Top 5: i Migliori Giochi di Aprile 2019

Ad aprile il tempo migliora e le giornate si fanno più lunghe, ma non sono mancati i giorni di pioggia: in entrambi i casi, ogni clima è adatto per dedicarci al nostro hobby preferito! Vediamo quindi quali sono i migliori giochi usciti questo mese.

#5 Cuphead

Cominciamo con un porting, ma di qualità: l’apprezzato run n’ gun di Studio MDHR, con grafica ispirata ai cartoni degli anni ’30, arriva anche sull’ibrida Nintendo: Cuphead, dopo aver ammaliato i giocatori di Xbox One e PC, convince anche su Switch, in quella che è probabilmente, la versione migliore del titolo.
Impersoneremo Cuphead (e Mugman in caso di campagna cooperativa) nella lunga battaglia contro il Diavolo, che ha vinto al tavolo da gioco le loro anime. Sarà un lungo viaggio, tra livelli lineari classici dei platform 2D e boss variopinti e unici per design e comportamento. Un titolo originale nel panorama videoludico odierno, capace di regalare emozioni a raffica anche in portabilità.

Cuphead

#4 Anno 1800

Dopo i non esaltanti Anno 2070 e Anno 2205, torna la serie gestionale di BlueByte con quello che è il suo miglior episodio dai tempi di Anno 1404, ma non solo: infatti Anno 1800 si dimostra essere anche uno dei migliori gestionali degli ultimi anni.
Il titolo è ambientato durante la rivoluzione industriale, diviso tra una campagna narrativa, dove cercheremo di scoprire l’assassino di nostro padre oltre a sviluppare la nostra isola abbandonata, e una modalità sandbox, come da prassi per il genere. Anno 1800 convince soprattutto per l’interfaccia, non più colma di menù e schede, ma più snella e intuitiva, dove spicca la pianificazione per la futura costruzione di edifici, vero e proprio toccasana per il genere. Un ritorno che convince, per una serie che aveva il disperato bisogno di tornare ai gloriosi fasti di un tempo.

#3 Katana Zero

Opera prima dello studio Askiisoft e distribuito dalla solita Devolver Digital, sempre molto attenta verso questo tipo di produzioni, Katana Zero si presenta a noi come un action bidimensionale frenetico e molto violento.
Guai a definirlo un clone di Hotline Miami: il titolo creato da Justin Stander, è un concentrato di estetica fatta di neon e colori accesi, ispirata dalla moda synthwave e del revival anni ’80, oltre che di serratissimo gameplay senza pause. Ma ciò che sorprende è la cura per la narrazione, fatto di scelte multiple con possibilità di interrompere i dialoghi degli NPC, che rappresenta più che un mero intermezzo tra uno stage e l’altro. Devolver Digital si conferma faro della scena indie e Katana Zero, è la prima sorpresa videoludica di questo 2019 per i possessori di PC e Nintendo Switch.

#2 Days Gone

Un’epidemia zombie scoppia nel bel mezzo dell’Oregon, e il biker Deacon St. John, si ritrova catapultato in un vero e proprio inferno: questo è l’incipit di Days Gone, titolo Bend Studio uscito in esclusiva per PlayStation 4 dopo uno sviluppo travagliato.
Il gioco prende ispirazioni da serie quali The Walking Dead e Sons of Anarchy e pone le sue basi su uno sviluppo narrativo tipico di titoli Sony come The Last of Us, ma occhio a considerarlo un esercizio di stile: si tratta di un viaggio di crescita, tra orde di furiosi mostri da contrastare e vari gruppi come la setta religiosa dei Ripugnanti o i soldati della NERO, capaci di rendere complicata la nostra vita.
Days Gone è un titolo che centra il punto, nonostante la sua genesi non proprio tranquilla, e che potrebbe risultare un piacevole divertissement in attesa di titoli più blasonati.

#1 Mortal Kombat 11

Il picchiaduro più violento di sempre torna nella sua undicesima iterazione, probabilmente la migliore finora: infatti NetherRealm ha alzato l’asticella per questo Mortal Kombat 11, puntando tutto sul sistema di combattimento che, a suon di novità come i Krushing Blow e i Fatal Blow, restituiscono al giocatore un feeling impareggiabile non solo per la saga, ma anche rispetto ai precedenti giochi della casa di Ed Boon, come Injustice.
I match sono divertenti e tattici come non mai, e se le modalità offline non deludono, l’online presenta una doppia faccia: nonostante un netcode pulito e completo come raramente si è visto nel genere, delude la modalità Krypta, ridotta a un mero grinding, che spinge i giocatori verso le microtransazioni. Nonostante questo difetto, che si spera venga limato in futuro grazie al supporto della community, Mortal Kombat 11 si presenta a noi come una Fatality brutale e spettacolare, esattamente come il suo gameplay, meritando il primo posto del mese di aprile.




Google Stadia vs. The World

L’avvento di Google Stadia ha accelerato i tempi verso un futuro atteso da tutti. Del resto il digital delivery è sempre più una realtà prossima, con anche Sony e Microsoft che cominciano attivamente a sondare il terreno, cercando di capire quanto l’utenza sia ancora legata alla copia fisica o se cominci già a strizzare l’occhio al digitale. Gli approcci sono diversi, ma c’è un dato impossibile da ignorare: le console fisiche esistono ancora e l’avvento di PlayStation 5 e Microsoft Scarlett pare procedere costante.
Google, dunque, è stata fin troppo ambiziosa o Sony e Microsoft sono state troppo conservatrici? Analizziamo in dettaglio la situazione.

Forzare il cambiamento

Da quando il servizio Stadia è stato presentato, la domanda è stata una soltanto: riuscirà Google a gestire centinaia di migliaia di videogiocatori contemporanei sui diversi dispositivi? È una domanda importante, fare il passo più lungo della gamba è un rischio che il colosso di Mountain View non può certo permettersi.
Dal canto suo, la presentazione ha avuto successo, lasciando sbalorditi gli addetti ai lavori e meravigliando i videogiocatori che, improvvisamente, hanno visto cadere le catene che li vincolavano a un singolo hardware. L’importante è giocare, poco importa su quale supporto. Del servizio streaming ancora mancano alcuni dettagli, come la modalità di pagamento o se serva o meno il possesso di un gioco, ma di certo le luci della ribalta al prossimo E3 saranno sicuramente puntate verso questo nuovo inizio. LE caratteristiche tecniche ve le abbiamo già raccontate, sono sicuramente molto allettanti e capaci di portare il gaming su nuovi livelli, non solo per chi gioca ma soprattutto per chi sviluppa e produce, cambiando per sempre la faccia del mercato: l’aver disponibile tutto, subito e ovunque eliminerà all’istante aggiornamenti e add-on scaricabili e patch, il rilascio di demo e beta, nonché la distribuzione in generale con i publisher che dovranno cambiare strategia comunicativa, forse più diretta e personalizzata.
Il futuro sembra proprio roseo, un futuro arrivato molto presto e capace di prendere tutti alla sprovvista. Tra questi Sony, Microsoft e Nintendo, con lo sviluppo di nuove console in dirittura d’arrivo, in qualche modo già obsolete.
In questo periodo però, si sta sondando il terreno, con strategie diametralmente opposte: PlayStation Now è realtà e sembra funzionare abbastanza bene anche nel nostro paese, anche se ancora non vanta una libreria da capogiro. Il servizio Sony ha permesso a molti utenti PC di saggiare finalmente alcuni dei suoi titoli più importati (Bloodborne su tutti), completamente in streaming, un evento totalmente inedito e fino a poco tempo di fa inimmaginabile. PlayStation 5 è una console fisica, di cui sappiamo già le caratteristiche tecniche, che porta il gaming verso una reale next-gen; a questo punto però, next-gen non è riferito solo alla componente tecnica. Purtroppo Mark Cerny non si è sbottonato su streaming e servizi tangenti, ma le peculiarità della nuova console lasciano ben sperare, pur mantenendo un supporto ottico vista anche la retrocompatibilità con PlayStation 4.
E Microsoft? Proprio in questi giorni, la presentazione della nuova Xbox One S All-Digital, console interamente dedicata al digital delivery. Questa mossa, visto anche il prezzo di 229,99€, ha lasciato interdetti i più, visto che la stessa console con supporto fisico ha lo stesso prezzo se non addirittura minore. La via della casa di Redmond è dunque diversa, ibrida, presentando ancora la “classica scatola”, quasi per non disorientare l’utenza; una scelta senza dubbio interessante, e tutto questo lascia presupporre come anche Microsoft stia sondando il terreno, in preparazione della sua nuova console.

Il futuro degli altri

Alle 22:00 del 9 Giugno, Microsoft sarà chiamata a rispondere sul campo alla proposta allettante di Google e alle caratteristiche estreme di Sony. È chiaro come la divisione gaming del colosso di Bill Gates abbia imparato dai propri errori, puntando su una maggiore attenzione alla comunicazione e sui feedback della community. Proprio per questo la nuova Scarlett (nome ancora in codice delle nuova console) è un passo cruciale per il futuro del mercato, facendo saggiare probabilmente le caratteristiche del Project xCloud, definito come il “Netflix dei videogame”. Della nuova console si sa poco o nulla: è ovvio che sarà estremamente performante ma non è quello che interessa. Quello che conta adesso è la visione del futuro e l’approccio che Microsoft (come Sony del resto) avrà in questi mesi. Da giugno in poi, infatti, contando che Stadia uscirà a fine anno, potremmo avere un nuovo catalogo di scelta che non si baserà più sulle caratteristiche tecniche o sui titoli esclusivi ma sul tipo e sulla convenienza del servizio offerto. Questo apre un ventaglio immenso di possibilità, fatta di eventuali abbonamenti e fruibilità su diversi dispositivi. A questo proposito Apple non è rimasta a guardare: Apple Arcade non è ancora stato accostato allo streaming, certo, ma la presenza di un abbonamento per poter usufruire di titoli esclusivi è quasi certo. Questo aprirebbe il mercato a una concorrenza spietata e, nonostante l’approccio sembra essere ben diverso rispetto a Google, la casa di Cupertino sembra voler entrare a gamba tesa, sfruttando nomi altisonanti come Devolver Digital, Sega e Konami, facendosi via via strada nell’intricato mondo del gaming.
Nintendo rimane perora in disparte: se è vero che in Giappone è possibile giocare a Resident Evil VII e Assassin’s Creed: Odyssey in streaming su Switch, non si hanno ulteriori notizie sulle prossime mosse del colosso di Kyoto. Il suo approccio è cambiato radicalmente dopo la mala sorte toccata a Game Cube, cercando via traverse (per lo più di successo) per conquistare il pubblico. Ma adesso il mercato sta cambiando nuovamente e i giocatori, come si evince, sembrano attirati dal nuovo Eden offerto dalle nuove tecnologie.
L’avvento di Google Stadia dunque, sembra aver messo tutti sull’attenti, e fare un passo falso adesso decreterebbe un avvio difficoltoso e un gap difficilmente colmabile negli anni a venire. Microsoft, Sony, Apple e Nintendo, sono pronte a darsi battaglia portando la loro visione del futuro in un mercato che aveva disperatamente bisogno di una reale novità. La novità è arrivata, e non vediamo l’ora di entrare in un mondo che fino a pochi mesi fa sembrava fantascienza.




