Perception

«Quando si è ciechi si imparano un paio di cose sulla fiducia». Cassie lo sa sin da bambina, e con questa frase ha inizio il rapidissimo racconto che dall’infanzia di Phoenix, Arizona, ci porta al giorno della sua partenza alla volta di Gloucester, nel Massachusetts.
È lì che si trova, infatti, la villa che ricorre nei frequenti incubi che non le danno pace negli ultimi mesi, ed è proprio dal vialetto della fantasmatica e antica magione di Echo Bluff che ha inizio l’avventura della nostra protagonista, animata da un unico, irrefrenabile imperativo: «I need to do this».

«Looking on darkness, which the blind do see»

Cassie varca la soglia della dimora in cui è interamente ambientato Perception impugnando l’unica arma di cui dispone, un bastone con il quale ha imparato fin da piccola a “vedere” il mondo attorno a sé. La sua vista si compone di un tratteggiarsi di linee chiare sullo sfondo di tenebra dei suoi occhi, nel quale le forme si delineano a ogni vergata e a ogni rumore di passi. La nostra protagonista ha imparato fin da piccola a distinguere gli oggetti e gli spazi in relazione al suono prodotto, facendo del proprio bastone un sonar e dell’udito il suo senso principale.
Esploreremo dunque la casa in prima persona «osservando l’oscurità che i ciechi vedono» e cercando di capire la composizione delle stanze in un percorso che ci porterà a ricostruire le storie sepolte tra le mura della casa, che apprenderemo sotto forma di audiolognote e documenti. Ed ecco che qui subentra il secondo strumento a disposizione di Cassie, lo smartphone, grazie al quale riusciremo a conoscere il contenuto di ogni testo trovato in giro.
Da buona figlia del suo (nostro) tempo, Cassie ha infatti a disposizione le app che servono a facilitarle la vita quotidiana, e che diventano fondamentali per poter ricostruire la storia celata nella villa di Echo Buff: il Delphi, app “text-to-speech” per mezzo della quale avremo la lettura di un testo dopo averlo fotografato, e il servizio “Friendly Eyes“, nel quale un operatore verrà in nostro soccorso nei casi in cui per Delphi sia impossibile la lettura, “prestandoci” i suoi occhi e descrivendoci ciò di fronte a cui ci troviamo.

Presenze

«Lottare è sempre stata, più o meno, una forma di cecità»
(José Saramago, Cecità)

