Valve cerca personale: buone notizie per i gamer?

Valve non è un’azienda che ha certo bisogno di presentazione, conosciuta dai più per il suo store digitale Steam, il più utilizzato dai PC-gamer, e che si è affermata sul mercato videoludico grazie a titoli come Counter Strike: Global Offensive e Half-Life.
Negli ultimi giorni è comparso un nuovo sito, riconducibile a Valve, creato per assumere nuovo personale in molte posizioni all’interno dell’azienda, che vanno da un ruolo amministrativo e/o di gestione al game design. Nel dettaglio, sono stati aggiunti due progetti per i quali si cerca personale: parliamo di un gioco di carte collezionabili chiamato Artifact, che sarebbe ispirato a Dota 2, e un nuovo gioco di avventura incentrato sulla narrazione In the Valley of Gods.
Le intenzioni di Valve sembrano non fermarsi alla produzione di quanto sopra citato ma anche a “nuovi giochi in lavorazione top secret”. È il momento perfetto per fare speculazione: è in arrivo un nuovo Half-Life?




Game Jam: The Movie

Uno dei concetti alla base della game theory, e del gioco sin dai primordi, è quello di sfida: che ci sia o meno dello storytelling dietro un’attività ludica, è la volontà di superamento dell’ostacolo a muovere l’engagement. La motivazione generata dalla gara e da una meta da raggiungere incrementa il potenziale creativo e l’ingegno, ed è per questo che oggi metodi come la gamification trovano considerevole spazio anche in ambienti business, per assolvere a finalità che con il puro entertainment non hanno nulla a che fare.
Un altro concetto non meno importante alla base del gioco è quello di cooperazione: seppur meno irrinunciabile rispetto al primo (giocare in single player è un’attività nata ben prima dei solitari con le carte), l’attività in co-op è alla base delle attività ludiche di gruppo, degli sport di squadra e di buona parte del gaming moderno, e oggi ne sono studiati i benefici in termini di team building soprattutto nei contesti aziendali.
Non deve stupire, quindi, se uno dei momenti di maggior creatività nella produzione videoludica odierna sia rintracciabile nelle Game Jam. Nate come forma specialistica degli hackaton (dall’unione dei termini “hack” e “maraton”, maratone dedicate in cui vari sviluppatori univano le forze per trovare soluzioni comuni e innovative, come fu il primo caso di hackaton che unì vari sviluppatori in ambiente OpenBSD), le Game Jam sono sessioni collettive di professionisti o appassionati dotati di  capacità tecniche e creative che, richiamando il concetto musicale di jam session, si trovano a mettere insieme le proprie competenze per creare un videogame in un lasso determinato di tempo.
Negli anni, queste manifestazioni che hanno raccolto team di sviluppo in ogni dove sono cresciute al punto da richiamare migliaia di partecipanti, aspiranti developer con idee alla base o semplicemente gente che voleva mettersi alla prova. Nelle Game Jam si sono alternati grandi fallimenti e idee geniali, sviluppatori che riuscivano a concretizzare idee straordinarie in un tempo brevissimo e altri che invece non riuscivano a finire il progetto iniziato. Spesso i team hanno già una coesione di base, ma non è raro trovare gente che unisca le forze in vista di una singola jam senza aver mai lavorato assieme, solo perché ci sono le giuste competenze da unire e provare può valerne la pena.

Le game jam hanno prodotto veri e propri obbrobri accanto a giochi interessanti fino a titoli che poi sono approdati sui principali store mondiali: non si può non pensare a SuperHot, la cui idea vide luce durante la 7 Day First Person Shooter Game Jam (7DFPS) prima di approdare su Greenlight e diventare il gioco straordinario che è oggi, vantando anche una versione VR su tutte le principali piattaforme di gioco.
Le Game Jam sono state anche culla di idee bizzarre come Surgeon Simulatorcreato durante la Global Game Jam 2013, o Goat Simulator, ideato invece durante una jam interna di Coffee Stain Studios, che avevano appena finito lo sviluppo di Sanctum 2: lo avrebbero mai detto che simulare la vita di una capra gli avrebbe fruttato 12 milioni di dollari contro gli appena 2 entrati con ogni capitolo di Sanctum? Non è strano che quindi appuntamenti come la Global Game Jam, Indie Game Jam, Ludum Dare e Nordic Game Jam siano diventati importanti banchi di prova per sviluppatori indipendenti, ma anche momenti  interessanti per i grossi publisher.

