Dove finisce Activision e comincia From Software

È passato ormai un po’ di tempo dall’uscita di Sekiro: Shadows Die Twice, del quale avete già potuto leggere tra le nostre pagine. Come già accennato nella recensione, Sekiro è un prodotto creato tra l’unione di una software house (From Software) e un publisher (Activision) molto diversi nel modo di approcciarsi al pubblico, tanto da preoccupare i fan di Miyazaki sin dal primo trailer di presentazione. L’influenza di Activision si sente, dando ai conoscitori dei souls la sensazione che Sekiro sia frutto di uno scontro di “giochi di potere” e di compromessi: acquisire maggior pubblico a discapito della libertà progettuale o portare avanti le proprie idee con il rischio di allontanare i giocatori? Come per il duo Salvini-Di Maio, i diversi approcci sono chiaramente visibili, cercando in qualche modo di accontentare tutti, con risultati più o meno buoni.

Fiori nei cannoni

L’impatto con l’ultima fatica della casa di Tokyo può essere un po’ straniante per i conoscitori dei “soulsborne”: siamo abituati al mini tutorial iniziale, con striminzite righe di testo capaci di spiegare “alla larga” le principali meccaniche del titolo, ma in Sekiro tutto questo prende una piega particolare. È già qui che l’influenza di Activision si nota, spiegando per filo e per segno ogni meccanica presente e, nel caso in cui la nostra memoria facesse brutti scherzi, è possibile trovare tutte le spiegazioni nel menu di pausa. Come se non bastasse, è presente anche una sezione allenamento dove il non-morto Hanbei presterà il suo corpo immortale per provare nuove abilità in tutta sicurezza. Nei souls l‘unico modo per far pratica è rischiare la vita. Si capisce già da questi frangenti come la visione dell’autore e l’apertura delle sue idee al mondo sia un reale frutto del compromesso, invogliando i giocatori a proseguire nei meandri di Ashina. Ma per Hidetaka Miyazaki lo “smarrimento” del videogiocatore – così come la difficoltà – ha un ruolo chiave all’interno del gioco, in cui ognuno di noi deve essere pronto a gettare il cuore oltre l’ostacolo per superare i momenti critici. Queste idee sono enfatizzate ovviamente dalla ricercatezza artistica e da alcuni elementi ripresi direttamente dalla cultura giapponese come una statura fisica più elevata rispetto al nostro Lupo, in grado di far avvertire il rango sociale ma, soprattutto, l’idea di essere sempre di fronte a qualcosa di più grande rispetto a noi. Fortunatamente tutto questo non viene scalfito dall’intervento di Activision, anche se in certi frangenti la sua ingerenza è così palese da far sorridere.
Le variazioni possono già percepirsi in elementi come la narrazione, da sempre un aspetto molto criptico dei prodotti From Software, costituita da centinaia di frammenti sparsi nel gioco e che bisogna mettere assieme di volta in volta per riuscire ad avere un quadro completo. Sebbene in Sekiro: Shadows Die Twice questa componente risulti sicuramente ben più diretta rispetto ai souls e a Bloodborne, a volte si ha la sensazione che sia fin troppo chiara. Già la descrizione degli oggetti, presenta informazioni più esplicite che in passato, nonostante la mole sia la medesima; il risultato è che invece di avere un puzzle di solo cielo composto da mille pezzi, se ne ha uno più accessibile, capace di invogliare anche il “giocatore della Domenica” ad approfondire le tematiche del titolo. Ma questa accessibilità si palesa in maniera “violenta” con gli NPC, non solo abbastanza loquaci ma anche molto espliciti sul da farsi. Ogni oggetto − o quasi − ha la sua funzione, descritta a chiare lettere così come le indicazione su dove e come proseguire. Il giocatore dunque è decisamente accompagnato per mano e lontani sono i ricordi in cui una volta arrivati ad Anor Londo in Dark Souls, bisognava affidarsi all’istinto per poter proseguire. Purtroppo (o per fortuna) questo elemento è stato quasi completamente estirpato: siamo sì immersi in un mondo di cui sappiamo ben poco, ma l’essere guidati da una mano ben visibile spezza in qualche modo la magia e possiamo facilmente presumere che Miyazaki avesse ben altri piani.

Una dura verità o una dolce bugia?

Chi ama e chi ha amato i souls in questo decennio è ben conscio del fatto che la difficoltà ha un valore particolare, quasi religioso, in questa tipologia di videogame. I combattimenti, l’orientamento per le intricate mappe, il portare avanti le quest dei vari personaggi secondari, sono sfide che il videogiocatore appassionato ama e che sono capaci di regalare un forte senso di gratificazione una volta arrivati al finale. Sekiro tutto questo lo fa egregiamente (o quasi) ma, come ormai si evince, in maniera diversa: in qualche modo tutto risulta meno criptico, accompagnando il giocatore in “segreti” che effettivamente non sono tali. L’accessibilità dettata da Activision in questi casi è forse un punto dolente, capace di togliere quella magia e senso della scoperta a cui normalmente From Software ci ha abituati: come dimenticare il Grande Vuoto di Dark Souls o le Tombe Dimenticate del terzo capitolo, come non pensare a Lautrec o al destino di Anri. From Software ha sempre gettato l’utenza in un mondo descritto da qualche riga, senza appigli particolari per sopravvivere; insomma, bisogna essere audaci, scaltri e intuitivi per andare avanti. È questo il vero fascino dei lavori di Miyazaki, ma che in quest’ultima opera, in qualche modo, lo si percepisce meno: abbiamo fin troppe informazioni e indicazioni, non solo su come proseguire ma persino di gameplay.
Molte di queste parole hanno valore puramente soggettivo: diventa chiaro come per alcuni questo nuovo approccio sia molto più fruibile e sicuramente più orientato alle masse; eppure qualcosa non quadra. Il gioco – come descritto in fase di recensione – è punibilità allo stato puro, malvagio sotto quasi tutti i punti di vista. Allora perché stendere un “tappeto rosso” per l’Inferno? Forse infatti, “eticamente” parlando, Sekiro: Shadows Die Twice è disonesto: tutti felici, tutto comprensibile ma basta poco per tornare a casa dalla mamma, piangendo. Nei souls duri e puri, subito un boss quasi insormontabile, senza capire i perché di ogni cosa e via; si soffriva certo, ma almeno il contesto era schietto.
L’ormai definibile genere souls, col tempo, si è diramato in più segmenti, arrivando anche a ibridi particolari come Immortal: Unchained – ingiustamente maltrattato da parte della stampa e che difenderò fino alla morte. Il filo conduttore è sempre lo stesso, un approccio duro sin da subito, un tacito accordo tra videogiocatore e programmatori che non può essere scalfito. In Sekiro questo accordo vale solo certi frangenti, separati nettamente: From Software ha creato un combat system geniale e immediatamente iconico, cattivo ma in grado di esaltare chiunque e un impianto artistico magniloquente. Activision ha messo il proprio zampino sulle scelte narrative in senso stretto: i dialoghi, le descrizioni degli oggetti, nonché i tutorial, sono aperti al pubblico, comprensibile anche al videogiocatore occasionale. E qui arriva il plot-twist: questa partnership è stata capace di aprire gli occhi a From Software, escogitando nuovi modi di approcciarsi al pubblico? Il netto contrasto tra il pubblisher e la software house col tempo potrebbe sparire, in favore di un’amalgama perfetta nel futuro secondo capitolo (ops, spoiler). Ma di tutto questo, ne parleremo successivamente, di come Sekiro II possa diventare la pietra miliare di From Software, grazie a un migliore compromesso tra le parti.