Armati di smartphone e bastone vagheremo, dunque, tra stanze e storie che porteranno Cassie alla rivelazione di atroci verità, ma non saremo soli: la casa, in apparenza disabitata, è in realtà infestata da una misteriosa entità chiamata “La Presenza” alla quale il nostro curiosare non piacerà affatto, e dalla quale dovremo fuggire per evitare il game over.
Il gameplay di Perception è sostanzialmente tutto qui: divisa in quattro atti, la trama si dipana in un percorso nel quale andremo avanti per obiettivi e ascolteremo tutti i documenti che ci permetteranno di ricomporre l’intero puzzle della storia mentre stiamo attenti a non farci catturare dalla Presenza.
In assenza di una scelta tra livelli di difficoltà, l’unica selezione possibile all’inizio sarà fra “Chatty Cassie” (“Cassie chiacchierona”) e “Silent Night” (“Notte silenziosa”), modalità, quest’ultima, scremata da molte spiegazioni inerenti il plot, nella quale trovano spazio prettamente le linee di testo utili ad andare avanti nel gioco.
Il consiglio è quello di scegliere senz’altro la prima modalità, sia per non perdersi una storia per molti versi interessante, sia perché molto del resto del titolo lascia a desiderare. Pur prendendo, infatti, le mosse da un concept indubbiamente affascinante e in gran parte originale, Perception mostra i propri evidenti limiti proprio sul piano del gameplay. Il titolo di The Deep End Games è un survival horror in prima persona che richiama lavori come Amnesia e Outlast, con un’impostazione da walking simulator e una ricostruzione a ritroso dei tragici accadimenti degli abitanti della casa che ricorda il recente What Remains of Edith Finch. Pur non raggiungendo lo spessore del titolo di Giant Sparrow, l’impianto narrativo risulta comunque molto godibile, nel pieno rispetto della tradizione del genere; sul piano della giocabilità, invece, quel che penalizza Perception è, da un lato, la presenza di meccaniche ripetitive e poco avvincenti, ma soprattutto, dall’altro, la mancanza di un basamento di vera tensione, la quale va scemando con l’abituarsi ai routinari meccanismi che caratterizzano il gameplay.
Il titolo inizia bene, specie se giocato in cuffia e con la giusta atmosfera: ci si sente isolati, indifesi nell’oscurità e insicuri del fatto di poter sfuggire all’imprevedibilità della Presenza, la quale potrebbe coglierci impreparati in ogni momento e in ogni stanza. Col progredire del gioco si prendono però ben presto le misure e ci si accorge che, in realtà, La Presenza non è poi così presente: si capisce ben presto che è infatti difficile che questa si manifesti (se non in determinati punti del gioco o solo in seguito a una dose massiccia di rumore) e, anche in questo caso, sfuggirle non risulta particolarmente problematico, grazie anche ai numerosi nascondigli piazzati nelle varie stanze. Insomma, alla lunga vengono a mancare livelli di imprevedibilità e di rischio che, in titoli del genere, diventano il sale della sfida (e chi ha giocato a titoli come Clock Tower Haunting Ground questo lo sa bene).
C’è da aggiungere che Cassie possiede un’altra skill, un Sesto Senso che le permette ogni volta di sapere verso quale obiettivo andare, facilitando non poco il nostro compito all’interno della casa e risparmiandoci molta fatica sul piano esplorativo, a meno che non si abbia l’intento di trovare tutti gli audiolog e i documenti utili a ricostruire l’intera storia (approccio, ripeto, caldamente consigliato a chi voglia godere dei contenuti).
Concettualmente l’operazione di Perception potrebbe ricordare Beyond Eyes, adventure game in terza persona nel quale si vestono i panni di una ragazzina immersa in una bianca cecità che ricorda quella di Saramago e che crea attorno a sé un mondo a colori col progredire del gioco, mentre qui l’effetto del bastone di Cassie richiama molto più quello di Scanner Sombre, nel quale si cammina in ambienti totalmente bui nei quali gli oggetti si ergono nei loro contorni tramite uno scanner atto a rilevarli.

Tutti i colori del buio

«La capacità sensoriale del cieco dotato di qualche residuo di vista può essere, di volta in volta, magica e inquietante. Non hai niente davanti, niente alle spalle; ed ecco emergere dalla nebbia un’ombra di forma umana: quanto è incantevole e tremenda! È una visione folle e sacra, l’ininterrotto apparire e scomparire del mondo fisico» (Stephen Kuusisto, Tutti i colori del buio)

