggetti di culto, ammesso che ci sia della qualità dietro un titolo, sia ben chiaro. Lara Croft rimarrà per sempre un’icona, qualunque sia la sua versione, la sua storia e il suo aspetto. L’esplosione del successo e la sua gestione sono un insegnamento per tutte quelle software house che sognano di fare il grande colpo, ma è incredibile notare come alcuni errori commessi più di vent’anni fa si perpetuino tra problemi di comunicazione, gestione delle critiche, titoli annuali senza reali novità e così via. La storia di Lara, di Core e di Eidos è un esempio di come un’idea che può essere considerata semplice può in realtà rivoluzionare il mondo, e di come, a volte, bisogna anche sapersi fermare prima di combinare qualche guaio di troppo.




Shadow of the Tomb Raider: tutti i dettagli

Come annunciato un paio di settimane fa, il nuovo Tomb Raider è stato annunciato ufficialmente, accompagnato da un trailer – purtroppo in CGi – dove cominciare a speculare sul nuovo titolo Eidos Montreal – conosciuti per il reboot di Deus Ex – visto che Crystal Dynamics è impegnata assiduamente su un altro franchise.
Il terzo capitolo Shadow of the Tomb Raider ci porta nella misteriosa terra dominata a suo tempo dalla civiltà Maya, della quale superstiti sembrano esserci ancora oggi. Scorci mozzafiato con le classiche piramidi ma anche piccole cittadine abitate, faranno da contorno alle nuove avventure di Lara Croft, arrivata a un bivio importante.
Da quel che traspare, Lara ha abbandonato la vecchia se stessa, insicura e inesperta per divenire un soldato perfetto, quasi priva di morale e rimorsi dopo aver fatto fuori un nemico. Qualcuno potrebbe pensare – anche leggendo il motto “The end of beginning” – che finalmente siamo giunti alla Croft che abbiamo conosciuto tanti anni fa, eppure c’è qualcosa di diverso. Queste sensazioni però, andranno approfondite sicuramente più avanti; quel che sappiamo è che l’archeologa cercherà vendetta nei confronti di Trinity, l’ordine che da tempo immemore, ha come obbiettivo quello di governare il mondo. Ma ci sarà anche un’apocalisse Maya da scongiurare.
Shadow of the Tomb Raider sarà un’evoluzione di quanto sviluppato finora, ma l’esperienza del nuovo team porterà sostanziali novità: probabilmente verrà dato maggior risalto alle fasi stealth, interagendo con l’ambiente circostante così da sorprendere i nemici. Proprio l’ambiente potrà essere nostro alleato e, a quanto promesso, sarà il più ricco e interattivo della serie. Vengono introdotte anche sezioni subacquee esplorative che fanno pendant a una nuova e più complessa ricerca delle tombe Maya.

Rilasciate anche informazioni sulle edizioni che troveremo nei negozi: Standard Edition, Collector’s Edition, Croft Edition, Digital Croft Edition, Digital Deluxe Edition e la versione Steelbook. Tra i contenuti speciali, per gli amanti dei collezionisti, l’immancabile action figure di Lara, un apribottiglia a forma di piccone, una torcia, colonna sonora su CD e, in game, tre nuove armi e nuovi costumi.

Insomma: Shadow of Tomb Raider potrebbe riservarci moltissime sorprese, a cominciare dalla narrazione che vedrà la protagonista compiere scelte “azzardate” e l’ambientazione, che potrebbe regalarci alcune delle più belle immagini di questa generazione. Attendiamo dunque il prossimo E3 per vedere del gameplay fatto e finito.




Tomb Raider

Diciamoci la verità: appena si ha il sentore che una casa di produzione canematografica stia per lanciare un lungometraggio tratto da un videogioco, comincia a salire qualche brivido lungo la schiena. Di certo non siamo abituati bene: innumerevoli sono ormai i film a tema videoludico che, tra il pessimo e mediocre, ci hanno continuamente delusi, lasciandoci quasi senza speranza. C’è da dire però, che qualche eccezione c’è stata, dal Prince of Persia con Jake Gyllenhaal a Silent Hill sino, perché no, anche al primo Mortal Kombat. Adesso ritocca a Lara Croft, divenuta negli anni ’90 vera icona pop ed eroina con cui tutto il genere femminile ha potuto finalmente interfacciarsi: forte, indipendente e superiore alla maggior parte dei comprimari maschili.
I film che hanno visto come protagonista Angelina Jolie, rispettivamente Lara Croft: Tomb Raider e Tomb Raider: La Culla della Vita, hanno saputo solo dare lustro alla prorompenza fisica dell’archeologa, divenendo veri e propri spot alle “doti” fisiche dell’attrice. Ma con il reboot videoludico del 2013, uscito con il semplice nome di Tomb Raiderle cose erano cambiate: la nuova Lara era figlia dei tempi che viviamo, una ragazza più reale, con un buon background narrativo e con le fragilità di qualunque essere umano. Oltre a questo, sia il primo capitolo che il secondo, Rise of the Tomb Raider, sono anche ottimi videogiochi, dal buon successo di critica e pubblico. Era naturale che prima o poi gli occhi della cinematografia si sarebbero posati ancora una volta su Lara Croft.