The Textorcist: The Story of Ray Bibbia

Roma: la chiesa cattolica ha ottenuto il pieno potere sulla capitale italiana tramite metodi non proprio leciti, avvalendosi anche di poteri demoniaci. Solamente un esorcista, Ray Bibbia, si oppone al loro volere, ed è pronto a combattere il potere clericale a colpi di… tastiera.
Questo è il singolare incipit di The Textorcist: The Story of Ray Bibbia, prima fatica dello studio italiano Morbidware di Diego Sacchetti e Matteo Corradini (che i più conosceranno per il suo lavoro con i The Pills). The Textorcist è stato scritto proprio da Matteo, che ha saputo creare una storia tanto semplice quanto cazzuta al punto giusto.

Dio perdona, io no!

The Textorcist è il risultato di un felice incontro tra The Typing of the Dead e Dodonpachi, il typing game messo al servizio dello shump nella sua variante più hardcore: il bullet hell. Un ibrido decisamente strano e non convenzionale, ma che alla fine funziona alla grande, sfornando un titolo carismatico e originale come pochi nel panorama indie mondiale.
Ma andiamo con ordine: partiamo subito col dire che questo è un titolo che farà felici i fan dei film d’azione, visto che le citazioni non mancano (uno su tutti il Titty Twister di Dal Tramonto all’Alba), il tutto unito con una verve umoristica “all’italiana” davvero azzeccata. Non nego di aver urlato al colpo di genio quando ho dovuto usare il PC di Ray, un vetusto, ma utile Holyvetti, così come aver riso tanto alla scoperta di un gruppo black metal vegano (chiaro riferimento a Vegan Black Metal Chef) e all’easter egg del bidet.
Umorismo e citazionismo a parte, il gioco funziona: la pixel art è ben curata e non banale, e il gameplay è davvero un unicum nel mondo gaming. Il nostro compito è quello di azzeccare le parole dei nostri (veri!) esorcismi, il tutto mentre dovremo evitare i proiettili sparati dal nemico. Interessante il meccanismo della Bibbia, nostra unica arma per scacciare il maligno: fungerà da scudo, e se verremo colpiti verrà sbalzata dalle nostre mani, rimbalzando in giro per l’arena. Senza il nostro libro sacro, dopo un breve invincibility frame, saremo vulnerabili per tre colpi (dopodiché sarà game over) fino a quando riusciremo a riprenderla. Attenzione anche al timer attorno, se scadrà il tempo Ray perderà il filo delle proprie parole e sarà costretto a ricominciare l’esorcismo dall’inizio! Un meccanismo che sembra più facile a farsi che a dirsi, e che da quel sapore un po’ “soulslike” a The Textorcist: sarà fondamentale dosare le fasi di attacco con quelle di schivata per evitare di dover rincorrere la nostra preziosa bibbia ed essere così vulnerabili agli attacchi nemici. In un gioco simile, la pazienza è più di una virtù.
Particolare il gameplay, dicevamo, uno dei punti di forza del titolo. Essenzialmente abbiamo a disposizione tre approcci diversi: possiamo muoverci con le frecce direzionali e digitare le corrette lettere, usare la combo shift+WASD sempre per spostarci, oppure usare un joypad. Con quest’ultimo il gioco cambia radicalmente, trasformandosi da un typing game ad un rhythm game molto vicino a Crypt of the Necrodancer. Le lettere vengono sostituite dalla pressione dei bumper dorsali, ognuno di essi correlato a una lettera dell’esorcismo. Così facendo il gioco diventa forse più immediato, ma ugualmente difficile. Niente di impossibile, ma siamo decisamente nel campo dell’ “hard but fair”, così come si addice a questo tipo di giochi, che si ispirano alle difficoltà dei titoli degli anni ‘90. Chiude il tutto una colonna sonora a cura di GosT, autore di una synthwave potente e che flirta alla perfezione col metal, decisamente uno dei punti di forza del titolo.

In nomine dei nostris

The Textorcist scende in campo con la sicurezza di un veterano, e convince sotto molti punti di vista. Nonostante la relativa brevità del titolo, completabile in circa quattro o cinque ore, e un endgame ridotto all’osso (potremo affrontare ogni boss più volte, cercando di conquistare la vetta della leaderboard), la prima fatica di Morbidware è una piccola gemma che va giocata e amata, soprattutto per chi ama la difficoltà dei giochi di una volta, l’umorismo dei film d’azione e il panorama indie moderno.