A causa di tutti questi accorgimenti, il gioco globalmente non sembra restituirci con efficacia l’esperienza della cecità, la quale sembra a tratti un mero pretesto.
Dobbiamo dunque abbandonarci alla sospensione dell’incredulità e goderci un comparto grafico di certo perfettibile, ma la cui resa è comunque suggestiva, tra onde sonore di radio e giradischi, bambole in movimento, fasci di luce esterna che intuiamo dallo sferzare del vento fino ad alcune scoperte inaspettate in cui incapperemo nel nostro oscuro tour. Sullo schermo nero i contorni si tingono di azzurro, «il colore dello zucchero, delle zebre e delle zanzare», mutuando le parole del cieco protagonista di Almost Blue; ma in realtà i colori cambiano in prossimità della Presenza, tingendo la vista di giallo quando questa si trova nelle vicinanze, gradandosi di arancione intenso e infine di rosso con il suo progressivo avvicinarsi, rappresentando così il livello di tensione di Cassie.
Suono e visione hanno dunque una stretta correlazione ma, se la grafica ci offre dei risultati gradevoli e di una certa suggestione, lo stesso non può dirsi del comparto sonoro che dà del suo meglio in alcuni jumpscare (affidati praticamente solo all’architettura sonora) ma risulta nel complesso poco curato, al punto che la trasposizione visiva del suono diventa più importante del sonoro stesso, il quale dovrebbe essere invece il fondamento dell’intero gameplay, essendo la fonte della vista di Cassie e l’elemento di maggior suspense del titolo. Quel che davvero manca è il bilanciamento tra le parti: perseguendo l’intento di offrire al giocatore una maggior possibilità visiva, si penalizzano tutte le potenzialità che un audio design ben congegnato avrebbe potuto offrire, allontanando il giocatore da un’autentica esperienza di cecità in un contesto orrorifico. Ciò che Perception ha di ammaliante perde il proprio fascino e la propria potenza evocativa dopo circa mezz’ora di gioco, quando la casa comincia a essere percepita come un luogo “da ricostruire” piuttosto che come uno spazio reale da tirar fuori dal fondo pozzo dell’ignoto, sensazione ulteriormente accentuata dalla luminescenza degli obiettivi che possiamo mettere letteralmente in luce ogni volta tramite un sesto senso che trova poca giustificazione.

Percezioni

«Ora che ho perso la vista, ci vedo di più»
(Alfredo in Nuovo Cinema Paradiso)

Sviluppato da una parte di quel team di Irrational Games che ha lavorato su BioShockPerception nasce da un’idea originale e suggestiva che ha permesso allo sviluppatore di raccogliere più di 150.000 dollari su Kickstarter. Il titolo doveva uscire nel giugno del 2016, ha subito un ritardo di quasi un anno e in questi casi si spera che più tempo si traduca in migliori risultati, ma evidentemente non è bastato.
Il gioco mette davvero in atto uno spreco di tanto buon potenziale, considerando che alla base vi è un impianto narrativo ben congegnato, un buon doppiaggio e anche un meccanismo di ecolocalizzazione globalmente ben architettato.
Ma ci si ferma lì: il resto si perde nella routine che porta ciclicamente il giocatore a camminare, toccare, prendere un oggetto, ascoltare un ricordo, attivare il sesto senso, andare avanti e poi ripetere tutto da capo, con qualche intermezzo da brivido offerto dall’avvento della Presenza e qualche piccolo jumpscare. Troppo poco sul piano della suspense, troppo poco in termini di sfida per un survival horror di questo genere, e i contenuti non sono buoni abbastanza da compensare, non raggiungendo questi uno spessore autoriale ed essendo rimaste inespresse anche alcune intuizioni sulle quali sarebbe stato interessante lavorare, come quella di creare un racconto leggendario attorno alla proprietà di Echo Bluff, idea nata e morta nei 5 minuti di un singolo mockumentary che avrebbe potuto invece costituire la base di una serie di storie, creepypasta e leggende urbane sulle quali costruire un’aura di mistero tra finzione e realtà attorno alla villa. Un peccato anche per Cassie, personaggio ben costruito del quale emergono personalità e carattere e che quindi avrebbe meritato un altro sviluppo, mentre qui si limita a quasi a subire il fluire degli eventi e al mero ascolto delle singole storie.
Ad aggravare un quadro retto dunque quasi esclusivamente da una linea narrativa ben curata e da una grafica comunque accattivante sono inoltre i non pochi bug e glitch presenti nel titolo, alcuni dei quali bloccano di fatto l’avanzamento del giocatore, costringendo a ripartire dall’ultimo checkpoint (che per fortuna è quasi sempre abbastanza vicino): nella versione per PS4 che abbiamo giocato, mi sono ritrovato in una stanza dalla quale era impossibile uscire a causa di un dislivello nel pavimento che coinvolgeva tutta la mobilia attorno, insensatamente sollevata da terra (e no, non era un effetto di telecinesi spiritica).
Anche la traduzione italiana sembra essere figlia di una certa fretta e di approssimazione, non solo per l’evidente mancanza di cura della trasposizione nella nostra lingua, ma perché non di rado i sottotitoli italiani si alternano a quelli inglesi o addirittura si ritrovano intere sequenze in cui la voce scorre senza essere accompagnata da alcuna didascalia. Il linguaggio non è così complesso da non essere inteso da chi mastichi un po’ di inglese, ma qualunque backer nostrano che ha contribuito al finanziamento dell’opera avrebbe ragione di arrabbiarsi.
Titolo dedicato «a chi sia stato incompreso, mal giudicato, sottovalutato, a tutti quelli che non sarebbero mai riusciti a far qualcosa» e in parte ispirato a una storia vera accaduta alla fine del XVII secolo, Perception rappresenta una grossa occasione mancata, tradendo ottime premesse dal punto di vista del concept e della storia e rivelandosi un gioco certamente godibile ma globalmente privo di spessore, povero di sfida e mal congegnato dal punto di vista del gameplay, in un genere – quello del survival horror – che offre oggi omologhi ben più degni d’attenzione.




