Resident Evil 7: Biohazard

«Per fare un fantasma occorrono, una vita, un male, un luogo. Il luogo e il male devono segnare la vita, fino a renderla inimmaginabile senza di essi. Il luogo dev’essere circoscritto, con confini precisi; più che un luogo, una porzione chiusa di luogo: preferibilmente una casa.»

Questa frase di Fantasmagonia di Michele Mari potrebbe essere il postulato di partenza per i creatori di questo nuovo capitolo di Resident Evil.
Dopo due episodi sottotono – che hanno fortemente scontentato la fandom e che, al contempo, non hanno esaltato i giocatori meno intransigenti – in casa Capcom si è optato per un ritorno al passato sotto vari punti di vista, a partire dall’ambientazione: abbandonare le strade di Raccoon City e tornare a circoscrivere l’orrore tra le mura di una casa. O, per meglio dire, tra i confini di una tenuta, dato che l’ambiente di gioco di questo capitolo si estende all’intera proprietà della famiglia Baker, nella quale viene a trovarsi Ethan Winters dopo aver ricevuto un messaggio dalla moglie, Mia, creduta morta da anni.
In quest’amena proprietà rurale sita a Dulvey, Louisiana, si svolgono i fatti di Resident Evil 7: Biohazard.

Beginning Hour

Il gioco è ambientato ai giorni nostri, anche se la casa sembra essersi fermata agli anni ’80, fra mangianastri, VHS e tv con tubo catodico. Il gioco si svolgerebbe in realtà ai giorni nostri, 4 anni dopo Resident Evil 6 e 3 anni dopo la demo, Beginning Hour, con la quale RE7 è stato a tutti gli effetti presentato il 14 giugno 2016 agli utenti Plus del Playstation Store. Un assaggio di questo capitolo era stato dato all’E3 di Los Angeles del 2015 con KITCHEN, breve demo nella quale ci si trovava a impersonare un non meglio specificato personaggio legato a una sedia che finiva col fronteggiare una demoniaca Mia. Pochi minuti nei quali ci si limitava a mettere un piede nella cucina dei Baker. Beginning Hour è invece il primo vero approccio al gameplay e alle dinamiche di Resident Evil 7: Biohazard, pur non comprendendo alcuna parte del gioco finale (ad eccezione di una VHS, la prima in ordine di comparizione in quest’ultimo capitolo Capcom). Anche qui si vestono i panni di un non meglio specificato protagonista, ma le storie importano poco: quel che è importante è testare la reazione del pubblico di fronte alla nuova ambientazione e alle nuove dinamiche. Forse proprio per questo la demo è molto elaborata, rigiocabile, con ben quattro finali e con la possibilità di raccogliere alcuni degli oggetti principali del gioco, comprese le armi. E la risposta degli utenti, con oltre 2 milioni di download, è più che positiva, al punto che Capcom rilascerà successivamente le versioni Twilight e Midnight, che contengono altri enigmi e permettono di giocare altre aree della casa. Nessun cenno ai personaggi che faranno parte di Resident Evil 7: Biohazard, tra i quali, nelle presentazioni al pubblico, pare avere attenzioni solo Mia, che ritorna in Lantern, altra breve demo presentata alla Gamescom di Colonia del 2016 che contiene la sequenza della seconda VHS del gioco, nella quale la donna si trova alle prese con l’amabile Marguerite Baker, con la quale avrà a che fare anche il nostro protagonista, Ethan.

“Rise and Shine, Sleepyhead!”

E così si entra nel vivo di questo Resident Evil 7: Biohazard: dentro la casa Ethan riuscirà a trovare Mia, ma si ritroverà ben presto prigioniero dell’orribile famiglia Baker, i cui componenti gli daranno la caccia per tutta la durata del gioco. L’ambientazione cupa, la casa desolata nelle sperdute campagne del sud americano, quella famiglia decadente, sordida, malata e quel senso di impotenza che si prova nell’essere rinchiusi senza via di fuga in un simile contesto richiamano scenari da film horror anni ’70-’80 – The Texas Chainsaw Massacre, da noi meglio conosciuto come Non aprite quella porta, su tutti – che lo stesso director Koushi Nakanishi ha dichiarato letteralmente di adorare. La scrittura di Richard Pearsey (F.E.A.R., Spec Ops: The Line) si innesta perfettamente in questo quadro, suggellando un’opera horror dal grande ritmo narrativo che gioca sui migliori cliché del genere senza mai banalizzarli.

