Hi, my name is… Hideki Kamiya

Dopo una breve pausa, riprende la nostra consueta rubrica sulle più importanti personalità del mondo del Game Design. In occasione dell’uscita del quinto capitolo della saga action più apprezzata degli ultimi anni, Devil May Cry 5, ci occupiamo della mente che ha dato i natali alle avventure di Dante: Hideki Kamiya. Classe 1970, Kamiya ha avuto l’arduo onere di provocare un violento scossone all’interno del genere d’azione in terza persona, da anni ormai stagnante nelle sue vecchie meccaniche logore e non al passo con i tempi. Facciamo però qualche passo indietro.
Kamiya inizia la sua gavetta in casa SEGA e successivamente passa alla Namco ma, nonostante una buona partenza nel settore, il nostro Hideki non si sente pienamente realizzato, costretto dalle case produttrici a lavorare come semplice artista senza alcuno spazio nelle scelte di game design. Decide così di migrare verso altri lidi di sviluppo, riuscendo a ricoprire il ruolo di designer in Capcom nel 1994. Il suo primo incarico con la casa di Osaka comporta una notevole dose di responsabilità sulle spalle di Kamiya, il quale si ritrova a dover portare avanti una saga che si preannunciava iconica già fin dal primo titolo: il designer viene affiancato al maestro Shinji Mikami nella lavorazione di Resident Evil 2, sequel dell’apprezzatissimo capostipite, ricoprendo il delicato ruolo di director.
Il nuovo capitolo della saga horror di Capcom doveva rivoluzionare le meccaniche alla base del precedente capitolo ed espandere l’universo di gioco, pur rimanendo fedele a se stesso. Mikami in prima persona era stato messo al comando dello sviluppo ma i vertici di Osaka non rimasero soddisfatti del lavoro compiuto, motivo per cui il team venne affidato al giovane Kamiya alla sua prima esperienza come direttore. Il prototipo di Mikami, lo storico Resident Evil 1.5, viene messo da parte dal nuovo team di sviluppo e il progetto prende una piega completamente diversa. Viene rivisto il gameplay, rendendolo più dinamico rispetto al primo episodio, viene stravolto l’impianto scenografico conferendogli un respiro hollywoodiano e ampliato enormemente il numero di nemici su schermo superando il limite di 7 zombie per schermata, aspetto che mette a dura prova le capacità tecniche della prima PlayStation. Vengono introdotti nuovi personaggi per dare continuità ai fatti raccontati nel primo capitolo, grazie all’apporto in sceneggiatura di Noboru Sugimura e per la prima volta fanno la comparsa i temibili Licker , divenuti presto le icone di Resident Evil 2.
Il gioco è apprezzato dai capoccia di Capcom e anche in termini di vendite e critica viene accolto positivamente, stabilendo numeri che permisero al lavoro di Kamiya di entrare a far parte della lista dei best seller Playstation. Uscito nel 1998, Resident Evil 2 è stato il primo grande passo per il designer che ha saputo dimostrare all’intero mercato il suo valore e la grande capacità di unire novità e tradizione, incontrando anche i favori di un pubblico che si faceva sempre più esigente e diversificato.

La carriera del giovane Kamiya è soltanto agli albori e l’esperienza al fianco di Mikami non è del tutto archiviata. Agli inizi degli anni 2000 gli viene affidato il compito di lavorare al quarto capitolo della saga di RE con l’obiettivo primario di dare una svolta totale alle meccaniche di gioco; ripartire da zero nel tentativo di allargare sempre di più l’utenza senza rinunciare all’altissimo livello qualitativo richiesto dal publisher. Un compito per niente facile a cui il nostro Hideki non si sottrae.
Aiutato un’altra volta da Sugimura alla scrittura, il progetto prende una piega totalmente diversa rispetto alle idee iniziali. Lo scenario di gioco viene stravolto a favore di una ambientazione più gotica e medioevale; le meccaniche da survival horror abbandonate per fare spazio a un approccio più votato all’azione e al dinamismo, gli sfondi prerenderizzati che caratterizzavano i capitoli precedenti vengono del tutto sostituiti da ambientazioni completamente in 3D, e di conseguenza anche la telecamera fissa lascia il posto a una camera più attiva e veloce. Del classico Resident Evil insomma rimane veramente poco ed è Mikami a suggerire di dare la luce a una nuova IP, sfruttando le grandi potenzialità del nuovo progetto e mettendo la sua creatura al sicuro da possibili contaminazioni che avrebbero portato la serie verso altri lidi.

Il team capitanato da Kamiya viene soprannominato Team Little Devils ed è proprio da qui che il director prende spunto per battezzare il suo ultimo lavoro: Devil May Cry. Uscito esclusivamente su PS2, il gioco diventa subito una devastante killer application per la casalinga di Sony e con il tempo raggiunge lo status di vero e proprio cult riuscendo a stupire per l’incredibile audacia di Kamiya nel saper unire alla perfezione meccaniche hack’n’slash con l’azione in terza persona. Adrenalinico, divertente e con un forte carisma, la prima avventura di Dante ha dato il via a una saga che oggi conta 5 episodi e un reboot distribuiti su tre generazioni di console. Tra alti e bassi, Devil May Cry è diventato velocemente un titolo di punta per la casa di Osaka, anche se il suo padre ideatore ne ha curato solamente il primo episodio per poi focalizzarsi su altri progetti.

Dopo il grande successo ottenuto con DMC, Capcom ripone piena fiducia nelle capacità del giovane designer tanto da concedergli carta bianca per i futuri progetti, ma non abbastanza da affidargli esosi budget. Così Kamiya mette in cantiere un prodotto atipico, unendo la sua passione per i vecchi giochi a scorrimento orizzontale con quella per i supereroi. Nasce un gioco talmente bizzarro da riuscire a trovare soltanto una piccola fetta di pubblico entusiasta, ma viene totalmente ignorato dalle grandi masse. Previsto inizialmente come esclusiva per Nintendo Game Cube e un anno dopo approdato anche sui lidi PlayStation, nel 2003 la Capcom distribuisce Viewtiful Joe. Seguendo le vicende di Joe e della sua compagna Go-Go Silvia, Kamiya imbastisce un beat’em up a scorrimento orizzontale che fa della sua cifra stilistica il maggior punto di forza. Tra citazionismi da otaku e scelte di gameplay atipiche, basate su una sorta di slowmotion controllato dal giocatore, il gioco racchiude in sé un potenziale che verrà fuori pienamente soltanto con il secondo capitolo. Purtroppo la saga non avrà lunga vita e dopo due capitoli principali, uno spin off sulla falsa riga del picchiaduro Super Smash Bros. e qualche exploit su portatile, Viewtiful Joe e soci sono stati presto dimenticati dal pubblico e da Capcom stessa, che riserverà al supereroe in calzamaglia rossa soltanto sporadiche apparizioni in altri titoli, come a dire “sì, ci piaci ma non così tanto da concederti un’ulteriore possibilità”.

Intanto, nei corridoi di Capcom, alcuni sviluppatori cominciano a sentire una certa insofferenza verso la casa produttrice, riguardo le sue scelte aziendali. Molti dei progetti in cantiere in quel periodo sono indirizzati con l’obiettivo di rischiare il meno possibile in termini di risorse ed investimenti. La dirigenza preferisce spendere budget in sequel di saghe che hanno dimostrato un ricavo sicuro e le creazione di nuovi brand non viene neanche preso in considerazione. Autori come lo stesso Mikami, Keiji Inafune, Atsushi Inaba e Masafumi Takada cercano di svincolarsi dal controllo dei vertici attraverso la creazione di team di sviluppo interni che rivendicano la loro indipendenza concettuale. Nasce così il leggendario Clover Studio, una piccola bottega delle meraviglie dove presero vita, oltre a Viewtiful Joe lo sfortunato God Hand e un secondo gioco di Kamiya: Okami.
È il 2006 quando il gioco viene pubblicato e fino ad oggi risulta essere il titolo tecnicamente più ispirato di tutta la produzione del designer giapponese. Okami è un vero e proprio tributo d’amore alle saghe preferite di Hideki, prima fra tutti un immancabile The Legend of Zelda, se non altro per le meccaniche di gameplay che strizzano continuamente l’occhio al capolavoro Nintendo; Kamiya non si limita a una vuota riproposizione degli stilemi classici della serie, ma aggiunge tasselli nuovi e originali, come la capacità del giocatore di pennellare letteralmente gli oggetti su schermo e di attaccare i nemici tramite questo magico strumento. E se un solidissimo adventure non dovesse bastare, i ragazzi Clover regalano ai giocatori uno spettacolo per gli occhi prendendo a piene mani dall’arte tradizionale del Sumi-e, ovvero la pittura a inchiostro e acqua. Uscito come esclusiva PS2, Okami non ha mai realmente brillato sul piano delle vendite, ma è stato così apprezzato nel lungo periodo che sono stati numerosi i porting operati da Capcom nel corso degli anni, portandolo su Wii e su tutte le console di attuale generazione attraverso i corrispettivi store digitali, dando la possibilità agli utenti di poter giocare a questa piccola gemma senza tempo.

Dopo la parentesi Okami, Clover Studio viene chiuso definitivamente da Capcom e gran parte del team si riunisce sotto un nuovo nome: lo stesso anno infatti viene fondata PlatinumGames, oggi famosa nell’intero globo per aver dato i natali ai migliori action degli utlimi anni. Grazie alla nuova indipendenza conquistata, i membri di Platinum iniziano a sviluppare giochi multi piattaforma sotto diversi publisher, mantenendo un buon margine di libertà creativa. Nel 2009 è sega la casa a finanziare i primi giochi del nuovo team a partire dal divertente Mad World uscito in esclusiva su Wii, passando per lo strabiliante Vanquish su PS3 e X-box 360.
Ed è sotto la nuova software house che Kamiya concepisce, a giudizio di chi scrive, il suo capolavoro: pubblicato per le console casalinghe di Sony e Microsoft, Bayonetta sarà la summa totale di ciò che il designer ha sempre cercato di raggiungere, l’action game definitivo. Il gioco è l’esatta evoluzione di quanto fatto con Dante su PS2: con un colpo di spugna Kamiya setta un nuovo standard per tutta la concorrenza e crea un manuale perfetto per le software house che da quel momento in poi vogliano cimentarsi nello sviluppo di un gioco d’azione. Con un palese riferimento allo storico Team dei “piccoli diavoli”, il designer chiama a raccolta i suoi migliori sviluppatori e crea il Team Little Angels lanciando più di una frecciatina alla sua ex compagnia, la Capcom. Kamiya alleggerisce i toni rispetto al più serioso e oscuro Devil May Cry: i personaggi si prendono meno sul serio e la storia, nonostante raggiunga momenti drammatici, non risulta mai pesante. Il gamepla è d’altro canto quanto di meglio si possa desiderare da un gioco di questo genere, la componente di attacco è incredibilmente bilanciata con la pericolosità e velocità dei nemici. Inoltre per poter uccidere un determinato tipo di avversari sarà necessario sbloccare il climax, ovvero una sorta di dimensione parallela dove Bayonetta può indistintamente colpire senza dare la possibilità al nemico di difendersi. Stilisticamente il gioco si discosta dalle avventure di Dante, preferendo un’ambientazione gotica che convive con strutture Liberty in grado di dare eleganza e un giusto tocco di femminilità e grazia. Tutto il gioco è un continuo ammiccare verso il giocatore e più di una volta vi ritroverete a parlare direttamente con la protagonista come se fosse cosciente della vostra presenza al di là dello schermo del televisore, una rottura della quarta parete inserita con intelligenza e grazia. Al momento della sua uscita il gioco riscosse un discreto successo di pubblico, purtroppo limitato dalla sventurata versione PS3 convertita in fretta e furia e senza le adeguate attenzioni. Il risultato fu talmente disastroso da inficiare il gameplay, con FPS ballerini e una resa grafica mediocre. Nel corso del tempo, e grazie alla mano vigile di Nintendo sul brand, il capolavoro di Kamiya ha ritrovato una seconda giovinezza passando da multi piattaforma a esclusiva totale per le console della casa di Tokyo, fatto che ha portato Bayonetta 2 (diretto da Hirono Sato) a essere una killer application per WiiU nel 2014 e che vedrà un terzo capitolo in esclusiva per la ibrida Nintendo nei prossimi anni.