Alien: Isolation – A Casa Nessuno Può Sentirci Urlare

In occasione dell’uscita di Alien Covenant nelle sale cinematografiche, ci è sembrato giusto riprendere tra le mani un titolo videoludico che ripropone ottimamente le atmosfere del capostipite della saga del 1979: Alien Isolation.
Rilasciato nel 2014 e sviluppato da Creative Assembly, Alien Isolation ha riscosso un grande successo tra critica e pubblico, soprattutto per l’alta qualità raggiunta in quasi tutti gli aspetti del videogioco.
Ma vediamolo più nel dettaglio.

Alien 1.5

Alien isolation è ambientato 15 anni dopo gli eventi del primo film di Ridley Scott. La protagonista è Amanda Ripley, figlia di Ellen Ripley (protagonista della pellicola) che, in cerca di informazioni su quanto accaduto alla madre, si catapulta, con non poche difficoltà, sulla Sevastopol, una gigantesca stazione spaziale che sarà l’hub principale delle nostre disavventure.
La storia, per quanto semplice, è ben narrata, grazie anche all’utilizzo di ottime cutscene, audiolog e a varie informazioni che possiamo raccogliere con frequenti citazioni ai film. Questo è dovuto alla collaborazione che i producer del gioco hanno siglato con 20th Century Fox che ha permesso l’accesso a tutti i documenti disponibili sulla saga.
Le tematiche presenti sono le stesse del film originale: avidità e giochi di potere nonché l’angoscia e la solitudine esercitata grazie alla minaccia principale del gioco, lo Xenomorfo.
L’ormai iconico antagonista della serie ci accompagnerà per quasi tutta l’avventura, rendendo una semplice missione un vero incubo.

Nessuno può sentirti urlare

Alien Isolation si presenta come un survival horror nudo e crudo. Frequenti saranno le morti, ma questo non porta il giocatore alla frustrazione poiché è possibile trovare modi diversi per affrontare una determinata sezione. Si può morire in qualunque frangente, anche durante il salvataggio, visto che il gioco va in pausa soltanto aprendo la mappa o aprendo il menu. L’astuzia, l’ingegno e la silenziosità saranno necessari per completare l’avventura, che si attesta intorno alla ventina di ore.
La stazione spaziale è liberamente esplorabile, soprattutto se avete tutto il necessario per aprire determinate porte; sta a noi decidere se andare spediti verso l’obiettivo o andare alla ricerca dei numerosi collezionabili, sempre che la paura per lo Xenomorfo non sia un ostacolo troppo grande da superare.
Proprio lo Xenomorfo è il fiore all’occhiello della produzione e vi darà la caccia inesorabilmente per quasi tutta l’avventura. Le sue routine comportamentali sono tra le migliori viste in un videogame, per cui sarà veramente difficile capire in che modo reagirà ad una determinata situazione o i suoi percorsi di pattugliamento. È pressoché invincibile, ma può essere distratto con l’equipaggiamento che possiamo trovare nel corso del gioco o eventualmente costruire grazie anche all’ottimo sistema di crafting. Sono presenti anche armi da fuoco da usare solo se strettamente necessario, in quanto i forti rumori non fanno altro che richiamare l’alieno.
Imprescindibile è poi l’utilizzo del famoso rilevatore di movimento, utilissimo in ambienti aperti, meno all’interno del nascondiglio, dove il “bip” emesso dallo strumento non farà altro che attirare l’alieno verso di voi.
Lo Xenomorfo in realtà non è l’unico nemico della stazione: sono presenti infatti anche umani e androidi che purtroppo vantano una scarsa intelligenza artificiale, basilare e a volte lacunosa; fortunatamente li affronteremo solo in brevi sezioni ma è un peccato constatare ciò visto l’alto livello qualitativo raggiunto con tutto il resto.

