Ode a Sega Dreamcast

«It’s better to burn out than to fade away» diceva Neil Young in My my, hey hey, citata anche da Kurt Cobain dei Nirvana nella sua lettera di suicidio. “Meglio ardere in una fiamma piuttosto che spegnersi lentamente” probabilmente era anche la mentalità di Sega verso la fine degli anni ‘90, quando per riprendersi dal fallimento commerciale e, in parte, progettuale che è stato il Saturn tirarono fuori dal cilindro il Dreamcast. L’ultima console che ho veramente amato, insieme al Gamecube di Nintendo, ma questa è un’altra storia…

Le cause del fallimento commerciale di Dreamcast sono note a tutti gli appassionati: una campagna marketing discutibile come, per esempio, la sponsorizzazione sulle maglie da calcio dell’Arsenal, Sampdoria, Saint-Etienne e Deportivo La Coruña. L’assenza del supporto di due grosse case di terze parti come Electronic Arts e Squaresoft (la fusione con Enix sarebbe arrivata solamente nel 2003), il formato del GD-ROM, più economico di un ancora acerbo DVD, ma che spalancava le porte a una pirateria forsennata, e soprattutto una macchina e un marchio inarrestabile come PlayStation che si era imposta con forza sul mercato grazie a un marketing aggressivo e una libreria di giochi completa come raramente s’era vista prima di allora.
Ma non siamo qui a parlare delle cause del ritiro di Sega dal mercato hardware: piuttosto, ci concentreremo su quanto Dreamcast sia stata una console rivoluzionaria, capace di sfornare idee che all’epoca potevano sembrare un azzardo, ma che in realtà hanno modellato il mondo dei videogiochi in quello che è al giorno d’oggi. Può sembrare assurdo, ma pensiamoci: Dreamcast arrivava nelle case con il pieno supporto a Windows CE (direttamente sviluppato da Microsoft stessa, con tanto supporto alle DirectX!) e con un modem a 56kbps. Il sistema operativo della casa di Redmond era più pensato per gli sviluppatori rispetto all’utente medio, visto che l’inclusione sulla console Sega era atta a facilitare una conversione dei giochi Dreamcast verso il PC. Ma includeva alcune chicche da non poco, come, per esempio, la possibilità di importare file immagine direttamente nelle VMU (le particolari memory card dotate di schermo LCD e plancia di comando in stile Game Boy) per poi usarle in giochi come Jet Set Radio (a tal proposito, il primo gioco in grafica cel-shading). Un’accoppiata desktop-console che è stata riproposta ben diciotto anni dopo con l’avvento di, Xbox Play Anywhere e la combo Xbox One-Windows 10.
Il modem incluso nella console anticipò solamente di pochi mesi la direzione intrapresa dai concorrenti: se la stessa Microsoft con la prima Xbox e il lancio di Xbox Live dettò i tempi per il futuro del gaming online su console, fu Sega a muovere il primo passo, con il lancio di SegaNet. Servizio in abbonamento a quasi 22$ al mese, permetteva agli utenti di navigare sul web, chattare e mandare email, oltre a giocare a titoli inclusi nell’abbonamento (PlayStation Plus e Xbox Play With Gold docet). Purtroppo, non si andò mai oltre al solo Chu Chu Rocket tra i giochi presenti dal servizio, ma Dreamcast poteva dire la sua grazie a NFL 2K1, i buoni port da PC di Quake III Arena e Unreal Tournament, e soprattutto, il primo MMORPG per console: Phantasy Star Online.