Inside The House

Una simile struttura narrativo, che onora i classici senza cadere nel già visto, è il perfetto specchio di un gameplay che riesce nell’impresa di far rivivere un franchise un po’ inceppato rinnovandone le dinamiche (ottimo l’espediente delle VHS, le quali spezzano sia la storia dal punto di vista narrativo, sia la tensione, seppur momentaneamente, e permettono una maggior immedesimazione nella storia, essendo giocabili) e rivisitando elementi già visti nei precedenti capitoli: così come la casa – ricordiamo tutti le stanze oscure e tortuose in cui si perdeva la squadra S.T.A.R.S., no? – un elemento visivo che salta subito all’occhio è il sistema di apertura delle porte, il quale è una “versione in real-time” delle clip del primo capitolo, e dunque un esplicito richiamo atto – come ha dichiarato Nakanishi – a rievocare quel brivido che portava il giocatore a chiedersi (e temere) ogni volta cosa potesse nascondersi dietro la porta; tornano inoltre come elementi dei punti di salvataggio un po’ retrò (in questo caso il mangianastri al posto della macchina da scrivere), il cardiofrequenzimetro da polso che indica l’energia residua, i bauli in cui conservare gli oggetti per i quali non si trova spazio nello zaino (quantomeno finché non se ne trova uno più grande) ed elementi come le erbe, che si innestano in un interessante sistema di crafting che porta il giocatore al compimento di scelte importanti: meglio combinare il solvente con le erbe mediche per ottenere soluzioni curative o con la polvere da sparo per avere una maggior scorta di munizioni? O forse sarà meglio tenere con sé degli psicofarmaci che ci facciano trovare i vari oggetti nascosti per la casa?
Il gameplay in questo caso si fa estremamente interessante, soprattutto se teniamo conto del fatto che le armi non sono poi così potenti (si parte con un coltello, si recupera una pistola, poi un fucile e poco altro, poche armi ma con un buon sistema di mira) e che le scelte riguardo il nostro equipaggiamento si fanno fondamentali per la nostra sopravvivenza. Specie perché i nemici si fanno anche più ostici di quanto non sembri all’inizio.

Biohazard

Ma gli elementi classici della saga non finiscono qui: è vero che quanto detto finora in termini narrativi, ci riporta, come detto, ai film horror anni’80, e si è indotti a pensarlo fino a un certo punto del gioco. Fino a quando poi d’improvviso si apre una porta e – puf! – ci si ritrova in ambienti più familiari ai classici Resident Evil e, soprattutto, dinanzi a personaggi più consoni a quanto ci ha abituato la seria. Proprio in questo contesto si trovano gli ulteriori nemici, i Molded (o Micomorfi), creature possenti, mefitiche e catramose con le quali bisognerà fare i conti in parallelo ai Baker, e che ci daranno ulteriori indizi riguardo quel che sta dietro la storia di questo Resident Evil.
Dal punto di vista grafico sono fra gli elementi più pertinenti del gioco, essendo realizzati da dei make-up artist che li hanno assemblati utilizzando modelli composti con carne vera per poi riportarli su schermo tramite la fotogrammetria.