Guacamelee 2

Al tempo della sua uscita, Guacamelee è stato acclamato come uno dei migliori metroidvania degli ultimi decenni. Le più grandi innovazione proposte da questo titolo, uscito ormai 6 anni fa, risiedevano senza dubbio nel sistema di combo e di prese, nel continuo passaggio fra due mondi e nella possibilità di giocare l’avventura in co-op locale fino a quattro giocatori, tutte caratteristiche mai implementate insieme in un genere definito come l’action-platformer e che finirono per dare un’insolita sfumatura arcade a un gameplay tipicamente casalingo. Guacamelee rimase ragionavolmente impresso nella memoria di milioni di giocatori nel mondo grazie al suo esilarante humor intriso di riferimenti ad altri videogiochi classici, meme e allo splendido art-style che rende la già particolarissima cultura messicana, nonché il vero e proprio culto dedicato alla lucha libre e ai luchador, ancora più frizzante e colorata – insomma, diciamo che dopo averlo completato viene voglia di visitare il Messico! Oggi Guacamelee 2, disponibile per PC, PlayStation 4, Xbox One e Nintendo Switch (la versione che prenderemo in considerazione), ci fa rivivere le stesse sensazioni e la stessa gioia che il primo titolo portò quasi cinque anni fa e si pone come un incredibile sequel di uno dei metroidvania più avvincenti degli ultimi anni. Vediamo insieme cosa Juan, Tostada e compagni hanno in serbo per noi in questo nuovo titolo DrinkBox Studios.

Nelle puntate precedenti

Esattamente come in Castlevania: Symphony of the Night, la primissima schermata di gioco è una rievocazione dell’ultima battaglia avvenuta in Guacamelee, con tanto di «what is a luchador? A miserable little pile of secrets», giusto per rendere il rimando al fantastico metroidvania Konami ancora più chiaro. Juan sconfigge il temibile Calaca, libera Lupita, la figlia del sindaco, e la maschera del coraggioso lucador si sgretola permettendo così ai due di vivere una vita tranquilla nei tranquillissimi campi di agave accanto alla tranquilla cittadina di Pueblucho… forse fin troppo tranquilla! Juan subisce i terribili effetti della vita da sposato, non è più in forma e possente come un luchador ma vive una vita felice insieme la sua bella moglie e i suoi adorabili figli. Quella che sembrava essere una normale giornata, in cui Lupita aveva chiesto a Juan di andare al mercato a comprare qualche avocado per fare una buona salsa guacamole, si è rivelata invece l’inizio di un disastro senza precedenti; Uay Chivo, l’iconico sciamano dello scorso titolo in grado di trasformarsi in una capra, spiega a Juan che in un’altra timeline, in cui Juan e Lupita venivano uccisi da Calaca, un luchador corrotto di nome Salvador, responsabile invece della fine di Calaca, si era messo alla ricerca della guacamole sacra per diventare l’essere più potente del mondo, ignaro del fatto che ciò avrebbe distrutto l’intero mexiverso. La guacamole sacra fu creata con meticolosa cura da Tiempochtli, dio del tempo, e siccome tutti la desideravano decise di nascondere la sua magica salsa nel Otromundo, accessibile solamente collezionando le tre reliquie sacre a forma di nachos, solitamente disposti a piramide (dunque triangoli… Tre triangoli… Due alla base e uno in alto… Dove li abbiamo già visti?). Dopo essere finiti in due timeline sbagliate, una sorta di purgatorio e una timeline “Nes-osa”, arriviamo alla timeline più oscura (si chiama proprio così!) dove ci riuniremo con la maschera e Tostada, la luchador che rappresenta lo spirito di quest’ultima, e ciò ci farà trasformare — esattamente come Sailor Moon con lo scettro magico — nel possente luchador di sei anni fa; da qui comincerà l’avventura vera e propria e sarà anche possibile far partecipare un secondo giocatore che prenderà il comando di Tostada (fino a un totale di quattro che potranno usare, all’inizio, Uay Chivos e X’tabay). Ci si renderà subito conto, anche nelle sezioni prologo, di come i comandi siano incredibilmente reattivi e, senza mezzi termini, perfetti per il sistema di combattimento e combo che Guacamelee 2 pone; per questo motivo, per quanto sia possibile giocare questo titolo in due giocatori con un set di Joy Con, raccomandiamo di giocare in multiplayer con un set per giocatore, in quanto la mappatura dei tasti in questa modalità rappresenta la migliore scelta di gioco (al giocatore servono immediatamente alla pressione 7 degli 8 tasti del controller, in modalità Joy Con singolo uno di questi sarà “L”, dunque alla sinistra o alla destra del vostro controller, dipende da quale avete. a disposizione Una vera tortura!). Se volete giocare con questo gioco in multiplayer allora vi converrà giocarci con un amico che come voi possiede Switch, altrimenti dovrete abituarvi a questa astrusa mappatura.

(La frenetica prima parte di Guacamelee 2!)

Well! Agilità fra i non agili qui!

Prenderemo presto dimestichezza coi controlli e presto cominceremo, come tipico di questi generi, a collezionare gradualmente le abilità che permetteranno a Juan di superare ostacoli e rompere barriere per accedere a zone precedentemente inaccessibili. Il fattore backtracking, fondamentale per il genere metroidvania, è tarato alla perfezione e ciò potrà permettere al giocatore di accedere ad aree segrete o semplicemente liberare un passaggio alla volta di creare una scorciatoia. Troveremo spesso, come succedeva nel precedente titolo, delle aree che metteranno alla prova, man mano, tutte le abilità che andremo acquisendo con dei percorsi a ostacoli veramente folli e alla fine verremo ricompensati con un baule contenente soldi, porta cuori, costumi alternativi o “porta abilità”, quest’ultimi necessari per eseguire le mosse speciali eseguibili col tasto “A”: ci toccherà fare montanti in aria (dai, a chi vogliamo prendere in giro? Sono degli Shoryuken!), fare doppi salti, wall-jump, sfruttare delle “catapulte volanti” (dopo vi spiegheremo) e soprattutto cambiare la polarità dell’ambiente, altra meccanica fondamentale di questo gioco. Esattamente come in Guacamelee, Juan ha il potere di spostarsi dal mondo dei vivi al mondo dei morti e viceversa (prima trovando degli appositi portali e poi, trovata la specifica abilità, comodamente premendo il tasto “L” o “ZL”) ed entrambi i mondi presentano spesso delle caratteristiche ambientali diverse (come ad esempio la presenza/assenza di un muro o nemici, nel mondo dei morti un geyser di lava diventa un pilastro nel mondo dei vivi, e così via). Guacamelee 2, così come il suo predecessore, chiede al giocatore di padroneggiare al meglio questa abilità senza la quale non si potranno superare gli ostacoli più astrusi del gioco; spesso e volentieri si finisce bloccati nello stesso punto, soprattutto il quelle aree extra in cui la ricompensa è un baule, ma questo titolo, in fondo, non fa che incarnare lo spirito dei titoli classici degli anni ‘80, ‘90 e un po’ anche 2000 in cui il trial & error era spesso la meccanica che permetteva a un gioco, spesso senza sistema di salvataggio, di essere più longevo possibile. A ogni modo, con la giusta pazienza, superare una di queste aree è solamente una questione di pratica, e ogni giocatore riuscirà, con più o meno tentativi, sempre a ottenere l’ambito premio di queste stanze.
Juan troverà le abilità di cui ha bisogno nelle varie aree del gioco (rigorosamente all’interno delle statue ChoozoVi dice niente?) ma potrà renderle ancora più efficienti grazie all’implementazione del nuovo albero delle abilità in uno dei menù di pausa: qui, con i soldi collezionati, potrete rendere ancora più potenti i vostri colpi singoli, abilità varie di schivate e combo, prese di wrestling, mosse speciali e mosse pollo (sì, per offrire un qualcosa di simile alla morfosfera di Samus, Juan e Tostada potranno trasformarsi in polli!). Parlando di abilità, Guacamelee 2 introduce le nuove catapulte volanti, simili a quelle presenti in Castlevania: Order of Ecclesia: queste sono come dei ganci sospesi in aria dalla quale Juan e Tostada potranno aggrapparsi e catapultarsi verso la direzione opposta premendo “X” (un po’ come fa Spider-Man con le ragnatele). Tuttavia l’implementazione non può considerarsi riuscita al 100%, e i veterani che hanno giocato all’appena citato capitolo di Castlevania se ne renderanno conto facilmente: Shanoa attivava una sorta di aura che le permetteva di gravitare verso “il gancio” per poi stabilire meglio la direzione caricandosi verso la direzione opposta desiderata con la croce direzionale. In Guacamelee 2 invece sarà tutto più immediato: la direzione verrà stabilità dall’angolo del salto con la quale ci lanciamo verso questi ganci e una volta premuto “X” non sarà più possibile correggere l’angolo. Tante volte l’angolo risulterà corretto come quante volte, per via della fretta, sbaglieremo il lancio, costringendoci a riprovare il salto da capo. Fortunatamente in Guacamelee 2 non ci sono vite e i checkpoint sono abbastanza vicini fra loro, perciò nonostante le difficoltà che questi ganci possono dare si può riprovare infinite volte una stessa sezione. Tuttavia, la cosa più importante da padroneggiare in Guacamelee 2 è senza dubbio il sistema di combo; imparare a combattere per ottenere la combo più alta, il che significa assestare tanti colpi e schivare gli attacchi come un ninja. Schivando gli attacchi si conserva la combo e più è alta più saranno i soldi che otterremo alla fine del combattimento; ma come gonfiamo una combo? Da qui si capisce quanto complesso, intricato ma soprattutto divertente sia il sistema di combo in Guacamelee 2: i colpi a nostra disposizione saranno una hit combo semplice con “Y”, le 5 mosse speciali con il tasto “A” e i lanci/prese con “X” (quest’ultime da sbloccare dall’albero delle abilità). Frequentando la scuola di Faccia di fuoco (che scopriremo qui essere il cugino di Grillby, il barista dell’omonima locanda in Undertale!) impareremo man mano degli esempi di combo ma nel campo di battaglia daremo sfogo alla nostra creatività concatenando questi attacchi principali come vorremo; cosa c’è di meglio di partire con un bel uppercut semplice, poi una combo di jab con “Y” in aria, super montante con “A+ su, altra combo di Jab, poi un pugno a siluro, altra combo e per finire un bel piledriver o una frog splash se il nemico è un gigante? Una di quelle situazioni in cui Dan Peterson, iconico cronista della WWF/E negli anni ‘80 e 2000, non potrebbe fare a meno di gridare: «mamma, butta la pasta!». Nuovi campi di battaglia significano nuove possibilità di combo e perciò, sotto questo aspetto, ogni sezione di combattimento necessità di nuove strategie e nuovi metodi per far fuori più nemici velocemente conservando nel processo la combo; Guacamelee 2 in questo offre un sistema di lotta mai stancante e divertente come pochi altri giochi del suo genere.