Il Tomb Raider videoludico ha segnato profondamente i fan, spostando il focus più su azione e avventura che sulla risoluzione di enigmi e sezioni platform. Queste nuove caratteristiche, oltre a una profonda rivitalizzazione di Lara, ben si sposano con un film da 90 milioni di dollari di budget, che può incentrare tutto sul realismo senza l’impiego di eccessivi – e costosi – effetti speciali. A dir la verità, questo è un punto su cui ci soffermeremo più avanti, ovvero la resa dell’indole del videogioco.
Questo significa anche dire addio alla giunonica Angelina per abbracciare la super atletica e “semplice” Alicia Vikander, vincitrice del premio Oscar come miglior attrice non protagonista per The Danish Girl. L’attrice svedese ha già fatto parlare di sé per il suo talento – di molto sopra la media – che in Ex Machina ha trovato terreno fertile dal quale sbocciare. La sua Lara è una ragazza che un po’ si discosta dal personaggio che abbiamo avuto modo di conoscere: manca in qualche modo l’estrema passione per l’archeologia trasmessa dal padre, scelta se ci pensate un tantino forte, visto che è un perno fondamentale della sua caratterizzazione. Ma ciò che funziona per il pubblico videoludico non è detto che funzioni al cinema, ed ecco quindi Lara Croft, che cerca di farsi da sola, non accettando di prendere in eredità la fortuna della famiglia. La figura del padre è elemento fondamentale anche se un po’ in contrasto col canone ufficiale, non solo rispetto ai reboot, ma anche ai titoli originali. Scelte quindi azzardate ma che non inficiano su trama e protagonista in maniera drammatica, soprattutto per chi conosce le vicende del videogioco.
La trama dunque si snoda tangendo quella videoludica: la giovane Croft, decisa a sapere quanto accaduto al padre, si recherà su un’isola misteriosa al largo del Giappone, in cerca della verità. Le vicende, scritte a quattro mani da Geneva Robertson-Dworet e da Alastair Siddons, scorrono via senza particolari intoppi nonostante la durata di circa un paio d’ore, risultando a conti fatti Tomb Raider un buon film di intrattenimento ma senza particolari picchi. Tutto poggia sulle incredibili e robuste spalle della Vikander che, seguendo le orme del buon Tom Cruise, ha svolto la maggior parte delle scene d’azione senza l’ausilio di una stuntman. In questo film ne ha subite di ogni, come del resto la iellata controparte videoludica, dalle cadute da altezze proibitive alla lotta a mani nude passando per le arrampicate e chi più ne ha più ne metta; se c’è una cosa da sottolineare è la voglia di Alicia di interpretare questo personaggio al suo meglio, e di questo bisogna dargliene atto. L’irrisolto rapporto padre-figlia sarà al centro della personalità della protagonista così come del comprimario – e molto anche – Lu Ren (Daniel Wu); questo, oltre ovviamente a tutta l’esperienza sull’isola, darà alla giovane Lara motivo di crescita e di accettazione del suo ruolo, facendo quel piccolo passo verso l’eroina che noi tutti conosciamo.