L’ultimo gioco diretto da Kamiya risale però al 2013 ancora una volta su WiiU e rappresenta l’esperimento più bizzarro dell’ex Capcom: The Wonderful 101, un particolare incrocio tra un RTS e un gioco d’azione, basato sui riflessi e la coordinazione del giocatore. Il gioco chiama in causa un gruppo di supereroi determinati a salvare la terra dall’attacco di terroristi alieni nominati Geathjerk. Assurdo e improbabile, il gioco è un concentrato di idee geniali che sfruttano pienamente il paddone del WiiU. Graficamente piacevole e dal ritmo sfrenato, purtroppo non è stato considerato dal pubblico relegandolo nel girone dei giochi dimenticati troppo velocemente. È notizia recente però la volontà del designer giapponese di riportare la sua creatura all’attenzione del mercato attraverso un porting su Switch, occasione perfetta per incontrare il favore del pubblico su una piattaforma molto più popolare della precedente.

Il lavoro e la grande passione di Hideki Kamiya hanno portato una importantissima rivoluzione all’interno del genere action , creando due brand che hanno spinto i limiti fino ad allora raggiunti e che ancora oggi sono considerati dei veri e proprio cult nel settore. Nonostante la sua versatilità, il designer non sempre è riuscito a catturare l’attenzione del mercato mondiale pur continuando a regalare ai suoi sostenitori prodotti di una qualità estremamente elevata. In attesa di farci stupire ancora una volta dal padre di Dante non possiamo fare altro che augurare un futuro radioso all’intero team, abbracciando pienamente la loro filosofia di sviluppo che ha saputo donarci più di una soddisfazione da videogiocatore.




Sekiro: Shadows Die Twice – La Strana Cultura del Masochismo

Sono passati ormai poco più di dieci anni da quando Hidetaka Miyazaki ha definito un nuovo genere con Demons’ Souls, esclusiva PlayStation 3 che ha riscritto il concetto di sfida per i videogiocatori, con il protagonista (il giocatore stesso), immerso in un mondo a lui quasi sconosciuto, scoprendo il proprio destino tra mille difficoltà e ostacoli quasi insormontabili. Questo setting diede modo all’autore di portare avanti il proprio progetto con la trilogia di Dark Souls prima e Bloodborne poi.
Sekiro: Shadows Die Twice è però tutt’altro: l’iniziale strana partnership con Activision ha creato un prodotto sicuramente più accessibile ma anche dannatamente malvagio, in grado di far selezione già a partire dalle prime ore di gioco. Ma una volta superati tutti gli ostacoli, Sekiro è senza dubbio una delle migliori produzioni del 2019.

Dark Souls… in Giappone

Il Giappone dell’epoca Sengoku non è nuovo per le trasposizioni videoludiche (vedi Nioh), ma quando c’è lo zampino di From Software, tutto prende un’altra piega. Ogni elemento risulta nuovo, grazie alla solita spruzzata di dark fantasy che in questo caso rende la terra natia dell’autore un luogo magico e terrificante al tempo stesso. Anche all’interno di Sekiro: Shadows Die Twice ritroviamo gli elementi classici della poetica di Miyazaki: tra sangue, draghi, predestinazione ci si sente a casa anche se, la narrativa è decisamente più diretta. In questa produzione infatti, prendiamo le vesti di un personaggio con un proprio background narrativo e una sua caratterizzazione, uno shinobi caduto in disgrazia e che si troverà invischiato in situazioni ben più grandi di lui. Tutto viene raccontato attraverso cutscene, attraverso classici dialoghi con NPC (dotati di elementari animazioni labiali), level design e ovviamente attraverso le descrizioni degli oggetti, meno criptiche rispetto ai souls e in grado di arricchire una storia che si presenta ben più complessa di quanto sembri. Il mondo mostrato da From Software è dunque pieno di sfaccettature, ricco di NPC e di scelte più o meno velate che porteranno (dopo circa una quarantina di ore) a uno dei quattro finali disponibili.
Miyazaki dunque riesce a portare avanti il proprio pensiero riuscendo a portare anche in questo frangente un puzzle di storie, sentimenti e pericoli… più di quanto pensiate.

Weregame

Iniziamo col dire che proviamo pietà per tutti coloro che si approcciano a un titolo From Software per la prima volta, partendo proprio da questo. Al contrario delle precedenti opere infatti, in cui sin da subito venivano messe le cose in chiaro, qui le cose sono un po’ diverse. Si è discusso tanto della partership con Activision e per chi ha dimestichezza con le idee di Miyazaki, si riesce a capire benissimo chi abbia influenzato cosa. Ad esempio, sin dai primi momenti, tutto viene spiegato in maniera molto chiara, fornendo indicazioni utili sulla trama e sugli scopi da perseguire. Vi è persino una sezione allenamento dedicata, sfruttando un malcapitato non-morto che per sua volontà, verrà violentato dai colpi della Sabimaru, la Katana del nostro Sekiro. L’impressione è che l’ultima produzione “From” sia in qualche modo rivolta a un pubblico ben più vasto del solito, cercando di venir incontro anche ai “casual gamer” che non vogliono star ore a rimuginare su una singola frase presente in una descrizione di un oggetto. E così, invogliati a proseguire, quasi accompagnati per mano, ci accingiamo a entrare nel magico Giappone dell’Era Sengoku sino a quando, quella stessa mano, ce la si ritrova in faccia con maestosa e violenta potenza.
Tagliamo subito la testa al “Toro Infuocato”: Sekiro: Shadows Die Twice non è un gioco per tutti. Anche chi si è dilettato con i vari souls o Bloodborne si troverà di fronte a una cattiveria e malvagità senza precedenti, in cui ogni singolo errore può essere fatale.
Sekiro è qualcosa di completamente diverso, a cominciare dallo stile di combattimento, votato più all’azione offensiva che all’attesa, sfruttando le tante novità offerte dal titolo From Software. Niente stamina prima di tutto e questa è una mancanza a cui bisogna abituarsi in fretta: il poter attaccare, schivare o correre senza sosta è qualcosa di nuovo in questi frangenti e, se all’inizio questa libertà può dare alla testa, ci si accorge immediatamente di come un approccio sbagliato porti a un solo e singolo esito: morte. Ogni errore costa caro e riconoscere al più presto le movenze del nemico è assolutamente fondamentale. Il combattimento è dunque una danza, fatta passi leggeri, salti leggiadri e deviazioni effettuate al millisecondo. È questo il segreto di Sekiro, in cui è possibile anche parare i colpi avversari, ma a vostro rischio e pericolo: anche se invisibile, nelle serie precedenti, vi era una sorta di contatore di “equilibrio” che una volta sceso a zero, dopo aver ricevuto numerosi colpi, si entrava in una fase di stordimento che rendeva inevitabile qualsiasi colpo critico. Questo concetto, qui, viene estremizzato, portando addirittura a vista suddetta barra, denominata della Postura. Ogni colpo la danneggia e più si è feriti più lentamente si ricaricherà. Per evitare di rimanere brutalmente uccisi o facilitare l’eliminazione del nemico, sarà necessario imparare la deviazione (una sorta di parry), che infligge danni alla postura altrui riducendone i nostri. Bisogna tenere alta la soglia d’attenzione di ogni singolo movimento avversario, studiarlo e trovare soluzioni ma fortunatamente, abbiamo a disposizione alcuni strumenti in grado di aiutarci, utilizzabili attraverso la cosiddetta Protesi Shinobi, un arto meccanico in grado di ospitare diversi dispositivi – curioso come nel giro di pochi giorni abbiamo avuto come protagonisti due personaggi (Nero e Sekiro) con medesime caratteristiche –.

Ogni attrezzo shinobi, da una potente ascia a uno scudo in grado di respingere i proiettili avversari, possiede un proprio albero dei potenziamenti e altrettante caratteristiche; ognuno di essi può essere ovviamente adeguato o meno per il nemico che stiamo affrontando ma fortunatamente intercambiabili in tempo reale (per un massimo di tre strumenti) oppure sostituiti attraverso il menu (il gioco va in pausa). L’utilizzo di questi strumenti ampia a dismisura il gameplay, sopperendo in qualche modo alla mancanza di altre armi da utilizzare, avendo come sola e unica arma principale la Sabimaru. Tralasciando alcuni elementi tradizionali come fiaschette curative e oggetti di potenziamento, Sekiro è nuovo anche dal punto di vista dei movimenti, contando su una mobilità senza precedenti, sfruttando un level design che fa della verticalità il suo marchio di fabbrica. Il rampino del braccio prostetico è vitale non solo per l’esplorazione ma anche per tendere agguati o fuggire come un lampo; da notare come per scelta precisa di From Software è possibile appigliarsi solo in punti strategici, decisi a priori. Questo limita sì la libertà concessa al giocatore ma ha altresì permesso uno studio più attento della posizione di nemici e del protagonista all’interno del contesto, presentando le soluzioni migliori al videogiocatore.
Essendo uno shinobi, lo stealth entra prepotentemente all’interno del design del gioco; del resto Sekiro è in qualche modo una reminiscenza di un nuovo Tenchu. Abbiamo a disposizione un comando dedicato alla “postura stealth”, elementi ambientali da sfruttare e ovviamente le alture per monitorare le zone. Queste sezioni funzionano abbastanza bene in generale, permettendo di liberare potenzialmente una zona senza essere visto oppure origliare, carpendo informazioni utili per il prosieguo. Il problema deriva però da un’intelligenza artificiale che di certo non aiuta, con personaggi in grado di non accorgersi di una violenta morte a pochi passi ma di allarmarsi in gruppo a centinaia di metri di distanza. Tutto risulta purtroppo mal calibrato e soprattutto poco approfondito, nonostante lo sblocco di abilità a essa dedicate. Proprio queste abilità, unite a quelle offensive e speciali sono il modo con cui il nostro personaggio può evolvere e migliorare, unito alla possibilità di aumentare vitalità, postura e forza d’attacco solo ed esclusivamente attraverso l’ottenimento di oggetti chiave.
Infine arriviamo all’elemento più controverso, il concetto di morte che per From Software è molto caro. Resuscitare, oltre che elemento narrativo, è qualcosa che bisogna imparare a sfruttare a livello strategico. In certi frangenti la morte può salvarvi la vita ma bisogna fare tremenda attenzione. Una morte sfrutta un nodo speciale che può essere ricaricato attraverso il riposo agli Altari dello Scultore (Falò) o attraverso i colpi critici inferti ai nemici. Ritornare in vita ha delle conseguenze, non solo su Sekiro (percentuale di monete ed esperienza persa per sempre), ma anche sul mondo di gioco che in qualche modo può ricordare la Tendenza dei mondi di Demon’s Souls.
Sekiro: Shadows Die Twice è dunque un titolo completo sotto tutti i punti di vista, nonostante sia lontano dalla varietà dei souls. Ma queste sue caratteristiche, in qualche modo, rendono l’esperienza di gioco comunque unica per ogni giocatore, che potrà comunque sfruttare ciò che ha imparato nel new game + o in qualche futura espansione che siamo sicuri, arriverà.

Kintsugi

From Software non ci ha abituato a titoli “spacca-mascella”, cosa che si riconferma anche in questo frangente. Nonostante però non vanti qualità visive di altri titoli, in qualche modo, non se ne sente ne la mancanza, ne il bisogno. La capacità della casa di Tokyo di rendere memorabile qualunque anfratto degli ambienti di gioco e dei personaggi, nonostante texture, shader e luci poco a passo coi tempi, è sorprendente, con l’impressione abbastanza concreta che tutto sia costruito mettendo in cima alla lista la direzione artistica prima di qualunque altra cosa. Tutte le sezioni presenti hanno una loro personalità, dai valichi innevati a lugubri villaggi, dove noi, assieme a Sekiro, possiamo immergerci alla stessa maniera con cui in Dark/Demon’s Souls affrontavamo una nuova zona. Il level design, benché colleghi meno tutto l’ambiente di gioco, è come da tradizione su altissimi livelli, ricchi di scorciatoie, segreti, tutto studiato per essere affrontato nella migliore maniera possibile. Ma vi è un’altra tradizione, anche se di stampa negativa: i difetti classici delle serie precedenti permangono, come compenetrazioni letali e la gestione della telecamera, senza dubbio migliorata ma ancora non perfetta, rendendo alcuni scontri ancor più difficili di quanto siano.
Sul fronte audio, ritorna il doppiaggio italiano, che svolge un buon lavoro cercando di replicare in qualche modo la solennità di certi dialoghi e la psicologia di Sekiro, un uomo distrutto, che dopo aver perso qualunque stimolo, ritrova un proprio scopo. In qualche modo però, la lingua originale (giapponese) riesce a restituire qualcosa in più, probabilmente grazie al contesto generale e a doppiatori forse un po’ più in parte. Menzionando il suono di deviazione della Sabimaru che presto diventerà iconico, le musiche svolgono un ruolo chiave, presenti anche come accompagnamento ambientale. Ovviamente è durante le boss fight che questa componente da il meglio, comunicando sempre qualcosa su chi stiamo affrontando, tra musiche auliche, malinconiche ed evocative.

