Il Nintendo Virtual Boy: dal concetto al flop

È incredibile come oggi la tecnologia dei visori per la realtà virtuale sia (quasi) quella che già, a cavallo fra gli anni ’80 e ’90, si sognava a occhi aperti. Da quei giorni fino a oggi i VR headset sono esistiti ma ben fuori dal mercato dei videogiochi: alla NASA, già negli anni ’70, i visori VR venivano già utilizzati all’ordine del giorno per esercitazioni e simulazioni di diverso tipo. I videogiochi sembravano il perfetto campo d’applicazione per questo tipo di tecnologia: già negli anni ’60 la giovanissima SEGA lanciò Periscope che, per quanto fosse un gioco elettromeccanico, preannunciò in qualche modo come fosse possibile immergersi in un mondo artificiale tramite più sensi possibili; più avanti nel tempo, Atari lanciò Battlezone, un vero antenato dei VR headset visto che per giocare bisognava guardare attraverso un telescopio (e il successo divenne tale che questo si trasformò in The Bradley Trainer, un vero e proprio strumento utilizzato per le esercitazioni dei capocarro). Ai giocatori servirono ben pochi assaggi per immaginare questa splendida tecnologia: fin dove ci si poteva spingere con la tecnologia? Fin dove era possibile arrivare? Ma soprattutto, quando il mercato avrebbe per messo ai giocatori di avere un personalissimo headset VR? In un mondo pieno di sogni e speranze, Nintendo un giorno provò a consegnare un primo prototipo di visore VR (anche se in realtà era una console) che potesse essere economico e aprire le porte della realtà virtuale, ma che invece finì per essere uno dei più tremendi fallimenti commerciali nella storia dei videogiochi. Oggi, in vista del rilascio del nuovissimo visore VR Nintendo tramite la linea di prodotti Labo, vi parleremo del loro primo vero esperimento in questo campo, un evento che, probabilmente, posticipò di molto l’arrivo dei visori VR su larga scala in attesa di una migliore tecnologia accessibile a tutti. Qui su Dusty Rooms vi parleremo del famosissimo incubo rosso nero… no, non l’AC Milan, ma il Nintendo Virtual Boy!

Il Private Eye

Che ci crediate o meno, le radici del Virtual Boy risalgono al 1985, una decade prima del suo rilascio, prima ancora del rilascio del Game Boy e del Super Nintendo. Tuttavia il concetto di questa macchina non nasce a Kyoto ma a Cambridge, in Massachusetts, dalla mente di un abile ingegnere che lavorò al primo scanner piano per computer. Allen Becker, per via del suo lavoro, era costretto a spostarsi spesso per lavoro e ciò significava salire a bordo di tanti aerei: ai tempi erano molto stretti e molti dispositivi elettronici, come il popolarissimo Walkman o i primi computer portatili, non potevano essere accesi durante il volo. Anche se non ci fosse stato alcun divieto, era impossibile portare un computer portatile all’interno di un aereo e poter continuare a lavorare in viaggio: questi dispositivi esistevano già ma erano molto inferiori ai computer fissi, serviva un’alimentazione fissa e, per quanto portatili, era impossibile usarli negli angusti sedili degli aerei dei tempi.

Di lì a poco, Allen Becker si mise a lavorare a un qualcosa che potesse funzionare come un PC ma che fosse piccolo e comodo da usare in ogni situazione. L’idea era quella di costruire qualcosa composto da due pezzi: un piccolo computerino da attaccare a un piccolo schermo. Ma come fare? I monitor CRT a tubo catodico, la migliore tecnologia per l’epoca, richiedevano troppa potenza ed erano troppo ingombranti, e gli LCD, per quanto impiegati in oggetti come calcolatrici, radiosveglie e orologi da polso, non erano al passo coi tempi in quanto serviva ancora molta ricerca e sviluppo. La scelta così cadde sul LED, strumento con la quale Becker lavorò proprio per il suo scanner. Intorno a quei anni un famoso scienziato e inventore di nome Raymond Kurzweil, una delle menti più grandi degli ultimi secoli, usò il suo scanner per creare una macchina che potesse aiutare i ciechi a leggere; ispirato da questa idea, la sua intenzione era quella di utilizzare i LED, che muovendosi velocemente scannerizzavano un testo per poi trasmetterlo allo schermo del PC, per proiettare le immagini direttamente alla retina dell’occhio umano. Per proiettare un immagine serviva che questi LED fossero in costante movimento, cosa che poteva provocare forti danni alla retina; con un colpo di genio, Allen Becker decise di far proiettare l’immagine dei LED a degli specchi che oscillavano per 50 volte al secondo, in modo da non nuocere all’utente e trasmettere un immagine ancora più nitida e chiara. In assenza di finanziamenti per poter avviare un prototipo, l’ingegnere cominciò ad utilizzare pezzi di alcune stampati per poter creare delle bozze e fu proprio in questo periodo che la scelta cadde sui LED rossi: per quanto all’apparenza fosse una scelta poco saggia, in quanto per funzionare avevano bisogno del buio, in realtà si poteva rivelare una scelta vincente, poiché i LED rossi erano i più comuni e i meno costosi e dunque la sua invenzione finale poteva essere prodotta economicamente e venduta a prezzi competitivi. Inoltre, essendo ancora nel 1986, da lì alla realizzazione del prodotto finale, la tecnologia poteva migliorare ancora di più, perciò non c’era bisogno di preoccuparsi più di tanto. In sei mesi di lavoro, utilizzando la tecnologia che venne in seguito da lui battezzata come “Scanned Linear Array“, Alan Becker creò il primo prototipo del Private Eye nel 1987, un micro schermo per computer composto da un cerchio, da appoggiare alla testa esattamente come una corona, che regeva un piccolo dispositivo che si andava a posizionare davanti all’occhio dell’utente.
Il Private Eye non nasceva come videogioco, Alan Becker visionava la sua creazione per scopi ben diversi dal gaming: egli sperava infatti che i chirurghi potessero utilizzarlo per tenere sempre sotto controllo la scheda del paziente e gli esiti delle risonanze magnetiche durante le operazioni, che i meccanici potessero utilizzarlo per tenere i manuali delle auto (letteralmente) sott’occhio e che l’utente comune potesse utilizzarlo per altri usi, come ad esempio alla guida per dare una sbirciata alle mappe. Se ci pensate, Allen Becker anticipò il concetto dei Google Glass di quasi ben 25 anni!
Fondata la Reflection Technology nel 1987 Allen Becker andò subito alla ricerca di investitori ma, sebbene il Private Eye attrasse qualche interesse da parte di alcune compagnie aeree, nessuno finanziò questo rivoluzionario progetto perché era troppo difficile immaginarne degli impieghi reali – in questo caso si può dire che la sua invenzione era davvero “troppo avanti”. Tuttavia nulla era perduto, bisognava solamente trovare un altro impiego per questa tecnologia.