Come il film

Da un punto di vista tecnico il gioco si presenta piuttosto bene, con ottimi effetti volumetrici e un comparto luci di riguardo. La modellazione degli ambienti è certosina, così come quella dello Xenomorfo, davvero ben realizzato.
Un po’ meno buona è la modellazione di androidi e umani, che peccano sul piano dei dettagli e delle animazioni. Il comparto artistico è eccezionale, con ambienti contestualizzati al periodo storico narrato nei film: terminali, armi, soprammobili, tutto ricorda le celebri atmosfere dell’Alien cinematografico.
Stessa minuzia anche nel comparto sonoro. Le musiche sono riprese dal film, con alcune di esse ricreate e arrangiate diversamente. Non sono sempre presenti ma, quando appaiono, avvolgono l’azione sapientemente creando maggiore tensione quando serve o enfatizzando i momenti più concitati. Effetti sonori sublimi, non c’è nulla fuori posto tanto che, chiudendo gli occhi, si farà fatica a distinguere il videogioco dai film originali.
Anche lo Xenomorfo è reso benissimo, dalla discesa dai condotti ai suoi effetti vocali, praticamente perfetto. Discorso a parte merita il doppiaggio. Ottimo quello di Amanda, davvero ben realizzato: la paura, la tensione, la frustazione sono ben incisi, regalando
un personaggio assolutamente credibile. I comprimari invece, pur avendo una voce adeguata per il più delle volte, peccano di tanto in tanto di recitazione, utilizzando un tono magari fuori contesto.

In conclusione

Alien Isolation è sicuramente il miglior titolo dedicato a questa saga, nonché un grandioso esponente dei survival horror. Questo non solo per il lato artistico ma soprattutto per le emozioni che riesce a suscitare. L’impressione è sempre quella di essere impotenti di fronte alle circostanze e ogni salvataggio diverrà una vera e proprio fonte di salvezza. Allo spuntare dei titoli di coda, dopo una sequenza finale al cardiopalmo, non potrete che sentirvi soddisfatti, con la consapevolezza di aver compiuto una vera impresa.




Remothered: Tormented Fathers. Ci si prepara al rilascio della beta

Avverrà a breve il rilascio della beta di Remothered: Tormented Fathers, un videogioco made in Italy, targato Starmind Games con la collaborazione della Darril Arts. Anche se non è stata fissata una data certa, abbiamo la sicurezza che il gioco completo uscirà esclusivamente per PC/steam e PS4/psn entro il 2017. Nel frattempo potremo godere del video trailer rilasciato dalla casa di produzione.

Remothered: TF è il primo tanto atteso capitolo di una trilogia. Un’avventura survival-horror in terza persona. Giocando nei panni di Rosemary Reed, una giovane di 35 anni, ci troveremo a fronteggiare psicopatici e fanatici. Una fitta rete dove omicidi e ossessioni prendono vita.

Registrandovi nella pagina ufficiale del gioco, potrete avere accesso alla beta non appena diventerà disponibile. Inoltre, iscrivendovi riceverete in regalo: gli storyboard digitali, un wallpaper per i fan e, per concludere in bellezza, la canzone “Tormented Fathers”, brano tratto dalla colonna sonora del gioco, scritta da Nobuko Toda (conosciuto come compositore per Final Fantasy, Halo, Metal Gear Solid…).