Lo llamaban Juan

Per coloro che non lo sapessero, il wrestling in Messico, rigorosamente chiamato lucha libre, si discosta totalmente dal suo omologo americano o giapponese (per il quale si trova un ottimo rappresentante videoludico in Fire Pro Wrestling World), sia per lo stile di lotta nei match, sia per l’importanza che questi eventi hanno a livello sociale. I luchador in Messico sono dei veri e propri eroi in carne e ossa, e un’avventura come Guacamelee 2 non fa che rappresentare quello che è l’immaginario collettivo messicano quando si parla di questi eroi fuori dal comune, trasfigurato con stravaganze e leggerezze qui e là. Pensate che tempo addietro, negli anni ‘40, ci fu un wrestler chiamato El Santo che venne venerato esattamente come un dio: di lui, oltre ai suoi spettacolari match nel quadrato, venivano venduti fumetti e film in cui lui interpretava se stesso e agiva esattamente come un eroe, soltanto che lui a differenza dei vari Batman e Spider-Man esisteva veramente! A testimonianza del suo status d’eroe El Santo si toglieva la maschera per pochissime occasioni (nessuna delle quali in pubblico) e, alla sua morte, fu sepolto con la sua preziosissima maschera. L’atmosfera e l’epicità della storia prova, anche spiritosamente, a rievocare le leggendarie imprese di questi personaggi mascherati, un misto fra storia e leggenda che viene tramandato con vivacità. Guacamelee 2 ci presenta un Messico policromo, con una moltitudine di colori inebriante, un luogo frizzante e pieno di vita grazie a un 2D splendido animato ad hoc, esattamente come nel primo capitolo. Ci sono in più giusto un paio di elementi in 3D nei background che reagiscono perfettamente alla luce e donano un filo di profondità in più rispetto al primo episodio. In poche parole, la grafica risulta sempre chiara al giocatore e anche la mappa in game, abbastanza diversa dalla disposizione a blocchi di molti altri metroidvania, risulta sempre chiara e mai astrusa; talvolta permette pure di capire dove sono le aree segrete!
Altro plauso va fatto ovviamente alla colonna sonora: come il primo capitolo, anche Guacamelee 2 non presenta alcuna linea di dialogo doppiata (giusto qualche lamento, sforzi, etc…) ma in compenso abbiamo dei bellissimi brani che ci accompagneranno in questa coloratissima avventura. Torna qualche tema familiare, come quello della città di Pueblucho (in chiave minore), ma ovviamente abbiamo tante belle musiche nuove. Le melodie attingono dalle più iconiche tradizioni musicali folkloristiche messicane, soprattutto quelle dei mariachi fatte di trombe squillanti e chitarre scanzonate che definiscono il ritmo, ma attingono molto da generi moderni come la musica elettronica e, essendo un gioco abbastanza “old school”, anche e soprattutto dalla chiptune. In realtà nulla che sia davvero degno di nota, ma neppure una colonna sonora da scartare.

Uno, due, tre, Vittoria!

Guacamelee 2, così come una bella terra come il Messico, è un gioco in grado di trasmetterti il più puro buon umore e l’allegria grazie alla sua coloratissima grafica, alla sua storia un po’ strampalata e ovviamente alle migliaia di citazioni ad altri giochi, cartoni animati, meme, cultura internettiana, film e quant’altro in giro per le città delle sue lande piene di vita. Il divertimento inoltre non si ferma solo con l’avventura principale: è possibile integrare con il contenuto aggiuntivo acquistabile Terreni di Prova, dove sarà possibile competere in nuove modalità e affrontare nuove sfide. Abbiamo certamente un sequel all’altezza delle aspettative, anche se, dispiace dirlo, un po’ inferiore al primo titolo; elementi come le nuove catapulte volanti non sono il massimo, come del resto alcune sfide poste nelle stanze extra, le quali, laddove si deve prendere un baule, risultano spesso un continuo trial and error dettato in parte dal caso. Si perde molto tempo nelle sezioni extra e meno nelle sezioni principali e ciò, per quanto possa incentivare la longevità, talvolta risulta un prolungamento affatto necessario.
Tuttavia, il gameplay di base, non è per nulla cambiato e Guacamelee 2, così come il suo predecessore, è un validissimo titolo in grado di regalare ore e ore di divertimento da soli o in compagnia (diremmo anche doppio, visto che, una volta completato verrà sbloccata la modalità difficile). Non ci si può aspettare di meglio da un titolo indie di prima categoria e il suo prezzo di lancio di 19,99€ è più che giustificato.

Botte, nachos e azione caliente… una volta terminato non potrete fare a meno di gridare: «Ay, caramba!». Non potevamo aspettarci di meglio da DrinkBox Studios.




Tropico 6

La brezza marina, il tepore del sole, quel dolce sentore di dittatura sudamericana: questo è molto altro è Tropico, famosa serie di gestionali/city builder di Kalypso Games che da ben diciotto anni allieta le giornate di ogni sano dittatore dello stato libero di Bananas che alberga dentro ognuno di noi. La sesta fatica della saga, Tropico 6, vede un cambio della guardia, con Haemimont Games che lascia spazio ai tedeschi di Limbic Entertainment, autori degli ultimi episodi di un’altra serie storica, Heroes of Might & Magic.
Ma bando alle ciance: prendiamo subito il nostro biglietto della nave e imbarchiamoci verso Tropico!

Sandinista!

Tropico 6 si propone a noi forte di un’idea innovativa per la serie: si pone infatti fine all’unico isolotto e ci si lasciano alle spalle i problemi di spazio derivanti da una simile scelta e si dà il via alla multigestione di un arcipelago con flora e fauna diversi tra di essi, forse la più grande novità del titolo. Già dal tutorial il nostro fido consigliere Penultimo ci spiegherà l’importanza delle varie isolette e della loro diversificazione: potremo avere un’isola apposta da dedicare all’industria, come per esempio, un isolotto vulcanico ricco di minerali, oppure un vero e proprio paradiso tropicale, meta perfetta per il turista straniero e spendaccione, oltre, ovviamente, alla nostra isola principale, che funge da nucleo per i tropicani.
Il gioco ci offre tre modalità diverse e uguali allo stesso tempo: se il multiplayer si descrive da solo, mi soffermo brevemente sulle varie missioni, che tentano di offrire un piccolo spunto narrativo riguardo la storia di El Presidente, ma che, alla fine, rappresentano un mero diversivo rispetto alla modalità sandbox, da sempre vero centro nevralgico della serie.

Sul piano grafico, il potere dell’Unreal Engine 4 si mostra in tutta la sua bellezza, gli scorci di Tropico 6 sono i più belli che i nostri occhi da dittato…ehm, presidente abbiano visto. Peccato che la cura nei paesaggi del nostro arcipelago non venga riposta anche negli abitanti degli isolotti, davvero scialbi e privi di qualsiasi personalità se non quelle che leggiamo nelle loro schede.
Sul lato del gameplay non si registrano molte novità, Limbic è voluta andare sul sicuro, creando un greatest hits delle feature viste nei precedenti capitoli della saga: è tornata la meccanica dei discorsi al popolo, direttamente da Tropico 3, così come i raid dei pirati presi da Tropico 2, e vengono confermate le quest da completare, meccanica introdotta dal precedente capitolo e su cui si basa la gran parte delle nostre partite durante il lungo mandato che ci accompagna dall’era coloniale fino ai giorni nostri, passando per la seconda guerra mondiale e la guerra fredda. Dovremo stare attenti a ogni fazione presente sull’isola e non, come il portavoce della corona inglese durante gli inizi del nostro regime, passando per comunisti, religiosi, capitalisti, ambientalisti e chi più ne ha più ne metta. Sarà importante creare una buona economia basata sull’esportazione di beni più o meno raffinati, ottenuta sfruttando le rotte commerciali. Il tutto cercando di restare al potere con mezzi più o meno leciti, con un’enfasi su quest’ultimi, da bravi dittatori quali siamo.
A chiudere il tutto, fa capolino la sempre ottima colonna sonora, come da tradizione della serie: un tripudio di son cubano, salsa e bachata che ben si sposa con l’atmosfera isolana.

El pueblo unido jamás será vencido

Per quanto Tropico 6 cerchi di “dividere e conquistare” puntando al futuro, ma con un piede ben saldo al passato, c’è da dire che è abbastanza deludente la parte legislativa: davvero semplicistica, con pochi editti e una costituzione che ci offre poche possibilità di variare il nostro gameplay, un po’ deficitaria se si pensa alla mole di leggi ed editti che potevamo attivare in passato. Soddisfacente invece è la parte puramente dedicata al city building, essendo questo capitolo di Tropico quello con più edifici della serie. Chiaramente non si potrà ottenere la complessità di un City: Skylines, ma resta comunque un’esperienza funzionale al titolo.