Verso il gaming

Negli anni ’90 si assistette a grandi rivoluzioni tecnologiche: la grafica 3D diventava sempre più facile da processare, gli effetti speciali al cinema si facevano sempre più reali e film come Il Tagliaerbe (The Lawnmower Man) non facevano altro che alimentare le fantasie degli appassionati di tecnologia, computer e videogiochi di tutto il mondo. Nelle fiere come il Consumer Electroincs Show veniva dedicato dello spazio per i visori per la realtà virtuale ma il tutto era a uno stadio primitivo: Reflection Technology creò un prototipo di un visore letteralmente mettendo due Private Eye su un casco da saldatore e, nonostante la bizzarra idea, il loro fu uno dei visori più apprezzati durante le fiere. Veniva avviata una demo di un gioco in cui si era alla guida di un carro armato, esattamente come in Battlezone di Atari (alcuni pensano che il gioco fosse proprio quello) e, fra i tanti stand, il loro riscosse un grande successo fra appassionati e non. Reflective Technology aveva creato, quasi accidentalmente, una realtà virtuale con pochissime risorse, facile da produrre e persino divertente! Per tale motivo servivano investimenti, ma compagnie come Hasbro e Mattel, per quanto interessate, non volevano ancora nulla a che fare con gli headset VR, specialmente per il fatto che la tecnologia per l’headtracking era agli albori: era lenta, imprecisa e per tanto avrebbe avrebbe assicurato motion sickness agli utenti. A questo punto, visto che ormai il suo scopo era chiaro, era meglio presentare il Private Eye direttamente alle compagnie videoludiche.

(Eh… Non ci sono più gli headset di una volta!)

Alan Becker raggiunse per prima Sega, dove fu accolto da uno scettico Tom Kalinske che respinse il progetto. Il motivo principale, oltre ai problemi relativi al motion sickness, fu proprio il singolo colore: Sega aveva già lanciato il Sega Game Gear cui era in grado di gestire una palette capace di 4096 colori. Lanciare un prodotto così, dopo l’incredibile Sega Mega Drive, e il Game Gear che riscuoteva un buon successo grazie alla promozione dei suoi vantaggi rispetto alla concorrenza, rappresentava un grosso rischio per la compagnia, e così Sega decise di tirarsene fuori (magari avesse pensato così prima del lancio del 32X).
Becker non si scoraggiò e invece andò dalla concorrenza per riscontrare il risultato opposto: Reflection Technology mostrò a Nintendo le capacità del loro visore e tutti ne rimasero sorpresi, soprattutto una delle persone chiave della compagnia, Gunpei Yokoi, il padre del Ultra Hand, dei Game and Watch e del magistrale Game Boy. Il sistema di Becker sembrava realmente ispirato dalla sua filosofia (che a tutt’oggi influenza Nintendo): utilizzare una tecnologia superata per poterla riutilizzare in modi diversi, sfruttandola al limite delle sue capacità, guadagnando bene con una produzione che si manteneva a costi contenutissimi. Il Nintendo Gameboy, in poche parole, era la perfetta rappresentazione della sua filosofia: grazie allo schermo monocromatico riuscì ad avere il più grosso vantaggio sui competitor, punto sulla quale né SegaAtari col loro Lynx si concentrarono, ovvero la più lunga durata delle batterie (per giunta ne servivano due in meno rispetto alla concorrenza, che ne utilizzava sei), nonché una piattaforma semplicissima per ciò che riguardava la programmazione da parte delle 3rd party. Le aree create tramite l’uso dei LED potevano dare un senso di profondità potenzialmente infinito in quanto il contrasto per gli oggetti era semplicemente il buio stesso, un vuoto di colore; era esattamente quel tipo di cose che interessavano a Gunpei Yokoi che, prossimo alla pensione, odiava il fatto che il mondo del gaming si stesse interessando troppo alle tecnologie e meno al core gameplay, alla fantasia e la genialità dei giochi e dei dispositivi stessi. Un secondo meeting fu organizzato con i piani alti di Nintendo, in cui Yokoi e Becker presentarono il prototipo di quello che poteva essere un nuovo prodotto da lanciare… durante l’incontro, Hiroshi Yamauchi si addormentò! Becker e Reflection Technology non potevano fare altro che interpretare che quel gesto come disinteresse per il loro prodotto, un ulteriore fallimento, ma Gunpei Yokoi e altri funzionari Nintendo li rassicurarono dicendogli che in realtà… era una reazione più che positiva! Il business in estremo Oriente è ben diverso da quello di stampo americano o europeo e Yamauchi ne incarnava tutte le caratteristiche: il fatto che dormisse significava che stava letteralmente facendo “sogni tranquilli”, era così confidente in Gunpei Yokoi che non c’era alcun bisogno di intervenire (una cosa simile accadde quando Nintendo accolse i funzionari Atari per una possibile distribuzione del Famicom in Nord America, meeting in cui Hiroshi Yamauchi entrava e usciva dalla stanza per sottolineare quanto fosse impegnato e che se Atari non avesse colto l’occasione al volo avrebbero potuto perderla). In poche parole quel gesto si traduceva con “totale approvazione“, e così fu: Reflection Technology ricevette 10 milioni di dollari per avviare il segretissimo “Dragon Project“, che fu subito dopo rinominato “VR32“.