Vorrei soffermarmi un attimo proprio su quest’ultimo: purtroppo non ho mai avuto la possibilità di giocarci online, visto che i servizi di Dreamcast in Italia erano gestiti da Albacom (!!!), però mi accontentavo delle quest offline e delle guide spulciate sul web e su riviste come Dreamcast Arena (del quale custodisco gelosamente gli ultimi due numeri). Bastava questo a un allora ragazzo tredicenne per sognare epiche storie come quelle che succedevano su PC con titoli come Ultima Online o Dark Age of Camelot. Se adesso su PlayStation 4 abbiamo la possibilità di giocare a MMORPG come Final Fantasy XIV: Stormblood, si deve tutto a Phantasy Star Online.
Mettendo da parte le innovazioni sull’hardware, come il controller per la pesca che poteva esser usato per giocare a Soul Calibur grazie ai sensori di movimento inclusi, rendendolo di fatto un Wiimote ante litteram o il Dreameye, una webcam che avrebbe anticipato di molti anni la Eyetoy di Sony, di Dreamcast si può lodare soprattutto la filosofia libera di Sega data alle case di sviluppo, interne e non, che decidevano di supportarne la causa.
Se dal freddo lato del marketing, il mancato supporto dato da sviluppatori influenti è stato una delle cause della sua fine prematura, dal lato che più ci interessa, quello del giocatore, ne è stata la sua fortuna. Senza la presenza di Electronic Arts non avremmo avuto gli sportivi di Visual Concepts da cui sarebbero nate le serie sportive di 2K NBA. Niente JRPG di Squaresoft? Nessun problema: largo agli eccezionali Skies of Arcadia, Grandia II e l’innovazione dei quick time event arrivata con i due Shenmue di Yu Suzuki. Strada libera a prodotti visionari come Jet Set Radio, Rez e soprattutto a perle arcade convertite alla perfezione come Ikaruga, Sega Rally 2, Virtua Striker 2, e Street Fighter III: 3rd Strike su tutti. Soprattutto quest’ultimo è considerato uno dei titoli più “longevi” della console, grazie allo status di culto di cui gode nel circuito professionistico dei picchiaduro.
Stare qui a scrivere di quanto avrebbe potuto dare Dreamcast al mondo videoludico, dopo vent’anni dalla sua uscita in Giappone, e diciannove dall’arrivo nel vecchio continente, fa quasi male. Forse il più spettacolare autogol della storia videoludica. Una console nata sotto una cattiva stella che, nonostante tutto, continua a raccogliere consensi anche postuma. Sia grazie a una libreria dalla qualità veramente alta e con tante killer application, che grazie al continuo lavoro di piccoli sviluppatori e homebrew che continuano a far uscire titoli ancora oggi.
Mi piace paragonare Dreamcast a Jeff Buckley, uno dei talenti più cristallini della musica degli ultimi 30 anni, che abbiamo perso troppo presto e solamente dopo un incredibile e, purtroppo unico, disco come Grace. La macchina dei sogni di Sega resta l’ultimo epitaffio dell’azienda di Tokyo sul lato hardware, e nonostante si sia convertita con successo come software house e publisher di titoli come Yakuza, Bayonetta e Football Manager, il vuoto lasciato da Dreamcast resta ancora incolmabile nel mio animo di videogiocatore. Dal 2001 a oggi non sono più riuscito a trovare interesse nel mercato console: troppo uniforme e poco propenso ad alternative videoludiche di spessore, se non contiamo le gemme indie. È sotto questo punto di vista che sento la mancanza di una console come quella di Sega, capace di tenermi incollato per ore davanti al televisore.
Bono Vox degli U2 disse di Buckley che era una goccia pura in un oceano di rumore. Credo che non ci sia definizione migliore che possa accomunare il cantautore americano e Sega Dreamcast.




Governala perché è tropicana, ye

Sole, mare, le orribili hit musicali della stagione sparate a volumi siderali dagli stabilimenti balneari… questa è l’estate. Lo avete capito, non sono esattamente un suo fan, anzi. I mesi tra giugno e agosto portano troppo caldo per permetterci di dedicare anima e corpo al nostro hobby preferito, eppure, per quanto possa sembrare strano, l’estate ha portato con sé alcune delle mie sessioni videoludiche preferite: impossibile non pensare ai tornei casalinghi con amici fatti su Virtua Striker 2 su Sega Dreamcast, in barba ai gettoni da acquistare nelle sale giochi locali. O quando, anno domini 2004, mi innamorai del puroresu (il wrestling giapponese) dopo ore di match e tornei simulati su Giant Gram 2000, sempre uscito su Dreamcast. Ma questa è una storia diversa. Qui vi racconto come e perché sono diventato un fan dei videogame gestionali, genere che tutt’oggi prediligo. Questa è la storia di Tropico: Paradise Island, primo in ordine d’uscita della saga di PopTop Software prima e Kalypso Media poi, che vedrà il sesto capitolo in uscita quest’anno.