In conclusione

Sekiro: Shadows Die Twice è semplicemente il titolo più malvagio prodotto da From Software. Nonostante un’accessibilità facilitata, probabilmente su direttive Activision, Sekiro è qualcosa che raramente si vede all’interno del mercato videoludico, qualcosa che se ne infischia della massa e capace di far selezione già dalle prime ore. Ma se si è perseveranti, pazienti e abbastanza abili, vi ritroverete tra le mani una perla, un gioco maestoso sporcato soltanto dai difetti tipici delle produzioni From Software, alla quale probabilmente non vuole (o sa) porvi rimedio. Nonostante questo, Sekiro: Shadows Die Twice rimane senza dubbio nella top tre del 2019, nonostante l’anno, sia appena iniziato.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Sapphire Radeon RX 580 8GB NITRO+ Special Edition
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10




Hi, my name is… Michel Ancel

Nella storia dell’industria videoludica la maggior parte dei giochi in grado di trainare intere generazioni di designer e giocatori nascono da un’idea semplice, elementare ma che nella loro immediata intuitività lasciano un solco indelebile, un passaggio obbligato per tutto quello che verrà da quel momento in poi. È l’esempio della saga, ormai diventato uno dei franchising più redditizi del mercato, di Super Mario Bros. o quella di Sonic the Hedgehog rispettivamente di Nintendo e Sega. Prodotti che hanno saputo creare due icone indelebili del videogioco e che ancora oggi vengono facilmente identificati come simboli dell’intero settore. Come si può mai pensare di arrivare a concepire un personaggio con una forza iconica tale da essere accostato a questi due giganti? Un buffo omino francese è riuscito nell’impresa nell’ormai lontano 1995, ritagliandosi un piccolo spazio nella legenda: stiamo parlando di Michel Ancel, il papà di Rayman.

Classe 1972, Michel Ancel inizia la sua avventura come graphic artist alla Lankhor curando l’estetica dei mecha in Mechanic Warriors. L’abilità di riuscire a sfruttare la pochezza dell’hardware corrente riuscendo a disegnare splendidi sprite in pixel art convince la dirigenza di una giovane Ubisoft a chiamarlo tra le sue fila, affidandogli il delicatissimo compito di sviluppare un gioco che potesse donare alla compagnia un’identità, in grado di distinguerla dalla concorrenza. Ancel accetta la sfida e recupera il concept di un personaggio disegnato anni prima, influenzato da vecchie fiabe dell’est Europa. Inconfondibile, grazie al suo ciuffo biondo, il naso pronunciato e la pancia ovale dal colore di una melanzana; Ancel dà vita al personaggio di Rayman la prima vera e propria mascotte della compagnia transalpina. Il primo capitolo della serie si presenta come un classico platform a scorrimento 2D con tratti adventure. Lo scopo dell’eroe è quello di salvare il mondo dalle forze del male scatenate dal pericoloso Mr. Dark e per riuscire nell’impresa, Rayman dovrà salvare tutti gli Electoons e ripristinare l’equilibrio attraverso il Grande Protone, il cuore pulsante del mondo. Con questo primo capitolo Ancel entra a gamba tesa in un mercato in piena fibrillazione (la nascita del dominio Sony con PlayStation) e lancia in tutto il globo la sua nuova creatura, ridefinendo il concetto di platform 2D. Rayman è in grado di correre, arrampicarsi, attaccare i nemici dalla distanza, planare col suo ciuffo giallo in scenari pregni di una fantasia creativa spiazzante. Il mondo di gioco è curato nei minimi dettagli, i personaggi sono carismatici e divertenti e le composizioni musicali di Didier Lord e Stephane Bellanger, in grado di mescolare generi totalmente differenti tra loro in maniera impeccabile, stupiscono per la freschezza e originalità. Rayman entra prepotentemente nell’immaginario di moltissimi giocatori facendo la fortuna di Michel e sicuramente quella di Ubisoft che decide di lanciare il prodotto su più piattaforme, dall’ Atari Jaguar al Sega Saturn dimenticando però le sue origini: il 3 Luglio 2017 viene rilasciata una ROM contenente il prototipo di quello che sarebbe stato il primo episodio dell’uomo melanzana, confermando di fatto la tesi che il progetto in origine doveva sbarcare sui lidi del Super Nintendo abbandonandolo all’ultimo momento per un supporto su CD-rom molto più economico e funzionale. Ciò nonostante la creatura di Ancel fa il botto con le sue 10 milioni di copie vendute in tutte le edizioni, garantendo lunga vita a quella che sarebbe diventata una delle saghe più amate dagli utenti e consegnando alla storia un grandissimo capolavoro degno del suo successo.

Subito dopo la fine della produzione del primo capitolo, Ancel e il suo team si resero conto della mole di idee accumulate durante lo sviluppo; tante quante ne basterebbero per una seconda avventura. Tuttavia agli inizi dei lavori ci fu una svolta inaspettata: l’idea di un platform bidimensionale fu messa da parte per concentrarsi in qualcosa di nuovo al passo con l’evoluzione della grafica 3D. La concorrenza aveva già dimostrato come fosse possibile incastrare le meccaniche del genere ampliandole a dismisura grazie alla tridimensionalità (Super Mario 64, Crash Bandicoot, Sonic Adventure). Così nel 1998 Ubisoft pubblica Rayman 2: The Great Escape su tutte le piattaforme casalinghe divenendo sin da subito un successo planetario di critica e pubblico. Ancel decide di allargare l’universo intorno Rayman aggiungendo nuovi personaggi, abilità inedite e scenari radicalmente differenti a quelli presenti nel predecessore; i toni sono più cupi e l’atmosfera si fa generalmente più seria, pur non mancando una divertente dose di humor, tra gag e battute al vetriolo, mai banale e ben congegnate conferendo spessore ai personaggi che si fanno amare sin dai primi momenti. Il designer decide di affiancare al protagonista un ottimo comprimario come Goblox, che dal secondo capitolo in poi diventerà una presenza fissa nell’universo dell’uomo melanzana, affidandogli gran parte dell’aspetto comico del titolo in contrapposizione con la maturità raggiunta dal protagonista. Fanno la prima apparizione anche i Teens strani ominidi dal naso lungo che si riveleranno utili per salvezza del mondo, la fata Ly La personaggio che non verrà più ripreso negli episodi canonici della serie ma che traccerà la via per tutti i personaggi femminili e un nuovo villain: l’ammiraglio Razorbeard un cattivissimo pirata robotico intento nella conquista di tutto ciò che lo circonda. Il lavoro partorito da Ancel e il suo team si rivela un prodotto perfetto in ogni suo aspetto e una validissima continuazione del percorso tracciato con il primo capitolo. Il designer crea un platform tridimensionale gigantesco, prendendo le dovute distanze con i suoi diretti oppositori per creare qualcosa di unico e in qualche maniera rivoluzionario. Universalmente riconosciuto come uno dei più bei giochi della storia, Rayman 2 aggiunge un ulteriore tassello al mosaico di Ancel, portando la sua creatura al massimo compimento concettuale. Con il secondo capitolo di Rayman il nome del designer esplode in tutto il mondo e da questo momento in poi gli viene conferita la più totale libertà creativa necessaria per sviluppare le sue opere future, senza limiti di sorta.

Arriviamo così agli anni 2000 nei quali Ubisoft sente la necessità di sfruttare al meglio il brand, inserendo il personaggio dell’uomo melanzana in inutili spin-off (Rayman M, Rayman Rush) che, pur non essendo un completo fallimento di vendita, nulla aggiungono alla saga che ormai si regge benissimo in piedi da sola. Nel 2003 la casa di produzione francese pubblica il terzo capitolo Rayman 3: Hoodlum Havoc questa volta senza la direzione del padre creatore. Il design della maggior parte dei personaggi viene ritoccato e modernizzato, la componente platforming leggermente ridimensionata per fare spazio all’aspetto più action e tattico. I toni vengono smorzati dalla continua ironia dei personaggi e da una sapiente rottura della quarta parete. Vengono introdotti power up ed un sistema di combo a punteggi per invogliare il giocatore a ripetere i livelli in cerca del massimo score possibile. Nonostante la mancanza di Ancel, il terzo capitolo si dimostra all’altezza della situazione, senza grosse sbavature nel gameplay e con un lato tecnico impeccabile per l’epoca. Il design dei personaggi e delle ambientazioni è piacevole e mai stancante. La trovata delle combo multiple si rivela azzeccata e spinge il giocatore a portare al massimo la sua bravura e i suoi riflessi. Il nuovo villain, il Lum cattivo Andrè, insieme ai suoi sgherri svolge egregiamente il suo compito e gli autori sono riusciti a dare il giusto carisma e simpatia senza risultare fuori contesto o ridondanti. Tutto risulta fresco e moderno grazie a un gameplay più frenetico rispetto al passato, riducendo di molto l’esplorazione del capitolo precedente. Ancel non ne fu pienamente convinto dichiarando che la sua idea era profondamente diversa, ma le vendite su tutte le piattaforme di quarta generazione furono soddisfacenti per i dirigenti Ubisoft che decisero di scommettere ancora su questa saga.

Nel frattempo Michel lavorava a quello che probabilmente è il suo più grande capolavoro, passato in sordina a causa di scelte commerciali di Ubisoft poco condivisibili; si tratta di Beyond Good & Evil, uscito lo stesso anno su PS2, Xbox e GameCube.
Nessuno si sarebbe aspettato da questo gioco una tale profondità nei temi e nelle intenzioni. Un’action adventure che va oltre la sua origine di medium d’intrattenimento, scavando nella natura umana/umanoide dei personaggi tirati in ballo. La storia si focalizza sulla protagonista Jane rimasta orfana in tenera età e accolta dal maiale senziente Pei’j. I due insieme fondano una casa di accoglienza per orfani dove vivono e trascorrono la maggior parte del loro tempo libero: Jane infatti lavora come fotografa d’inchiesta freelance per varie testate, Pei’j invece si occupa della manutenzione del casa e della creazione di congegni meccanici utili alla protagonista. L’apparente serenità delle loro vite verrà sconvolto a causa di un improvviso attacco da parte dei DomZ, entità aliene in grado di nutrirsi attraverso le energie vitali degli essere viventi. Con colpi di scena inaspettati e voltagabbana pronti a mettere in discussione le posizione e le ambiguità dei personaggi, Ancel descrive una realtà incredibilmente complessa ed efficace, arrivando a toccare corde emozionali raramente raggiunte in un titolo del genere. La psicologia e le relazioni tra i protagonisti ricorda i celebri lungometraggi di Hayao Miyazaki per la sensibilità con cui vengono proposte certe tematiche, senza mai incappare nell’errore di risultare pedante e retorico. Tecnicamente tutto si presenta in maniera superba, con modelli poligonali e animazioni dettagliatissime, un gameplay vario e sempre divertente, esente da momenti di stanca e ripetitività, un accompagnamento sonoro di primissimo livello con le musiche scritte dall’artista Cristophe Heràl che ritroveremo insieme al designer in progetti futuri, scenari straordinariamente vivi e complessi che strizzano più volte l’occhiolino a giganti della letteratura come il Fahrenheit 451 di Ray Bradbury o 1984 di George Orwell, con la loro paranoica chiave di lettura di un mondo oppresso e compiaciuto della propria obbedienza civile. BG&E è un titolo splendido, magistralmente diretto da una mano delicatissima e in stato di grazia; Ancel alza ancora una volta l’asticella qualitativa consegnando ai giocatori un gioiello più unico che raro. Un prodotto imprescindibile e di smisurata bellezza che purtroppo ha visto soffocare le proprie aspirazioni (originariamente concepito come una trilogia) a causa di vendite mortificanti, decretate da una finestra di lancio sbagliatissima per una nuova IP; il titolo si trovò a gareggiare con un altro prodotto Ubisoft sotto il periodo di Natale: Prince Of Persia: Le Sabbie del Tempo, maggiormente spinto da una campagna pubblicitaria assordante che lasciò nell’ombra dell’indifferenza da parte del pubblico il capolavoro del designer francese. La critica al contrario lo accolse con grande calore definendolo il gioco d’avventura più bello della generazione insieme al monumentale The Legend of Zelda: Wind Waker. A causa del flop, il titolo venne reso disponibile dopo pochi mesi con un significativo sconto del 70% sul prezzo di base, nella speranza di spingere le vendite in maniera piuttosto vana. Solo con la rimasterizzazione in HD del 2012 il gioco vide riconosciuti i suoi meriti dalla utenza che spianò la via alla produzione di un prequel, annunciato per la scorsa generazione e ancora in fase di sviluppo. Non si hanno notizie sulla sua eventuale data di uscita e su quale piattaforma sbarcherà definitivamente, ma rimaniamo fiduciosi in attesa di notizie da parte di Ubisoft.