 




Top 5: Marzo 2019

L‘inverno è giunto alla sua conclusione, lasciando il palcoscenico alla primavera e al rifiorire della natura. È anche il tempo di nuove uscite videoludiche, tra gemme inaspettate e titoli che non hanno deluso. Vediamo quali.

#5 Tropico 6

Sesta iterazione per il popolare gestionale di Kalypso Media a tema social-politico: vestiremo ancora una volta i panni di El Presidente in quello che, forse, è il compito più arduo di tutta la serie. Non gestiremo più una sola isola, bensì un arcipelago! È questa la novità più eclatante di questo Tropico 6, che aggiunge delle variazioni ben riuscite nel classico gameplay della saga. Avremo quindi più isolotti da gestire, come se fossero delle macro aree ognuna diverse dall’altra, senza dimenticare l’occhio alle varie fazioni politiche di Tropico, fattore fondamentale per una lunga presidenza, o nel peggiore dei casi, dittatura.
Dopo il mezzo passo falso del precedente capitolo, Tropico 6 torna in carreggiata, offrendoci uno dei migliori capitoli della serie da lungo tempo, capace di offrire ore e ore di puro divertimento caraibico.

#4 Baba is You

Baba is You, puzzle ideato dal finlandese Arvi “Hempuli” Teikari, ha un’idea semplice quanto complessa allo stesso tempo: per completare i livelli bisognerà “comporre” delle frasi di senso compiuto, usando degli aggettivi trovati in giro per i livelli. Per esempio, se un fiume di lava ci blocca il passaggio, basta mettere in sequenza le parole “lava is melt” per veder sparire l’ostacolo. È un titolo originale che, come l’idea del suo creatore, può sembrare semplice ma in realtà nasconde un cuore arduo e complesso, come ogni buon puzzle game che si rispetti. Uscito su PC e su Nintendo Switch, Baba is You è una gemma nascosta nel mare delle pubblicazioni indie, che consigliamo ai fan del genere e a chi vuole giocare un titolo che fa della semplicità e dell’originalità il suo punto di forza.

#3 Tom Clancy’s The Division 2

Abbandonata la notte perenne e innevata di New York per l’assolata e verde Washington D.C., The Division 2 ci riporta a lottare contro il virus scatenatisi nel primo episodio, portandoci nella capitale degli Stati Uniti contesa tra quattro diverse bande in guerra per la supremazia territoriale. Il titolo Ubisoft mantiene le promesse fatte durante lo sviluppo e dona ai giocatori un buon ibrido tra gioco di ruolo e shooter con coperture, migliorando i difetti del precedente capitolo. Unica pecca forse un endgame ancora non all’altezza dell’offerta, ma The Division 2 è comunque il miglior loot shooter del mercato, riuscendo dove altri titoli ancora non riescono a incidere.

#2 Devil May Cry 5

La rinascita di Capcom passa anche da qui: dopo Monster Hunter: World e Resident Evil 7, tocca a Dante e colleghi portare in alto il vessillo della software house giapponese. Devil May Cry 5 torna sui nostri schermi più bello che mai, grazie all’uso del RE Engine, e soprattutto più spettacolare che mai. Se Dante e Nero possono eseguire combo in stile picchiaduro, quest’ultimo usando anche la particolare protesi robotiche denominata Devil Breaker, particolare è il gameplay del nuovo V, un evocatore capace di chiamare in battaglia tre demoni da usare per combattere dalla distanza.
Il Re degli hack n’ slash è tornato e Devil May Cry 5 non delude le aspettative dei fan, donandoci un titolo sia bello da vedere che divertente pad alla mano.

#1 Sekiro: Shadows Die Twice

Un giovane shinobi del periodo Sengoku, alle prese con un arduo compito: vendicarsi della perdita del proprio braccio, sostituito da una particolare protesi, e salvare il proprio signore . È questo il prologo di Sekiro: Shadows Die Twice, ultima fatica di From Software e del suo mastermind Hidetaka Miyazaki. Nonostante la parentela con la serie dei Souls e del genere a essa legato, Sekiro si dimostra diverso rispetto ai titoli del recente passato, il gioco è più votato all’azione e al combattimento tra spadaccini, ed è possibile eseguire anche delle uccisioni stealth che richiamano un titolo sempre legato agli sviluppatori giapponesi: Tenchu.
Il level design è una delle peculiarità del titolo, con scenari mozzafiato come da tradizione, che ben si sposano con il setting del Giappone feudale. Sekiro centra il colpo alla perfezione e consacra il lavoro del suo creatore ai massimi livelli, donandoci non solo il miglior gioco del mese, ma anche uno dei migliori titoli del 2019.




Top 5: Novembre 2018

La fine di questo 2018 videoludico è ormai vicina e il mese di Novembre ci ha regalato alcuni dei titoli più importanti di tutta l’annata. Andiamo a vedere quali.

#5 Fallout 76

Il titolo Bethesda era uno dei più attesi dell’anno: dopo la pubblicazione di The Elder Scrolls Online gli sviluppatori americani si lanciano nel loro primo MMORPG, un prequel narrativo ambientato nel 2102, venticinque anni dopo la guerra nucleare che ha devastato il mondo. Noi impersoneremo un abitante del Vault 76 atto a riconolonizzare il territorio. Attualmente il titolo soffre di qualche problema con i server e probabilmente ingranerà dopo qualche patch correttiva e un po’ di mesi di rodaggio, quindi è da considerare come un investimento a lungo termine.

#4 Football Manager 2019

Nuova interazione per l’amata saga manageriale calcistica di Sports Interactive: quest’anno il team ha voluto cambiare faccia, con una nuova interfaccia grafica e una rinnovata attenzione sul lato tecnico-tattico. Mai come quest’anno sarà fondamentale trovare il giusto assetto e progettare bene la sessione di allenamenti, facendo attenzione a non strafare ed evitare di esser falcidiati dagli infortuni, esattamente come nella realtà. Probabilmente uno dei migliori capitoli della serie, ottimo anche per chi non ne ha mai giocato uno e vorrebbe iniziare ad emulare le gesta di Allegri, Guardiola o Mourinho.