Piccoli universi con una vita limitata, nei quali si concentrano ogni volta storie, idee, creatività e sinergie che vale la pena raccontare.
A farlo sono stati Scott Conditt e Jeremy Tremp, registi, e anche produttori con la loro CineForge Media, di Game Jam: The Movie, documentario che narra in meno di un’ora il lavoro di 12 team in gara per un premio durante i due giorni di una Game Jam.
Uscito nel marzo 2018, il documentario distribuito da Devolver Digital Films è diviso in due parti: la prima si concentra sulla vera e propria Game Jam, con interviste agli sviluppatori e un focus sul loro lavoro. Emerge quel senso della sfida che mette in moto la creatività durante queste manifestazioni, l’ansia di non farcela, la paura di non finire in tempo. Ma è anche il momento in cui il brainstorming produce il massimo, dove le varie competenze si fondono e dove, dall’intersezione di concetti di game design a concept di visual art e intelligenti soluzioni  di coding, arrivano le idee dalle quali nascono i giochi. I team si mettono a nudo e non nascondono timori e a volte un senso di inadeguatezza, ma esce fuori inevitabilmente anche il narcisismo di ognuno, il compiacimento riguardo un’idea di base che sembra azzeccata e su cui è possibile fare del proprio meglio, la volontà di puntare sulle proprie abilità migliori, chi in quella di creare efficaci ambienti in VR chi invece nell’abilità nel sound design.
La seconda parte segue invece i soli team vincitori della Game Jam, i due che si sono meritati il passaggio all’IndieCade. Si tratta di un percorso interessante per chi non abbia mai visto come funziona la long road di un videogame verso la pubblicazione, emerge l’importanza di aver un buon publisher perché il gioco emerga dal mare magnum degli indie game quotidianamente rilasciati sul mercato e quindi è messo in luce il peso di un buon pitch con chi dovrebbe comprare l’idea: gli sviluppatori, tutti giovanissimi e spesso non forti di grandi doti comunicative o di marketing, hanno l’occasione di esporre i propri lavori ad aziende del calibro Sony e Oculus, e devono  farlo in soli 5 minuti. 300 secondi, una media che si ripete ovunque, di certo non solo all’IndieCade, chi frequenta questi eventi lo sa bene. I grossi publisher sono in cerca di prodotti di loro interesse, ma sanno che ne troveranno ogni volta 1 su 500, bene che vada: vale la regola della prima pagina che attuava Aldo Busi quando selezionava i romanzi per Mondadori, se la prima pagina non funzionava il testo veniva scartato. Il metodo non era forse efficace, ma di certo risulta  e risultava efficiente e, piaccia o meno, è così che funziona il mercato, al punto che l’incaricato di Cartoon Network spiega che incontrare gli sviluppatori è importante al pari del gioco: su un prodotto, del resto, il publisher vuole sempre avere una voce in capitolo, e avere a che fare con lavoratori affidabili, elastici e disponibili a effettuare variazioni per la miglior riuscita del prodotto sul mercato diventa fondamentale. Probabilmente per questo il team di Terrasect è riuscito poi a pubblicare il proprio Wizards: 1984, prodotto VR ancora presente sugli store mobile: il gioco era inizialmente concepito in maniera diversa, sono state necessarie varie modifiche sostanziali perché il publisher accettasse di distribuirlo.
In entrambe le fasi, il Virgilio d’eccezione è Jess Conditt, sorella di uno dei registi e Senior Editor di Engadget, che ha il compito di spiegare i retroscena dell’indie development e di chiarire alcuni aspetti che altrimenti risulterebbero meno intellegibili ai non addetti ai lavori.

Un documentario breve ma di certo interesse nel suo raccontare un percorso che oggi riguarda tutti gli sviluppatori non affermati, e che in questi anni è diventato rilevante nell’industry, dato il crescente peso degli indie game sul mercato videoludico.
E che non dà spazio soltanto ai vincitori: alcuni lavori che trovano voce solo nella prima parte del film andrebbero tenuti d’occhio e con loro alcuni giovanissimi developer che dimostrano di avere un a buona base di idee. Del resto, la storia del settore ci ricorda che anche quando i risultati non sono immediati, in certi casi si può intravedere già del talento su cui investire.
A tal proposito, mi pare utile ricordare in chiusura quel che fecero Edmund McMillen e Tyler Glaiel alla Global Game Jam Creators del 2009. I creatori di Super Meat Boy all’epoca si limitarono a creare un idle clicker dal titolo AVGM (Abusive Video Game Manipulation), gioco che oggi può essere recuperato nella The Basement Collection che raccoglie i lavori del primo McMillen e il cui gameplay consiste soltanto nel premere un interruttore per spegnere e accendere la luce in una stanza vuota, con l’obiettivo di ottenere ogni volta nuovi oggetti dopo un certo numero di click. Il gioco è semplicissimo ma, come ha spiegato lo stesso McMillen, nasceva da un esigenza di risposta a un certo tipo di prodotti quelli che creano nel giocatore l’esigenza della ripetizione di determinati comportamenti, che si traducono in tempo investito per ottenere degli item digitali, in una “manipolazione della volontà” che induce, infine, a spendere denaro per risparmiare quel tempo e ottenere gli stessi vantaggi.
Vi ricorda qualcosa? McMillen analizzava questo fenomeno già quasi un decennio fa, e ha definito infatti AVGM come «a commentary on the formula that’s used in most massively multiplayer RPGs and a lot of online games that are on Facebook and stuff like that like Pet Society and Farmville – especially Farmville – where you are basically rewarded with digital items for time spent and clicks».
Una realizzazione semplice di un’idea intelligente e reazionaria, insomma, ideale per i tempi brevi di una Game Jam, e non è un caso, infatti, che gli oggetti che appaiono su schermo siano sempre raccapriccianti.