Arriviamo così al 2005 anno in cui Ancel si trova lavorare a un progetto atipico rispetto ai suoi precedenti lavori. Infatti il designer viene contattato personalmente dal regista di blockbuster Peter Jackson, da sempre amante dei videogiochi e profondo stimatore del lavoro di Ancel, per lavorare al tie-in della sua ultima pellicola, ovvero il remake del classicissimo King Kong. Il team guidato da Michel sviluppa un first person shooter con l’intenzione di creare un’altissima immedesimazione da parte del giocatore, eliminando qualsiasi indicatore su schermo e lasciando tutto lo spazio libero alla visuale in game. Quello che ne viene fuori è un ottimo gioco su licenza, probabilmente uno dei migliori mai prodotti, che riporta fedelmente l’atmosfera della pellicola riuscendo a creare una genuina sensazione di scoperta e di costante precarietà, minacciati dai pericoli incombenti da ogni angolo. Tecnicamente, il team di sviluppo, spreme al massimo le capacità degli hardware disponibili, supportati anche da un cospicuo budget di fondo. Questa volta riesce ad accontentare tutti sia nei numeri che nella critica di settore, incassando vendite che riescono a soddisfare le aspettative di mercato (si parla di 5 milioni di copie, mica male per un gioco su licenza) e portando a compimento un altro grande lavoro del designer, che non si farà ricordare di certo per questo prodotto ma che dimostra ulteriormente la propria versatilità e lungimiranza nel campo.

Da qui in poi Ancel si prende una lunga pausa durante la quale da a battesimo lo spin-off più longevo della saga di Rayman; ovvero Rayman Raving Rabbids. Il titolo viene presentato nel 2004 come un possibile ritorno dell’uomo melanzana, questa volta alle prese con una invasione di massa da parte dei Rabbids, conigli dotati di un quoziente intellettivo pari a un comodino in grado però di creare problemi al nostro eroe di turno. Il gameplay era pensato per sfruttare i sensori di movimento dei nuovi controller del Nintendo Wii, ma le cose alla fine andarono diversamente. Ubisoft decise di mettere tutto in discussione e il franchise dei Rabbids prese una via autonoma e nettamente diversa dalle idee iniziali. La serie divenne presto un successo di vendite grazie alla decisione di sfruttare i nuovi personaggi in un contesto da partygame. I capitoli uscirono uno dopo l’altro perdendo presto lo smalto di novità e divertimento, uscendo a cavallo tra due generazioni di console. Gli unici titoli degni di nota sono il divertente puzzle platform Rabbids Go Home, uscito nel 2009 sulla piattaforma casalinga di Nintendo, che decise di staccarsi dalla schiera di giochi da festa riuscendo, meglio dei capitoli precedenti, a sfruttare la simpatica antipatia dei protagonisti conigli e lo strategico a turni Mario + Rabbids Kingdom Battle, giunto nel mercato nel 2017 come un fulmine al cielo sereno; sviluppato dalla italiana Ubisoft Milano su Switch in collaborazione con una Nintendo che stranamente si apre a nuove possibilità di sfruttamento dei propri marchi, il gioco sorprende per la capacità di sapere coniugare due titoli molto distanti tra loro in un contesto inedito e ben architettato. I Rabbids divennero rapidamente un fenomeno di massa nel mondo, con milioni di copie vendute, gadget e corti animati dedicati totalmente a loro mettendo in secondo piano Rayman che nel frattempo rifletteva in silenzio sul suo destino.

Nel 2011 Ancel riporta al centro dell’attenzione la sua preziosa creatura con il bellissimo Rayman Origins uscito su PS3, Xbox 360, Nintendo Wii e console portatili. Una sorta di reboot della saga, una partenza da zero ritornando alla essenza originale: il platform a scorrimento bidimensionale. Grazie al nuovo engine grafico proprietario (il versatile UbiArt Framework) il team  riesce nell’impresa di regalare ai giocatori un vero e proprio cartoon interattivo. Il tratto dei personaggi è disegnato a mano, così come gli scenari e qualsiasi altro elemento in game; differendo però concettualmente nello stile rispetto al capostipite; qui tutto è molto più caricaturale e smaccatamente ironico e autocitazionista. Il level design è quanto mai brillante e puntuale; ogni movimento è studiato nel millimetro e la sensazione di frenesia incontrollata è ripagata da una repentina soddisfazione da parte del giocatore nel vedere sbizzarrirsi in movimenti acrobatici e precisi. Tutto è studiato al minimo dettaglio, dalle divertentissime animazioni, al design esagerato dei personaggi, alle sonorità disimpegnate ma assolutamente orecchiabili e ben orchestrate (qui ritorna Christophe Heràl alla cabina di regia). Ancel da la possibilità di giocare in multyplayer locale scegliendo di porre come protagonista indiscusso non solo Rayman ma anche gli amici di lunga data, ritornano così Globox e i Teens più altre varianti dell’uomo melanzana. Ancora una volta il brand riesce a rinnovarsi ma anche a rimanere fedele a se stesso, portando nuovamente in auge un genere che molti davano per morto e superato, diventandone al tempo stesso uno dei maggiori esponenti moderni. Le vendite furono solamente discrete ma col passare del tempo e del passaparola anche Origins venne accolto positivamente dal pubblico. Sorte che capitò al suo sequel: Rayman Legends, uscito nel 2013. Ubisoft ebbe da affrontare una gestazione complicata del titolo, annunciato in pompa magna come esclusiva per lo sfortunato WiiU ma subito ritrattato e fatto uscire per tutte le altre console domestiche. Legends riprende il discorso lasciato da Origins e lo trasporta in un mondo atemporale, dove Medioevo e antica Grecia si ritrovano a confronto fra loro. Niente di innovativo e rivoluzionario rispetto al predecessore ma comunque l’ennesima ottima prova di una mente geniale come quella di Ancel che sembra non voler stancare mai. Un nuovo inizio di una saga che oggi non ha chiara la direzione da intraprendere. Vedremo presto un Rayman 4 o dobbiamo aspettarci un nuovo capitolo in due dimensione sulla fasla riga degli ultimi? Nell’attesa Ancel si concede un’ulteriore pausa dalla serie lavorando al secondo capitolo dell’incompreso Beyond Good & Evil e a Wild, un procedurale preistorico annunciato al Gamescom nel 2014 per PlayStation 4 ma misteriosamente sparito nel nulla.

In conclusione Michel Ancel pur non avendo lavorato a moltissimi titoli ha lasciato chiaramente una traccia nell’evoluzione del videogioco, confermandosi più volte come uno dei più importanti Designer contemporanei; riuscendo a innovare il genere del platform come solo il maestro Shigeru Miyamoto ha saputo fare (non è un segreto la loro stima reciproca) e a creare un’icona per moltissimi videogiocatori. Ancel ha sempre giocato sulla forza caratteriale dei propri personaggi infondendo tutto l’amore e la passione per il proprio lavoro. Una mente geniale che gioco dopo gioco riesce a rinnovarsi senza perdersi nel riciclo di se stessi; rispettoso delle esigenze del proprio pubblico e catalizzatore di ricordi ed emozioni che solo un mezzo come il Videogame riesce a trasmettere; attraverso un plasticoso Joypad e l’intimità del salotto di casa.




Il videogioco come upgrade cognitivo spiegato agli italiani

Viviamo un’epoca molto particolare, dove la tecnologia sembra andar più veloce della capacità che ha l’uomo di apprenderla. Tutto il mondo è lì che freme, sperando in una scoperta o in un’invenzione in grado di cambiare la storia ma c’è un posto particolare, un paese che vive di mille contraddizioni, capace di collaborare attivamente al lancio di una sonda su Marte e, al contempo, di andare in paranoia dopo alcune dichiarazioni di Fabrizio Corona. Questo paese purtroppo non è la Francia ma il nostro, quell’amata/odiata Italia che nonostante tutti i problemi continua a rimanere la settima nazione più potente al mondo (o così dicono). E in un paese simile, diviso tra Papa, Barbara d’Urso e Calenda, i videogiochi non potevano che essere visti alla stessa maniera con cui un britannico vede il bidet: oggetti misteriosi, la cui funzione può solo esser recepita da prescelti.
Ma non siamo certo qui a parlare di come noi poveri videogiocatori veniamo osteggiati dalla comunità italiana bensì, di illuminare la loro visione con alcuni dati importanti sugli effetti che alcune tipologie di videogiochi possono avere sul cervello umano. Ma attenzione: non stiamo nemmeno dicendo che tutti i videogiochi siano formativi e nemmeno che dovreste passare 25 ore al giorno a giocare davanti alla TV. Come ogni media, quello videoludico è in grado di passare da vette elevate come Bioshock a quelle più terragne come Fortnite. Del resto non tutti i film sono Quarto Potere o tutti i romanzi sono 1984.
Dunque «cari italiani e care italiane», scopriamo assieme come sfruttare questo potente mezzo, invece di gridare “al lupo!” senza un valido motivo.

Facile facile

Essere arrivato fin qui è già un bel traguardo dopo aver letto qualche riga introduttiva: vuol dire che in qualche modo si è interessati all’argomento. Grazie.
Partiamo dal principio: il concetto de “il videogioco fa male” esiste sin da quando i primi esemplari arrivarono sul mercato italiano. C’è da dire che Pong non vanta certo una trama interessante o per lo meno, degli insegnamenti da trarre; un semplice passatempo ma già in grado di allarmare genitori di tutto lo stivale, abituati a fare cruciverba sui giornali. Ma cari italiani e care italiane, seriamente: il pericolo è lo strumento in sé o l’uso che se ne fa? In base a un simile ragionamento dovremmo tutti eliminare dalla cucina i coltelli; ma poi vorrei vedervi tagliare una bistecca col cucchiaio. Ma siamo sicuri che qualcuno potrebbe uscirsene con “eh ma almeno lo sforzo che fai in più ti permette di bruciare calorie in eccesso”. Quasi quasi divento vegano.
Ma veniamo al punto: già quel Pong, composto da due barrette e un quadratino, era in grado di apportare piccoli ma significativi cambiamenti nel cervello umano, aumentandone riflessi e capacità visiva. Da allora, centinaia sono gli studi che si sono avvicendati, a volte contraddicendosi, a volte arrivando alla stessa medesima conclusione. Di pari passo, anche i videogiochi si sono evoluti, da semplici passatempo a super blockbuster sino a videogame in grado di approfondire tematiche e concetti in maniera più efficace di qualunque altro media. E gli effetti che ognuno di questi generi ha sul cervello umano sembrano specialistici, sviluppando aree diverse e con diversa efficacia.
Partiamo dunque dalla Queen Mary University di Londra e l’University College London che pochi anni fa, hanno condotto studi sulle potenzialità dei videogiochi nello sviluppo del cervello umano; del resto di questo stiamo parlando. Un gruppo di 72 persone, suddiviso in tre sottogruppi, è stato sotto esame da parte degli scienziati delle Università, facendoli giocare a StarCraft e The Sims, entrambi gestionali ma con una forte vena strategica per il titolo spaziale Blizzard. Nel primo infatti, l’organizzazione di risorse e del proprio esercito è fondamentale per riuscire ad avere la meglio sul nemico, cose che spinge un videogiocatore ad adattarsi velocemente a diverse situazioni, creando o rielaborando tattiche e strategie in tempo reale. In poche parole è quello che dovrebbe fare un allenatore di calcio nel bel mezzo di una partita e utilizziamo questo esempio proprio perché l’italiano medio, oltre a esser politico, economista, filosofo, letterato, fisico nucleare e chi più ne ha più ne metta, è anche allenatore. Capito questo è facile arrivare al cosiddetto multitasking, capacità di effettuare più compiti contemporaneamente che sembra essere una prerogativa di ogni videogiocatore.
The Sims invece è semplicemente The Sims, un simulatore di “Dio” che dovrebbe guidare il proprio popolo verso la felicità ma che invece cerca di applicare la legge di Murphy al 100% delle sue possibilità. Rispetto a StarCraft siamo in tutt’altro ambito, con una gestione molto più semplificata e quindi più alla portata di tutti. L’aver giocato quaranta ore, distribuite in sei-otto settimane, cosa avrà comportato? Sicuramente ci sarete arrivati da soli ma è giusto sottolinearlo: i risultati dei test, pubblicati sulla rivista PLoS One, hanno evidenziato come i videogiocatori di StarCraft siano molto più rapidi nel prendere decisioni, dovute essenzialmente a una maggiore attenzione e velocità nell’elaborare in tempo reale quanto stia avvenendo. Essendo una capacità discretamente importante, capace di portarci qui dove siamo ora, è interessante come questa possa essere allenata e migliorata semplicemente giocando, divertendosi; ammesso e concesso che con StarCraft ci si diverta, ma non entriamo nel merito.
E quelli che hanno giocato a fare Dio? Risultati discreti, dovuti a una minore attenzione allo svolgimento del gioco, essendo più semplice in linea generale. Questo lo si nota anche dai test psicologici avvenuti dopo le sessioni di gioco che hanno dimostrato una migliore risposta ai cambiamenti e problem solving nei giocatori dello strategico spaziale. Ma anche la vista, sembra risultare potenziata, al contrario di quello che i nostri cari ci hanno detto: sembra che l’estrapolazione di dati in un contesto confuso e la distinzione di maggiori gradazioni di grigio, migliori a tal punto che si sta pensando di produrre videogiochi specifici per pazienti affetti con problemi alla vista. Ma questi studi, vi chiederete voi, hanno una qualche finalità? Esistono alcune problematiche legate a deficit d’attenzione o iperattività che potrebbero essere alleviate semplicemente giocando a videogiochi specifici, ma ovviamente andranno eseguiti studi più approfonditi. Se non sapete bene di cosa parliamo, basta fare un giro su Facebook.