#3 Battlefield V

Il nuovo capitolo del popolare sparatutto di casa DICE fa buon uso delle critiche arrivate nel periodo della beta, regalandoci uno dei migliori titoli della saga: abbandonato il periodo della Prima Guerra Mondiale di Battlefield 1 si ritorna sui campi da battaglia della Seconda Guerra Mondiale, prendendo i punti di forza del predecessore e ampliandoli in un gameplay frenetico e fluido. Battlefield V è anche uno dei primi titoli che sfrutta appieno le potenzialità della serie di schede grafiche RTX di Nvidia con la tecnologia ray tracing, capace di avvicinarci sempre di più al fotorealismo. Manca ancora l’attesa modalità battle royale in arrivo a breve, ma al momento il titolo pubblicato da Electronic Arts ha fatto centro.

#2 Darksiders III

Terzo attesissimo capitolo della saga di Darksiders, il primo dopo il fallimento di THQ e il passaggio a THQ Nordic: questa volta vestiremo i panni di Furia, uno dei quattro cavalieri dell’Apocalisse, atta a distruggere le impersonificazioni dei sette vizi capitali.
Pur mantenendo l’aspetto action-adventure con elementi RPG dei predecessori, Darksiders III aggiunge degli elementi hack and slash e soulslike al mix, rendendo il titolo sviluppato da Gunfire Games un gradito ritorno.

#1 Red Dead Redemption II

Il titolo di Rockstar Games era uno dei più attesi dell’anno e non ha deluso le aspettative: Red Dead Redemption II ci riporta negli impolverati sentieri del Far West, dove impersoneremo Arthur Morgan, leader di una banda di fuorilegge che dovremo gestire e dirigere come ogni buon capo che si rispetti. Ogni nostra mossa avrà un impatto sulle cittadine e sugli NPC che incontreremo lungo l’avventura, siano essi nella storia principale che durante le fasi di free roaming, e sotto questo punto di vista il lavoro di Rockstar è enorme: la già grande base del precedente capitolo viene ampliata a dismisura, restituendo al giocatore un titolo open world vivo e capace di evolversi come poche volte si è visto nella storia dei videogiochi, rendendo Red Dead Redemption II non solo uno dei migliori titoli del 2018, ma probabilmente uno dei migliori degli ultimi anni.




Dark Souls e la cultura del contesto

Se avete giocato almeno una volta a Dark Souls, fiore all’occhiello della nipponica From Software, sarete sicuramente scesi a patti (come del resto accade con le Fazioni all’interno del gioco) con la sua controversa e dibattuta “non narrazione” o lore (della quale trovate una disamina in questo corposo speciale) che di fatto costituisce una grossa fetta di quella fortuna che lo ha reso capostipite di un vero e proprio sottogenere di giochi di ruolo, quello dei soulslike.
Oltre che a reinterpretare la difficoltà dei tempi passati con un gameplay tanto punitivo quanto gratificante, Dark Souls fa della libera interpretazione il più grande punto di forza, perché è proprio attraverso le speculazioni che la community arricchisce l’esperienza di gioco, donandogli una linfa vitale che si rinnova a ogni discussione.
È però il gioco stesso a richiedere cooperazione da parte del suo interlocutore (inteso come “giocatore”) e su questa impernia il suo significato più profondo. Tutto ciò, in maniera consapevole o meno, può essere relazionato alla cultura d’origine dell’opera ed è quello su cui ci concentreremo qui di seguito.

Analizzandone il linguaggio, possiamo considerare quella nipponica come una High Context Culture (HCC), ovvero quel tipo di cultura basata più sul senso complessivo di una frase che sul significato della singola parola che la compone. Nella lingua giapponese non esiste differenziazione tra maschile e femminile, singolare e plurale; inoltre, i verbi sono coniugati in maniera uguale per tutte le persone ed esistono soltanto due tempi verbali: il “passato” e il “non passato”, il quale racchiude in sé presente e futuro. Tutto ciò evidenzia come il sistema linguistico valorizzi il contesto come chiave di lettura per la comprensione. Tornando a Dark Souls, riuscite a immaginare quanto la lingua di partenza possa creare un allontanamento dalla nostra attuale capacità di interpretazione? Se avete provato un forte senso di alienazione giocando, sì; e se ne siete stati affascinati al punto da sentire il bisogno fisiologico di approfondire, be’, gioite, siete i giocatori perfetti per Dark Souls.
L’appartenenza a una HCC coinvolge in maniera incisiva, oltre che la lingua, anche la sfera personale, influenzando le tradizioni, il linguaggio non verbale e la stessa percezione del tempo. Generalmente, infatti, gli occidentali tendono a vedere il tempo proiettato verso il futuro, in maniera lineare, mentre nella cultura orientale la ciclicità sta alla base di tutto. Chiusa una stagione se ne aprirà una nuova, come in cerchio, esattamente come avviene per le varie ere che compongono la (apparentemente) distorta linea temporale dei vari Souls.
Tornando al linguaggio in relazione alla HCC, i gesti rappresentano, nel gioco di Miyazaki, l’unico strumento di comunicazione tra i giocatori, che interfacciandosi sono riusciti in senso lato a coniare parole nuove e locuzioni, riutilizzate usualmente all’interno della community («Loda il Sole» vi dice qualcosa?); inoltre, si è venuta a creare una forma autentica di galateo (inchinarsi dinnanzi a un nuovo giocatore, soprattutto se ostile, rappresenta sempre il primo passo per ottenere un “leale scambio di opinioni”). Tutto ciò rispecchia in pieno l’idea di tradizione di origine, pur rappresentando di fatto un’innovazione all’interno del mondo del gaming.