(Gunpei Yokoi)

Il travagliato sviluppo: tagli e compromessi

Il prodotto in quello stato (un casco per saldatori con due Private Eye collegati a un unità centrale) non poteva assolutamente essere venduto, e pertanto doveva essere ridisegnato. Gunpei Yokoi avanzò l’idea di costruire un visore con la console stessa inserita al suo interno, insieme a un sistema di head tracking che avrebbe permesso al giocatore di avanzare nel mondo 3D camminando nella realtà; il leggendario inventore di casa Nintendo descrisse il concetto come una “Virtual Utopia” e fu considerato come uno dei nomi finali per la console (ciò è riflesso nelle cartucce dei giochi del Virtual Boy che includono la sigla VUE nei numeri seriali). Per il processore si optò per un chip 32 bit (NEC V810), la scelta ideale per creare della grafica poligonale ma, per via delle radiazioni emesse da questo dispositivo, tenendo in considerazione che la console doveva essere tenuta in testa per giocare, furono costretti a chiuderlo in una sorta di scatola di metallo spesso per evitare danni di qualsiasi tipo. L’aggiunta di questo componente rese il visore pesantissimo e così si optò per una sorta di tracolla mista a uno stand per mantenere il sistema di head tracking e movimento. A questo punto i legali Nintendo misero in alt il progetto di Gunpei Yokoi: si preoccupavano soprattutto per i più piccoli che sarebbero potuti inciampare per casa con il visore in testa, il Virtual Boy poteva diventare una vera e propria causa di infiniti incidenti domestici. La ricerca sull’head tracking non andava neppure bene in quanto non era ancora perfettamente sincronizzata coi movimenti della testa e provocava ancora motion sickness; fu così che il Virtual Boy fu relegato a quel buffo stand che oggi conosciamo (e amiamo, in qualche modo), rendendolo così a tutti gli effetti una console casalinga (nonostante sia stata promossa più in là come console portatile, con il nome rafforzato per altro da quel “Boy” che lo legava al retaggio dell’incredibile Gameboy).

I primi giochi sviluppati utilizzavano una grafica 2D abilmente disegnata per dare quel senso di profondità che ci si poteva aspettare, dunque un finto 3D. Gunpei Yokoi voleva comunque implementare un ulteriore chip per poter rendere elementi 3D pienamente poligonali e mappati ma ancora una volta fu bloccato: Nintendo aveva già speso considerevoli somme di denaro per lo stampo fisico della console, perciò non si poteva tornare indietro, e fu così che la console rimase solo con un unico chip 32 bit non capace di poter rendere quelle immagini 3D che tutti quanti si aspettavano. Nonostante lo scetticismo che cominciava a crescere in Gunpei Yokoi, Nintendo era così confidente sul Virtual Boy che sperava di lanciarlo come quarto progetto principale; fu addirittura aperta una nuova fabbrica in Cina per produrre esclusivamente il nuovo prodotto!

Cambi di programma e il disastroso lancio

Seppur l’arrivo del Virtual Boy fu accompagnato con un particolare entusiasmo, Hiroshi Yamauchi sentiva la pressione dei competitor Sega e Sony che avrebbero lanciato i loro Saturn e PlayStation alla fine del 1994; l’Ultra 64 (precedente nome del Nintendo 64) sarebbe stato pronto solamente nel 1996, quindi era necessario immettere un prodotto nel mercato il prima possibile. In tutto questo però le cose al dipartimento di ricerca e sviluppo 1 (R&D 1), dove veniva sviluppato il Virtual Boy, non andavano per niente bene, e piano piano i fondi necessari per il miglioramento di questo dispositivo (molto difficile da gestire in quanto doveva produrre grafica 3D senza poligoni, con due schermi all’interno del visore e con meno elettricità possibile per mantenere la sua “portatilità”) furono trasferiti al più concreto progetto del Ultra 64 gestito dal R&D3, il quinto prodotto. L’attenzione per il Virtual Boy calò gradualmente dal 1995, e ciò lo si può riscontrare a tutt’oggi nella libreria dei giochi della console: la presenza di Mario nella console fu limitata a soli due giochi, mentre di The Legend of Zelda, Metroid e altri franchise principali non se ne parlava neanche, eppure questa strana macchina doveva essere lanciata nel mercato nonostante tutto. Ultimata la console, questa finì fra le mani del dipartimento marketing che doveva promuovere la console evitando ad ogni modo di non distogliere l’attenzione dal Nintendo 64. Le pubblicità lanciate più in là per il Virtual Boy, nonostante fossero molto strane, riscontrarono un buon successo in quanto puntavano al (reale) fatto che senza provare la console di persona non si poteva neanche avere un idea di come fossero i giochi. Il lancio era prossimo e il Virtual Boy doveva competere con Sega Saturn e Sony PlayStation, console ben fuori dalla sua portata e con… più colori!

(Perché scappare dal Virtual Boy? Non dovrebbe essere una console rivoluzionaria?)