Nietzsche, D’Annunzio e Super Mario

Dunque, abbiamo capito come alcuni videogiochi possano migliorare multitasking e problem solving ma sappiamo che esistono altre aree del cervello e altre capacità umane. Se state pensando “eh ma io sto già su Facebook, Twitter, Instagram e PornHub contemporaneamente, commentando”, buon per voi. Ma non vi piacerebbe migliorare la visione d’insieme, distinguere più oggetti ed esser più reattivi? Qui intervengono, secondo l’Università di Ginevra, un’altra tipologia di videogiochi: quelli d’azione. Calma, calma. Cari italiani e care italiane, possiamo percepire le vostre paure riassunte in “mio figlio diventerà un delinquente se gioca ai videogiochi violenti”; certo, potrebbe accadere, con la stessa probabilità che ha il Foggia di vincere la Champion’s League tra tre anni. Ma mettiamo da parte gli allarmismi ingiustificati e ragioniamo a mente fredda, traendo le dovute conclusioni. Pubblicato sul Psychological Bulletin, lo studio dei ricercatori svizzeri, è stato condotto su 15 anni di test su diversi pazienti (o cavie se preferite), arrivando alla conclusione che determinati videogame à la Call of Duty, possono migliorare in maniera sensibile le capacità cognitive dei videogiocatori. Questo include la cosiddetta “attenzione spaziale“, la capacità di riconosce oggetti in ambienti confusi, oltre al già citato multitasking e la capacità di cambiare direzione di pensiero, per così dire la capacità di contraddirsi, andando contro un’idea predeterminata. Anche qui i videogiocatori, ne escono vincitori rispetto a chi non fa uso di questi mezzi ma c’è una domanda che ogni buon scienziato si è posto, invece di accettare dati per assodati come fosse un titolo di un giornale scandalistico: sono i videogiocatori, che avendo insite queste predisposizioni, sono portati a giocare oppure, queste capacità derivano dall’aver giocato? Lo studio condotto su un campione di 2883 giocatori (specifichiamo che all’interno del gruppo i soggetti erano sia maschili che femminili), divisi in due gruppi distinti, messi a giocare rispettivamente videogiochi d’azione (FPS, TPS, Action) e videogiochi di ruolo e casual (Sims e Puzzle Game), per circa otto ore settimanali. I risultati, scontati: chi ha giocato a titoli action ha migliorato di gran lunga le loro capacità cognitive rispetto ai videogiocatori casual e questo, sembra risultare anche da altri studi in tutto il mondo come la Columbia University, California University e del Wisconsin. Quindi sembra tutto rose e fiori e, cari italiani e care italiane, forse state cambiando idea sull’uso dei videogame. C’è un “però”, e per completezza andiamo a citare anche altri studi. Abbiamo già detto come i videogiochi interessano aree del cervello specifiche e, se abbiamo notato come i videogiochi action aumentino le capacità cognitive, a quanto pare, da uno studio effettuato dall’Università di Montreal, proprio l’anno scorso, ha evidenziato una riduzione della massa dell’ippocampo di circa il 2%. Prima di gridare “oddio moriremo tutti”, osserviamo con attenzione lo studio partendo dalla definizione di ippocampo, che non è in questo caso il cavaluccio marino ma una parte fondamentale del cervello che ci permette di orientarci e di ricordare esperienze passate. Dunque, se ricordare il primo vincitore del Grande Fratello è tutto merito (o demerito) di questa parte del corpo. Ma nello studio pubblicato su Molecular Psychiatry era interessato anche lo striato, un’altra parte del cervello che ci permette di formare le abitudini, come il ricordarci come ci si siede.
Questo studio è stato effettuato prendendo come campione 51 uomini e 49 donne (maledetta disparità), mettendoli a giocare con Call of Duty, Killzone: Shadow Fall e Super Mario, proprio lui, separando i gruppi in “apprendisti spaziali” (ippocampo) e “apprendisti da risposta” (striato). I pazienti dunque, sono stati posti davanti a un labirinto virtuale in cui raccogliere determinati oggetti e uscendone il più rapidamente possibile. Si è notata una certa differenza d’approccio tra i due gruppi, in cui, quello spaziale, era più propenso a orientarsi attraverso oggetti specifici come alberi o montagne mentre quelli da risposta, ricordando il percorso, nelle sequenze di svolte a destra e sinistra. Dopo 90 ore di gioco, tra CoD, Killzone e Mario, i nodi sono venuti al pettine: ai giocatori che hanno giocato agli action è stata riscontrata la riduzione dell’ippocampo sopracitata mentre i giocatori di Super Mario ne hanno visto un’aumento. Da notare come chi affetto dalla riduzione, abbia recuperato con lo stesso titolo Nintendo. Se tutto questo è ancora oggetto di studio, anche perché gli effetti potrebbero essere temporanei, c’è da notare come la diversificazione di genere da parte di un videogiocatore, possa portare benefici generali. Questo, ovviamente con un uso attento, senza esagerare.

Alla Calenda greca

Non potevamo che concludere con l’ex Ministro Carlo Calenda che con «Sarà forte ma io considero i giochi elettronici una delle cause dell’incapacità di leggere, giocare e sviluppare il ragionamento. In casa mia non entrano» ha quasi sfiorato l’incidente diplomatico all’interno del nostro stesso paese, perché si sa, l’italiano medio è quella creatura che possiede la propria visione del mondo, unica e inattaccabile. Non parleremo di come l’ottava arte (quella videoludica, se vi fosse sfuggito), abbia un forte impatto sulla cultura moderna e di come sia viatico di una nuova forma di comunicazione del sapere di questo secolo. Come ogni media abbiamo a che fare con opere d’arte e con opere pessime, e se per “leggere” si intende soltanto 50 Sfumature di Grigio o il libro di Barbara d’Urso è chiaro che non andiamo da nessuna parte anche con un medium sacro come quello librario. Calenda esprime un’opinione che come tale va rispettata ma che esprime un parere molto italiano sul mondo videoludico, visto come un universo di serie B popolato da nullafacenti e perditempo. Tutto questo è dovuto semplicemente all’ignoranza sul medium in questione, nel senso che si ignora completamente ciò di cui si sta parlando. C’è da dire che l’Onorevole ha un po’ ritrattato quanto affermato anche perché, senza dati alla mano, è difficile sostenere simili posizioni. Questo articolo, un po’ goliardico, cerca di riportare alla luce dati scientifici che sicuramente vanno ancora approfonditi, ma che si dimostrano utili in un universo di opinioni così diverse e pronte a prendere di mira il “mostro” di turno. Dunque, no i videogiochi non fanno male se usati adeguatamente e anzi sembrano migliorare alcune delle nostre capacità. No, i videogiochi non rendono violenti i ragazzi e no, i videogiochi non rendono analfabeti.
Per cui, cari italiani e care italiane, non preoccupatevi. Probabilmente siamo all’alba di una una nuova era, in cui il “videogioco” potrà integrarsi nella vita di tutti i giorni, implementando lo studio, trasmettendo e migliorando conoscenze in maniera più rapida ed efficacia, lo sport con il miglioramento dei riflessi e capacità visive, supporto ad alcuni pazienti e così via. Il futuro è radioso e per una volta, cari italiani e care italiane, informatevi, siate coscienziosi e miglioratevi. I videogame sono un’opportunità.
E tutto questo parte da voi cari italiani e care italiane e dalle scuole: bisogna educare, già da bambini, all’utilizzo dei videogiochi (ma aggiungiamo anche i social), proprio perché utilizzandoli nella maniera corretta, possono essere un boost per tutte quelle attività che oggigiorno svolgiamo.

– E no, non ritratterò la mia affermazione su Fortnite. –




Umiro

Il mondo del gaming mobile offre ormai da anni prove di grande creatività, sommerse troppo spesso nel mare magnum dei giochi di largo consumo e delle app di massa. Nessuno snobismo nei confronti di quest’ultimi, beninteso, solo l’esigenza di ricordare l’attenzione a un mondo (e a un mezzo, quello mobile appunto) che ha ormai tanto da dire in termini espressivi e di metterne di volta in volta in luce le piccole perle nascoste.
Proprio per questa ragione è necessario parlare di Umiro, elegante puzzle game distribuito da Devolver Digital su iOS e Android che ha goduto anche di un porting per PC. Il titolo nasce da un team di studenti di Singapore che durante un tirocinio hanno elaborato l’idea poi sviluppata sotto l’insegna Diceroll Studios.
Il gioco ci vede vestire i panni di Tinto e Satura, due ragazzini che hanno perso una memoria che il giocatore dovrà ricostruire di livello in livello mediante l’acquisizione dei vari cristalli azzurri e rosa. I puzzle dell’intero titolo potranno essere completati controllando e coordinando i movimenti dei due personaggi, che governeremo per l’intero gioco, eccezion fatta per i primi sei livelli in cui avremo il controllo del solo Tinto, in una serie di puzzle iniziali che servono al giocatore per comprendere le meccaniche di gioco e prendere le misure con gli ambienti.
Di base è tutto molto semplice: in relazione alla posizione dei nostri due protagonisti fermi ognuno in un punto dei piccoli livelli zeppi di ostacoli di vario genere, dovremo tracciare il percorso atto a condurre entrambi incolumi fino al proprio cristallo, per completare lo stage e permettere loro di recuperare un singolo ricordo. Tracciate le traiettorie, bisognerà scegliere il momento giusto per far partire Satura e Tinto per il tragitto tracciato ed evitare gli oggetti in movimento: basterà che uno dei personaggi venga colpito per dover ricominciare.

Storie d’altri puzzle

Il giocatore sarà chiamato a superare 4 capitoli di 10 livelli l’uno, con la possibilità di affrontare 5 livelli bonus guidando la sola Satura una volta terminata la storia principale, a patto di prendere tutti i cristalli extra che si trovano in ogni stage. Nei primi 40 livelli verrà ricostruita la storia personale dei due protagonisti, mentre gli ultimi 5 metteranno in scena un evento chiave nella narrazione che la ragazza dovrà rivivere e affrontare.
Dal punto di vista dello storytelling il gioco è dunque abbastanza curato, la scrittura è minimale ma non per questo gli autori hanno mostrato di sottovalutarla, anzi, vi è un armonia inaspettata per un titolo del genere, la narrazione vive un grande equilibrio nel suo ricostruirsi fra i brevi e lapidari dialoghi e le cutscene che legano un capitolo all’altro.
L’idea di base di Umiro è intelligente e al contempo ben messa in campo, la storia ha una sua vita, è solida, e cresce di pari passo al pianificare traiettorie efficaci in un percorso ogni volta diverso e con grado di difficoltà crescente. Coordinare due traiettorie differenti che dovranno andare a segno in parallelo non sarà facile, tutto è affidato alla capacità di pianificazione del giocatore, che non di rado si rifugerà in una meccanica trial&error che condurrà gradualmente alla soluzione, e questo può anche costituire un vizio (necessario): le traiettorie possibili sono potenzialmente infinite, comprese tantissime soluzioni non eleganti per aggirare l’ostacolo in movimento, che una volta presi i tempi risulteranno efficaci: con un po’ di pazienza ogni capitolo diventerà facilmente abbordabile. I tentativi, del resto, sono infiniti.