Il regista norvegese Roar Uthaug è riuscito a impacchettare un film senza difetti evidenti, con una classica regia da “mestierante” ma che ben si sposa con l’azione e la location del film. Anche le scene d’azione, seppur non perfettamente coreografate, riescono a intrattenere e sono chiare la maggior parte delle volte. Quello che manca è appunto quel “guizzo” verso l’alto ma, come potete aver capito, è un po’ il problema di tutto il film. Anche la fotografia di George Richmond non fa altro che richiamare i toni del videogioco, un andare sul sicuro che, per come è stato indirizzato il lungometraggio, è anche comprensibile. Siamo stati abituati ad avere, infatti, due scuole di pensiero: una parte di pubblico chiede a gran voce nuove storie basate sui vari brand, altri, invece, vorrebbero un copia e incolla dall’opera videoludica a quella cinematografica. Inutile dire che entrambe le idee abbiano prodotto risultati discutibili.
Tomb Raider è furbo, mettendo in scena sì una storia che lambisce i temi della controparte originale ma anche capace di regalare scene clou precise al millimetro rispetto al videogioco, una via di mezzo che in fin dei conti accontenta tutti: i fan hanno con cosa interfacciarsi e i “casual” posso godere di buone scene d’azione.
Segnalando personaggi completamente assenti, come l’equipaggio dell’Endurance, e personaggi completamente stravolti, come il “cattivo” Vogel, arriviamo al più grande problema del film: la particolarità dei Tomb Raider risiede nel rendere tutte le leggende createsi lungo il corso della storia, mera realtà, portando in scena elementi sovrannaturali e metafisici che ben si sposavano con il contesto del gioco ma anche – incredibilmente – con i lungometraggi con protagonista Angelina Jolie. L‘isola Yamatai è un luogo ricco di misteri e a tratti di angoscia, all’interno del reboot del 2013, con tombe nascoste e ambientazioni mozzafiato. Nel film purtroppo manca tutto questo, in favore di ambienti più semplici ma poco caratterizzati; anche quando si arriva finalmente al tempio della Regina del Sole Himiko, la musica non cambia. Manca completamente quel senso di stupore e meraviglia derivante da una nuova scoperta fuori da ogni logica e che mal si discosta da ciò che rappresenta il brand. La mazzata finale arriva dalla completa assenza di elementi sovrannaturali, derivati in questo contesto dal risveglio e dalla potenza di Himiko e del suo culto, in grado di controllare il destino dell’intera isola. Se da un lato tutto questo è spiegabile da un budget che qualcuno definirebbe basso e la voglia di non strafare, con il rischio di allontanare pubblico, ecco che sorge la domanda fondamentale, alla quale non risponderemo “42“: ma abbiamo veramente visto Tomb Raider?

In fin dei conti questo risulta un film normale per gente normale, che vuol passare un pomeriggio al cinema senza particolari sussulti. Diffidate da chi elogia il film come un capolavoro: la pochezza dei lungometraggi tratti da un videogioco può rendere un film del genere di poco migliore, ancor più importante, solo perché mancano paragoni degni (“effetto Wonder Woman“). È indubbiamente un buon film di intrattenimento e sicuramente la migliore trasposizione cinematografica di un videogioco, grazie soprattutto ad Alicia Vikander che, a dispetto degli infelici paragoni scaturiti alla notizia del suo ruolo, porta una Lara Croft credibile e segna un buon inizio di saga, qualora si prosegua con questo brand.
Il contraltare è una storia che non prende mai realmente il volo e che ha poco a che fare con Tomb Raider. Troppe scelte conservative hanno fatto viaggiare il film con il freno a mano tirato e, al sopraggiungere dei titoli di coda, tirando le somme se ne sente il peso.




Rilasciato il teaser del nuovo Tomb Raider

Pochi giorni fa, all’interno del codice del sito ufficiale di Tomb Raider sono stati trovati nome e data di uscita del nuovo capitolo, Shadow of The Tomb Raider e 14 Settembre 2018. Non si è dovuto attendere molto all’ufficialità: proprio ieri sono state rilasciate alcune informazioni ufficiali che vedono confermato il titolo ma non la data di uscita. Non si sa molto sul gioco: Square Enix ha rilasciato un breve teaser e una descrizione molto vaga, “Il momento in cui Lara diventa la Tomb Raider“. La data importante dunque diventa il 27 Aprile, durante il quale verranno rivelati maggiori dettagli. Il gioco sarà disponibile per PS4, PC e XBOX ONE X.




Top 7: I migliori Action/Adventure

Action/Adventure ha assunto significati diversi col tempo: decine, forse centinaia, sono i titoli che si fregiano di tale denominazione eppure, la maggior parte di essi, presentano molti elementi eterogenei, che difficilmente risultano paragonabili alla concorrenza. Vediamo dunque quali sono i migliori titoli di questo grande contenitore.