Il Virtual Boy fu rivelato al pubblico in Giappone il 15 Novembre 1994, per lo Shoshinkai Software Expo, esattamente una settimana prima del lancio del Sega Saturn. Le reazioni del pubblico furono miste: da un lato la gente apprezzò la grafica (simil) 3D ma dall’altro rimase delusa per il singolo colore rosso e l’esorbitante prezzo di 15.000¥ (199,99$), molto più alto del prezzo di un Gameboy o persino di un Super Nintendo, macchine che offrivano un alternativa già visivamente superiore (pur essendo 8 e 16 bit rispettivamente).
Qualche mese dopo il Virtual Boy riscontrò gli stessi pareri negli Stati Uniti ma lì gli venne dato il beneficio del dubbio: il NES non riscontrò grandi pareri positivi alla presentazione, né il landscape videoludico sembrava a loro favore ma alcuni erano sicuri che il Virtual Boy avrebbe venduto almeno 3 milioni di unità. Tuttavia c’era un punto ancora non chiaro sulla vita di questa nuova console, ovvero la sicurezza della console stessa. Quei pochi che comprarono le prime unità sia in Giappone che negli Stati Uniti nelle date del lancio (21/07/1995 e 14/08/1995) trovarono una confezione colma di avvertenze per la salute dei giocatori, persino sulla facciata principale della scatola! Si sparse immediatamente la voce, soprattutto in Giappone, che il Virtual Boy fosse un dispositivo tremendo per gli occhi dei giocatori e che avrebbe potuto portare persino alla cecità. In realtà, a questo punto bisogna spezzare una lancia a favore del Virtual Boy e sfatare un mito che da sempre avvolge questa console:  Nintendo chiese a Reflection Technology di condurre ricerche sulla sicurezza di questa nuova console e pertanto un Virtual Boy fu mandato allo Shepens Eye Research Institute a Boston. I risultati furono più che normali, il Virtual Boy era a ogni modo sicuro ma era comunque raccomandabile non farlo usare ai bambini sotto i sette anni poiché lo sviluppo dell’occhio, a quell’età, non è ancora completo. Tuttavia Nintendo rilasciò il Virtual Boy prima ancora che le ricerche fossero concluse ed è per questo che la console fu imbottita di avvertenze (probabilmente se avessero aspettato i risultati dei test probabilmente ne avrebbero potuto mettere meno); il tutto era aggravato inoltre da una nuova legge approvata intorno alla metà del 1995 in Giappone con la quale le compagnie produttrici di beni di consumo diventavano più facilmente imputabili in caso di malfunzionamenti o incidenti di varia natura che coinvolgessero i loro prodotti. Nonostante fosse possibile sistemare il contrasto e calibrare le lenti del Virtual Boy, i legali Nintendo non volevano correre rischi e perciò armarono la console di avvertenze e convinsero gli sviluppatori ad inserire nei loro giochi un cronometro al termine del quale fa apparire dei messaggi che invitano il giocatori a fermarsi per un break.
Il lancio in Giappone passò quasi inosservato e la produzione della console fu già fermata nel Dicembre dello stesso anno; queste furono in realtà “buone notizie” per gli Stati Uniti, nei quali si può dire che la console ebbe una vita migliore. Durante la prime settimane vendette addirittura di più del Sega Saturn e tagliando la produzione in Giappone si poterono permettere un price drop drastico di soli 99$ per il Natale del 1995. Ciò non bastò per salvare questa macchina e, nonostante gli sforzi, la console non decollò mai, né ebbe mai una fanbase solida o un parco titoli interessante (giochi nettamente migliori erano reperibili su Sega Saturn, Sony PlayStation e persino Gameboy e Super Nintendo); le figure di vendita si chiusero per 770.000 unità totali fra Giappone e Stati Uniti, il Virtual Boy non raggiunse mai né l’Europa né l’Australia.

(Un overview di tutti i giochi presenti su Virtual Boy da parte dell’utente Dubbloseven)

Chiusa una porta, si apre un portone

Anche se nuovi giochi furono annunciati per l’E3 del 1996 (un gioco di Worms, un porting di Goldeneye 007, un gioco di carri armati ispirato alla demo di Reflection Technology e altri) Nintendo interruppe la produzione del Virtual Boy di lì a poco in modo che sia loro che i suoi utenti si potessero concentrare sul Nintendo 64, vero successore del Super Nintendo; i rimanenti Virtual Boy rimasti nei negozi furono venduti intorno ai 20$. Insieme ai giochi, altri prodotti non arrivarono mai a quei pochi consumatori, come lo stand aggiustabile e il link cable che, esattamente come quello del GameBoy, avrebbe permesso di collegare due Virtual Boy per il multiplayer. Nintendo riuscì a spostare l’attenzione dei fan al Nintendo 64 e il Virtual Boy, essendo stato una vera e propria meteora, fu dimenticato di lì a poco. All’interno della compagnia il Virtual Boy fu visto come una disgrazia, e Gunpei Yokoi si sentì responsabile di ciò che successe; Hiroshi Yamauchi però era tranquillo e, nonostante Yokoi si addossasse la colpa del fallimento dell’intero progetto, non diede mai la responsabilità di ciò che successe al suo collaboratore.

Yokoi si sentiva ugualmente coperto di vergogna. Il Virtual Boy doveva essere il suo ultimo prodotto prima del suo programmato (e meritatissimo) pensionamento a cinquant’anni ma l’insuccesso di quest’ultimo lo spinse a restare in Nintendo ancora per un po’. In molti riportano che il Virtual Boy sia stata la causa del suo presunto licenziamento, ma non è così (in quanto in primo luogo non fu licenziato, ma si ritirò di sua spontanea volontà): Gunpei Yokoi di lì a poco tornò a interessarsi del GameBoy, e presto lanciò nel mercato il GameBoy Pocket, un nuovo successo per Nintendo nonché suo vero ultimo prodotto nella compagnia.
Di solito, in Giappone, quando persone chiave come Gunpei Yokoi vanno in pensione è tradizione lasciare un ultimo segno della loro permanenza nella compagnia, sia come lascito sia per dare un ultimo sprint prima del meritato riposo; non poteva di certo andar via col Virtual Boy, il GameBoy Poket si rivelò il prodotto perfetto con la quale uscire di scena. L’abbandono di Gunpei Yokoi ebbe ripercussioni persino sulla borsa di Kyoto in quanto le azioni di Nintendo calarono drasticamente già dal giorno in cui andò via! Tuttavia i giornali di settore speculavano al licenziamento avvenuto sulla base dell’insuccesso del Virtual Boy. Yokoi sentì la pressione dell’opinione pubblica e decise di non darsi sotto: di lì a poco il leggendario inventore fondò la Koto Laboratory e la loro nuova console, il WanderSwan, fu presa in considerazione e successivamente prodotta dalla grandissima Bandai. Tuttavia Gunpei Yokoi non poté assistere né lancio nel 1999 in Giappone né al successo del WanderSwan in quanto morì in un incidente stradale nel 1997.

La Reflection Technology uscì distrutta dall’insuccesso del Virtual Boy, ma tentò di rifarsi con un nuovo prodotto chiamato Faxwiew, un piccolo dispositivo che permetteva di visualizzare i fax guardando attraverso un piccolo schermo, esattamente come il Private Eye o lo stesso Virtual Boy. Tuttavia nessuno finanziò questa invenzione e la Reflection Technology chiuse i battenti di lì a poco. Allen Becker cominciò invece a lavorare nel campo della purificazione delle acque per le nazioni in via di sviluppo, ma purtroppo si spense nel 2001, all’età di 53 anni.