E un simile esempio di creatività, libera, riottosa e provocatoria, ci pare già abbastanza per poter auspicare che il mondo delle Game Jam continui a crescere e proliferare, portando sempre più autori indipendenti all’attenzione dei moderni videogiocatori.




Dune II: tre regole per un buon videogame su licenza

«Creare videogiochi è un lavoro difficile. Molto di ciò che facciamo richiede un salto nel buio. Dobbiamo immaginare il gameplay, la tecnologia con cui il videogioco prenderà vita. Immaginare gli scenari e i suoni che meglio trasmetteranno il gioco nella sua interezza al videogiocatore»

Così esordisce Tomas Rawlings, Design Director per Auroch Digital su Gameindustry.biz. Durante il corso dell’intervista afferma che vi sono diversi punti critici in cui è facile sbagliare durante la creazione di un videogioco ma, una volta che si è riusciti nell’intento, il risultato appaga tutti gli sforzi e crea una sorta di “magia”. Ma come si riconosce questa magia? Ce ne si accorge quando si è completamente assorti nel videogioco tanto da dimenticare il mondo esterno, cioè quando il gioco diventa il proprio mondo.
Racconta di quando era giovane e di quando scoprì il videogioco Dune, tratto dal romanzo fantascientifico di Frank Herbert, così come l’omonimo film di David Lynch. Allora decise di dedicarsi 20 minuti a questo gioco, giusto per conoscerlo, ma dopo che lo provò passò l’intera nottata e parte della successiva giornata a giocarci; ma perché questo preambolo? Per spiegare meglio la sua idea di immersione nel gioco e per rafforzare il concetto decide di raccontare il gioco.

Dune

Dune è un gioco incentrato su una risorsa limitata, chiamata Melange, che permette viaggi a velocità superiori della luce, ma molto rara e costosa, quasi un’allegoria del petrolio nel mondo moderno. La Melange si può trovare solo in un pianeta chiamato Dune, caratterizzato anche da enormi vermi che rendono un azzardo la raccolta di questa risorsa. Il controllo del pianeta è dato a turno a varie casate che dividono le quote della risorsa come meglio credono, preoccupati solo che questa spezia sia in circolo, ma non a come ci si arrivi.
Rawlings spiega, che questo gioco può essere considerato uno dei primi strategici in tempo reale, avendo al suo interno molte innovazioni che oggi sono alla base degli strategici che vanno per la maggiore, tra cui League of Legends, Dota 2, Clash Royale. Queste innovazioni spaziano dal controllo diretto delle risorse all’albero della tecnologia.

Le tre regole

Andiamo però alla parte saliente dell’articolo, le tre regole cardine che un buon gioco deve rispettare: Rawlings parte dalla regola che può sembrare la più banale e facile da seguire in cui semplicemente, un gioco deve essere un buon gioco, deve essere ben strutturato e, come terza regola, riesca a coinvolgere il giocatore facendolo diventare parte del gioco stesso, vivendo l’esperienza da una prospettiva personale. Tutto ciò scaturisce da un’IP originale, equilibrata e con ben integrate nuove meccaniche di gioco.




Nuove idee contro la motion sickness dei visori VR

La cosiddetta Motion Sickness è una sensazione di nausea e malessere generale, provocata, per esempio, dai visori per la realtà aumentata. A oggi non si è ancora riusciti a risolvere questo problema, ma potremmo essere molto vicini alla soluzione grazie a delle idee davvero ingegnose e innovative. Eccone alcune:

Body Nav

Cos’è Body Nav? Body Nav è un congegno creato da un piccolo team di ricercatori del Texas, MonkeyMedia. Esso consiste nel impartire i comandi di movimento del player in game attraverso il movimento del corpo del giocatore stesso, eliminando così l’uso dei classici controller. Infatti, la principale, se non l’unica causa, di questo fenomeno è legata proprio al movimento o, per meglio dire, dall’assenza di movimento fisico da parte del corpo. I nostri occhi “capiscono” attraverso il visore che noi ci stiamo muovendo, creando confusione nel sistema nervoso.

Reliefband 

Quattro anni fa, Reliefband Technologies ha rilasciato un dispositivo indossabile per curare la nausea. Piuttosto che una soluzione per il solo settore VR, la band si rivolge a chi soffre di malattie croniche, dai classici malesseri dovuti ai mezzi di trasporto alle vertigini. La Reliefband funziona utilizzando la neuromodulazione, pungendo il nervo mediano sul lato inferiore del polso, stimolando e regolando i percorsi neurali del corpo, neutralizzando così questi disturbi.