Resident Evil 7: Biohazard

«Per fare un fantasma occorrono, una vita, un male, un luogo. Il luogo e il male devono segnare la vita, fino a renderla inimmaginabile senza di essi. Il luogo dev’essere circoscritto, con confini precisi; più che un luogo, una porzione chiusa di luogo: preferibilmente una casa.»

Questa frase di Fantasmagonia di Michele Mari potrebbe essere il postulato di partenza per i creatori di questo nuovo capitolo di Resident Evil.
Dopo due episodi sottotono – che hanno fortemente scontentato la fandom e che, al contempo, non hanno esaltato i giocatori meno intransigenti – in casa Capcom si è optato per un ritorno al passato sotto vari punti di vista, a partire dall’ambientazione: abbandonare le strade di Raccoon City e tornare a circoscrivere l’orrore tra le mura di una casa. O, per meglio dire, tra i confini di una tenuta, dato che l’ambiente di gioco di questo capitolo si estende all’intera proprietà della famiglia Baker, nella quale viene a trovarsi Ethan Winters dopo aver ricevuto un messaggio dalla moglie, Mia, creduta morta da anni.
In quest’amena proprietà rurale sita a Dulvey, Louisiana, si svolgono i fatti di Resident Evil 7: Biohazard.

Beginning Hour

Il gioco è ambientato ai giorni nostri, anche se la casa sembra essersi fermata agli anni ’80, fra mangianastri, VHS e tv con tubo catodico. Il gioco si svolgerebbe in realtà ai giorni nostri, 4 anni dopo Resident Evil 6 e 3 anni dopo la demo, Beginning Hour, con la quale RE7 è stato a tutti gli effetti presentato il 14 giugno 2016 agli utenti Plus del Playstation Store. Un assaggio di questo capitolo era stato dato all’E3 di Los Angeles del 2015 con KITCHEN, breve demo nella quale ci si trovava a impersonare un non meglio specificato personaggio legato a una sedia che finiva col fronteggiare una demoniaca Mia. Pochi minuti nei quali ci si limitava a mettere un piede nella cucina dei Baker. Beginning Hour è invece il primo vero approccio al gameplay e alle dinamiche di Resident Evil 7: Biohazard, pur non comprendendo alcuna parte del gioco finale (ad eccezione di una VHS, la prima in ordine di comparizione in quest’ultimo capitolo Capcom). Anche qui si vestono i panni di un non meglio specificato protagonista, ma le storie importano poco: quel che è importante è testare la reazione del pubblico di fronte alla nuova ambientazione e alle nuove dinamiche. Forse proprio per questo la demo è molto elaborata, rigiocabile, con ben quattro finali e con la possibilità di raccogliere alcuni degli oggetti principali del gioco, comprese le armi. E la risposta degli utenti, con oltre 2 milioni di download, è più che positiva, al punto che Capcom rilascerà successivamente le versioni Twilight e Midnight, che contengono altri enigmi e permettono di giocare altre aree della casa. Nessun cenno ai personaggi che faranno parte di Resident Evil 7: Biohazard, tra i quali, nelle presentazioni al pubblico, pare avere attenzioni solo Mia, che ritorna in Lantern, altra breve demo presentata alla Gamescom di Colonia del 2016 che contiene la sequenza della seconda VHS del gioco, nella quale la donna si trova alle prese con l’amabile Marguerite Baker, con la quale avrà a che fare anche il nostro protagonista, Ethan.

“Rise and Shine, Sleepyhead!”

E così si entra nel vivo di questo Resident Evil 7: Biohazard: dentro la casa Ethan riuscirà a trovare Mia, ma si ritroverà ben presto prigioniero dell’orribile famiglia Baker, i cui componenti gli daranno la caccia per tutta la durata del gioco. L’ambientazione cupa, la casa desolata nelle sperdute campagne del sud americano, quella famiglia decadente, sordida, malata e quel senso di impotenza che si prova nell’essere rinchiusi senza via di fuga in un simile contesto richiamano scenari da film horror anni ’70-’80 – The Texas Chainsaw Massacre, da noi meglio conosciuto come Non aprite quella porta, su tutti – che lo stesso director Koushi Nakanishi ha dichiarato letteralmente di adorare. La scrittura di Richard Pearsey (F.E.A.R., Spec Ops: The Line) si innesta perfettamente in questo quadro, suggellando un’opera horror dal grande ritmo narrativo che gioca sui migliori cliché del genere senza mai banalizzarli.