(Allen Becker)

Per correttezza

Il Virtual Boy fu una console terribile, con una dubbia tecnologia e una grafica in grado di far venire il mal di testa a chi la usa, ma non è tutta da buttare.
Per quanto la si possa schernire, i giochi, nonostante la semplicità, sono ben lungi dal fare schifo, e perciò vogliamo rendere giustizia ad alcuni titoli di questa console, mai rilasciati per nessun’altra console. Esistono giochi che hanno davvero provato a trarre il massimo da questa console e dimostrato, per quanto possibile, che il Virtual Boy poteva realmente dare la sensazione di essere immersi in una realtà virtuale. Uno di questi giochi è certamente Teleroboxer, considerabile come una specie di spin-off della saga di Punch Out!!. Oltre al fatto di giocare con una visuale POV, dando già da subito l’impressione di essere all’interno del gioco, questo titolo sfruttava soprattutto lo strano controller del Virtual Boy che, in un certo senso, può essere considerato come una sorta di precursore dei controlli dual analog in quanto fu il primo ad includere due D-pad; al di là dei metodi di gioco, Teleroboxer è soprattutto un gioco molto divertente e se c’è un gioco per cui provare un Virtual Boy è proprio questo. Fondamentalmente, per quanto superficiale possa essere l’immersione, altri giochi che includono la visuale POV come Red Alarm, Bound High, Innsmouth no Yakata e Niko-Chan Battle meritano di essere provati con la console reale. Altri titoli come Mario Tennis, Mario Clash, Galactic Pinball e Waterworld (unico gioco basato su un film prodotto su questa console) sono  abbastanza interessanti e possono essere anche giocati anche con un emulatore, visto che gli effetti 3D non sono mandatori per questi titoli.
Discorso a parte va invece fatto per Virtual Boy Wario Land, altro grande titolo per i collezionisti di questa console; questo è considerato una vera e propria gemma del Virtual Boy e il fatto che sia rimasto relegato alla libreria della console e mai più rilasciato per nessun’altra riempie il cuore di tristezza (potrete comunque giocarlo con un emulatore). Per questo ci piacerebbe un giorno trovare per Nintendo Switch una collection con tutti i giochi mai usciti per Virtual Boy da giocare col nuovo headset VR della linea Nintendo Labo! Chissà se arriverà mai.

Non ci sono grandi premesse da fare per un collezionista o amatore che abbia intenzione di acquistare un Virtual Boy: assicuratevi solamente che il tutto funzioni regolarmente, soprattutto il sistema dei vetri riflettenti. Tuttavia, per voi che vi siete incuriositi leggendo queste righe, il Virtual Boy è raro e costoso e per quanto sia possibile trovarlo in vendita su siti come Ebay, e non ci sono grossi rischi di riceverne uno non funzionante, dovrete pagare ben più del suo prezzo originale. Certi titoli, essendo usciti alcuni solo in Giappone e altri solo negli Stati Uniti, sono rari e costosi e ancora non esiste, diciamo, una fanbase così grande che si stia mettendo a l’opera per produrre nuovi accessori, everdrive e pezzi di ricambio per questa console (e probabilmente non ci sarà mai). Esiste un sito in grado di produrvi una sorta di flashdrive per la console ma dovrete fornire al tecnico una cartuccia da sacrificare (e inoltre non sappiamo quanto sia affidabile). Acquistare questa console è solo una particolarissima e costostissima chiccheria ma… insomma, potreste dire di avere un Virtual Boy!




Food Party: prodotti alimentari nei videogiochi

L’alimentazione è un bisogno primario degli esseri umani e, da giocatori, possiamo dire che è forse più forte nei gamer. Dobbiamo pur smettere di giocare, spegnere la console o il PC per poi addentare un bel panino, goderci un gustoso piatto di pasta o, visto che le calorie bruciate di fronte allo schermo non sono tantissime, rifocillarci con della sana frutta. Non tutti i videogiochi ci spingono a mangiare: magari passando da tutti quei fast food in Dead Rising o guardando quei cosciotti di maiale in Castlevania potrebbe venirci un insolito languorino, ma che succede quando il cibo stesso diventa il protagonista del gioco? Oggi, un po’ come abbiamo fatto tempo fa con le celebrità, vogliamo fare un excursus di sapori – più o meno sani – e gaming dando uno sguardo ad alcuni titoli il cui fine non è necessariamente la produzione di un gioco avvincente ma venderti un prodotto! In questo articolo troverete dei giochi il cui fulcro è la promozione di un brand alimentare, perciò, salvo casi eccezionali, non parleremo di casi product placement come il KFC in Crazy Taxi, le promozioni e gli oggetti speciali di Subway in Uncharted 3: Drake’s Deception o le mentine Airway in Splinter Cell: Chaos Theory. Al solito, la lista non sarà completissima perciò se ci dimentichiamo qualcosa fatecelo sapere pure nei commenti!

(COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA!)

Domande esistenziali

Sin dall’alba della nascita dei prodotti di consumo l’uomo è da sempre stato messo di fronte una domanda tanto semplice quanto decisiva: Coca Cola o Pepsi? Sin dal loro arrivo sul mercato, più o meno intorno alla fine del ‘800, le due compagnie si sono letteralmente odiate, una guerra combattuta prodotto su prodotto. Nel 1983, visto che Pepsi nel 1975 diede un duro colpo alla compagnia rivale con dei test a occhi bendati nei supermercati americani, Coca Cola distribuiva alle convention un gioco per Atari 2600 senza etichetta, insieme alla console (che per la crisi, tanto, costavano pochissimo), intitolato Coke Wins ma più in là rinominato dal pubblico Pepsi Invaders per via della sua estrema somiglianza con Space Invaders (tanto che, infatti, il titolo nasce dal codice madre del gioco Taito ed è pertanto considerabile, in tutto e per tutto, un hack). Il titolo, sviluppato da Atari stessa, mirava a promuovere il marchio Coca Cola, infatti lo scopo del gioco era annientare la schiera di navicelle che in cielo formavano sei pericolosissime scritte “PEPSI“, capitanate da altrettanti alieni residuati da Space Invaders, e quando si vinceva appariva la scintillante scritta “Coke Wins“; tuttavia, essendo il marchio del nemico così in bella vista, sembrava che stessero promuovendo la compagnia rivale anziché il promotore stesso e perciò oggi in molti vedono in questo gioco l’esempio lapalissiano di un colpo di zappa sui piedi. Il gioco non fu mai venduto al pubblico ed è pertanto uno dei più rari di sempre: delle copie sono state vendute su eBay per prezzi che oscillavano dai 1000 ai 2000 dollari americani. Se volete provare questo rarissimo gioco vi converrà ovviamente provarlo su un emulatore… oppure, potreste comprare una Coca Cola per 2 euro al bar!