A conti fatti, il ritorno di El Presidente convince, ma con delle riserve: ottima l’idea degli arcipelaghi, così la conferma di alcune delle feature del predecessore e il ritorno dei discorsi. Peccato solamente per la semplificazione della parte legislativa, dicevamo, e del micromanagement in generale, segno di un abbassamento della difficoltà che può far storcere il naso ai fan di lunga data e agli appassionati del genere.
Ad ogni modo, Tropico 6 resta un titolo che spicca grazie al suo carisma e all’atmosfera, davvero unica nel panorama videoludico.

 




Hi, my name is… Hideki Kamiya

Dopo una breve pausa, riprende la nostra consueta rubrica sulle più importanti personalità del mondo del Game Design. In occasione dell’uscita del quinto capitolo della saga action più apprezzata degli ultimi anni, Devil May Cry 5, ci occupiamo della mente che ha dato i natali alle avventure di Dante: Hideki Kamiya. Classe 1970, Kamiya ha avuto l’arduo onere di provocare un violento scossone all’interno del genere d’azione in terza persona, da anni ormai stagnante nelle sue vecchie meccaniche logore e non al passo con i tempi. Facciamo però qualche passo indietro.
Kamiya inizia la sua gavetta in casa SEGA e successivamente passa alla Namco ma, nonostante una buona partenza nel settore, il nostro Hideki non si sente pienamente realizzato, costretto dalle case produttrici a lavorare come semplice artista senza alcuno spazio nelle scelte di game design. Decide così di migrare verso altri lidi di sviluppo, riuscendo a ricoprire il ruolo di designer in Capcom nel 1994. Il suo primo incarico con la casa di Osaka comporta una notevole dose di responsabilità sulle spalle di Kamiya, il quale si ritrova a dover portare avanti una saga che si preannunciava iconica già fin dal primo titolo: il designer viene affiancato al maestro Shinji Mikami nella lavorazione di Resident Evil 2, sequel dell’apprezzatissimo capostipite, ricoprendo il delicato ruolo di director.
Il nuovo capitolo della saga horror di Capcom doveva rivoluzionare le meccaniche alla base del precedente capitolo ed espandere l’universo di gioco, pur rimanendo fedele a se stesso. Mikami in prima persona era stato messo al comando dello sviluppo ma i vertici di Osaka non rimasero soddisfatti del lavoro compiuto, motivo per cui il team venne affidato al giovane Kamiya alla sua prima esperienza come direttore. Il prototipo di Mikami, lo storico Resident Evil 1.5, viene messo da parte dal nuovo team di sviluppo e il progetto prende una piega completamente diversa. Viene rivisto il gameplay, rendendolo più dinamico rispetto al primo episodio, viene stravolto l’impianto scenografico conferendogli un respiro hollywoodiano e ampliato enormemente il numero di nemici su schermo superando il limite di 7 zombie per schermata, aspetto che mette a dura prova le capacità tecniche della prima PlayStation. Vengono introdotti nuovi personaggi per dare continuità ai fatti raccontati nel primo capitolo, grazie all’apporto in sceneggiatura di Noboru Sugimura e per la prima volta fanno la comparsa i temibili Licker , divenuti presto le icone di Resident Evil 2.
Il gioco è apprezzato dai capoccia di Capcom e anche in termini di vendite e critica viene accolto positivamente, stabilendo numeri che permisero al lavoro di Kamiya di entrare a far parte della lista dei best seller Playstation. Uscito nel 1998, Resident Evil 2 è stato il primo grande passo per il designer che ha saputo dimostrare all’intero mercato il suo valore e la grande capacità di unire novità e tradizione, incontrando anche i favori di un pubblico che si faceva sempre più esigente e diversificato.

La carriera del giovane Kamiya è soltanto agli albori e l’esperienza al fianco di Mikami non è del tutto archiviata. Agli inizi degli anni 2000 gli viene affidato il compito di lavorare al quarto capitolo della saga di RE con l’obiettivo primario di dare una svolta totale alle meccaniche di gioco; ripartire da zero nel tentativo di allargare sempre di più l’utenza senza rinunciare all’altissimo livello qualitativo richiesto dal publisher. Un compito per niente facile a cui il nostro Hideki non si sottrae.
Aiutato un’altra volta da Sugimura alla scrittura, il progetto prende una piega totalmente diversa rispetto alle idee iniziali. Lo scenario di gioco viene stravolto a favore di una ambientazione più gotica e medioevale; le meccaniche da survival horror abbandonate per fare spazio a un approccio più votato all’azione e al dinamismo, gli sfondi prerenderizzati che caratterizzavano i capitoli precedenti vengono del tutto sostituiti da ambientazioni completamente in 3D, e di conseguenza anche la telecamera fissa lascia il posto a una camera più attiva e veloce. Del classico Resident Evil insomma rimane veramente poco ed è Mikami a suggerire di dare la luce a una nuova IP, sfruttando le grandi potenzialità del nuovo progetto e mettendo la sua creatura al sicuro da possibili contaminazioni che avrebbero portato la serie verso altri lidi.

Il team capitanato da Kamiya viene soprannominato Team Little Devils ed è proprio da qui che il director prende spunto per battezzare il suo ultimo lavoro: Devil May Cry. Uscito esclusivamente su PS2, il gioco diventa subito una devastante killer application per la casalinga di Sony e con il tempo raggiunge lo status di vero e proprio cult riuscendo a stupire per l’incredibile audacia di Kamiya nel saper unire alla perfezione meccaniche hack’n’slash con l’azione in terza persona. Adrenalinico, divertente e con un forte carisma, la prima avventura di Dante ha dato il via a una saga che oggi conta 5 episodi e un reboot distribuiti su tre generazioni di console. Tra alti e bassi, Devil May Cry è diventato velocemente un titolo di punta per la casa di Osaka, anche se il suo padre ideatore ne ha curato solamente il primo episodio per poi focalizzarsi su altri progetti.

Dopo il grande successo ottenuto con DMC, Capcom ripone piena fiducia nelle capacità del giovane designer tanto da concedergli carta bianca per i futuri progetti, ma non abbastanza da affidargli esosi budget. Così Kamiya mette in cantiere un prodotto atipico, unendo la sua passione per i vecchi giochi a scorrimento orizzontale con quella per i supereroi. Nasce un gioco talmente bizzarro da riuscire a trovare soltanto una piccola fetta di pubblico entusiasta, ma viene totalmente ignorato dalle grandi masse. Previsto inizialmente come esclusiva per Nintendo Game Cube e un anno dopo approdato anche sui lidi PlayStation, nel 2003 la Capcom distribuisce Viewtiful Joe. Seguendo le vicende di Joe e della sua compagna Go-Go Silvia, Kamiya imbastisce un beat’em up a scorrimento orizzontale che fa della sua cifra stilistica il maggior punto di forza. Tra citazionismi da otaku e scelte di gameplay atipiche, basate su una sorta di slowmotion controllato dal giocatore, il gioco racchiude in sé un potenziale che verrà fuori pienamente soltanto con il secondo capitolo. Purtroppo la saga non avrà lunga vita e dopo due capitoli principali, uno spin off sulla falsa riga del picchiaduro Super Smash Bros. e qualche exploit su portatile, Viewtiful Joe e soci sono stati presto dimenticati dal pubblico e da Capcom stessa, che riserverà al supereroe in calzamaglia rossa soltanto sporadiche apparizioni in altri titoli, come a dire “sì, ci piaci ma non così tanto da concederti un’ulteriore possibilità”.

Intanto, nei corridoi di Capcom, alcuni sviluppatori cominciano a sentire una certa insofferenza verso la casa produttrice, riguardo le sue scelte aziendali. Molti dei progetti in cantiere in quel periodo sono indirizzati con l’obiettivo di rischiare il meno possibile in termini di risorse ed investimenti. La dirigenza preferisce spendere budget in sequel di saghe che hanno dimostrato un ricavo sicuro e le creazione di nuovi brand non viene neanche preso in considerazione. Autori come lo stesso Mikami, Keiji Inafune, Atsushi Inaba e Masafumi Takada cercano di svincolarsi dal controllo dei vertici attraverso la creazione di team di sviluppo interni che rivendicano la loro indipendenza concettuale. Nasce così il leggendario Clover Studio, una piccola bottega delle meraviglie dove presero vita, oltre a Viewtiful Joe lo sfortunato God Hand e un secondo gioco di Kamiya: Okami.
È il 2006 quando il gioco viene pubblicato e fino ad oggi risulta essere il titolo tecnicamente più ispirato di tutta la produzione del designer giapponese. Okami è un vero e proprio tributo d’amore alle saghe preferite di Hideki, prima fra tutti un immancabile The Legend of Zelda, se non altro per le meccaniche di gameplay che strizzano continuamente l’occhio al capolavoro Nintendo; Kamiya non si limita a una vuota riproposizione degli stilemi classici della serie, ma aggiunge tasselli nuovi e originali, come la capacità del giocatore di pennellare letteralmente gli oggetti su schermo e di attaccare i nemici tramite questo magico strumento. E se un solidissimo adventure non dovesse bastare, i ragazzi Clover regalano ai giocatori uno spettacolo per gli occhi prendendo a piene mani dall’arte tradizionale del Sumi-e, ovvero la pittura a inchiostro e acqua. Uscito come esclusiva PS2, Okami non ha mai realmente brillato sul piano delle vendite, ma è stato così apprezzato nel lungo periodo che sono stati numerosi i porting operati da Capcom nel corso degli anni, portandolo su Wii e su tutte le console di attuale generazione attraverso i corrispettivi store digitali, dando la possibilità agli utenti di poter giocare a questa piccola gemma senza tempo.