Inside The House

Una simile struttura narrativo, che onora i classici senza cadere nel già visto, è il perfetto specchio di un gameplay che riesce nell’impresa di far rivivere un franchise un po’ inceppato rinnovandone le dinamiche (ottimo l’espediente delle VHS, le quali spezzano sia la storia dal punto di vista narrativo, sia la tensione, seppur momentaneamente, e permettono una maggior immedesimazione nella storia, essendo giocabili) e rivisitando elementi già visti nei precedenti capitoli: così come la casa – ricordiamo tutti le stanze oscure e tortuose in cui si perdeva la squadra S.T.A.R.S., no? – un elemento visivo che salta subito all’occhio è il sistema di apertura delle porte, il quale è una “versione in real-time” delle clip del primo capitolo, e dunque un esplicito richiamo atto – come ha dichiarato Nakanishi – a rievocare quel brivido che portava il giocatore a chiedersi (e temere) ogni volta cosa potesse nascondersi dietro la porta; tornano inoltre come elementi dei punti di salvataggio un po’ retrò (in questo caso il mangianastri al posto della macchina da scrivere), il cardiofrequenzimetro da polso che indica l’energia residua, i bauli in cui conservare gli oggetti per i quali non si trova spazio nello zaino (quantomeno finché non se ne trova uno più grande) ed elementi come le erbe, che si innestano in un interessante sistema di crafting che porta il giocatore al compimento di scelte importanti: meglio combinare il solvente con le erbe mediche per ottenere soluzioni curative o con la polvere da sparo per avere una maggior scorta di munizioni? O forse sarà meglio tenere con sé degli psicofarmaci che ci facciano trovare i vari oggetti nascosti per la casa?
Il gameplay in questo caso si fa estremamente interessante, soprattutto se teniamo conto del fatto che le armi non sono poi così potenti (si parte con un coltello, si recupera una pistola, poi un fucile e poco altro, poche armi ma con un buon sistema di mira) e che le scelte riguardo il nostro equipaggiamento si fanno fondamentali per la nostra sopravvivenza. Specie perché i nemici si fanno anche più ostici di quanto non sembri all’inizio.

Biohazard

Ma gli elementi classici della saga non finiscono qui: è vero che quanto detto finora in termini narrativi, ci riporta, come detto, ai film horror anni’80, e si è indotti a pensarlo fino a un certo punto del gioco. Fino a quando poi d’improvviso si apre una porta e – puf! – ci si ritrova in ambienti più familiari ai classici Resident Evil e, soprattutto, dinanzi a personaggi più consoni a quanto ci ha abituato la seria. Proprio in questo contesto si trovano gli ulteriori nemici, i Molded (o Micomorfi), creature possenti, mefitiche e catramose con le quali bisognerà fare i conti in parallelo ai Baker, e che ci daranno ulteriori indizi riguardo quel che sta dietro la storia di questo Resident Evil.
Dal punto di vista grafico sono fra gli elementi più pertinenti del gioco, essendo realizzati da dei make-up artist che li hanno assemblati utilizzando modelli composti con carne vera per poi riportarli su schermo tramite la fotogrammetria.