Qualcom

Infine, la vera soluzione sarebbe quella di implementare migliorie direttamente nei visori, per avere una minima spesa ma un’ottima resa. E proprio questa soluzione sembra arrivare da Qualcom, nota azienda nel mondo delle CPU per dispositivi mobile, la quale ha annunciato alla GDC, un kit che promette un motion tracking completo degli occhi, e di ciò che ci circonda. Questo potrebbe essere quel qualcosa che potrebbe colmare il divario tra ciò che accade nel mondo virtuale e i dati che i sensi mandano al cervello.

Lente di Fresnel

La lente Fresnel permette la costruzione di ottiche di grande dimensione con una distanza focale ridotta. I nuovi studi aiuterebbero le lenti a gestire le transizioni dei frame in maniera continuativa e senza “scatti” eccessivi, che sarebbero alla base del disturbo, oltre alle cause già elencate. Il problema più grande con gli attuali visori di VR è che la risoluzione degli schermi non è abbastanza nitida  per la tipologia di immagini che il visore trasmette. Gli oggetti si confondono, con una cattiva transizione, creando delle difficoltà sia agli occhi che all’udito, dato che i visori constano anche di un audio 3D che viene riportato in cuffia. Quindi l’impiego di cuffie adatte e di qualità superiore e l’uso di queste lenti direttamente integrate nei visori potrebbe risolvere quasi del tutto il problema.

Dobbiamo dire però che non sono solo questi i problemi legati ai visori VR; in questo campo esistono ancora molte più domande che risposte. Uno di questa è la completa assenza di una concreta percezione del tempo passato all’interno della realtà virtuale. Vedendo però l’impegno nel riuscire a risolvere il problema del malessere, siamo abbastanza speranzosi nel fatto che un giorno riusciremo a godere di una realta virtuale davvero fruibile e senza complicazioni.




Nuovi record per PUBG e Fortnite

Microsoft e PUBG Corp. hanno recentemente annunciato che PlayerUnknown’s Battlegrounds ha superato i 5 milioni di giocatori su Xbox One nei primi tre mesi di vendita. Nonostante questi numeri siano davvero impressionanti per un titolo in accesso anticipato, non sono sorprendenti considerando che oltre 3 milioni di persone hanno acquistato il titolo all’inizio di gennaio, mese di uscita del gioco su console, ma nonostante ciò il tasso di vendita è rimasto costante negli ultimi due mesi.
Una lode non da poco va sicuramente a PUBG Corp., la quale, nonostante i numerosi problemi che il gioco ha avuto all’uscita sulla console di casa Microsoft, ha continuato a supportare il titolo al massimo delle capacità, aggiornandolo costantemente con nuove patch. Infatti, con l’ultimo aggiornamento rilasciato dalla casa produttrice, il gioco ha quasi raggiunto il suo completamento.
Non è solo PUBG ad aver battuto dei record videoludici nell’ultimo periodo: infatti, come se non fosse già abbastanza avere più di 3 milioni di giocatori e aver battuto il record di spettatori nelle live Twitch, il noto Fortnite è adesso anche l’app più scaricata e gettonata dell’App Store. La versione iOS del gioco supporta ancora il cross-play, ovvero la possibilità di poter giocare con i possessori di PC e console, che alimenta ulteriormente la rapida crescità di popolarità di Fortnite. Il gameplay e la progressione del gioco possono essere salvati su tutte le piattaforme, aumentando la mobilità del gioco, tanto che la versione mobile non ha nulla da invidiare dalla versione console, tranne per un leggero downgrade grafico.
La risposta di PUBG pare sarà a breve, al punto che si attende il lancio su mobile per Android e iOS già da domani 20 marzo.




Errori di programmazione per Civilization 6

Pochi giorni fa, Straight White Shark, un noto modder dei forum Something Awful, sembra aver scoperto un errore tipografico nel file di gioco che regola i comportamenti di default dei vari leader del gioco. I programmatori, infatti, hanno erroneamente castrato i parametri dell’Intelligenza artificiale per la produzione della statistica Fede come la più bassa a differenza delle restanti presenti nel gioco.
Come qualcosa del genere possa essere sopravvissuto alle migliaia di ore di test e valutazione è un mistero, specialmente per un titolo come Civilization VI. Non è chiaro, tuttavia, se questi errori fossero presenti già nella versione originale del gioco o se siano il risultato di un recente aggiornamento.
A difesa di ciò, alcuni giocatori hanno notato come, per esempio, Pedro II del Brasile producesse 100 punti Fede in meno rispetto a una partita giocata con il codice corretto nelle stesse condizioni della partita giocata con il codice non corretto.
Per la gioia di tutti i player di questo titolo è già presente una mod che corregge questo bug presente nel WorkShop di Steam