Nel 1983, su Atari 2600 e Intellivision, ci fu un’altra famosa promozione, stavolta per un prodotto assente nei supermercati italiani: parliamo di Kool-Aid Man, gioco che promuove la famosa bevanda fruttata americana “fai-da-te”. Su Atari 2600 controlleremo la famosa brocca animata che da tanti anni promuove il brand e lo scopo del gioco è evitare i Thirsties in corsa, perché altrimenti verremo schiantati a destra e a manca nell’area di gioco e fermarli quando allungano le cannucce per bere dalla pozza di Kool-Aid nel fondo. Poco tempo dopo, per Intellivision, uscì un gioco in cui il nostro obiettivo era quello di controllare due bambini intenti a collezionare i tre ingredienti principali per fare una bella brocca di Kool-Aid (la bustina con la polvere, dello zucchero e una brocca di acqua ghiacciata… sbaglio o stiamo facendo pubblicità gratuita?). Anche qui, i Thirsties, i nemici di Kool-Aid Man, saranno alle nostre calcagna e se ci prendono due volte per noi sarà game over; ma se riusciremo a preparare la bevanda in tempo chiameremo la cara brocca sorridente e goderci il Kool-Aid in santa pace!

(Oh yeah!)

Basta aperitivi, abbiamo fame!

Avete fame? Non vi va di andare in cucina a preparavi un hamburger? A quanto pare, nell’anno 2025 (dunque fra sette anni, tenetevi forte!), i ricercatori Burger King creeranno un Whopper così buono che non dovrete spostarvi dal divano, sarà lui a venire da voi! In Whopper Chase, gioco del 1987 per Commodore 64, ZX Spectrum e MSX, controlleremo il famoso hamburger di casa Burger King alla volta delle fauci di un avventore che lo chiama per telefono; per strada dovremo eliminare pomodori e cetrioli ostili e chef gelosi a colpi di maionese in eccesso (sapete, quella che scola via ai lati del panino morso dopo morso). Il gioco è stato prodotto in Spagna su musicassetta ed era possibile ottenerlo con un Whopper solo nei Burger King spagnoli; al di là dell’intento commerciale la diffusione è stata un successo e come conseguenza i prezzi su eBay, oggi, non sono per niente proibitivi nonostante la circoscrizione al territorio iberico. Di sicuro, nel 1987, i bimbi spagnoli saranno andati ben più volentieri al Burger King con questa scusa (e forse saranno anche ingrassati parecchio)!

Ronald McDonald alla riscossa!

Poteva McDonald’s tirarsi fuori dalla guerra dei software digitali per promuovere i loro ristoranti fast food per famiglie? Nel 1992 arriva M.C. Kids (non Mc Kids…) su Nintendo Entertainment System, noto come McDonald’s Land in Europa, un grazioso platformer ispirato primariamente a Super Mario Bros. 3 per quel che riguarda il design dei livelli e l’overworld diviso in sette mondi. Contrariamente a quel che si possa pensare, il gioco non mette in risalto i prodotti McDonald’s ma di certo è una gran bella presentazione delle mascotte dei loro ristoranti come Ronald McDonald, Birdie, Grimace e l’avido Hamburglar che in questo gioco ruba una borsa magica al famoso (e spaventoso) clown. Per avanzare nell’overworld ci servirà collezionare delle carte da consegnare alle mascotte una volta terminato un livello – gameplay che verrà ripreso anni più tardi nel terribile Spartan per Nintendo Switch –; di certo non è fra i platformer migliori che il NES possa offrire ma per essere un gioco su licenza e, in tutto questo, anche una chiara trovata commerciale per promuovere i ristoranti McDonald’s il risultato non è male e il gioco, nonostante alcuni difetti, risulta tuttavia godibile.

Dopo questo titolo, McDonald’s rientrò nel mondo dei videogiochi con altri due platformer per Sega Mega Drive o Genesis in Nord America: il primo è Global Gladiators del 1992, un gioco in cui due ragazzini di nome Mick e Mack vengono catapultati nel loro fumetto preferito (guarda caso pieno di doppi archi dorati) grazie a una magia di Ronal McDonald, e l’altro è McDonald’s Treasure Land Adventure del 1993. L’ultimo titolo è davvero niente male, specialmente perché dietro allo sviluppo di tale gioco c’è il leggendario studio Treasure, noto per aver prodotto alcuni dei migliori videogiochi mai sviluppati come Gunstar Heroes, Dynamite Headdy, Guardian Heroes, Radiant Silvergun e Ikaruga! Che dire? Anche i migliori hanno bisogno di un Big Mac di tanto in tanto!

I’ vogl na pizz!…

Ai napoletani sicuramente non piacerà ma per gli americani è una garanzia quando non ci si vuole avventurare in un ristorante italiano sconosciuto: Domino’s Pizza è un brand molto famoso negli Stati Uniti e dal 2015 è presente anche nel territorio italiano con otto ristoranti a Milano e uno a Bergamo. Il titolo che vedremo adesso è Yo! Noid, videogioco con protagonista il Noid, protagonista e mascotte delle pubblicità di questo popolare brand americano. A differenza dei giochi McDonald’s il gioco, che in realtà era un titolo per Famicom di Capcom originariamente uscito come Kamen no Ninja Hanamaru, risulta molto carente sia sul piano della dinamicità, offrendo un gameplay poco bilanciato per il fatto che il Noid viene annientato solo dopo un colpo e una grafica buona ma confusionaria sul piano dell’uso dei layer di scorrimento. Ad aggravare la situazione sono presenti le orrende sezioni dei pizza eating contest in cui bisognerà mangiare più pizza di un altro Noid; queste sono delle vere e proprie boss battle in cui regna la casualità, in quanto i due partecipanti pescheranno in maniera radomica un numero da un selettore e, il partecipante col numero più alto aggiungerà un punto sul suo pizza meter. Meglio andare a mangiare una pizza!

… e una Pepsi!