Dopo la parentesi Okami, Clover Studio viene chiuso definitivamente da Capcom e gran parte del team si riunisce sotto un nuovo nome: lo stesso anno infatti viene fondata PlatinumGames, oggi famosa nell’intero globo per aver dato i natali ai migliori action degli utlimi anni. Grazie alla nuova indipendenza conquistata, i membri di Platinum iniziano a sviluppare giochi multi piattaforma sotto diversi publisher, mantenendo un buon margine di libertà creativa. Nel 2009 è sega la casa a finanziare i primi giochi del nuovo team a partire dal divertente Mad World uscito in esclusiva su Wii, passando per lo strabiliante Vanquish su PS3 e X-box 360.
Ed è sotto la nuova software house che Kamiya concepisce, a giudizio di chi scrive, il suo capolavoro: pubblicato per le console casalinghe di Sony e Microsoft, Bayonetta sarà la summa totale di ciò che il designer ha sempre cercato di raggiungere, l’action game definitivo. Il gioco è l’esatta evoluzione di quanto fatto con Dante su PS2: con un colpo di spugna Kamiya setta un nuovo standard per tutta la concorrenza e crea un manuale perfetto per le software house che da quel momento in poi vogliano cimentarsi nello sviluppo di un gioco d’azione. Con un palese riferimento allo storico Team dei “piccoli diavoli”, il designer chiama a raccolta i suoi migliori sviluppatori e crea il Team Little Angels lanciando più di una frecciatina alla sua ex compagnia, la Capcom. Kamiya alleggerisce i toni rispetto al più serioso e oscuro Devil May Cry: i personaggi si prendono meno sul serio e la storia, nonostante raggiunga momenti drammatici, non risulta mai pesante. Il gamepla è d’altro canto quanto di meglio si possa desiderare da un gioco di questo genere, la componente di attacco è incredibilmente bilanciata con la pericolosità e velocità dei nemici. Inoltre per poter uccidere un determinato tipo di avversari sarà necessario sbloccare il climax, ovvero una sorta di dimensione parallela dove Bayonetta può indistintamente colpire senza dare la possibilità al nemico di difendersi. Stilisticamente il gioco si discosta dalle avventure di Dante, preferendo un’ambientazione gotica che convive con strutture Liberty in grado di dare eleganza e un giusto tocco di femminilità e grazia. Tutto il gioco è un continuo ammiccare verso il giocatore e più di una volta vi ritroverete a parlare direttamente con la protagonista come se fosse cosciente della vostra presenza al di là dello schermo del televisore, una rottura della quarta parete inserita con intelligenza e grazia. Al momento della sua uscita il gioco riscosse un discreto successo di pubblico, purtroppo limitato dalla sventurata versione PS3 convertita in fretta e furia e senza le adeguate attenzioni. Il risultato fu talmente disastroso da inficiare il gameplay, con FPS ballerini e una resa grafica mediocre. Nel corso del tempo, e grazie alla mano vigile di Nintendo sul brand, il capolavoro di Kamiya ha ritrovato una seconda giovinezza passando da multi piattaforma a esclusiva totale per le console della casa di Tokyo, fatto che ha portato Bayonetta 2 (diretto da Hirono Sato) a essere una killer application per WiiU nel 2014 e che vedrà un terzo capitolo in esclusiva per la ibrida Nintendo nei prossimi anni.

L’ultimo gioco diretto da Kamiya risale però al 2013 ancora una volta su WiiU e rappresenta l’esperimento più bizzarro dell’ex Capcom: The Wonderful 101, un particolare incrocio tra un RTS e un gioco d’azione, basato sui riflessi e la coordinazione del giocatore. Il gioco chiama in causa un gruppo di supereroi determinati a salvare la terra dall’attacco di terroristi alieni nominati Geathjerk. Assurdo e improbabile, il gioco è un concentrato di idee geniali che sfruttano pienamente il paddone del WiiU. Graficamente piacevole e dal ritmo sfrenato, purtroppo non è stato considerato dal pubblico relegandolo nel girone dei giochi dimenticati troppo velocemente. È notizia recente però la volontà del designer giapponese di riportare la sua creatura all’attenzione del mercato attraverso un porting su Switch, occasione perfetta per incontrare il favore del pubblico su una piattaforma molto più popolare della precedente.

Il lavoro e la grande passione di Hideki Kamiya hanno portato una importantissima rivoluzione all’interno del genere action , creando due brand che hanno spinto i limiti fino ad allora raggiunti e che ancora oggi sono considerati dei veri e proprio cult nel settore. Nonostante la sua versatilità, il designer non sempre è riuscito a catturare l’attenzione del mercato mondiale pur continuando a regalare ai suoi sostenitori prodotti di una qualità estremamente elevata. In attesa di farci stupire ancora una volta dal padre di Dante non possiamo fare altro che augurare un futuro radioso all’intero team, abbracciando pienamente la loro filosofia di sviluppo che ha saputo donarci più di una soddisfazione da videogiocatore.




Top 5: Marzo 2019

L‘inverno è giunto alla sua conclusione, lasciando il palcoscenico alla primavera e al rifiorire della natura. È anche il tempo di nuove uscite videoludiche, tra gemme inaspettate e titoli che non hanno deluso. Vediamo quali.

#5 Tropico 6

Sesta iterazione per il popolare gestionale di Kalypso Media a tema social-politico: vestiremo ancora una volta i panni di El Presidente in quello che, forse, è il compito più arduo di tutta la serie. Non gestiremo più una sola isola, bensì un arcipelago! È questa la novità più eclatante di questo Tropico 6, che aggiunge delle variazioni ben riuscite nel classico gameplay della saga. Avremo quindi più isolotti da gestire, come se fossero delle macro aree ognuna diverse dall’altra, senza dimenticare l’occhio alle varie fazioni politiche di Tropico, fattore fondamentale per una lunga presidenza, o nel peggiore dei casi, dittatura.
Dopo il mezzo passo falso del precedente capitolo, Tropico 6 torna in carreggiata, offrendoci uno dei migliori capitoli della serie da lungo tempo, capace di offrire ore e ore di puro divertimento caraibico.

#4 Baba is You

Baba is You, puzzle ideato dal finlandese Arvi “Hempuli” Teikari, ha un’idea semplice quanto complessa allo stesso tempo: per completare i livelli bisognerà “comporre” delle frasi di senso compiuto, usando degli aggettivi trovati in giro per i livelli. Per esempio, se un fiume di lava ci blocca il passaggio, basta mettere in sequenza le parole “lava is melt” per veder sparire l’ostacolo. È un titolo originale che, come l’idea del suo creatore, può sembrare semplice ma in realtà nasconde un cuore arduo e complesso, come ogni buon puzzle game che si rispetti. Uscito su PC e su Nintendo Switch, Baba is You è una gemma nascosta nel mare delle pubblicazioni indie, che consigliamo ai fan del genere e a chi vuole giocare un titolo che fa della semplicità e dell’originalità il suo punto di forza.

#3 Tom Clancy’s The Division 2

Abbandonata la notte perenne e innevata di New York per l’assolata e verde Washington D.C., The Division 2 ci riporta a lottare contro il virus scatenatisi nel primo episodio, portandoci nella capitale degli Stati Uniti contesa tra quattro diverse bande in guerra per la supremazia territoriale. Il titolo Ubisoft mantiene le promesse fatte durante lo sviluppo e dona ai giocatori un buon ibrido tra gioco di ruolo e shooter con coperture, migliorando i difetti del precedente capitolo. Unica pecca forse un endgame ancora non all’altezza dell’offerta, ma The Division 2 è comunque il miglior loot shooter del mercato, riuscendo dove altri titoli ancora non riescono a incidere.

#2 Devil May Cry 5

La rinascita di Capcom passa anche da qui: dopo Monster Hunter: World e Resident Evil 7, tocca a Dante e colleghi portare in alto il vessillo della software house giapponese. Devil May Cry 5 torna sui nostri schermi più bello che mai, grazie all’uso del RE Engine, e soprattutto più spettacolare che mai. Se Dante e Nero possono eseguire combo in stile picchiaduro, quest’ultimo usando anche la particolare protesi robotiche denominata Devil Breaker, particolare è il gameplay del nuovo V, un evocatore capace di chiamare in battaglia tre demoni da usare per combattere dalla distanza.
Il Re degli hack n’ slash è tornato e Devil May Cry 5 non delude le aspettative dei fan, donandoci un titolo sia bello da vedere che divertente pad alla mano.

#1 Sekiro: Shadows Die Twice

Un giovane shinobi del periodo Sengoku, alle prese con un arduo compito: vendicarsi della perdita del proprio braccio, sostituito da una particolare protesi, e salvare il proprio signore . È questo il prologo di Sekiro: Shadows Die Twice, ultima fatica di From Software e del suo mastermind Hidetaka Miyazaki. Nonostante la parentela con la serie dei Souls e del genere a essa legato, Sekiro si dimostra diverso rispetto ai titoli del recente passato, il gioco è più votato all’azione e al combattimento tra spadaccini, ed è possibile eseguire anche delle uccisioni stealth che richiamano un titolo sempre legato agli sviluppatori giapponesi: Tenchu.
Il level design è una delle peculiarità del titolo, con scenari mozzafiato come da tradizione, che ben si sposano con il setting del Giappone feudale. Sekiro centra il colpo alla perfezione e consacra il lavoro del suo creatore ai massimi livelli, donandoci non solo il miglior gioco del mese, ma anche uno dei migliori titoli del 2019.




Sekiro: Shadows Die Twice – La Strana Cultura del Masochismo

Sono passati ormai poco più di dieci anni da quando Hidetaka Miyazaki ha definito un nuovo genere con Demons’ Souls, esclusiva PlayStation 3 che ha riscritto il concetto di sfida per i videogiocatori, con il protagonista (il giocatore stesso), immerso in un mondo a lui quasi sconosciuto, scoprendo il proprio destino tra mille difficoltà e ostacoli quasi insormontabili. Questo setting diede modo all’autore di portare avanti il proprio progetto con la trilogia di Dark Souls prima e Bloodborne poi.
Sekiro: Shadows Die Twice è però tutt’altro: l’iniziale strana partnership con Activision ha creato un prodotto sicuramente più accessibile ma anche dannatamente malvagio, in grado di far selezione già a partire dalle prime ore di gioco. Ma una volta superati tutti gli ostacoli, Sekiro è senza dubbio una delle migliori produzioni del 2019.