I denti non bastano

Ma se i Micomorfi sono fra i risultati più felici di questo capitolo, lo stesso non può dirsi per gli altri elementi, almeno sul piano del design. Alla domanda di Kotaku sul perché i denti dei personaggi umani di Resident Evil 7 risultino così perfetti, il produttore Masachika Kawata ha risposto che questa è dovuta anche in questo caso ai miracoli della fotogrammetria (e al fatto che gli attori avessero bei denti, ovviamente). Viene da chiedersi allora perché il risultato riguardo la definizione dei volti e dei corpi non presenti risultati egualmente soddisfacenti, così come si può dire per gran parte degli ambienti di gioco e degli oggetti imbracciati da Ethan, i quali presentano una definizione minimale e un numero di poligoni ridotto all’essenziale, alcuni movimenti sembrano mancar. L’unica spiegazione che siamo riusciti a darci è che il lavoro sulle texture non volesse essere troppo elaborato per non stressare esageratamente il VR della PS4, che avrebbe forse potuto risentire di un livello di definizione troppo alto. Anche perché c’è da aggiungere che il RE Engine non dà praticamente alcun problema, anche indossando il casco della realtà virtuale l’esperienza risulta fluida, godibile ma soprattutto immersiva come poche.

Virtual Horror

E qui veniamo a uno dei punti più felici di Resident Evil 7: Biohazard, il quale ad oggi si è rivelato il vero banco di prova per la nuova generazione VR appena lanciata da Sony (la quale, c’è da dirlo, ha il merito di essere la prima a rendere accessibile la realtà virtuale agli utenti). Pur risultando un ottimo gioco anche nella versione standard, è innegabile che questo RE7 su visore dia il meglio di sé: trovarsi in quegli ambienti oscuri, ostili, in cui un non piacevole ignoto può trovarsi sempre dietro l’angolo instilla già ansia e paura davanti a un televisore, figurarsi a trovarsi totalmente dentro una simile esperienza e con delle cuffie alle orecchie. Certo, se dal punto di vista del design denotavamo alcune mancanze nella versione su schermo, su VR tutto ciò peggiora, i difetti che normalmente passano inosservati saltano all’occhio (parti di ambientazione grossolanamente tagliate, definizione che si fa ancora più scarsa negli ambienti non chiusi, etc.) e anche nell’utilizzo di alcuni oggetti (dalla cornetta mal posizionata quando si parla al telefono al modo in cui si rompono le casse etc.) le imprecisioni grafiche non sono poche. Certi difetti sul piano visivo non sono da poco, ma questa tecnologia è agli albori e certamente le software house devono ancora prendere le misure. D’altro canto, l’esperienza di gioco giova tantissimo del surplus che il VR può dare in termini di atmosfera e immedesimazione, sublimando la visuale in prima persona propria del gioco, amplificando il senso di terrore e tensione ad ogni passo nella tenuta, rendendo ancora più vividi gli scontri coi nemici e valorizzando l’impianto narrativo dell’opera. Non è da poco il dato che, come riportato da ResidentEvil.net, su 660.000 utenti iscritti al sito oltre 63.000, quasi il 10% degli utenti, avrebbero utilizzato il PlayStation VR.
L’esperienza risulta totalmente immersiva, restituendo ancor più il meglio di quanto l’ambientazione e la scrittura di questo capitolo possono dare e questo si prospetta essere il vero trampolino di lancio per un gaming sulla realtà virtuale che non potrà far altro che crescere negli anni.

Il Male Residente

Tirando le somme, non si può non accogliere positivamente questo Resident Evil 7: Biohazard. Il ritorno a un luogo conchiuso, una vecchia villa nido e ricettacolo di un male inenarrabile è stata una scelta più che positiva, punto di partenza di un’opera che racconta l’orrore senza far leva su facili scarejump, con gran dignità di genere sul piano narrativo, ottima giocabilità, soddisfacente e adeguata longevità (circa 12 ore), basata su meccanismi della tensione sottili, le cui atmosfere ansiogene compensano pienamente gli svariati difetti sul piano grafico e una colonna sonora azzeccata per far da cornice al quadro.
Non è un caso che le vendite stiano già dando ottime risposte a Capcom riguardo un gioco ottimo in entrambe le versioni, che ha in più il merito di essere la vera prima “killer application” della nuova generazione VR, quella che Sony sta portando nelle case dei giocatori. E anche solo per questo Resident Evil 7: Biohazard merita già un suo posto di riguardo nella storia dei videogames.