Più tardi, nel 1999, anche Pepsi si buttò nel mercato videoludico proponendo un titolo a oggi molto discusso, una vera e propria bestia rara, visto che uscì solo in Giappone, ma molto divertente e soprattutto bizzarra. Sviluppato dallo studio giapponese KID, Pepsiman per PlayStation è una sorta di gioco d’azione in cui controlleremo l’iconico (non in Italia) supereroe gasato nel intento di portare una Pepsi a chi ne ha bisogno, come un militare nel deserto; il gioco si presenta come uno runner sullo stile di Metro Cross o Penguin Adventure – oggi sarebbe un gioco ideale per smartphone – e bisognerà evitare bizzarri ostacoli come dei lavori in corso per strada, stendibiancheria nei giardini, camion carichi di Pepsi e lattine giganti che ci inseguono come il masso all’inizio di Indiana Jones e i Predatori dell’Arca Perduta. Stranamente, il gioco è interamente doppiato in inglese, il che lo rende tranquillamente giocabile per chi non parla giapponese, e con alcune cutscene girate a Los Angeles che includono la presenza dell’attore Mike Butters, ricordato per essere stata la prima vittima del killer in Saw: l’Enigmista; a quanto pare era programmata una release internazionale ma alla fine il gioco rimase relegato al Giappone.
Il gioco, tuttavia, non segna la prima apparizione di Pepsiman in un videogioco; il supereroe era presente nel picchiaduro Fighting Vipers nel 1996 per Sega Satun (di cui potrete vedere un footage nel fondo di questo articolo sul Polymega, anche se Pepsiman non è presente) dove divenne un personaggio sbloccabile grazie a un accordo pubblicitario fra Pepsi e Sega.

Prima di concludere il discorso di questi particolari titoli promozionali vogliamo parlare un secondo dei “videogiochi originali” presenti nelle confezioni delle merendine Ferrero. A oggi è molto difficile tracciare tutte le “release” di questi titoli, che comprendono titoli del calibro de Gli Straspeed e la Strarace e il videogioco de i Magicanti, delle mascotte Ferrero durate per poco tempo, ma vale la pena di ricordare lo spettacolare Fresh Adventure, un lentissimo e davvero scadente platform con il pinguino del Kinder Pinguì e Fetta al latte; perché spettacolare? Per questo esatto motivo:

GameCompass per la vostra salute

Ci sono ancora molti giochi che promuovono brand alimentari, come Cool Spot per le console 16 bit che promuoveva la 7-Up, Chester Cheetah: Wild Wild Quest per Sega Mega Drive e Super Nintendo che promuoveva il brand di chips Cheetos e persino i recenti Dash of Destruction e Crash Course per Xbox 360 per promuovere il brand Doritos. Tuttavia, i giochi che abbiamo promosso finora contengono prodotti ipercalorici che nel peggiore dei casi, possono portare a malattie come il diabete.
Per scongiurare casi come questi la Novo Nordisk, una compagnia danese specializzata nel trattamento del diabete e nella produzione di insulina, si è buttata nel ring nel 1992 con Captain Novolin per SNES, un titolo sviluppato da Sculptured Software per sensibilizzare i bambini affetti da diabete (ma solo quelli col Super Nintendo. Al diavolo quelli col Mega Drive o i computer!). Nel gioco ci verranno spiegate le migliori soluzioni per trattare questa brutta malattia e per proseguire le avventure dell’unico supereroe affetto da diabete di tipo 1 bisognerà di tanto in tanto rispondere a qualche domanda sull’argomento; sia genitori che bambini hanno trovato questo gioco molto utile nonostante il gameplay poco interessante ma bisogna anche ammettere che mirare alla sensibilizzazione a un problema così grande e spesso sottovalutato è un obiettivo veramente nobile… il vero problema, giusto per concludere in bellezza, era che il gioco veniva venduto a prezzo pieno e nessuna parte dei proventi venne investita per la ricerca; dunque, alla fine dei conti, il vero obiettivo del gioco era venderti l’insulina della Novo Disk!

Dunque, state attenti a cosa mangiate, non andate a mangiare cibo spazzatura di frequente o altrimenti vi toccherà giocare con Captain Novolin!

(Bene Captain Novolin, ha salvato il mondo! Per festeggiare che ne direbbe di un bel pezzo di tor… ops…)



Uno sguardo a Castlevania: Symphony of the Night

Castlevania è una delle saghe più classiche e importanti del landscape videoludico, una serie di giochi avvincenti che nel tempo si sono saputi reinventare, ponendo ai giocatori sfide sempre nuove grazie a meccaniche sempre fresche e innovative. I recenti successi del Kickstarter di Bloodstained: Ritual of the Night, avviato dal padrino della saga Koji Igarashi e il già uscito Curse of the Moon hanno spinto Konami a rivedere la loro IP dall’alto in basso in modo da riportare la storica saga dei cacciatori di vampiri al suo originale splendore, anche se con risultati hit or miss: l’anno scorso abbiamo visto l’eccellente serie anime su Netflix basata su Castlevania III: Dracula’s Curse (di cui dal 26 Ottobre saremo in grado di vedere la seconda stagione) un nuovo gioco su iPhone, Castlevania: Grimoire of Souls, ancora in beta ma comunque non ben visto dai giocatori, ma soprattutto il recente annuncio di Castlevania: Requiem, una collection contenente i due capitoli della sub-saga Dracula X, cioè Castlevania: Rondo of Blood, gioco originariamente concepito per PC-Engine CD, e lo storico Castlevania: Symphony of the Night per PlayStation. Quest’ultimo è stato in grado di rilanciare la saga in un landscape di giochi in 3D, un titolo che ha letteralmente gridato al mondo che con le formule classiche dei giochi in 2D si poteva fare ancora molto e, se oggi i sidescroller dai gusti retrò sono molto popolari, che siano platformer nel senso più classico o metroidvania, lo si deve in grossa parte a titoli come questi. Oggi su Dusty Rooms, vista l’imminente uscita di Castlevania: Requiem (anche questa, come la serie anime, giorno 26) e il 21esimo anniversario del rilascio di Symphony of the Night in nord America, daremo uno sguardo al titolo più importante della saga, alle innovazioni portate e anche alle diverse versioni disponibili.