Ma facciamo un passo indietro: non era la prima volta che cadevo nel tunnel dei gestionali. Avevo già alle spalle ore e ore passate sulle demo di Railroad Tycoon 2 (il primo titolo PopTop!) e su Rollercoaster Tycoon: mi piaceva l’idea di poter costruire dei tratti ferroviari o parchi di divertimento, era il giusto relax al termine di un pomeriggio di mare. Nel 2002 arrivò un’altra demo, quella che mi cambiò la vita, sempre a cura di quella PopTop che mi aveva stregato con Railroad Tycoon 2: il primo Tropico era tra le mie mani, e in esse risiedeva adesso il destino di centinaia di abitanti di una piccola isoletta del pacifico.
Tropico: Paradise Island è un gioco incredibile, a 16 anni dalla sua uscita lo considero  ancora il migliore della saga… Tropico 6 permettendo. Le possibilità di gameplay sono letteralmente infinite: possiamo scegliere se essere un buon Presidente, cercando di ascoltare i bisogni del nostro popolo, oppure fregarcene altamente e instaurare un bel regime dittatoriale, con tanto di elezioni truccate (!!!), noncuranti del pericolo di subire una rivolta da un momento all’altro. Io, essendo buono d’animo, tendevo sempre alla prima opzione, cercavo in tutti i modi di aiutare i miei tropicani: un buon tetto sopra la testa, un lavoro ben pagato e la giusta attenzione da dedicare a ogni gruppo politico dell’isola. Sì, perché in Tropico era praticamente quotidiano lo scontro con i comunisti che chiedevano case migliori e lavori ben retribuiti, con gli ambientalisti che protestavano contro la deforestazione, con i capitalisti che d’altro canto volevano si puntasse tutto su turismo e industrializzazione, con i militari che si lamentavano in caso di armate esigue, e con i religiosi che reclamavano più chiese e leggi meno “peccaminose”. Già, le leggi. In Tropico ci sono anche quelle. E anch’esse rappresentano un casino diplomatico. Perché, mettiamo caso, se l’alleanza e una base militare nell’isola da parte degli Stati Uniti accontenta i capitalisti, vedrà scontenti i comunisti,con risultati opposti nel caso decidessimo di diventare amici dell’Unione Sovietica. Il gioco è ambientato nel pieno della Guerra Fredda, e il parallelismo con la Cuba castrista è ovviamente esplicito, e Fidel Castro è a pieno diritto uno degli “avatar” selezionabili nel gioco completo, insieme ad altri personaggi come Evita Peron o Lou Bega (sì, proprio l’autore di Mambo N°5), tutti con bonus e malus storicamente precisi.

Ciò che porto nel cuore di Tropico non è soltanto l’immenso e strutturato gameplay, ma soprattutto la colonna sonora a cura di Daniel Indart: premetto di non essere un grande fan della musica latino americana, anzi, proprio la detesto. Ma la soundtrack di Tropico è perfetta sotto ogni punto di vista, un tripudio di son cubano sullo stile del leggendario Compay Segundo e del Buena Vista Social Club. D’altronde, l’omonimo documentario di Wim Wenders era uscito solamente tre anni prima del gioco, e la sua influenza a livello popolare si faceva ancora sentire. Che ci crediate o no, non riuscivo a staccarmi dal PC anche per questa ragione: non solo era intrigante vedere lo sviluppo del proprio isolotto pacifico anno dopo anno, ma tutto era coadiuvato da una colonna sonora che, ancora oggi, reputo tra le migliori nella storia dei videogiochi.

Credo di aver passato mesi e mesi dietro alla demo di Tropico: Paradise Island, e non nascondo che ancora oggi mi viene voglia di tornarci, nonostante i capitoli recenti siano più al passo con i tempi. Sarà per una sfida più appassionante, sarà per la musica, o sarà semplicemente uno spleen adolescenziale. O forse perché vi dedicai così tanto tempo da arrivare a sentire in testa le frasi del mio consigliere anche quando uscivo la sera. Probabilmente è per quest’ultimo motivo:
«Presidente, la sua gente sta morendo di fame, ci serve subito del cibo!»