Ma Dark Souls è unico nel suo genere?
Solo in parte, perché sono tantissimi i giochi che richiedono una cooperazione simile da parte dell’interlocutore-giocatore. Basti pensare ai giochi del Team Ico, come The Last Guardian e Shadow Of The Colossus (tornato da poco sugli scaffali in veste rimodernata) o più semplicemente all’idraulico più famoso di tutti i tempi: Super Mario.
Quindi tutti i giochi provenienti da una HCC necessitano di interpretazione?
Come in ogni opera (dal cinema alla musica), pensare al contesto sociopolitico e culturale di partenza aiuta a comprendere più a fondo i significati più o meno espliciti, ma la risposta, anche in questo caso, è un parzialissimo “no”. Le eccezioni sono tante in numero proporzionale a quanti sono i giochi appartenenti alla regola. La saga di Resident Evil, ad esempio, meriterebbe un’analisi approfondita, ma in linea di massima riesce bene nell’intento di raccontarsi, probabilmente perché nel tempo ha subito una più profonda influenza da parte del mondo occidentale.

Viviamo in un melting pot di culture, e in questa sede è impossibile non citare giochi non narrati e ad alto contesto di provenienza europea, come lo struggente quanto nostrano Last Day of June, sviluppato da Ovosonico; Inside dei danesi Playdead (dei quali si potrebbe citare anche Limbo); infine anche Little Nightmares degli svedesi Tarsier Studios, come gli stessi Souls distribuiti da Bandai Namco.
Va da sé che questa è solo la punta dell’iceberg: a ragion veduta si potrebbero analizzare miriadi di realtà differenti, soprattutto in un momento così florido per il mercato degli indie game, che spesso fanno del linguaggio visivo una forma d’arte. Puntualizzato che questo articolo voleva soltanto fornire degli spunti di riflessione, rimaniamo al vostro fianco in attesa dell’uscita di Dark Souls Remastered, il 25 maggio su PC, Playstation 4, Xbox One e Switch.

Gaetano Cappello

Carmen Santaniello




Nioh: Drago del Nord (DLC)

È passato ormai qualche mese da quando vi abbiamo lasciato la nostra primissima recensione riguardo Nioh e la sua patch 1.05 e non possiamo certo dire che i nostri punti di vista e criteri non siano cambiati. Il dlc Drago del nord e la nuova patch 1.09 hanno stravolto sicuramente diversi aspetti del gameplay: ma siamo sicuri che ciò abbia apportato giovamenti al gioco?

Una ventata di novità

Il primo dlc Drago del nord ci invierà nella regione di Oshu, nel quale il sovrano Masamune Date (Jena Plissken, per gli amici) non disdegnerà di palesare quanto il suo sguardo sia frutto di doppiogioco. Da parte del Team Ninja reputo sia una scelta molto coraggiosa rendere giocabile la nuova espansione, strettamente collegata al finale, solo una volta terminata la storia: mossa commercialmente rischiosa, che fa intendere di aver le spalle molto larghe e nello stesso tempo lungimiranza riguardo la storyline dei prossimi dlc. Il nuovo contenuto contiene 3 nuove mappe, 4 boss (di cui solo uno particolarmente ispirato), armi e armature inedite, diversi yōkai ( con la straordinaria partecipazione di Las plagas di RES 4), la possibilità di tenere in battaglia fino a 2 spiriti guardiani potendo scegliere di cambiarli a proprio piacimento e, infine, la nuovissima tipologia di spada Odachi, un lunghissimo spadone scalante principalmente sulla statistica forza che ci divertirà non poco col suo moveset AoE. L’espansione ha un livello di difficoltà nettamente più alto rispetto al resto del gioco, fattore che può potenzialmente portare frustrazione a chi abbia appena finito La via del samurai.

Non è tutto Amrita ciò che luccica

Ritornando alle patch, non si può certo dire che il Team Ninja non risponda ai feedback, poiché i cambiamenti al fine di appoggiare la fanbase non sono stati pochi. Un pesante lato negativo che ha afflitto Nioh è stato l’annullamento del contesto gdr e della difficoltà a causa dell’estrema facilità della farm di Amrita: i giocatori potevano raggiungere il level cap (il livello 750) in una manciata di giorni grazie al giusto equipaggiamento, e ciò sottraeva quel sapore di individualità e sfida nelle missioni. Oggi un simile eclettismo è stato ridimensionato abbassando il level cap a 400 e aumentando sensibilmente le Amrita necessarie per livellare, sono state nerfate parecchie armi ed eliminato tutto ciò che boostava il nostro William fino a renderlo il maestro del Giappone in poche ore di gioco. Ricalcando il fattore difficoltà, sono ben lieto di aver trovato La via del demone (o NG++,  a voler semplificare). Ora finalmente le missioni sono tarate per un livello superiore al nostro cap, rendendo tutto estremamente ostico e realmente minaccioso anche nel caso in cui il personaggio sia buildato glass cannon; i vecchi yōkai verranno buffati al punto che questi potranno shottare chiunque ostenti una difesa leggera; d’altro canto si potranno trovare equipaggiamenti ben superiori al livello 150, riequilibrando il tutto.

Pvp? No grazie

Parlando invece di come non si strutturi un pvp, il Team Ninja ha pienamente centrato il bersaglio: le arene sono strutturate in modo da ottenere un grado di valutazione nella classifica che va dal D- al AAA, non valutando, invece, il vero combat rating durante il matchmaking: questo ha portato a pesanti dislivelli duranti gli scontri, elemento che, miscelato con la componente lag, rende il tutto così superficiale e mal pensato. La patch 1.09 ha portato dei miglioramenti nel versante pvp non ancora appaganti, ma il Team Ninja ha dimostrato di prediligere i litri di caffè piuttosto che dormire sacrificando le ore notturne a favore del soddisfacimento della fanbase: questo rende ben speranzosi riguardo al fatto che presto troveranno il giusto equilibrio.