Videogiochi e cinema: il lento dialogo tra industrie

Il mondo dei videogiochi e quello cinematografico hanno linguaggi comuni e, pur serbando i due mondi non poche differenze, entrambi vanno avvicinandosi sempre più in termini di linguaggio e anche di rilevanza sul piano sociale e culturale.
I dati parlano chiaro, e le testimonianze di questo avvicinamento sono sempre maggiori. Fra queste, è interessante leggere quella di Gina Ramirez, agente all’APA (Agency for the Performing Arts), che in un’intervista rilasciata a GamesIndustry.biz, spiega i vari aspetti per cui i videogiochi e il cinema venivano considerati universi differenti, per quanto riguarda il marketing e la scelta degli attori e la loro evoluzione nel tempo.
L’APA si occupa di rappresentare attori, scrittori, produttori, registi, ma negli ultimi anni l’agenzia si è interessata anche al mondo dei videogiochi, che nell’ultimo decennio ha avuto una crescita esponenziale.
L’agenzia per cui lavora Ramirez, oltre a rappresentare colossi come Capcom per la realizzazione di film e nuove iniziative o Activision, è riuscita a far collaborare piccoli produttori con i grandi marchi del mondo dei videogame, come la stessa Activision, che ha permesso a un giovane scrittore di lavorare a un DLC per Call Of Duty. Ma non si occupano solamente di grandi aziende: hanno infatti anche rappresentato DJ2 e alcuni sviluppatori indie e le loro relative pubblicazioni, come We Happy Few, Little Nightmares e Ruiner.
Secondo la Ramirez, i videogiochi devono ancora affermarsi del tutto nel mondo del business, ma la strada pare essere quella giusta. La stessa Ramirez ha lavorato per varie agenzie fino ad arrivare, nel 2013, ad Activision; proprio lavorando lì si è resa conto che il mercato videoludico è ancora troppo “giovane” per poter essere uno standard di business per le aziende.
Durante la sua esperienza in Activision, Gina Ramirez ha notato l’evoluzione dell’atteggiamento delle celebrità verso il mondo dei videogiochi: anni fa lavorare con i videogiochi era visto alla stregua del fare da testimonial a merendine o bibite, ma lei è riuscita a sensibilizzare la maggior parte dei VIP ed è riuscita a coinvolgerli personalmente ed emotivamente, ottenendo così prezzi più economici per la loro partecipazione.
Molte aziende, però, non riescono a comprendere l’importanza del coinvolgimento dell’attore nella creazione del videogame e si intestardiscono nell’ingaggiare un attore, magari perché famoso o perché lo credono perfetto, ignorando la sua voglia di partecipare e il suo reale coinvolgimento.
Gina Ramirez nel 2015 lascia Activision con la convinzione che il dialogo tra Hollywood e il mondo videoludico sia impossibile ma, quando firmò con l’APA, l’agenzia disse di credere che un incontro tra le due forze era possibile. Nonostante le perplessità, la Ramirez volle ritentarci e stavolta con buoni risultati.
A lungo andare, oltre agli attori/doppiatori, anche l’intero mondo cinematografico è diventato molto più economico per gli sviluppatori: prima gli studi cinematografici, per utilizzare una loro IP, pretendevano per l’acquisto di una licenza una quota molto alta, invece adesso lavorare con i videogiochi viene visto come una pubblicità, una mossa marketing intelligente e di conseguenza il costo delle licenze per l’utilizzo di IP già registrate è sceso.
Ancora oggi quello tra il mondo dei videogiochi e quello cinematografico non è un dialogo semplice, dovuto a molte – troppe – rigidità da un lato e dall’altro, Ramirez, i due mondi si avvicinano sempre di più, a testimonianza di come il videogame rivesta un valore sempre più importante anche sul piano artistico.




Phil Spencer e il valore della diversità nella cultura aziendale

L’argomento delle pari opportunità è uno dei più dibattuti oggi nei vari settori dell’economia. In tema di politiche del lavoro, la disparità (fra sessi, ma anche fra culture ed etnie) è un problema tutt’altro che superato. Ad onta di tutti i progressi fatti dall’uomo nel corso degli anni, a dispetto del traguardo di avere il primo Presidente di colore in uno dei paesi più industrializzati del mondo e di leader femminili che hanno dimostrato carattere e competenza, il modello imperante nel workplace occidentale sembra ancora prediligere più la figura maschile che quella femminile (determinando in vari settori anche una disparità di stipendi) e l’etnia caucasica sulle altre.
Per questo mi è parso importante quanto emerso nel keynote di Phil Spencer durante il DICE Summit 2018 tenutosi qualche giorno fa, e mi pare ancor più importante riprenderlo dato che pochissime testate italiane sembrano avergli dato spazio.
Il vicepresidente di Microsoft ha incentrato il proprio discorso sull’importanza di inclusività e diversità come caratteristiche distintive delle aziende moderne. In particolare, Spencer ha messo in luce quello che gli sembra sia uno dei dati più importanti riguardanti l’evoluzione della propria società, affermando che gli ultimi quattro anni della gestione di Satya Nadella hanno comportato una grande autocoscienza e crescita all’interno della compagnia di Redmond in termini di ambiente di lavoro. Ogni leader della multinazionale ha avuto il compito di analizzare criteri e modi con cui vengono messi insieme i team, nonché il modo di lavorare sui progetti, il team building, la valorizzazione delle diverse risorse umane e l’impegno quotidiano profuso da ognuno per rendere Microsoft un luogo sicuro e inclusivo per tutti i lavoratori, imprimendo così un cambio di rotta in termini di cultura aziendale:

«Questa era, ed è tuttora, un’impresa portata avanti da 100.000 persone: con il compito di creare una cultura più innovativa, più efficace e più rappresentativa possibile, in modo che tutti possano fare del proprio meglio insieme. Non si tratta di una “cultura per la cultura”, ma di un cambiamento con un reale impatto collettivo.
Raggiungere questo obiettivo richiede una “mentalità improntata alla crescita”, perché creare una cultura che rappresenti e tratti tutti equamente è un processo che non finisce mai veramente.»

Spencer ha ricordato il noto after-party di Microsoft alla GDC del 2016, che fu bersagliato da accuse di sessismo, definendo quell’episodio «inequivocabilmente sbagliato, inequivocabilmente sessista e inequivocabilmente intollerabile», e aggiungendo che quella festa ebbe luogo in un momento in cui Microsoft stava invece impegnandosi a lanciare un messaggio del tutto opposto a quello veicolato in quell’occasione.
Il rinnovamento della cultura interna è oggi un fattore molto importante per Microsoft, continua Spencer, rimarcando come, per imprimere un cambiamento, non bisogna assecondare nei fatti (anche non agendo) ciò che non si approva sul piano morale, e invitando i colleghi a sposare questa filosofia. Il ruolo degli operatori di settore in visione di un simile cambiamento è infatti decisivo, sia all’interno (per la creazione di un ambiente di lavoro sano e non discriminatorio), sia all’esterno, agendo sulle proprie community: i videogiochi rappresentano un punto di accesso comune per le persone che approcciano alle nuove tecnologie, e prova ne è il crescente numero di gamer in nazioni come Brasile, India e in certe parti dell’Africa. Il vicepresidente di Microsoft ha quindi invitato gli esponenti dell’industry a mostrarsi coesi per risolvere i problemi all’interno delle community dei loro giochi, dove alcune minoranze di utenti “tossici” tendono a rovinare l’esperienza degli altri giocatori con comportamenti razzisti, verbalmente violenti, o discriminatori, ed elogiando il tal senso il gran lavoro di Riot Games e, in particolare, di Jeff Kaplan e del team di Blizzard al lavoro su Overwatch.

Spencer torna infine sul tema delle pari opportunità, citando uno studio del professor Adam Grant della Wharton School (la business school dell’Università della Pennsylvania) che ha ancora una volta messo in luce come i leader di sesso femminile siano attualmente sottovalutati sul lavoro rispetto ai propri omologhi maschili, e come questo possa costituire un doppio handicap se il leader, oltre a essere donna, è anche di colore. Questo comporta che, in caso di fallimento, il leader donna paghi per i propri errori in maniera spropositata.
Il problema della parità dei sessi sul luogo di lavoro è quanto mai serio e attuale, e il vicepresidente di Microsoft ne ha fatto uno dei perni del proprio keynote, richiamando i colleghi alla responsabilità verso il cambiamento:

«Possiamo fare di meglio. Io e il mio team stessi possiamo fare ancora meglio. Noi, come industria, dobbiamo impegnarci a far meglio ed estirpare questa cultura distorsiva. E dobbiamo capire presto come farlo, perché innumerevoli studi dimostrano che i team con maggiore diversificazione [sessuale, razziale e culturale] sono i più creativi,  i più innovativi e i più propensi a risolvere i grandi problemi. In altre parole, facciamo del nostro meglio affinché i componenti del nostro team possano ampliare a vicenda la loro visione delle cose.»

Spencer pare ottimista, riguardo la crescita di una cultura dell’inclusività: esempi come Wonder Woman, Get Out, Coco e Black Panther nel cinema sono significativi riguardo l’attenzione verso chi finora è stato discriminato, e crede molto nel lavoro  che possono fare i videogame in tal senso.
Negli ultimi anni, c’è da dire, le eroine non sono mancate: soltanto lo scorso anno abbiamo avuto Aloy in Horizon Zero Dawn, Senua in Hellblade, perfino una coppia al femminile in Uncharted: L’eredità perduta, un Life is Strange: Before The Storm ancora interamente al femminile. Questi soli titoli da soli non determineranno un cambiamento culturale immediato, ma sono di certo una secca smentita a tutti quei giocatori che, a dispetto di Lara Croft, diffidano ancora dei protagonisti femminili e li considerano “di scarso appeal”, ritenendo il gaming appannaggio degli uomini, ignorando statistiche che non vedono affatto un divario ampio tra i due sessi, e riflettendo mestamente un pensiero fin troppo diffuso.
C’è da sperare che l’industry videoludica metta seriamente in atto le parole di Spencer e che quelli del settore dei videogame possano essere i primi passi in avanti verso un mondo più equanime e inclusivo.