Dark Souls… in Giappone

Il Giappone dell’epoca Sengoku non è nuovo per le trasposizioni videoludiche (vedi Nioh), ma quando c’è lo zampino di From Software, tutto prende un’altra piega. Ogni elemento risulta nuovo, grazie alla solita spruzzata di dark fantasy che in questo caso rende la terra natia dell’autore un luogo magico e terrificante al tempo stesso. Anche all’interno di Sekiro: Shadows Die Twice ritroviamo gli elementi classici della poetica di Miyazaki: tra sangue, draghi, predestinazione ci si sente a casa anche se, la narrativa è decisamente più diretta. In questa produzione infatti, prendiamo le vesti di un personaggio con un proprio background narrativo e una sua caratterizzazione, uno shinobi caduto in disgrazia e che si troverà invischiato in situazioni ben più grandi di lui. Tutto viene raccontato attraverso cutscene, attraverso classici dialoghi con NPC (dotati di elementari animazioni labiali), level design e ovviamente attraverso le descrizioni degli oggetti, meno criptiche rispetto ai souls e in grado di arricchire una storia che si presenta ben più complessa di quanto sembri. Il mondo mostrato da From Software è dunque pieno di sfaccettature, ricco di NPC e di scelte più o meno velate che porteranno (dopo circa una quarantina di ore) a uno dei quattro finali disponibili.
Miyazaki dunque riesce a portare avanti il proprio pensiero riuscendo a portare anche in questo frangente un puzzle di storie, sentimenti e pericoli… più di quanto pensiate.

Weregame

Iniziamo col dire che proviamo pietà per tutti coloro che si approcciano a un titolo From Software per la prima volta, partendo proprio da questo. Al contrario delle precedenti opere infatti, in cui sin da subito venivano messe le cose in chiaro, qui le cose sono un po’ diverse. Si è discusso tanto della partership con Activision e per chi ha dimestichezza con le idee di Miyazaki, si riesce a capire benissimo chi abbia influenzato cosa. Ad esempio, sin dai primi momenti, tutto viene spiegato in maniera molto chiara, fornendo indicazioni utili sulla trama e sugli scopi da perseguire. Vi è persino una sezione allenamento dedicata, sfruttando un malcapitato non-morto che per sua volontà, verrà violentato dai colpi della Sabimaru, la Katana del nostro Sekiro. L’impressione è che l’ultima produzione “From” sia in qualche modo rivolta a un pubblico ben più vasto del solito, cercando di venir incontro anche ai “casual gamer” che non vogliono star ore a rimuginare su una singola frase presente in una descrizione di un oggetto. E così, invogliati a proseguire, quasi accompagnati per mano, ci accingiamo a entrare nel magico Giappone dell’Era Sengoku sino a quando, quella stessa mano, ce la si ritrova in faccia con maestosa e violenta potenza.
Tagliamo subito la testa al “Toro Infuocato”: Sekiro: Shadows Die Twice non è un gioco per tutti. Anche chi si è dilettato con i vari souls o Bloodborne si troverà di fronte a una cattiveria e malvagità senza precedenti, in cui ogni singolo errore può essere fatale.
Sekiro è qualcosa di completamente diverso, a cominciare dallo stile di combattimento, votato più all’azione offensiva che all’attesa, sfruttando le tante novità offerte dal titolo From Software. Niente stamina prima di tutto e questa è una mancanza a cui bisogna abituarsi in fretta: il poter attaccare, schivare o correre senza sosta è qualcosa di nuovo in questi frangenti e, se all’inizio questa libertà può dare alla testa, ci si accorge immediatamente di come un approccio sbagliato porti a un solo e singolo esito: morte. Ogni errore costa caro e riconoscere al più presto le movenze del nemico è assolutamente fondamentale. Il combattimento è dunque una danza, fatta passi leggeri, salti leggiadri e deviazioni effettuate al millisecondo. È questo il segreto di Sekiro, in cui è possibile anche parare i colpi avversari, ma a vostro rischio e pericolo: anche se invisibile, nelle serie precedenti, vi era una sorta di contatore di “equilibrio” che una volta sceso a zero, dopo aver ricevuto numerosi colpi, si entrava in una fase di stordimento che rendeva inevitabile qualsiasi colpo critico. Questo concetto, qui, viene estremizzato, portando addirittura a vista suddetta barra, denominata della Postura. Ogni colpo la danneggia e più si è feriti più lentamente si ricaricherà. Per evitare di rimanere brutalmente uccisi o facilitare l’eliminazione del nemico, sarà necessario imparare la deviazione (una sorta di parry), che infligge danni alla postura altrui riducendone i nostri. Bisogna tenere alta la soglia d’attenzione di ogni singolo movimento avversario, studiarlo e trovare soluzioni ma fortunatamente, abbiamo a disposizione alcuni strumenti in grado di aiutarci, utilizzabili attraverso la cosiddetta Protesi Shinobi, un arto meccanico in grado di ospitare diversi dispositivi – curioso come nel giro di pochi giorni abbiamo avuto come protagonisti due personaggi (Nero e Sekiro) con medesime caratteristiche –.

Ogni attrezzo shinobi, da una potente ascia a uno scudo in grado di respingere i proiettili avversari, possiede un proprio albero dei potenziamenti e altrettante caratteristiche; ognuno di essi può essere ovviamente adeguato o meno per il nemico che stiamo affrontando ma fortunatamente intercambiabili in tempo reale (per un massimo di tre strumenti) oppure sostituiti attraverso il menu (il gioco va in pausa). L’utilizzo di questi strumenti ampia a dismisura il gameplay, sopperendo in qualche modo alla mancanza di altre armi da utilizzare, avendo come sola e unica arma principale la Sabimaru. Tralasciando alcuni elementi tradizionali come fiaschette curative e oggetti di potenziamento, Sekiro è nuovo anche dal punto di vista dei movimenti, contando su una mobilità senza precedenti, sfruttando un level design che fa della verticalità il suo marchio di fabbrica. Il rampino del braccio prostetico è vitale non solo per l’esplorazione ma anche per tendere agguati o fuggire come un lampo; da notare come per scelta precisa di From Software è possibile appigliarsi solo in punti strategici, decisi a priori. Questo limita sì la libertà concessa al giocatore ma ha altresì permesso uno studio più attento della posizione di nemici e del protagonista all’interno del contesto, presentando le soluzioni migliori al videogiocatore.
Essendo uno shinobi, lo stealth entra prepotentemente all’interno del design del gioco; del resto Sekiro è in qualche modo una reminiscenza di un nuovo Tenchu. Abbiamo a disposizione un comando dedicato alla “postura stealth”, elementi ambientali da sfruttare e ovviamente le alture per monitorare le zone. Queste sezioni funzionano abbastanza bene in generale, permettendo di liberare potenzialmente una zona senza essere visto oppure origliare, carpendo informazioni utili per il prosieguo. Il problema deriva però da un’intelligenza artificiale che di certo non aiuta, con personaggi in grado di non accorgersi di una violenta morte a pochi passi ma di allarmarsi in gruppo a centinaia di metri di distanza. Tutto risulta purtroppo mal calibrato e soprattutto poco approfondito, nonostante lo sblocco di abilità a essa dedicate. Proprio queste abilità, unite a quelle offensive e speciali sono il modo con cui il nostro personaggio può evolvere e migliorare, unito alla possibilità di aumentare vitalità, postura e forza d’attacco solo ed esclusivamente attraverso l’ottenimento di oggetti chiave.
Infine arriviamo all’elemento più controverso, il concetto di morte che per From Software è molto caro. Resuscitare, oltre che elemento narrativo, è qualcosa che bisogna imparare a sfruttare a livello strategico. In certi frangenti la morte può salvarvi la vita ma bisogna fare tremenda attenzione. Una morte sfrutta un nodo speciale che può essere ricaricato attraverso il riposo agli Altari dello Scultore (Falò) o attraverso i colpi critici inferti ai nemici. Ritornare in vita ha delle conseguenze, non solo su Sekiro (percentuale di monete ed esperienza persa per sempre), ma anche sul mondo di gioco che in qualche modo può ricordare la Tendenza dei mondi di Demon’s Souls.
Sekiro: Shadows Die Twice è dunque un titolo completo sotto tutti i punti di vista, nonostante sia lontano dalla varietà dei souls. Ma queste sue caratteristiche, in qualche modo, rendono l’esperienza di gioco comunque unica per ogni giocatore, che potrà comunque sfruttare ciò che ha imparato nel new game + o in qualche futura espansione che siamo sicuri, arriverà.

Kintsugi

From Software non ci ha abituato a titoli “spacca-mascella”, cosa che si riconferma anche in questo frangente. Nonostante però non vanti qualità visive di altri titoli, in qualche modo, non se ne sente ne la mancanza, ne il bisogno. La capacità della casa di Tokyo di rendere memorabile qualunque anfratto degli ambienti di gioco e dei personaggi, nonostante texture, shader e luci poco a passo coi tempi, è sorprendente, con l’impressione abbastanza concreta che tutto sia costruito mettendo in cima alla lista la direzione artistica prima di qualunque altra cosa. Tutte le sezioni presenti hanno una loro personalità, dai valichi innevati a lugubri villaggi, dove noi, assieme a Sekiro, possiamo immergerci alla stessa maniera con cui in Dark/Demon’s Souls affrontavamo una nuova zona. Il level design, benché colleghi meno tutto l’ambiente di gioco, è come da tradizione su altissimi livelli, ricchi di scorciatoie, segreti, tutto studiato per essere affrontato nella migliore maniera possibile. Ma vi è un’altra tradizione, anche se di stampa negativa: i difetti classici delle serie precedenti permangono, come compenetrazioni letali e la gestione della telecamera, senza dubbio migliorata ma ancora non perfetta, rendendo alcuni scontri ancor più difficili di quanto siano.
Sul fronte audio, ritorna il doppiaggio italiano, che svolge un buon lavoro cercando di replicare in qualche modo la solennità di certi dialoghi e la psicologia di Sekiro, un uomo distrutto, che dopo aver perso qualunque stimolo, ritrova un proprio scopo. In qualche modo però, la lingua originale (giapponese) riesce a restituire qualcosa in più, probabilmente grazie al contesto generale e a doppiatori forse un po’ più in parte. Menzionando il suono di deviazione della Sabimaru che presto diventerà iconico, le musiche svolgono un ruolo chiave, presenti anche come accompagnamento ambientale. Ovviamente è durante le boss fight che questa componente da il meglio, comunicando sempre qualcosa su chi stiamo affrontando, tra musiche auliche, malinconiche ed evocative.