Aspettative

In conclusione, si può intuire che il prodotto non verrà abbandonato presto poiché a ogni aggiornamento si percepisce quel sentore di freschezza che allontana la noia e la ripetitività. Ogni patch fa emergere quanto la casa di sviluppo sia minuziosa e sia attenta ai particolari, rielaborando, se necessario, i propri fallimenti al fine di farli rivivere di luce propria. Si ha la percezione platonica di sentirsi presi per mano, mai abbandonati, supportati in risposta a ogni possibile critica riguardo il gioco; il team Ninja in questi mesi non ha fatto altro che alimentare la mia speranza nel giusto riequilibrio del titolo, pregustando già da oggi quello che probabilmente diverrà Nioh domani.




The Surge – Attenzione, Il Potenziale C’è! Al Prossimo Giro Però

Dopo Lords of The Fallen, The Surge è da considerarsi come il titolo di maturità per Deck 13. Nonostante l’evidente richiamo al titolo originale, questo soulslike si distacca abbastanza da avere una propria identità, anche se non tutto va nel verso giusto.

In un mare di ruggine

In un futuro prossimo il mondo è in pericolo: riscaldamento globale, cambiamenti climatici, crisi finanziaria e altri fatti poco piacevoli, rendono C.R.E.O. Industries l’unica in grado a mettere una pezza a quanto sta accadendo. Tutto parte dai suoi Esoscheletri, non solo in grado di migliorare le abilità umane ma anche di rimettere in piedi gli infermi, come il nostro protagonista, Warren. Il progetto per salvare il mondo ha inizio ma, già al nostro risveglio, capiamo che non tutto è andato nel verso giusto.
Già a partire dall’incipit si può intuire come la trama non sia il punto forte del titolo: i richiami ad altri film e videogiochi di fantascienza sono palesi, ma sono aggrovigliati in modo da non intrattenere il giocatore, al punto che, passata qualche ora, potrebbe non importarvi più di raccogliere gli audiolog in giro per la mappa per conoscere ulteriori dettagli sulla storia. Anche i personaggi di certo non aiutano: Warren, il nostro protagonista, nonostante si trovi fin da subito invischiato in una situazione fuori controllo, con zombie armati di esoscheletri pronti a ucciderlo in qualunque momento, appare assolutamente avulso da quanto stia accadendo, come se stesse partecipando forzatamente alla trama. I comprimari sono addirittura peggio sceneggiati, e anche sulla storia di questi pare si sia fatto abbastanza per mantener vivo il disinteresse: non pare rilevante il perché si trovino lì e, nonostante i dialoghi a scelta multipla, non sembrano aver nulla da dire, a parte consegnare alcuni incarichi secondari che, se completati con successo, porteranno il nostro inventario ad arricchirsi.
Si ha come la sensazione che molte cose siano soltanto abbozzate: ad esempio, potremmo attaccare dei npc pacifici o delle guardie non ostili, che ovviamente risponderanno come si deve ma, dopo il reset del gioco, dopo una morte o dopo essere entrati nel MadBay, l’hub centrale, tutto tornerà come prima, come se nulla fosse successo. Quindi niente sistema di reputazione, il che ci permette di fare ciò che vogliamo senza conseguenze. Anche riguardo il MadBay ci sono buchi di sceneggiatura non da poco: cos’è? Perché quando ci entriamo tutto il mondo di gioco si resetta? Perché respawniamo lì? Domande a cui non troveremo risposta: quest’hub sembra essere presente semplicemente “perché deve essere così”, senza nessuna contestualizzazione nella trama o nella lore.
È un vero peccato, perché bastava davvero poco a creare una storia che legasse in qualche modo il nostro peregrinare da una zona all’altra del mondo di gioco. Il paradosso è che The Surge finisce proprio quando le cose cominciano veramente a farsi interessanti.