Nuovo teaser per 0°N 0°W

0°N 0°W (ZeroNorthZeroWest) è un gioco in uscita il prossimo 1 marzo, e nonostante sia uscito un recente teaser, il gioco rimane ancora un mistero.
Questo ultimo video mostra del gameplay, ma risulta ancora vago come i precedenti trailer, che mostravano una transizione tra il mondo reale e quello astratto. Nel recente teaser invece, viene mostrato il gameplay esclusivamente nel mondo astratto, mischiando spezzoni di gioco in una città colorata al neon su sfondo nero con un’ambientazione in scala di grigio dove il protagonista salta da un oggetto all’altro.
0°N 0°W  è basato sul concetto di “Null Island” (un’isola fittizia avente coordinate GPS 0°N 0°E). Al momento si tratta di un’esclusiva PC, nonostante Colorfiction (il team di sviluppo) sia stato invitato a unirsi al Nintendo Developer Program.

 




Mulaka – Una Finestra su un Vecchio Mondo

Il mondo degli indie è in forte crescita, e gode spesso di una maggior libertà creativa rispetto ai grossi team di sviluppo, incatenati la maggior parte delle volte a logiche di mercato che talvolta risultano castranti. L’ultimo arrivato nell’universo videoludico indipendente è Mulaka, titolo sviluppato dal team Lienzo e interamente basato sulla mitologia Tarahumara, antica popolazione messicana che, stando alle leggende, avrebbe dato i natali a guerrieri formidabili ed eccezionali corridori. Le loro credenze, usi e costumi sono tutti racchiusi in questo action-adventure che vede come protagonista un Sukurùame, sciamano in grado di sconfiggere il male che sta infestando la sua terra natìa.
Nonostante il popolo Tarahumara si sia ormai abituato alle usanze del ventunesimo secolo, si tratta di una tribù che ha subito, e continua a subire nella realtà odierna, discriminazioni e atti di violenza: proprio per questo, parte del ricavato di Mulaka sarà destinato a una ONG che si occupa della sua tutela.

Il Sole e l’altre stelle

Come detto, l’intero Mulaka si basa sulla mitologia Tarahumara, sia dal punto di vista visivo che nella narrazione: il mondo è in pericolo e l’influenza di Teregori, il Signore del Male, sta avendo la meglio. Solo colui che sarà in grado di far confluire in lui la forza degli esseri celestiali potrà riportare la serenità.
Sebbene questo classico scontro tra bene e male possa risultare una premessa banale, è il modo in cui viene raccontato a fare la differenza. Il team di sviluppo ha studiato a fondo la cultura della tribù, attraverso testi antichi e l’ausilio di antropologi e leader Tarahumara. La mole di informazioni ricavata ha permesso a Lienzo di imbastire una lore prima di tutto, attraverso molti dialoghi di richiamo “zeldiano” e testi atti alla descrizione dei nemici. Ognuno di quest’ultimi infatti è parte integrante della cultura Tarahumara, come per esempio i Seelò, mantidi antropomorfe che un tempo dominarono il mondo, per passare a semi-divinità come Ganoko fino a Teregori, il male assoluto. La loro rappresentazione è ricca di simbolismo e invoglia ad approfondire le basi della mitologia in questione. Alcune cutscene, realizzate in stile acquarello, faranno da trait d’union tra le vicende, con suggestivi dialoghi  con le entità celestiali che ci aiuteranno lungo il viaggio. Le lingue disponibili sono soltanto inglese e spagnolo, ma risultano intendibili e di non complessa fruizione.
La conoscenza di una cultura dimenticata è l’elemento di forza di Mulaka: abbiamo visto svariate opere su mitologie a noi vicine come quella greca, egizia e norrena eppure il mondo è così ricco di storie e spunti che sarebbe un peccato non poterne godere. Il team di Lienzo è stato in grado di portarci in un mondo così diverso dal nostro, eppure animato dalle stesse paure e dalle stesse speranze che hanno accompagnato noi occidentali.