In conclusione

Sekiro: Shadows Die Twice è semplicemente il titolo più malvagio prodotto da From Software. Nonostante un’accessibilità facilitata, probabilmente su direttive Activision, Sekiro è qualcosa che raramente si vede all’interno del mercato videoludico, qualcosa che se ne infischia della massa e capace di far selezione già dalle prime ore. Ma se si è perseveranti, pazienti e abbastanza abili, vi ritroverete tra le mani una perla, un gioco maestoso sporcato soltanto dai difetti tipici delle produzioni From Software, alla quale probabilmente non vuole (o sa) porvi rimedio. Nonostante questo, Sekiro: Shadows Die Twice rimane senza dubbio nella top tre del 2019, nonostante l’anno, sia appena iniziato.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Sapphire Radeon RX 580 8GB NITRO+ Special Edition
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10




Tom Clancy’s The Division 2 – Vinci o Impari

La prima iterazione di Tom Clancy’s The Division ha lasciato tutti quanti un po’ interdetti: dopo una presentazione in pompa magna, tra trailer suggestivi e campagna marketing aggressiva, quello che arrivò tra gli scaffali fu un titolo “monco”, pieno sì di potenziale e di buone speranze ma che si perdeva in alcune ingenuità come alcune feature inaccessibili da subito e nemici in grado di assorbire ingenti quantità di proiettili. Ubisoft e Massive Entertainment hanno gradualmente imparato la lezione, portando grossissimi miglioramenti al pacchetto, anche se forse un po’ troppo tardi. Il secondo capitolo dunque, è frutto degli insegnamenti appresi in precedenza, presentandosi in maniera poco velata come un ottimo “more of the same”.

Una Divisione per gli Stati Uniti

Sono passati sette mesi da quando una devastante epidemia ha colpito gli Stati Uniti il giorno del Black Friday. Se, come abbiamo visto, New York non è rimasta indenne dalla caduta della società, non se la passa di certo meglio la capitale, una Washington D.C. contesa da diverse fazioni divise per ideologia, tutte alla ricerca di ascendere al potere. Anche qui La Divisione è chiamata a riportare l’ordine, cercando di ristabilire un governo che possa rimettere in qualche modo le cose a posto. Il compianto Tom Clancy ci ha regalato negli anni, storie al cardiopalmo, thriller politici e colpi scena come se piovesse, ma qui, purtroppo, nonostante dei buoni asset narrativi, tutto risulta dannatamente piatto e di certo l’eccessiva frammentazione delle quest non aiuta il giocatore a interessarsi di una trama molto debole. Tutto suona di pretesto, un contesto in cui qualsiasi giocatore possa collegare il suo agire con una qualsiasi motivazione narrativa. L’amaro in bocca rimane, soprattutto per una scrittura che di per sé non è neanche male, contando su dialoghi talvolta ispirati.
Cosa resta dunque? Molto poco, ed è un peccato perché tutto il resto funziona, e molto bene.

Sbagliando si impara

Tutto ciò che abbiamo visto nel precedente capitolo, qui viene riproposto con diverse migliorie e novità, a cominciare da una maggiore personalizzazione di armi e poteri tecnologici, in grado di rendere unico il proprio alter ego. Proprio sulle armi è stato eseguito un lavoro certosino, moltissime per numero e tipologia ed estremamente diversificate. Ogni arma ha le sue caratteristiche, un proprio rinculo, un proprio rateo e così via, rendendo l’esplorazione di queste peculiarità parte attiva del gameplay, alla ricerca dello strumento di morte adatto a noi. L’aggiunta di nuovi armamenti poi, ha ampliato a dismisura le possibilità da gioco di ruolo del titolo ma soprattutto una maggior ricercatezza tattica; questo perché anche l’intelligenza artificiale è degna del nome che porta, garantendo una sfida adeguata, già a partire dai primi frangenti di gioco: accerchiano, stanano e si coordinano, sfruttando ripari, torrette o postazioni sopraelevate. Inoltre è sparito il fastidioso effetto di “bullet sponge” dei nemici, che tanto aveva afflitto la precedente iterazione. Di fronte a tutto ciò, è qui che il giocatore deve prestare maggiore attenzione, cercando di utilizzare tutte le risorse a disposizione, tra armi e gadget. Il loro potenziamento è dunque vitale, così come lo è l’avanzamento di livello sino ad arrivare alla fatidica soglia di trenta, momento in cui le cose a Washington cambieranno drasticamente.
Nonostante si presenti come titolo da day one, l’offerta è già abbastanza completa, rendendo disponibile sin da subito anche la componente multiplayer competitiva che però mostra il fianco a diverse critiche: prima di tutto il matchmaking, capace di far competere un livello cinque contro un livello venti – non c’è partita ovviamente – e una struttura che ben funziona in singolo o in cooperativa ma che lascia qualche perplessità nel competitivo, in cui la differenza è fin troppo lasciata all’equipaggiamento in dotazione.
Tralasciando questo però, The Division 2 regala grosse soddisfazioni, con un ottimo feedback dalle armi e dei movimenti, di molto migliorati rispetto alle beta: ci troviamo sempre di fronte a un classico TPS con coperture attive, ed è qui che il level design mostra i muscoli, sia all’aperto che all’interno: l’attenzione dedicata a questo aspetto è encomiabile, con ambienti non solo ricchi di dettagli puramente estetici ma anche ricco di elementi che potremmo utilizzare come ripari adatti a tutte le situazione e sfruttabili tatticamente. La libertà d’approccio è quasi totale e conoscere gli anfratti di Washington a menadito può risultare spesso un grosso vantaggio. Nonostante la capitale degli Stati Uniti non vanti lo stesso fascino e suggestione di New York, è comunque una meraviglia, viva, variegata e che soprattutto invita all’esplorazione. Andare alla ricerca di equipaggiamento via via sempre più performante è un elemento chiave ma anche un piacere in questo caso.
Le cose da fare di certo non mancano, con un’elevata mole di missioni principali e secondarie in cui perdersi, ma in grado di fornire ricompense adeguate, che invogliano il giocatore a intraprenderle, approfondendo in senso lato anche la narrazione.
Massive Entertaiment ha già promesso importanti update gratuiti nel corso dell’anno e di fronte a una base di partenza così solida siamo curiosi di vedere come questo titolo possa migliorare, magari facendo da maestro ad altre produzioni simili ma che faticano a “tirare avanti”.

La forma segue la funzione

Vista la sua natura, il compito di lasciare a bocca aperta gli utenti attraverso il comparto tecnico, non è stato nelle priorità di Massive Entertainment; nonostante ciò, il titolo si mostra abbastanza bene, con ambienti e contorno che si discostano molto dalla New York del capitolo precedente. Una palette di colori molto accesa accompagna il giocatore attraverso una Washington sfaccettata, ricca di dettagli ed estremamente varia, segno che dal punto di vista artistico si è fatto un gran lavoro. Su PC il titolo non mostra alcuni segni di cedimento per quanto concerne il frame rate anche se vi è da segnalare un eccessivo pop-up di texture e alcuni elementi a bassa definizione. Per il resto, The Division 2 riesce a regalare scorci mozzafiato, soprattutto in zone avanzate della mappa. Sul fronte audio si segnala un buon doppiaggio italiano, che cerca in qualche modo di far risaltare quanto viene narrato, accompagnato da musiche sempre adatte al contesto: nulla di memorabile, ma in grado, in certi frangenti di esaltare alcune sezioni di gameplay. Ottimo lavoro per quanto concerne invece l’ambiente sonoro, capace di caratterizzare una città in decadenza ricordando a tratti i fragorosi silenzi di “Io Sono Leggenda”. Il buon lavoro eseguito sul mixaggio audio inoltre – apprezzabile soprattutto se dotati di headset 7.1 – aiuta tantissimo la nostra percezione dell’ambiente e soprattutto dei nemici, fondamentale in molti frangenti.

In conclusione

Tom Clancy’s The Division è dunque un titolo riuscito, capace di intrattenere come pochi nel suo genere, dimostrazione di come sia importante inciampare per poter rendere al meglio successivamente. Tutto ciò che è stato apprezzato precedentemente viene riproposto in versione migliorata e potenziata, riducendo il più possibile i difetti tanto criticati dalla community. È il miglior loot shooter sul mercato? Probabilmente sì: tutto funziona a dovere, regalando fin da subito varietà d’approccio, un gran senso di libertà al videogiocatore, che mai come adesso, si sente protagonista nella riconquista della civiltà andata perduta.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Sapphire Radeon RX 580 8GB NITRO+ Special Edition
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10




L’ascesa femminile nel mondo del gaming

Con il passare degli anni, sempre più ragazze e donne cominciano ad avvicinarsi al mondo del gaming e, inoltre, moltissime di loro sono accanite spettatrici di esport.
Recentemente, la società britannica The Insights People, ha eseguito 5,000 interviste su soggetti femminili con età inferiore ai 18 anni fra i mesi di Luglio e Settembre. Secondo i risultati molte ragazze sono più interessate a determinati fattori dei videogiochi che ad altri; infatti, rispetto al 75% registrato nello scorso anno, la percentuale di ragazze che passano il loro tempo libero giocando è arrivato addirittura a una soglia dell’84%. Secondo i dati raccolti il 15% di queste ragazze guarda gli e-sport, e, soprattutto, ci sono più ragazze tra i 13-18 anni che guardano queste partite dal vivo rispetto ai ragazzi della stessa età.
Infine, i videogiochi sono riusciti a superare lo shopping arrivando ottavi nella classifica degli hobby preferiti dalle ragazze. Sfortunatamente però, quelle che giocano a livello competitivo è infimo. Vedremo mai una parità di genere all’interno dei vari team e-sport?




Darksiders III – Chi Dice Donna Dice Ahi!