1000 modi per morire

Fortunatamente i pregi sono altri e diciamolo subito: The Surge è un gioco cattivo, tanto.
Rispetto al titolo From Software, ogni nemico base può farvi molto ma molto male, a tal punto che ogni combattimento diventa una vera sfida. È proprio questa la parte più riuscita del titolo: ogni scontro ha qualcosa da dire e bisognerà essere molto tattici se si vuole sopravvivere. Tutto è all’insegna della familiarità nei colpi, tra leggeri e pesanti, la schivata simil Bloodborne, eccezion fatta per la parata, la cui posa non consente al personaggio di muoversi e che, a colpo ricevuto, consumerà una delle tre barre presenti, quella della stamina; la barra della salute e la barra dell’energia completano il quadro, dove quest’ultima può essere impiegata, una volta raggiunta una certa carica, per eseguire colpi finali, ricaricare la salute con appositi iniettabili e potenziare gli attacchi del Drone, che sarà una risorsa utile non solo come aiuto offensivo ma anche per aprire alcune porte altrimenti inaccessibili. È possibile anche potenziarlo lungo il corso dell’avventura e sceglierne il tipo d’attacco una volta selezionato il bersaglio. La sua utilità diventa fondamentale qualora ci si ritrovi davanti un gruppo di nemici; grazie al drone potremo colpirli e attirarli singolarmente, sfruttando la basilare IA dei nemici. Proprio il sistema di targeting si presenta innovativo: è possibile distinguere e selezionare i diversi punti da colpire, tra arti, testa e corpo colpendo solo quel singolo punto. Diventa importante studiare un minimo l’avversario, capire se ci sono parti non ricoperte dall’armatura e quindi vulnerabili oppure, al contrario, selezionare una parte dell’equipaggiamento, danneggiarla e, attraverso un colpo finale, ricevere un loot. I cadaveri li rilasciano abbastanza spesso e sarà possibile visionarli ancor prima di raccoglierli. Ogni nemico rilascia rottami da utilizzare per potenziare la batteria nucleare, le armi e le armature e addirittura crearle, ma solo se abbiamo a disposizione gli schemi ingegneristici. Oltre ai rottami, per poter costruire servono determinati oggetti: ogni pezzo d’equipaggiamento utilizzato consuma una certa quantità di energia quindi è essenziale potenziare la batteria nucleare per poterne utilizzare uno migliore. A livello estetico, l’equipment in sé non è personalizzabile, soprattutto durante i potenziamenti, essendone modificabili solo le caratteristiche.
Sono presenti anche dei perks attivi e passivi: quelli attivi, chiamati iniettabili, permettono soprattutto di ricaricare la salute o, per esempio, di potenziare gli attacchi, mentre quelli passivi possono aumentare le nostre statistiche ma, ogni qualvolta inseriti nel nostro equipaggiamento, consumeranno anch’essi l’energia della batteria.
Come nei Souls si perderanno tutti gli scarti tecnologici in nostro possesso in caso di morte e, ovviamente, anche qui sarà possibile recuperarli, ma con sostanziali differenze: abbiamo un tempo limite, dopodiché gli scarti verranno persi del tutto. Per aumentare il tempo a disposizione basta eliminare qualche nemico che si interpone tra noi e i nostri scarti.
Insomma, come potete aver capito è un titolo complesso e che migliora piccoli aspetti dei classici soulslike, a cominciare dalla possibilità di mettere in pausa il gioco, ed è fornito di menu molto chiari e intuitivi fino agli scontri con i boss. Anche i boss infatti regalano quel qualcosa in più a livello di gameplay e bisognerà studiarli con attenzione, abbastanza da rimanere uccisi diverse volte prima di sconfiggerli. A dir la verità i pattern d’attacco non sono molti ma il sapere che ogni colpo potrà eliminarvi senza pietà non rende più facile conoscerli. Tutti hanno un punto debole ma non sarà visibile immediatamente e, a differenza di altre boss fight, qui non è importante solo quando colpire, ma anche dove. Nonostante ciò, i boss si presenteranno solo come grossi ostacoli da superare. Non c’è emozione nell’affrontarli, nessun brivido particolare, manca quel “non so che” perché un titolo di questa categoria possa fare il salto di qualità.
Anche le mappe, in qualche modo, hanno qualcosa da dire nel bene e nel male: abbastanza grandi e articolate, con tanti passaggi di collegamento e le classiche scorciatoie tra il nostro hub e alcune zone d’interesse, necessitano di un’attenta esplorazione, in quanto è possibile trovare oggetti rari o nuove aree che non pensavamo esistessero. Una caratteristica fondamentale è che alcuni accessi saranno disponibili solo quando il nostro personaggio sarà a un livello tale da potervi accedere e, di conseguenza, spostarsi tra le varie mappe liberamente, in stile Dead Space. Ma anche qui, per ogni Yang esiste anche un Yin corrispettivo: la grandezza e l’articolatezza delle mappe porta a una certa dispersività, disorientando il giocatore e diventando non di rado frustrante, specie a causa della grande somiglianza fra molti ambienti che spesso mancano di elementi distintivi.

Déjà vu

Sul piano tecnico, il gioco si presenta abbastanza bene, con modelli poligonali per i personaggi più che buoni, come del resto gli oggetti equipaggiabili e gli oggetti di scena, e buoni filtri che regalano all’occhio una pulizia generale niente male; meno felici le texture, di qualità altalenante. Trovano risalto anche l’utilizzo degli effetti speciali, bellissimi da vedere soprattutto in aperto combattimento che lo trasformano in un balletto coreografico pieno di luci, scintille e onde d’urto.
Le poche cutscene sono ben realizzate anche se con qualche calo di frame di tanto in tanto mentre le parti giocate rimangono fluide, ancorate ai 60fps anche nei momenti più concitati. Sono previsti diversi setup grafici che rendono il gioco adattabile a tutte le macchine.
Purtroppo, il lato a colpire meno è proprio la realizzazione artistica: per quanto si sia cercato di dare un’identità visiva al titolo, non si può fare a meno di notare eccessive somiglianze con quanto visto in altri titoli – cinematografici e non – tanto da perdere interesse per i dettagli, che sono anche tanti ma che non invogliano a soffermarsi. Tutto sa già visto, soprattutto per via delle Exosuit, e non ci sono scorci mozzafiato e memorabili come nei titoli FromSoftware.
Fortunatamente il comparto audio rialza un po’ l’asticella con ottimi effetti sonori, dai singoli colpi fino ai vari suoni dei mezzi meccanici sparsi per tutta la mappa. Tutto è stato riprodotto con qualità e attenzione al dettaglio.
Anche la musica trova nel suo utilizzo, o meglio nel suo non utilizzo, una scelta azzeccata in quanto la maggior parte delle volte saremo circondati solo dai rumori ambientali che aumentano in maniera drastica l’immedesimazione di trovarsi in una landa distrutta, desolata e ostile.
Il doppiaggio, inglese, è probabilmente la cosa che colpisce meno nella parte sonora: non c’è enfasi, come se si sia fatto il proprio e basta. Ricordo che ci troviamo in una base distrutta, tossica, con macchine assassine eppure, a detta dei personaggi, sembra di trovarsi all’interno di una libreria il giovedì pomeriggio.

Commento finale

The Surge è a conti fatti un titolo riuscito a metà: se, da un lato, l’idea di portare un soulslike nel mondo della fantascienza è ottima, allontanando l’ombra di Dark Souls, dall’altro il gioco risulta povero di idee, e quelle che ci sono a volte sono poco approfondite. Se i combattimenti posso essere definiti buoni tutto il resto è segnato dal compromesso, non solo narrativo ma anche artistico portando questo titolo nel limbo dei giochi di cui non si avrà memoria. Il titolo ha paradossalmente una sua identità, è subito riconoscibile, ma nonostante ciò riesce a risultare al contempo anonimo. Le potenzialità ci sono tutte e magari in un secondo capitolo, dove si sarà ascoltato il parere della critica, troveremo un vero rivale dei titoli FromSoftware.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10




Nioh

Tredici anni dopo il suo annuncio e a distanza di poco più di dodici mesi dalla prima presentazione al Tokyo Game Show nel 2015, Nioh arriva sulle Playstation di tutto il mondo pronto a far bestemmiare di sé.