Uno è Tutto e Tutto è Uno

Mulaka si presenta come un action/adventure dai marcati caratteri platform. Durante l’esplorazione delle mini mappe, non interconnesse tra loro, ci muoveremo principalmente a piedi, sfruttando le grandi doti atletiche del Sukurùame e, soprattutto, la sua grande maestria nel combattimento. Armati soltanto di una lancia, si verrà alle mani con decine di nemici diversi, ognuno con punti di forze e debolezza specifici. Lo studio del moveset delle creature sarà fondamentale e cambiare approccio al nostro stile di lotta sarà fondamentale per sopravvivere. Gli attacchi si suddividono in pesanti e leggeri senza possibilità di parare i colpi avversari; al suo posto, una schivata “bloodborniana” diventa fondamentale in certi frangenti, soprattutto quando saremo circondati da tanti nemici diversi. Non si tratta di un titolo particolarmente impegnativo, ma bastano una manciata di distrazioni per finire al Creatore.
Uno degli elementi tratti dallo studio della tribù è l’utilizzo di alcune erbe a uso esclusivo del Sukurùame, l’unico in grado di di trarre beneficio dai vegetali messi a disposizione dalle divinità. Proprio in Mulaka, la raccolta di quattro diversi tipi di piante forniranno altrettanti boost al nostro personaggio: si va dal classico recupero della salute, alla creazione di uno scudo temporaneo, fino all’aumento della potenza d’attacco e alla creazione di piccoli esplosivi. Il loro utilizzo favorisce l’attraversamento delle zone più impervie e contribuisce ad aggiungere interessanti elementi strategici, soprattutto negli scontri contro i boss.
Altro aspetto fondamentale per uno sciamano è il diretto contatto con le entità celestiali che, nel videogioco, si traduce nella possibilità di giovare di brevi ma efficaci trasformazioni: alcune di esse, come la metamorfosi in uccello o giaguaro, saranno fondamentali per alcune sezioni platform mentre altre, oltre a risultare utili in combattimento con un po’ di creatività, daranno accesso a luoghi altrimenti inaccessibili. I dungeon a disposizione sono completamente diversi gli uni dagli altri, sia per contenuto che per conformazione: la loro esplorazione, a volte risolvendo piccoli enigmi, permette di accumulare Kòrima, la moneta di gioco, con la quale è possibile potenziare il personaggio, aumentandone alcune abilità.
Ma il vero fiore all’occhiello del titolo sono le boss fight: dopo aver varcato il classico cancello di fine dungeon, avremo l’opportunità di affrontare i capisaldi della mitologia Tarahumara, in cui sarà fondamentale un buono spirito d’osservazione. Chi ha giocato i Souls sa bene che una buona varietà di nemici è necessaria per poter essere messi costantemente alla prova e Mulaka assolve a questo compito, dando a ogni boss fight caratteristiche unica, in cui non solo bisognerà fare attenzione al moveset del nemico ma anche all’ambiente circostante. Frequenti sono i richiami ad altre opere, come i lavori From Software o, in alcuni frangenti, a Shadow of the Colossus; eppure tutto risulta originale, grazie all’attento studio degli sviluppatori nel citare senza risultare pedissequi. Proprio le boss fight ci invogliano a spingerci avanti solo per il gusto di affrontare il successivo, temibile nemico.

Un quadro poligonale

Il motore Unity è alla base di molti indie, è un engine scalabile, di facile utilizzo e che permette di sostenere tutte le idee degli sviluppatori. Il mondo ricreato da Lienzo si presenta visivamente suggestivo, sfruttando le peculiarità del low-poly, una tecnica poco usuale nei videogiochi moderni. Se di fronte a uno screenshot del titolo non gridereste al miracolo, vederlo in movimento restituisce invece un’ottima esperienza visiva, in grado di riprodurre ambienti idilliaci ispirati alla cultura nord-messicana. Ogni ambiente infatti è frutto di un attento studio, così come la realizzazione dei costumi e di elementi di decoro degli abitanti, e ovviamente dei nemici. Il tutto gira senza intoppi a 1080p e 60fps, salvo qualche rallentamento nei menù di gioco e sporadici bug e glitch, sui quali il team di sviluppo pare essere già al lavoro.
Anche l’accompagnamento sonoro vanta un’attenzione particolare: tutti gli effetti audio sono stati registrati direttamente nella terra dei Tarahumara, dallo scorrere dei fiumi al fruscio del vento. Anche le splendide musiche – poche, a dir la verità – sono state interamente realizzate grazie all’ausilio degli strumenti locali. Il risultato è un’opera totale in grado di restituire a 360 gradi una cultura che quasi certamente i più non avranno mai sentito nominare.

In conclusione

Mulaka è letteralmente una finestra su un mondo inedito, ed è più di un semplice videogioco. Il  team di Lienzo è stato in grado di restituire l’anima di una terra dimenticata con ottime scelte artistiche, contornate da boss fight di buona fattura, capaci di restare impresse nella memoria. Tralasciando qualche piccolo difetto tecnico, Mulaka può diventare ispirazione per altri titoli, unendo il divertimento e la sfida alla ricerca di culture e storie che noi tutti ignoriamo.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.