#7 Batman: Arkham Asylum – Rocksteady (2009)

Tutto ha inizio da qui: l’open world dedicato a Batman apre una delle saghe migliori degli ultimi anni e soprattutto, uno dei pochi media a rendere veramente giustizia al Cavaliere Oscuro. Gotham e il Manicomio di Arkham non sono mai stati così belli, così come amici e nemici che via via affronteremo.

#6 Shadow of the Colossus – Team Ico (2011)

«Alcune montagne vanno scalate, altre vanno uccise». Questo è lo slogan di Shadow of the Colossus, che ci presenta una vasta mappa povera di contenuti ma in cui spiccano i giganti, che dovremo eliminare. È uno dei titoli più suggestivi del panorama videoludico, capace di rimanere impresso nelle vostre menti per sempre.

#5 Tomb Raider – Eidos Interactive (1996)

Il debutto di Lara Croft ha segnato profondamente il mondo videoludico: una donna forte, più in gamba dei rivali uomini, in un periodo in cui le Veline erano la massima espressione di indipendenza femminile. Tomb Raider ha fatto la storia di questo genere e anche i recenti reboot – che vedono una riscrittura del personaggio – non sono da meno.

#4 Uncharted 2: Il Covo dei Ladri – Naughty Dog (2009)

E proprio il figlio di Lara Croft può essere ritenuto il buon Nathan Drake che, a partire dalla splendida sequenza iniziale – vista con ammirazione da J.J. Abrams – riesce a portarci in un mondo veritiero e ricco d’azione. La sua caratterizzazione, così come quella dei comprimari, valgono da sole il prezzo del biglietto.

#3 Assassin’s Creed II – Ubisoft (2009)

Dopo l’addio di Patrice Désilets la serie Assassin’s Creed non è stata più la stessa ma, fino a quando è stato al timone, ha avuto il tempo di sfornare qualche piccolo capolavoro. Il secondo capitolo ci porta nella stupenda Italia rinascimentale con protagonista Ezio Auditore, nel frattempo divenuto uno dei personaggi più importanti del mondo videoludico. Probabilmente il miglior capitolo della sega, è il perfetto trait d’union tra una trama sorprendente e un gameplay estremamente vario.

#2 The Legend of Zelda: Ocarina of Time – Nintendo (1998)

Considerato come uno dei migliori giochi di tutti i tempi, questo episodio di Zelda – ma ricordiamo che il protagonista è Link – porta tutto ciò che ha fatto grande questa serie alla massima potenza: un gioco enorme, ricco di cose da fare, musiche d’eccezione e un comparto tecnico in grado di esaltare il tutto, rendono questo titolo uno dei più apprezzati da critica e pubblico.

#1 Red Dead Redemption – Rockstar (2010)

Non si vive di solo GTA e Rockstar lo sa bene: Red Dead Redemption è uno dei più grandi successi della software house e riconosciuto all’unanimità come un vero e proprio capolavoro. Ambientato nel Vecchio West, questo titolo continua ancora oggi ad essere uno dei punti di riferimento del genere, vincendo nel frattempo, più di un centinaio di premi. Una storia matura, con personaggi di livello e un mondo di gioco vivo e variegato, portano Red Dead Redemption a essere al vertice di questa top.




Shadow of the Tomb Raider: Lara torna a far parlare di sè

Nei mesi passati abbiamo sentito vociferare di possibili leak e notizie non molto fondate. Ma oggi abbiamo qualcosa di ufficiale tra le mani. L’agenzia di marketing Takeoff USA ha pubblicato in queste ultime ore un immagine che ritrae degli artwork con annesse varianti del logo del gioco in questione: Shadow of The Tomb Raider.

Di Lara all’E3 neanche l’ombra, ma questo lo sapevamo già grazie alle dichiarazioni rilasciate dalla Senior Community Manager del franchise Maegan Marie che ha rassicurato comunque i fan dicendo di star preparando una grossa sorpresa per loro. Ancora è incerto se Square Enix sarà affiancata dai ragazzi di Eidos Montreal oppure se la palla rimarrà nelle mani della Crystal Dynamics, anche se entrambe in ogni caso risulterebbero essere impegnate con il nuovo gioco degli Avenger.
Ad ogni modo sappiamo per certo che non vedremo alcun Tomb Raider  prima del 2018. Anno in cui uscirà anche il nuovo lungometraggio che vedrà l’attrice Alicia Vikander, vestire i panni di Lara Croft. L’uscita del film è prevista per il 16 Marzo.

Che possano quindi presentare il gioco in concomitanza con l’uscita del film?