Codici di geometria esistenziale

Una sfida ardua solo all’apparenza, dunque: sarà molto difficile arrivare all’obiettivo pianificando le traiettorie con un semplice colpo d’occhio, ma il principio che vale qui è “chi la dura la vince”. L’ampia possibilità di profittare dei punti deboli di ogni mappa è un punto a sfavore del gioco, il vero tallone d’Achille che sottrae un po’ di senso della sfida e spegne leggermente il mordente.
È uno degli elementi che contribuisce a non incollare l’utente al gioco, e a ciò non pone rimedio neanche un art-style molto bello e curato: guardando il mondo di gioco, le proporzioni, le forme, le geometrie viene in mente inevitabilmente quel titolo straordinario che è Monument Valley. Non si può affatto dire che Umiro sia più facile dell’opera di Ustwo Games, anzi, probabilmente qui bisognerà impiegare maggior tempo sui livelli; ma il viaggio della principessa Ida gode di un equilibrio architettonico, di uno studio strutturale e di un ritmo da cui il gioco di Diceroll è ben lontano, ed è infatti inappropriato paragonare i due titoli, preferendo ricordare che si tratta di un’opera prima e che il risultato è davvero molto buono. Siamo davanti a un lavoro di level design pregevole e ben studiato, tecnicamente Umiro è un mondo che riprende elementi da modelli pregressi e ha il pregio di assemblarli bene, poco aggiunge di nuovo in termini di game design ma il risultato è quello di offrire svariate ore di sfida, richiedendo comunque una certa attenzione. In un aspetto non da poco sono stati bravi i designer del gioco: non far esondare il flow verso le rive della frustrazione. Il giocatore va per tentativi, magari a volte l’appagamento non raggiunge il massimo nemmeno a obiettivo conseguito, ma in pochissimi livelli si rischia di restare arenati.
Le cut-scene sono poi piccoli gioiellini, rapide vignette d’ispirazione manga che proiettano in un mondo fantastico e trasognato, oltre le dimensioni del tempo e dello spazio, restituendo l’atmosfera che gli sviluppatori volevano probabilmente rendere nel percorso di scoperta dei due piccoli protagonisti, sospesi in un limbo di geometria e irrealtà, risultando al contempo così reali nel loro legame sottile e in costante ispessimento.
A completare il quadro una soundtrack contemplativa dalle sonorità electro-ambient, ottima a calare il giocatore in uno stato di quiete meditativa, ideale per favorire il ragionamento e il calcolo, e che contribuisce a rendere Umiro un momento di piacevole straniamento dalla realtà quotidiana.

Un buon inizio

Con una scrittura attenta e non debordante che ben si intreccia a un gameplay semplice e intuitivo, Diceroll regala un ottimo titolo per gli amanti dei puzzle. Lanciato a un prezzo estremamente competitivo (circa 3 € su tutte le piattaforme su cui è stato rilasciato), il gioco si presta benissimo all’utilizzo su mobile, dove è possibile tracciare le traiettorie in punta di dito, in modalità touch, ma trova anche una buona traslazione su PC, dove le stesse linee possono essere disegnate tramite le frecce direzionali della tastiera, ledendo forse un po’ al dinamismo e all’immediatezza del gioco nella versione portatile, ma guadagnando un po’ in precisione (le linee sono molto sottili, rendendo facili gli errori a chi abbia dita voluminose e/o smartphone non ampi).
Divertente, con sessioni facilmente gestibili nel susseguirsi di livelli singoli e autosufficienti, Umiro è un gioco equilibrato in tutte le sue parti, che contribuirà a rilassare ogni giocatore non svuotandone le tasche e mantenendo vive le sue capacità logiche trasportandolo in un universo trascendente (lo stesso, dimenticavo, che dà il titolo al gioco) in cui perdersi per qualche piacevole ora.




Un’estate al nerd

La spiaggia, strade assolate, vento che sferza in faccia durante un giro in motorino, arrivare al mare, distendersi e dimenticare ogni cosa: la scuola, il lavoro, inverni e autunni di pensieri, responsabilità e preoccupazioni. L’estate è questo, ed è serate nei chioschi, chitarre davanti a un falò, baciarsi distesi sulla battigia e andare a dormire soltanto al palesarsi dell’alba. Per alcuni è i giochi all’aperto quando si è piccoli,  per altri le passeggiate in bicicletta, per altri le birre, le prime limonate… ha il sapore di ogni età, l’estate, e c’è sempre spazio per ogni cosa, e c’è il tempo per farla, quella cosa, nella calma placida di ogni ora libera e vacanziera.
In questo abbondare di tempo libero, volete non si trovi spazio per i videogiochi? Perché fra una pausa e l’altra del dolce far niente, tra una partita a pallone e una gara di tuffi, il tempo per una partitina in formato handheld o per un giro di joypad nella propria stanza si è sempre trovato. O, se si era in giro, non si lesinava una visita alla sala giochi, per chi abbia vissuto quell’epoca d’oro di luccicanti coin-op.

Per l’estate vogliamo regalarvi uno spazio amarcord, un momento dedicato ai ricordi estivi, piccoli racconti che testimoniano un altro frammento della nostra passione per i videogiochi. Passione che non ha tempo, né stagioni deputate, che se ne infischia del caldo boia e delle ore che passano fino a che si è fatta notte fonda, istanza del cuore che ti dice: gioca, tanto tornerà un altro inverno, gioca e non pensare ai mille petali di rose.

E quei giorni noi siamo qui a ricordarli, noi che abbiamo una redazione che spazia dai 17 ai 40 anni. Vogliamo raccontarveli tutti, questi decenni di differenza, queste estati che, pur segnando un arco lungo quasi un quarto di secolo, ci hanno riunito qui, sotto l’emblema di una bussola, uniti da un’unica passione. Dunque sedetevi con noi in riva al mare, prendete una bevanda gassata, mettete le cuffie e lasciatevi trascinare indietro nel tempo questi brevi racconti fatti di pixel e parole, righe che raccontano di estati al sapore di nerd.




Videogame sotto l’ombrellone

L’estate si fa sempre più torrida ma i veri gamer non rinunciano a un po’ di sano divertimento videoludico: che sia nella propria stanza, armati di condizionatore o ventilatore, o in modalità handheld da portare in spiaggia, la scelta è ampia. Fra nuove uscite e giochi da recuperare c’è n’è per tutti i gusti e i nostri redattori si sono prodigati in consigli mirati:

Gero Micciché

  1. Hollow Knight: uscito nel 2017 a seguito di una campagna Kickstarter che ha finanziato parzialmente il gioco, il metroidvania di Team Cherry è stato recentemente rilanciato dall’uscita su Nintendo Switch. Un ottimo ritmo e un art-style 2D di tutto rispetto vi faranno venire voglia di passare parte l’estate a Hallownest col nostro protagonista.
  2. Overcooked 2: in uscita il 7 agosto su tutte le piattaforme, il secondo Overcooked ripropone molte meccaniche già note con nuovi livelli e l’aggiunta di una nuova modalità online che sembra un differenziale non da poco. Il party game da cucina di Ghost Town Games (che si fregia di Team17 come publisher) è il gioco cooperativo perfetto da giocare con gli amici in estate,
  3. Mega Man X Legacy Collection 1+2: Otto capitoli, tre spin-off per uno dei personaggi più iconici dei videogame di sempre. Un platform straordinario, ricco d’azione con un ottimo game design, anche questo presente su tutte le principali piattaforme di gioco. Un classico, ma di grandissima modernità. Cosa volete di più?

Andrea Celauro

  1. Bloodstained: Ritual of the night: il nuovissimo titolo di Koji Igarashi che si rifà ai Castlevania stage by stage più classici. Non lasciatevi intimorire dai toni cupi del gioco, i nove bilanciatissimi livelli proposti, nonché i vari finali alternativi, saranno degli ottimi compagni di giochi per questa afosa estate (specialmente per chi vuole alternare il proprio tempo libero fra videogiochi e uscite all’aria aperta). Sarà per voi un freschissimo Bloody Mary sotto il sole!
  2. Sonic Mania Plus: uscito lo scorso anno, il porcospino più famoso del mondo torna insieme a nuovi amici, stage e modalità inedite con la formula che lo ha annoverato fra i più grandi platformer di tutti i tempi. Colorato, frizzante, carico di nostalgia, ma soprattutto rinnovato e pieno di nuovi interessanti contenuti; correte a provarlo se non volete squagliarvi sotto il sole!
  3. Bud Spencer & Terence Hill – Slap and Beans: birra e salsicce o partita a poker? Nessuno dei due! Questo spettacolare beat ‘em up con i più grandi scazzottatori italiani è il gioco perfetto da giocare in compagnia di un amico durante i pomeriggi noiosi, persino all’aria aperta con un Nintendo Switch. Non diteci che preferite stare a casa a guardare Don Matteo…

Emanuele Cimino

  1. Wreckfest: il “demolition derby style” non tradisce mai e assicura divertimento senza troppo impegno: cosa c’è di meglio per sollazzarsi nei tempi morti dell’estate?
  2. Motorsport Manager 2: gioco manageriale di corse automobilistiche molto ben fatto, permetterà ai giocatori di crea una scuderia, sviluppare la propria macchina, fare mercato di piloti e investi in una nuova tecnologia. Titolo davvero curato, ora disponibile su Android, e quindi un’ottima scelta da portare in giro durante l’estate.
  3. Far Cry 5: se avete dubbi su dove passare le vacanze, vi consiglio una bella gita in Montana: uscito a fine marzo, è il tripla A ideale da recuperare quest’estate per godersi un titolo dalla buona longevità e in cui si alternano sapientemente fasi shooter e fasi stealth.

Calogero Fucà

  1. Fortnite: Ottimo titolo per scappare dal caldo asfissiante estivo e rifugiarsi in un mondo in puro stile cartoon, meglio se giocato in squadra con amici e non. La battle royale del momento non si fermerà di certo per le vacanze, durante le quali potrà farsi solo più incandescente.
  2. Detroit: Become Human: «Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria»: il titolo Quantic Dream porta questo principio all’estremo, ponendo dilemmi morali e una riflessione sull’intelligenza artificiale, sul rapporto uomo-macchina e sul tema del diverso. Ambientato nella Detroit di un futuro molto prossimo, è una buona occasione per trascorrere svariate ore con un’ottima storia e bivi da percorrere.
  3. Agony: Se volete proprio arrendervi al caldo allora non vi resta che provare Agony. Ambientato nientemeno che all’Inferno, il titolo non è stato esattamente ben accolto dalla critica, ma ha un buon potenziale survival e un environment di certo accattivante, con creature demoniache e corpi di dannati. Consigliato ai coraggiosi che non temono la calura estiva.

Dario Gangi

  1. FE: uscito a febbraio di quest’anno, FE, riesce a regalare ore e ore di puro divertimento, con colori accessi e freschi e con un’ottima soundtrack. Il titolo sviluppato da Zoink vi trascinerà in un mondo magico che vi farà dimenticare il caldo di queste torride giornate estive.
  2. Inside + Limbo: due piccioni con una fava. Quale migliore occasione per giocare  questi due stupefacenti titolo se non l’estate e la collezione che include i due capolavori di Playdead? Limbo Inside sono due ovvie scuse per non uscire di casa nelle ore più calde, tenendovi compagnia per almeno otto ore a testa, ma sono anche ampiamente portatili nella versione per Switch, e perfino su Android e iOS, per quanto riguarda Inside.
  3. Just Shapes & Beats: uscito da qualche mese su PC e Nintendo Switch, Just Shapes & Beats sarà il vostro compagno di viaggio per un bel po’, garantendovi ore e ore di pura follia sulle note di brani puramente chiptune. Sfidare i vostri amici sarà uno spasso.

Marcello Ribuffo

  1. FIFA 18: è sempre tempo per un buon calcistico, non solo durante i campionati reali ma anche durante l’estate, in cui il calciomercato impazza. Giocare in questo periodo infatti, rende il titolo mutevole, per via dei tanti trasferimenti dei calciatori tra un club e l’altro, permettendo di testare nuove tattiche o anche provare il piacere di inserire Cristiano Ronaldo nella Juventus prima ancora della release del nuovo capitolo.
  2. Dark Souls Remastered: un titolo che non ha bisogno di presentazioni: la nuova versione del capolavoro di Miyazaki riporta in auge quanto di eccellente svolto in campo artistico e di gameplay, rimanendo come sempre una vera sfida per i videogiocatori. Perché non fare di necessità virtù allora giocando a “Drink Souls“: una morte, una bevuta. L’importante è non mettersi alla guida successivamente, mi raccomando.
  3. Forza Motorsport 7: cosa c’è di più rilassante di un giro sulla vostra vettura dei sogni? Guidare un’auto reale in estate è un incubo, tra code, imprevisti e magari l’aria condizionata che non vuol saperne di funzionare a dovere. Perché dunque non godersi il fresco di casa, e guidare in tutta tranquillità? Le oltre 700 vetture presenti, visibili in dettaglio nel Forza Vista, sapranno appagarvi, soprattutto con un buon volante in mano.