Il gioco di Team Ninja ha avuto modo di presentarsi – e anche molto bene – sin dalla sua prima apparizione sullo store Sony, attraverso l’alpha rilasciata nella scorsa primavera.
Da allora molto è cambiato, dal comparto grafico all’affinamento dei sistemi di combattimento e di utilizzo delle armi, ma il nocciolo è rimasto lo stesso: Nioh è un gioco difficile.
E non si tratta dell’ennesima copia di Dark Souls, questo salta subito all’occhio: il gioco imbocca la propria strada facendoci dimenticare tutti quegli elementi che effettivamente sì, sono mutuati dalle meccaniche del più famoso titolo di From Software ma che, d’altra parte, si combinano benissimo con la naturale evoluzione di tutto ciò che ha contraddistinto Ninja Gaiden. E parliamo del reboot a cura di Team Ninja ovviamente, dal quale questo gioco eredita molto più di quanto faccia dai Souls.

La Storia

Nioh narra la storia di William Adams, un soldato/navigatore/samurai inglese: alto, biondo e sicuramente parente di Geralt di Rivia. Un eroe, William, che sembra avere qualcosa in comune anche col Gatsu di Kentaro Miura e non soltanto per via dello spadone “bastardo” che raccoglie proprio all’inizio del gioco (dopo essersi liberato a pugni e calci da una cella di prigione sita nella torre di Londra) ma anche per lo spiritello alato e colorato pronto a dispensargli consigli sin dalle prime battute. Così, con un pretesto narrativo degno di ogni incipit nipponico che si rispetti, il nostro beniamino parte, nel 1600, alla volta di Zipangu (nome con il quale Marco Polo si riferiva al paese asiatico di Nihon, a noi conosciuto come Giappone) per trovare le famose pietre “amrita”, a quanto sembra capaci di veicolare poteri sovrannaturali che investono anche il nostro eroe.

Il Combattimento

Ma a far da traino al gioco non è tanto la storia, seppur inizialmente ispirata da una bozza di sceneggiatura del maestro Akira Kurosawa, quanto la profondità del gioco in sé: il sistema di progressione delle caratteristiche tipico degli RPG, unito a quello di combattimento che porta con sé numerose variabili e al complesso albero delle abilità che si possono acquisire tramite due diversi tipi di punti (Ninja e Magia Onymo), oltre alle affinità con le proprie armi e con il proprio spirito guardiano, rendono l’esperienza di gioco particolarmente personalizzabile: ci ritroviamo dunque a poter sviluppare, oltre al personaggio stesso, stili di combattimento completamente diversi tra loro. Ciò è dovuto principalmente al possibile utilizzo di due armi da mischia e di altrettante armi a distanza che spaziano dalle spade alle asce, dai martelli ai kusarigama e dagli archi ai fucili a scoppio, oggetti che possono essere ulteriormente potenziati e personalizzati insieme alle tantissime armature disponibili.

È nel sistema di combattimento però che Nioh offre il meglio di sé, regalandoci delle meccaniche facili da comprendere ma estremamente complesse da padroneggiare. Mentre infatti ci da la possibilità di scegliere fra tre diverse – e facilmente intercambiabili – posizioni di combattimento (alta, media e bassa) il gioco ci insegna a utilizzare il Ritmo Ki, una meccanica che mette alla prova costantemente la nostra abilità e che, se eseguita correttamente, ci permette di ricaricare più velocemente la barra della stamina favorendoci quindi nell’inanellamento di ulteriori combo. Grazie a queste possibilità di scelta ci ritroviamo di fronte a vastissimi orizzonti di interpretazione del gameplay: mentre qualcuno preferirà giocare un hack’n’slash votato alla frenesia del combattimento, qualcun altro deciderà di affrontare la sfida in maniera più ragionata infliggendo danni maggiori ai nemici a scapito della rapidità di movimento del personaggio. Ai giocatori più abili non è precluso il piacere di poter utilizzare tutti gli stili di gioco possibili contemporaneamente, alternando a seconda del nemico e della situazione la posa, l’arma, le magie e i trucchetti del ninja.
La campagna risulta lunga e impegnativa, costellata da missioni principali e secondarie che portano l’esperienza di gioco ad allargarsi oltre le quaranta ore, in più è presente una modalità “crepuscolo” nella quale ci ritroviamo ad affrontare le missioni in una salsa più piccante, ovvero con demoni da combattere al posto dei semplici nemici e una modalità PVP che il Team ha promesso di implementare presto.

Tecnica

Per quanto riguarda la parte tecnica, il gioco soffre della travagliata gestazione che ha dovuto subire, e ciò si traduce in un comparto grafico e in delle animazioni non proprio al passo coi tempi; difetto d’altra parte ampiamente ripagato dal fatto che si mantiene costantemente sui 60 fps anche nelle fasi più concitate, scegliendo la modalità azione che ci è sembrata anche l’unica possibile viste le caratteristiche tipicamente action del titolo. A questo si aggiungono la bellezza delle ambientazioni e le scelte artistiche che riguardano la caratterizzazione dei boss ed i combattimenti, elementi che fanno di Nioh un gioco sicuramente piacevole da guardare.
L’unica nota negativa, se così può essere definita, è certamente la difficile accessibilità. Come già detto nella premessa, Nioh è un gioco impegnativo che richiede particolare pazienza e voglia di imparare da parte del giocatore inesperto e ciò può rendere frustrante l’esperienza per chi cerca nel videogioco soltanto un passatempo divertente e non è in vena di accettare questo tipo di sfida.
Tutto sommato però, in un’epoca videoludica in cui titoli di natura narrativa e molto spesso semplici da giocare dominano gran parte del mercato, il successo di un gioco come Nioh rappresenta la prova che gli hardcore gamer sono nuovamente pronti a conquistare il mondo.