Una frase che sta bene su tutto come «sembrava impossibile, ma ce l’abbiamo fatta», è adatta anche a un franchise dalle grandi potenzialità e ben visto dalla critica come Darksiders, che sembrava destinato ai più bassi gironi dell’Inferno. Dopo la fine di Vigil Games le speranze di vedere un nuovo capitolo dedicato a uno dei quattro Cavalieri dell’Apocalisse sembrava impossibile sino a quando, una flebile luce apparve all’orizzonte; non una luce divina, ma quella targata Nordic Games, che acquisì tutti gli asset a disposizione, mettendosi al lavoro sul nuovo capitolo. Sono passati anni da allora ma finalmente il progetto Darksiders III è arrivato tra noi, sotto tutela di Gunfire Games, che a suo tempo si occupò della remastered di Darksiders II, denominata Deathinitive Edition. Come da tradizione i cambiamenti sono molteplici e la nuova protagonista, Furia, riserva alcune sorprese.

Un’anima in tempesta

Dopo aver raccontato le vicende di Guerra e delle macchinazioni di Inferno e Paradiso, dopo aver raccontato di Morte e di quanto sia disposto a fare per il fratello in catene, ora tocca all’unica donna del quartetto di Nephilim a portare avanti le vicende di Darksiders: Furia. Come accaduto per il secondo capitolo (e come accadrà per l’eventuale sequel) la storia si svolge nel periodo tra l’arrivo dell’Apocalisse e l’entrata in scena di Guerra sul campo di battaglia, mentre quest’ultimo si trova in catene accusato di aver dato inizio al Giudizio Finale prima del tempo stabilito. Al contrario dell'”affettuoso” Morte, Furia è un personaggio Tsundere, che nella cultura giapponese indica un carattere arrogante e presuntuoso ma che nasconde il suo esser affettuoso e generoso. In Darksiders III, molto più dei precedenti capitoli, lo sviluppo caratteriale di Furia segue sì dei classici stilemi narrativi ma del tutto efficaci, mostrando una naturale evoluzione di un personaggio discretamente complesso e con la giusta dose di sfaccettature adatte al contesto. La caccia ai Sette Vizi Capitali dunque, non è solo la risoluzione di un problema dell’Arso Consiglio ma un pretesto, un viaggio nella psicologia del Cavaliere in grado di mostrare tutte le sue fragilità.
Questo percorso sarà facilitato grazie all’incontro di vecchie conoscenze come Vulgrim, l’avido demone mercante e Ulthane, un Creatore che sarà ben di più di un semplice fabbro, ma sarà anche ostacolato dai “sette”, più o meno riusciti per caratterizzazione estetica e non: personaggi come Avidità, Lussuria e Superbia spiccano sugli altri, vantando non solo un design forse più ricercato, ma anche le loro attitudini e capacità. Tutti gli altri purtroppo, non riescono a bucare lo schermo come dovrebbero, presentandosi come generici boss e nulla più, come se si fosse svolto un semplice compitino. Questo può essere spiegato con un budget a disposizione piuttosto basso rispetto a quelli disponibili per i capitoli precedenti e soprattutto la mancanza di Joe Madureira, fumettista che ha dato vita al design dell’originale e del suo sequel. Se, fortunatamente, il design dei Quattro Cavalieri dell’Apocalisse era già stato deciso (dunque Furia e Conflitto sono assolutamente frutto del suo lavoro), non lo è stato per un terzo capitolo che non era più previsto nei piani di “Joe Mad!” e questo, lo si nota anche negli ambienti di gioco che mancano in qualche modo di quella “magia” post-apocalittica alla quale eravamo abituati.
Nel complesso dunque, narrativamente, Darksiders III funziona, approfondendo i sotterfugi e i motivi dietro la fine dell’umanità, presentando una Furia più complessa rispetto ai suoi fratelli.

Ora ti percuoto!

I vari Darksiders si presentano con caratteristiche proprie, cercando di sfruttare le peculiarità di ogni Cavaliere. Se il primo era un hack’n’slash puro e il secondo vantava una forte componente RPG, Darksiders III verte verso un indirizzo più souls like ma con le uniche caratteristiche permanenti del franchise che permangono: l’essere un metroidvania con caratteristiche che ha reso grande la saga di The Legend of Zelda.
In questo capitolo dunque l’approccio appare diverso, a cominciare dall’inquadratura del personaggio molto più ravvicinata (quasi da action/adventure) e un combat system meno frenetico e per certi versi più complesso, anche se alcune scelte di design risultano un po’ discutibili, quasi a segnalare il travagliato sviluppo del titolo. Una delle caratteristiche principali di Furia è il poter sfruttare quattro differenti poteri (Hollow), ognuno dei quali accompagnato da una specifica arma. Tutto questo si presenta in maniera del tutto simile a God of War III dove, questa apparente semplificazione, si trasformò in uno dei punti di forza del capitolo finale dedicato a Kratos, con la possibilità di cambiare armi e poteri senza soluzione di continuità durante ogni combattimento. In questo caso purtroppo, questo risulta difficile: il passaggio da un potere all’altro manca di quella fluidità necessaria per permettere diversi approcci non solo al combattimento, ma anche all’esplorazione; ad esempio il potere delle Fiamme permette di compiere salti più ampi mentre quello Elettrico di planare; qualora volessimo raggiungere un appiglio distante, concatenare le due caratteristiche risulta impossibile, visto che ogni passaggio di potere e compimento dell’azione voluta avviene con fin troppa meccanicità, con un azione che in poche parole interrompe l’altra. Inoltre, potrebbe apparire lapalissiano che l’utilizzo dei vari poteri comporti anche danni elementali diversi, anche in corrispondenza di ambienti e nemici specifici: prendendo di nuovo come esempio la nostra Elettricità, ogni colpo inferto contro nemici acquatici o comunque in ambienti umidi non comporta assolutamente alcun boost di potere, enfatizzato tra l’altro dall’assenza di qualsivoglia debolezza elementale da parte dei nemici. La quantità di danno inferto dunque dipende solamente dal tipo di colpo e dalla potenza dell’arma, potenziabile attraverso l’uso di Adamantiti, alla stregua delle Titaniti di Dark Souls.

Nonostante queste mancanze però, Darksiders III è in tutto e per tutto un Darksiders, in grado di sorprendere e divertire come ogni capitolo del franchise. Al contrario di Guerra e della sua Divoracaos (uno spadone) e di Morte e delle sue ovvie Falci, Furia utilizza una Frusta, che si dimostra incredibilmente utile sia negli sconti a media distanza che a distanza ravvicinata: il suo moveset (così come quello delle altri armi a disposizione) non è estremamente complesso ma comunque efficace, mostrando una buona varietà. Come precedentemente detto, andare alla carica contro decine di nemici non è più consigliato, anche perché, ogni nemico sin da quello base, può fare molto male. La natura souls like entra in scena in questi frangenti, quando lo scontro con i nemici deve esser portato avanti con attenzione, cercando di schivare nel miglior modo possibile i colpi avversari; come Morte infatti, anche Furia non dispone di parata per cui, schivare col giusto tempismo è la chiave per uscire vittorioso da ogni combattimento. Oltre ai colpi fisici, Furia dispone anche di magie, ognuna corrispondente ai quattro poteri a disposizione, consumando l’apposita barra. Anche qui purtroppo, non è possibile concatenare i vari colpi magici, visto che il potere non potrà essere cambiato sino al consumo totale della barra della Collera. I vari poteri a disposizione, trasformano Furia nella “maga” del gruppo, permettendole un approccio più vario agli scontri e la possibilità di esplorare e raggiungere zone inaccessibili per ognuno dei suoi fratelli. Questo perché Darksiders III vanta uno dei migliori level design degli ultimi anni, presentando una mappa vasta suddivisa in dungeon collegati tra loro in maniera praticamente perfetta. L’esplorazione diventa dunque fondamentale, non solo per scovare oggetti rari ma anche per raggiungere boss fight segrete in grado di rilasciare ottime ricompense, anche se qui, si denota una certa “legnosità” dei movimenti di Furia, fin troppo “vecchia scuola”.
Tutta l’esperienza accumulata e l’avanzamento di livello è suddivisa in due tronconi principali: attraverso le anime donate a Vulgrim, che ci permetteranno di aggiungere un grado e una percentuale a Salute, Danni e Danni Arcani, oppure attraverso dei manufatti potenziabili e associabili a scelta a ogni arma disponibile, valorizzando diverse caratteristiche di Furia.
Ovviamente torna anche la Forma Caotica, ovvero la vera sembianza di un Cavaliere dell’Apocalisse, potentissima e attivabile non appena l’apposito contatore raggiunge il livello massimo. A differenza delle precedenti però, questa forma è influenzata dalla forza elementale di Furia per cui, se non potenziata a sufficienza, potrebbe causare meno danni rispetto alla nostra frusta. Ma tutto questo non importa, attivarla è sempre un piacere immenso.

Nel segno della continuità

Come detto, l’assenza di Joe Madureira si sente, ma nonostante ciò, il feeling visivo resta immutato, sfruttando le basi dei precedenti capitoli. Il mondo, letteralmente post-apocalittico, si presenta nella maniera consona a un Darksiders, in grado di mischiare sapientemente strutture reali a elementi fantasy tanto cari al franchise. Anche i personaggi secondari e i vari nemici non sono da meno nonostante evidenti alti e bassi, soprattutto per quanto concerne i Sette Vizi Capitali,  i boss principali del titolo; solo pochi di loro però vantano un design quantomeno “memorabile”, lasciando nel dimenticatoio tutti gli altri. Tutto questo si svolge in un contesto tecnico che non fa gridare al miracolo, traducendosi in un’opera funzionale e ben ottimizzata, anche per PC meno performanti.
Come di consueto (anche se per questo capitolo non era poi così scontato), Darksiders III vanta un’ottima localizzazione in italiano, con Stefania Patruno in grado di restituire tutte le sfaccettature di Furia. Anche il resto del cast fa un buon lavoro nonostante effetti sonori e soprattutto l’accompagnamento musicale, non sono all’altezza della produzione.

In conclusione

Darksiders III rappresenta quasi un miracolo: nonostante tutti i problemi di sviluppo e un basso budget a disposizione, riesce a restituire il feeling di una delle saghe migliori degli ultimi anni, con una Furia più complessa di quanto ci si aspetti. Purtroppo, alcune scelte artistiche e di game design – a uno sguardo più attento – si fanno sentire, ma comunque nulla in grado di compromettere l’esperienza.
L’arrivo del prossimo capitolo però, con protagonista Conflitto, non è così scontato. Si spera dunque che questo terzo episodio raggiunga un buon successo, grazie anche al ricco supporto post-lancio promesso.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.