Gabriele Sciarratta

  1. Fire Pro Wrestling World: con l’arrivo della versione PS4 il 31 agosto (su PC è disponibile fin dallo scorso anno), e di conseguenza, con l’uscita del DLC con protagonisti i wrestler della New Japan Pro Wrestling, che portano con sé la modalità storia, il titolo wrestlingistico di Spike Chunsoft diventa completo. Titolo perfetto non solo se si vuole rompere l’egemonia dettata dai giochi WWE, ma soprattutto, visto l’arrivo del roster nipponico, si ha l’occasione per simulare il G1 Climax: il torneo annuale a gironi che si sta disputando sui ring della New Japan proprio in queste settimane!
  2. Stardew Valley: cosa c’è di meglio da fare in estate che coltivare frutta e verdura, andare a pescare nei fiumi o sul mare, e fare amicizia in un piccolo borgo? Stardew Valley è il titolo perfetto per rilassarsi nelle calde giornate estive. È disponibile da poco anche su Switch, ma tenete d’occhio la versione PC, visto che è finalmente attivo il multiplayer online!
  3. Frostpunk: estate = caldo torrido, sudore e disidratazione. Se non siete amanti di questa stagione, come il sottoscritto, allora cosa c’è di meglio di un bell’inverno perenne come quello del gestionale di 11 Bit Studios? Certo, magari si passa da un estremo all’altro, e non è piacevole sopravvivere a -40°, ma a mali estremi, estremi rimedi.

Alfonso Sollano

  1. Yakuza 0: realizzato con gli stessi asset di Yakuza Kiwami, il titolo è uscito su console a inizio anno e costituisce un ottimo modo per iniziare la saga anche su PC e immergersi nel quartiere Kamurocho dove condurre il Drago di Dojima in una storia interessante ricca di combattimenti mozzafiato.
  2. Octopath Traveler: ottimo titolo uscito su Nintendo Switch, è un jrpg con uno stile grafico che ricorda vecchie glorie degli anni ’90 (Final Fantasy VI su tutte) e farà felice i nostalgici con una grande varietà di gioco e una longevità di tutto rispetto.
  3. Marvel’s Spider-Man: nuova esclusiva PS4 firmata Insomniac Games, gode di una grafica da urlo, di un gameplay molto vario e di una mappa aperta che potremo esplorare grazie alle ragnatele del nostro ragno preferito. L’anteprima, insomma è stata già tanta roba e, dato che l’uscita è prevista per il 7 settembre, è un ottimo modo per finire l’estate.

Gabriele Tinaglia

  1. League of Legends: Il titolo di casa Riot Games esiste ormai da quasi un decennio, ed è ancora in continua evoluzione.
  2. Dark souls Remastered: cosa c’è di meglio di un mix tra caldo estivo e difficoltà da bestemmie? L’iconico GDR Bandai Namco è ritornato, ed è presente su tutte le piattaforma. La sfida è assicurata, la frustrazione pure: per chi non vuole rilassarsi neanche al mare.
  3. Rainbow Six Siege: titolo mastodontico di casa Ubisoft, quest’anno giunto all’Year 3. Le giornate estive saranno tutt’altro che noiose: anche qui potrete contare su un multiplayer di buon livello e il gioco pare aver raggiunto un equilibrio e un funzionamento ormai ottimali, che garantiranno divertimento per tutti i vostri giorni liberi.

Annalisa Vitellaro

  1. Crash Bandicoot N. Sane trilogy: il platform 3D per eccellenza, una trilogia che non ha mai smesso di divertire nonostante esista da più di 20 anni. L’iconico marsupiale arancione può farvi compagnia durante un’afosa noiosa serata sul divano o in un lungo viaggio in aereo, essendo su tutte le piattaforme. E con Future Tense, un livello inedito aggiunto poco più di un mese fa, non avete davvero più scuse.
  2. WarioWare Gold: Nintendo riprende in mano un brand che mancava su una console portatile dal lontano 2010. Con 300 frenetici minigiochi per rompere la monotonia dell’estate ancora in corso, il titolo è disponibile dallo scorso 27 luglio per la famiglia Nintendo 3DS. Riuscirete a vincere la coppa Wario?
  3. Hyrule Warriors Definitive Edition: vi è stata cancellata la vacanza che programmavate da mesi? Il vostro capo non vi ha concesso le ferie? O semplicemente il caldo vi rende nervosi? Qualunque sia la causa della vostra rabbia, poche cose la placano come un buon musō. Portate con voi Nintendo Switch qualunque sia la vostra destinazione e preparatevi a sconfiggere orde infinite di nemici, da soli o in compagnia, con i vostri personaggi preferiti della saga di Zelda, e l’edizione definitiva ne conta più di 20. Hyrule ha bisogno di eroi.

Vincenzo Zambuto

  1. Stardew ValleyUn gestionale a sfondo rurale, concepito all’insegna della semplicità, è in grado di regalare ore e ore di divertimento e relax. Tra un raccolto e l’altro, le trame del gioco si svilupperanno con elementi da gioco di ruolo che richiamano chiaramente i classici dei gdr.
  2. Battle Chasers: Se volete rigiocare un gioco di ruolo puro e alla vecchia maniera, questo gioco vi terrà incollati alla vostra console più di quanto possiate immaginare. Dungeon zeppi di trappole, una varietà immensa di mostri e nemici e combattimenti a turni che daranno del filo da torcere anche ai più ferrati sono il contorno perfetto per uno dei giochi di ruolo più interessanti di sempre.
  3. Slain: Back from Hell: Metallari da tutto il mondo io vi invoco! Di recente rilascio sulla console Nintendo Switch questo titolo ispirato ai più classici giochi a scorrimento orizzontale 2D e sviluppato con sprite 16bit,  è un piccolo gioiello da portare in vacanza o sotto l’ombrellone. Impareremo che scontri sanguinolenti e Heavy Metal si sposano alla perfezione!

La scelta della redazione

Tanti i videogame proposti, scelte eterogenee come sempre accade in ogni redazione, ma su un singolo titolo ci sentiamo tutti unanimi: Remothered: Tormented Fathers, survival horror italianissimo diretto dal game designer Chris Darril e sviluppato da Stormind Games, è certamente il titolo d’esordio dell’anno. Uscito dapprima su PC, ha raccolto subito il favore della critica e dei giocatori. Adesso che è uscito anche su PlayStation 4 e Xbox One potrà accompagnarvi per intensissime notti di terrore estivo.

Buon divertimento.




Agony – Pacatamente, come non piace a noi

Quando fu annunciato tramite Kickstarter nel 2016, Agony riscosse un certo interesse tra il pubblico, per via della sua visione molto cruda dell’Inferno e soprattutto, di una direzione che mal si sposava con organi di controllo come l’ESRB (Entertainment Software Rating Board). Infatti, Agony, sin dalle prime battute, era così al di là di ogni titolo horror visto finora che l’organo lo valutò come titolo “per soli adulti”. Una classificazione che al team di sviluppo polacco Madmind Studio non è andata giù, al punto da indurli a cercare in tutti i modi di ottenere una categoria PEGI che non fosse rossa. Una volta ottenuta, le cose non sono comunque andate per il verso giusto: Agony è gradualmente divenuto un titolo potenzialmente castrato sotto quasi tutti i punti di vista e alla sua release definitiva fu valutato con diverse insufficienze. Noi di GameCompass ci siamo presi il nostro tempo, attendendo alcune patch riparatorie e giocato con attenzione questo titolo che però – come vedremo – non merita il paradiso ma nemmeno l’inferno nella misura in cui vi è stato scagliato da molte testate.

Attento a cosa chiedi quando preghi…

Riassumere gli eventi di Agony non è operazione semplice: impersoniamo Amraphel/Nimrod (il protagonista viene chiamato in entrambi i modi, ma il perché non è del tutto chiaro), un’anima dannata, arrivata all’inferno dopo una morte probabilmente violenta. Il suo desiderio è quello di tornare in vita, ma solo la Dea Rossa è in grado di esaudire la sua ambizione. La sua ricerca coincide con il nostro obiettivo, anche se non tutto andrà nel verso giusto. E non ci riferiamo soltanto alla storyline del protagonista, ma anche al gioco nel suo insieme. Tutto è riassumibile con la parola “confusione” e lo svolgimento della trama ne è un chiaro esempio.
Il nostro peregrinare tra le lande degli Inferi sembra non portare da nessuna parte, ogni avvenimento risulta abbastanza slegato da quanto accaduto precedentemente. Ogni nostra azione ha delle conseguenze, ma di questo ce ne accorgeremo una volta scoperto che Agony propone ben sette finali diversi, molto “criptici” e di cui probabilmente uno soltanto – almeno secondo il ragionamento di chi scrive – comunica realmente qualcosa. La “questione delle scelte” è uno dei tanti problemi di game design del titolo e, per far capire meglio di cosa stiamo parlando, è bene procedere con metodo comparativo: prendiamo Prey di Arkane Studios, che ha tra l’altro ricevuto un recente aggiornamento; all’interno del titolo possiamo compiere diverse scelte, alcune di queste “invisibili”. Per intenderci, se in Mass Effect la scelta da intraprendere ci viene letteralmente sbattuta in faccia, in Prey tutto è molto più velato e dipendente davvero dal nostro tipo di gameplay. E in Agony? Nel titolo Madmind risultano invisibili nel vero senso della parola, soprattutto perché si ha sempre la sensazione di non possedere alcun libero arbitrio. Non è chiaro cosa influisca e cosa no, e se da un certo punto di vista può sembrare un’ottima cosa – quasi un espediente meta-ludico – la realtà dei fatti è che questo aspetto non è stato progettato nel migliore dei modi, con il risultato che la confusione regna sovrana. Non bastano nemmeno le tante note sparse qua e là, le quali aggiungono informazioni che si fatica a mettere assieme, finendo facilmente nel dimenticatoio, così come tutte quelle citazioni bibliche volte a crear atmosfera, ma che rimangono tristemente fine a se stesse.
L’offerta ludica di Agony si amplia con altre due modalità: Agonia ci porterà ad affrontare il titolo attraverso ambienti generati proceduralmente, mentre la più interessante modalità Succube ci consentirà di impersonare un demone, portando il giocatore a scoprire nuovi percorsi e nuovi modi di affrontare il gioco. Questa modalità secondaria – a conti fatti – è forse quella più gradevole tra quelle offerte dal titolo.

…potresti ottenerlo

Tutta la struttura ludica di Agony si basa sullo stealth. Come survival horror il gioco riprende i canoni classici che ultimamente siamo abituati a vedere nel genere in termini di gameplay: fare poco rumore, nascondersi ove necessario e scampare dalle grinfie di creature di qualsivoglia natura, in questo caso demoni. Il problema però è che alcune meccaniche inserite non funzionano a dovere, rovinando per la maggior parte l’esperienza. La morte – come ci viene detto – fa parte del gioco e, al suo sopravvenire, abbiamo la possibilità di far migrare la nostra anima verso un ignaro malcapitato e prenderne possesso. Se questa meccanica a prima vista sembra interessante, richiedendo di “scappucciare” i dannati per poter trasmigrare – sempre che sia stata attivata l’opzione “possessione facile”, altrimenti… – una volta inserita la possibilità di possedere un demone crolla l’intero castello di carta. Il survival horror diviene tutt’altro, con quasi la sensazione “di aver rotto il gioco”. La possessione di un demone infatti – se usata con astuzia – può liberarvi l’intero campo dai nemici, trasformando gli inferi in una stravagante vacanza. C’è da dire che la possessione ha un limite di tempo, in cui, se non trovassimo proprio nessun corpo da controllare, scoccata l’ora, sarà game over. Ma anche qui, fatta la legge, si trova l’inganno.
È proprio questo il punto. Agony sembra ancora un work in progress in cui nessuno degli elementi proposti funziona a dovere. Un altro esempio è – l’incredibile – gestione dei checkpoint, mal calibrati in termini di distanza e soprattutto utilizzabili soltanto tre volte. Una volta sfruttati tutti i jolly – morti – dovremo utilizzare quello precedente e, di conseguenza, rifare intere porzioni di gioco. Questo si scontra anche con un level design spesso caotico e in cui risulta difficile orientarsi, dato che molti luoghi soffrono dell’eccessiva ripetitività degli asset. Fortunatamente, in nostro soccorso arrivano i fasci di luce – non quelli del ’25 – proiettati dalla nostra mano e in grado di indicarci la via. Di numero limitato e ricaricabili solo nei checkpoint o raccogliendo idoli sparsi per le mappe, che risultano molto utili a districarsi nei diversi percorsi verso la meta, rappresentando la classica “manna dal cielo” anche se, la direzione indicata alle volte, è quella più scomoda o contraria a quella intrapresa.