I denti non bastano

Ma se i Micomorfi sono fra i risultati più felici di questo capitolo, lo stesso non può dirsi per gli altri elementi, almeno sul piano del design. Alla domanda di Kotaku sul perché i denti dei personaggi umani di Resident Evil 7 risultino così perfetti, il produttore Masachika Kawata ha risposto che questa è dovuta anche in questo caso ai miracoli della fotogrammetria (e al fatto che gli attori avessero bei denti, ovviamente). Viene da chiedersi allora perché il risultato riguardo la definizione dei volti e dei corpi non presenti risultati egualmente soddisfacenti, così come si può dire per gran parte degli ambienti di gioco e degli oggetti imbracciati da Ethan, i quali presentano una definizione minimale e un numero di poligoni ridotto all’essenziale, alcuni movimenti sembrano mancar. L’unica spiegazione che siamo riusciti a darci è che il lavoro sulle texture non volesse essere troppo elaborato per non stressare esageratamente il VR della PS4, che avrebbe forse potuto risentire di un livello di definizione troppo alto. Anche perché c’è da aggiungere che il RE Engine non dà praticamente alcun problema, anche indossando il casco della realtà virtuale l’esperienza risulta fluida, godibile ma soprattutto immersiva come poche.

Virtual Horror

E qui veniamo a uno dei punti più felici di Resident Evil 7: Biohazard, il quale ad oggi si è rivelato il vero banco di prova per la nuova generazione VR appena lanciata da Sony (la quale, c’è da dirlo, ha il merito di essere la prima a rendere accessibile la realtà virtuale agli utenti). Pur risultando un ottimo gioco anche nella versione standard, è innegabile che questo RE7 su visore dia il meglio di sé: trovarsi in quegli ambienti oscuri, ostili, in cui un non piacevole ignoto può trovarsi sempre dietro l’angolo instilla già ansia e paura davanti a un televisore, figurarsi a trovarsi totalmente dentro una simile esperienza e con delle cuffie alle orecchie. Certo, se dal punto di vista del design denotavamo alcune mancanze nella versione su schermo, su VR tutto ciò peggiora, i difetti che normalmente passano inosservati saltano all’occhio (parti di ambientazione grossolanamente tagliate, definizione che si fa ancora più scarsa negli ambienti non chiusi, etc.) e anche nell’utilizzo di alcuni oggetti (dalla cornetta mal posizionata quando si parla al telefono al modo in cui si rompono le casse etc.) le imprecisioni grafiche non sono poche. Certi difetti sul piano visivo non sono da poco, ma questa tecnologia è agli albori e certamente le software house devono ancora prendere le misure. D’altro canto, l’esperienza di gioco giova tantissimo del surplus che il VR può dare in termini di atmosfera e immedesimazione, sublimando la visuale in prima persona propria del gioco, amplificando il senso di terrore e tensione ad ogni passo nella tenuta, rendendo ancora più vividi gli scontri coi nemici e valorizzando l’impianto narrativo dell’opera. Non è da poco il dato che, come riportato da ResidentEvil.net, su 660.000 utenti iscritti al sito oltre 63.000, quasi il 10% degli utenti, avrebbero utilizzato il PlayStation VR.
L’esperienza risulta totalmente immersiva, restituendo ancor più il meglio di quanto l’ambientazione e la scrittura di questo capitolo possono dare e questo si prospetta essere il vero trampolino di lancio per un gaming sulla realtà virtuale che non potrà far altro che crescere negli anni.

Il Male Residente

Tirando le somme, non si può non accogliere positivamente questo Resident Evil 7: Biohazard. Il ritorno a un luogo conchiuso, una vecchia villa nido e ricettacolo di un male inenarrabile è stata una scelta più che positiva, punto di partenza di un’opera che racconta l’orrore senza far leva su facili scarejump, con gran dignità di genere sul piano narrativo, ottima giocabilità, soddisfacente e adeguata longevità (circa 12 ore), basata su meccanismi della tensione sottili, le cui atmosfere ansiogene compensano pienamente gli svariati difetti sul piano grafico e una colonna sonora azzeccata per far da cornice al quadro.
Non è un caso che le vendite stiano già dando ottime risposte a Capcom riguardo un gioco ottimo in entrambe le versioni, che ha in più il merito di essere la vera prima “killer application” della nuova generazione VR, quella che Sony sta portando nelle case dei giocatori. E anche solo per questo Resident Evil 7: Biohazard merita già un suo posto di riguardo nella storia dei videogames.