Se non vedi non ci credi

Uno degli elementi maggiormente castrati è la direzione artistica dell’Inferno e delle sue creature. La ricostruzione degli ambienti rende l’insieme molto tangibile, soprattutto nei luoghi chiusi, nei quali si può notare anche una certa ripetitività di oggetti e strutture. Fortunatamente è anche in grado di offrire scorci di un certo spessore, in cui si ha davvero l’impressione di viaggiare in un luogo trascendentale. Ma questi bei momenti, in cui si può assistere a ottimi giochi di luce e direzione artistica ispirata, sono anche – e per la maggior parte – di un anonimato disarmante. Molto di quanto mostrato sa di già visto, e anche le creature realizzate ad hoc per il titolo non sono certo memorabili. Questo nonostante alcuni riferimenti cristiani palesi e soprattutto l’intento di portare il tutto verso il concetto di lussuria, anche se a volte in maniera quasi volgare e posticcia.
Gli aspetti strettamente tecnici presentano elementi senza infamia e senza lode, dove le ultime patch hanno messo la pezza su alcuni problemi – ormai classici – da day one: il framerate risulta abbastanza stabile e i vari filtri funzionano discretamente bene. È un titolo che non colpisce per pura potenza tecnica, e quel che è presente non viene nemmeno risaltato da un impianto luci di livello; la maggior parte delle volte faremo veramente fatica a vedere cosa succede. Tutto è buio… anche con una torcia in mano. Manca una vera e propria rifinitura anche dopo alcune patch riparatorie, visibile soprattutto nella gestione dei geo data e nella fisica.
Anche l’audio non spicca particolarmente, vantando un discreto doppiaggio inglese (sottotitolato in italiano) e un’adeguata campionatura di suoni “classici” da horror.

In conclusione

Dove si posiziona dunque Agony? Come potete aver capito, non è un titolo affatto eccelso, ma non si tratta nemmeno di quell’ “agonia” di cui si è spesso parlato riferendosi al titolo. È un lavoro che merita senza dubbio il Purgatorio, in attesa di una versione (Agony Unrated) che probabilmente non arriverà mai. Alla fine della fiera dunque, Agony  è un classico menù scozzese: poca roba e nulla di veramente interessante, prendere o lasciare. Vi farà arrabbiare? Probabile. Vi chiederete cosa succede? Sicuramente. Vi lascerà qualcosa? Difficile, ma non «lasciate ogne speranza, voi ch’intrate».

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




Etna Comics 2018

Dunque, Etna Comics. La fiera del fumetto più grande della Trinacria, quella che un po’ tutti gli appassionati (siciliani e non) di anime, manga, comics, videogame, film e serie tv aspettano ogni anno per… fare cosa? È una domanda che mi viene posta spesso da parenti o da chiunque non abbia mai partecipato a eventi del genere, e paradossalmente ogni anno diventa sempre più difficile rispondere. Da eventi di nicchia quali erano, queste fiere diventano, anno dopo anno, un fenomeno di massa, dove si fa di tutto, ma allo stesso tempo niente. Quest’anno, tra l’altro, è stato nuovamente battuto il record di presenze: più di 80.000 persone sono state registrate tra gli ingressi al centro fieristico Le Ciminiere dal 31 maggio al 3 giugno. Ma sul tema torneremo più tardi.


Parliamo piuttosto di ciò che ho visto in questa ottava edizione. La struttura della fiera, pur presentando zone leggermente diverse dall’anno scorso, è rimasta pressoché invariata: 11 aree distinte per tematica, all’interno delle quali sono stati organizzati svariati tipi di attività, contornati da persone più o meno famose, spettacoli, e intrattenimento di ogni genere.

Una delle aree, la YouTube Alley, è stata letteralmente inondata da migliaia di persone, grazie agli ospiti che hanno tenuto le loro conferenze all’interno: YouTube Fa Cagare, Tia Taylor, Playerinside, Federic95Ita, Nocoldiz, Link4Universe e molti altri. Tra questi, sono riuscita a fare un paio di domande ai Playerinside e Nocoldiz, una volta concluse le loro rispettive conferenze.
Iniziamo dalla coppia catanese:

«Cosa vi aspettate da questo E3?»

Midna:

«In sostanza ci aspettiamo delle conferme di ciò che è stato annunciato: date di uscita, per esempio di Kingdom Hearts 3, e qualcosa di più su ciò che è stato già visto almeno in parte nei mesi precedenti.»

Raiden:

«Sarà un E3 di transizione in cui vedremo tantissime conferme e magari qualche piccola novità, oppure anche una o due bombe.»

Subito dopo è stato il turno di Paolo, in arte Nocoldiz, diventato famoso sulla piattaforma grazie alle sue YouTube Poop.

«Perché secondo te molti pooper italiani hanno abbandonato YouTube?»
«Una delle cause principali che ha spinto molti pooper ad abbandonare è il freebooting [la pratica di rubare i video da canali YouTube per caricarli altrove senza autorizzazione, NdR], perché dopo che hai lavorato tantissimo e vedi una pagina Facebook rubarti il video, facendo centinaia di migliaia di visual sul tuo lavoro senza neanche citarti, te la prendi così tanto da indurti ad abbandonare tutto. Ho conosciuto veramente tante persone che l’hanno fatto.»

Un must di Etna Comics – potrebbe essere forse definito il suo cuore pulsante – è sicuramente il padiglione F1, tappa fondamentale per qualsiasi tipo di visitatore della fiera, grazie alla moltitudine di stand presenti in ogni angolo e di diverso tipo: in parole povere, è quella parte della fiera dove si tirano fuori i soldi (e dove ho girato per più tempo); si va dall’Area Comics al piano terra che ospitava le grandi case editrici come Panini e Star Comics e gli autori indipendenti, tra fumettisti e scrittori, scuole del fumetto fino ad artisti più conosciuti, come J.M. De Matteis (co-autore di Justice League Internationalfra le altre cose,  nonché autore di alcuni notissimi Spider-Man come L’ultima caccia di Kraven e Il bambino dentro), Hiromi Matsushita e Kazuko Tadano (coppia che ha contribuito alla creazione dell’anime di Sailor Moon).
Salendo al secondo piano, una folta schiera di stand dedicati ai vari gadget han fatto da padrona indiscussa, tra veterani della manifestazione e new entry all’interno della fiera siciliana provenienti da tutta Italia.
Il terzo piano, per quanto di dimensioni minori, ha ospitato attività molto diverse fra loro: dalle dimostrazioni sulle arti marziali al karaoke, dall’escape room ai mini cosplay contest, con un tema diverso a seconda del giorno.
Totalmente diverso rispetto dagli altri anni invece è stato il padiglione C1, che è rimasto sempre prevalentemente dedicato ai videogiochi, ma anche all’Area Altrimondi. All’entrata si viene accolti da dei magnifici pezzi scenografici tratti dalla saga di Harry Potter, con tanto di shop vero e proprio all’interno della bottega di Ollivander; c’è stato anche spazio per ospitare delle piccole zone a tema Ghostbuster, Star Wars e S.H.I.E.L.D. .


Il secondo piano, come già detto, è stato dedicato al gaming, che sia retro, su console o PC: tra vari venditori di giochi nuovi, usati, recenti e non, ho trovato Marco Alfieri, sviluppatore indipendente e creatore di Call of Salveenee e Ruspa League.

«Cosa pensi della scena videoludica Indie italiana?»
«Penso che sia estremamente buona e ci sono dei titoli veramente formidabili, tra cui Remothered e Doom & Destiny, uno dei giochi più venduti sugli store Android e IOS. Ci sono giochi demenziali come Grezzo 2, Super Botte e Bamba II Turbo e poi ovviamente il mio. Abbiamo un sacco di titoli indipendenti, anche meno conosciuti, come Red Rope e Circle of Sumo. Purtroppo abbiamo delle leggi che impediscono di farli a modo. Fai conto che per sbloccare i fondi europei abbiamo dovuto aspettare fino allo scorso anno, quando nei bandi audiovisivi sono stati inclusi i videogiochi.»

In mezzo alle vecchie console polverose e ai televisori a tubo catodico sono riuscita a incontrare MrPoldoAkbar che, nonostante faccia tutt’altro che occuparsi di gaming sul suo canale YouTube, in via eccezionale è stato parte dello staff dell’area retrogaming.

«Il tuo canale YouTube non parla di retrogaming, come è nata questa connessione?»
«Non c’è una vera e propria connessione diretta con il mio canale YouTube: mi trovo in quest’area come vero appassionato di retrogaming anche se non è il format del mio canale, perché comunque possiedo molti oggetti retrò a casa e sono molto attivo in questo ambito. La mia situazione era sempre quella del bambino che aveva la console vecchia. Quando è uscita la PS1 io ero là a giocare col mio Game Boy Advance, quando tutti avevano la PS3 io ho finalmente ottenuto la mia prima PS1, diciamo che mi dilettavo nelle cose vecchie che costavano di meno.»

Anche in questa edizione, la zona all’aperto non è stata risparmiata, ospitando i sempre presenti Progetto Eden, Umbrella Italian Division e Brotherhood of Trinacria, oltre a numerosi punti di ristoro, per non parlare dell’Area Palco, dove si sono svolti gli spettacoli de iSoldiSpicci, Immanuel Casto, Pietro Ubaldi, Miwa, l’immancabile Cosplay Contest e tantissimi altri.
Sempre all’esterno (o quasi), il padiglione Etna ha incluso dentro il suo enorme tendone una moltitudine di postazioni per giochi da tavolo e un piccolissimo corner completamente dedicato a Nintendo Switch, dove ho trascorso ore intere a parlare con chiunque venisse a provare Breath of the Wild e con i promoter stessi, ed è questo uno degli aspetti che amo di più delle fiere: il dialogo libero, e come questo possa instaurarsi facilmente anche tra sconosciuti, perché sotto sotto sai che se quella persona si trova lì è proprio come te, o curiosa, e puoi insegnargli parte di quello che sai, o è appassionata, e può divenire occasione per scambiarsi opinioni o parlare della propria esperienza, in questo caso con la saga di Zelda.


E qui mi ricollego al tema iniziale: è possibile che questa occasione di dialogo venga in qualche modo “macchiata” rendendo le fiere del fumetto qualcosa che può interessare “un po’ a tutti”? Non più solo amanti della cultura pop, ma anche persone che hanno pagato il biglietto solo ed esclusivamente per vedere un determinato ospite, che sostanzialmente con la fiera c’entra poco, come gli stessi Soldi Spicci, Immanuel Casto, Andrea Agresti, Matteo Viviani, Raul Cremona. È come se così facendo, questa fiera, ma anche molte altre che stanno seguendo questa strada, stiano perdendo la propria identità di settore, facendosi sempre più generalista. Resta il divertimento, resta la gran varietà di cose da fare (che, anzi, aumenta) ma forse l’imbastardimento andrebbe dosato: va bene l’apertura, va bene che il mondo nerd e la cultura pop non siano più esclusivo appannaggio di iperappassionati, ma anche l’innesto di novità va fatto mantenendo degli equilibri.  Rischia altrimenti di venire a mancare, di anno in anno, la magia presente nei primi anni, quando questi eventi erano solo un luogo d’incontro per appassionati. E, ripeto, non si vuole questo, non è la critica settaria ed esclusiva di chi vuole un ambiente selezionato e ristretto: ma l’eccessiva apertura rischia di deformare eventi che hanno iniziato avendo un focus ben preciso, e questo comporta negli anni il rischio della perdita d’identità, rischiando di scivolare nell’accozzaglia, o, peggio, di privilegiare il “popolare”, quello che fa numero, a scapito della cultura pop genuina, quella che vede nei fumetti, nei videogame, in certa letteratura, in un certo cinema e serie tv, in manga, anime e quant’altro, il proprio sedimento, quello che ha nutrito un po’ tutti noi che abbiamo amato certi eventi per quel che raccoglievano, e non per i singoli nomi di richiamo.

A ogni modo, anche quest’anno il bilancio può dirsi positivo. Al prossimo Etna Comics!

(Si ringrazia Giovanni Cucuzza per le foto all’aperto)




Sunset Overdrive presto su PC?

In Corea, Sunset Overdrive è stato inserito nella Game Rating Board coreana, ovvero il sito che raccoglie le schede di tutti i giochi presenti sul mercato. Sembrerebbe cosa normale, dato che stiamo parlando di un  free roaming del 2014, ma la scheda conteneva un particolare che non è certo passato inosservato; si tratta infatti della versione PC. Che sia in arrivo sul mercato?
Meglio però ripassare visto che il titolo è uscito 4 anni fa, vi lasciamo al trailer della versione Xbox.