Il metroidvania per eccellenza

Nel 1994 Super Metroid perfezionò un genere prima d’allora poco definito e poco popolare; la più grande innovazione che portava a livello di fruizione era la mappa in-game chiara e intuitiva, dove erano segnati i punti di salvataggio, i punti di ricaricarica, i luoghi già visitati e quelli ancora da scoprire. In casa Konami, Castlevania: Rondo of Blood riscosse un ottimo successo in Giappone ma per via dell’insuccesso del PC-Engine CD negli Stati Uniti, lì rinominato Turbografx-16 CD, il gioco non fu mai rilasciato da quelle parti. Per compensare la sua assenza venne prodotto un porting per Super Nintendo nel 1995, rinominato Castlevania: Dracula X in Nord America e Vampire Kiss in Europa, ma ciò che arrivò era troppo distante dal gioco originale e perciò i fan cominciavano a presagire che la saga si stesse dirigendo in cattive acque. In realtà, Koji Igarashi, da poco reduce del successo di Rondo of Blood alla quale lavorò, fu incaricato di creare un nuovo titolo della saga e così Konami lo mise dietro a  Castlevania: Bloodletting per Sega 32X ma ben presto, come l’add-on si rivelò un insuccesso, lo sviluppo del gioco passò a Sony dove poi fu completato e coniato in Castlevania: Symphony of the Night. Già nelle prime fasi del progetto, Iga non voleva lanciare l’ennesimo capitolo della saga ma voleva comunque mantenere la formula platform che aveva reso iconica la saga degli ammazza-vampiri. Ispirato dal già citato Super Metroid e la saga di The Legend of Zelda, nonché dalle critiche mosse a Castlevania II: Simon’s Quest (titolo per NES che offriva la medesima impostazione del futuro Symphony of the Night), Iga implementò un gameplay simile che favorisse sia la longevità che l’esplorazione e il puzzle solving, entrambe caratteristiche non sue.
Il risultato fu semplicemente eccezionale: la nuova veste action-platformer, da lì in poi, appunto, rinominata in metroidvania, si adattò perfettamente al gameplay già ottimo di Castlevania e concentrò il nuovo gameplay sull’esplorazione graduale del castello di Dracula, ovviamente possibile collezionando i power up e le abilità per Alucard uno alla volta, una sezione del castello per volta. La storia è ambientata nel 1796, quattro anni dopo le vicende di Rondo of Blood: Richter, Belmont è scomparso e il castello di Dracula riappare dal nulla in una notte di luna piena; Alucard, vampiro e figlio del conte (analizzate bene il suo nome, non notate niente?), corre nel castello per poi trovare al suo interno la Morte, braccio destro di Dracula che lo spoglia di ogni equipaggiamento, Maria Renard, una cacciatrice di vampiri, e un Richter Belmont che crede di essere il padrone del castello e un signore delle tenebre. Si scopriranno ben presto gli stratagemmi del conte e spetterà a noi svelare la verità sul lavaggio del cervello di Richter e scongiurare il ritorno di Dracula una volta e per tutte. Castlevania: Symphony of the Night è il primo titolo della saga (ma anche l’unico in 2D) ad avere dei dialoghi interamente doppiati: anche se a tratti possono sembrare buffi, servirono a dare la giusta importanza alla storyline proposta e uno storytelling che, prima d’allora, era riservato primariamente ai giochi in 3D, ancora una volta, dunque, rivendicando l’importanza dei giochi d’impostazione classica. Insieme agli elementi tipici del genere metroidvania, come appunto il backtracking, i power-up e le abilità collezionabili che ne permettono l’esplorazione graduale, in Symphony of the Night vengono introdotte tantissime feature RPG, prima fra tutti il sistema di level up basato sui punti di esperienza che si ottengono ogni volta che un nemico (o boss) viene annientato e ciò permette una crescita ancora più dinamica del nostro personaggio che vedrà incrementarsi i punti di attacco e difesa gradualmente; se ciò non bastasse, sarà possibile equipaggiare il nostro Alucard con nuovi mantelli, armature, stivali, armi diverse dalla spada, Famigli (degli spiriti che ci accompagneranno durante la nostra avventura) e accessori che possono renderlo immune o più resistente a fuoco, ghiaccio, oscurità, luce e persino aculei. Il castello in sé è gigantesco e pertanto Symphony of the Night garantisce una longevità non indifferente, migliorata peraltro grazie alla campagna aggiuntiva con Richter Belmont.
Potremmo parlare ad nauseam delle novità introdotte in questo capitolo ma, non volendovi parallelamente rovinare una prossima esperienza con Castlevania: Symphony of the Night, vorremo sottolineare la sua importanza per la saga e per il landscape videoludico. Da un lato, Symphony of the Night è ancora l’unico Castlevania di questa impostazione a essere stato sviluppato per console: Castlevania: Circle of the Moon, Harmony of Dissonance, Aria of Sorrow, Dawn of Sorrow, Portrait of Ruin e Order of Ecclesia, che sono i titoli metroidvania della saga, sono tutti stati sviluppati per gli handheld Nintendo, fra il Gameboy Advance e il Nintendo DS. Le eccezioni in 2D, per console, sono state fatte e ne sono un esempio Castlevania: Harmony of Despair, un gioco co-op online, e The Adventure ReBirth che uno stage by stage ispirato a Castlevania: The Adventure per Gameboy; tuttavia, nessun metroidvania è apparso per console dopo Symphony of the Night e pertanto questi giochi sono stati riservati al piccolo schermo. Per il resto, su console, è stato inseguito fino all’ultimo il sogno di vedere la saga in un ambiente in 3D e i risultati, per quanto si possano amare o odiare, non sono mai arrivati ai livelli dei metroidvania, probabilmente neanche con il filone reboot Lords of Shadows. Anche se non abbiamo più visto un Castelvania in questo stile per una console, Symphony of the Night ha dimostrato ancora di più cosa era possibile fare con questo stile di gioco e da lì in poi, più che altro con l’inizio del nuovo millennio, sono cominciati a uscire grandi titoli indipendenti che si rifacevano al suo stile e a quello di Super Metroid. Ne sono grandi esempi Cave Story, Ori and the Blind Forest, Shadow Complex, Guacamelee, i giochi della saga di Shantae e la lista non si ferma a questi pochi titoli. Il punto è che Castlevania: Symphony of the Night ha avviato una vera rivoluzione e la sua importanza si vede nei titoli cloni rilasciati, i fan che finanziano in pochi minuti il Kickstarter di Koji Igarashi e persino nella risposta di Konami nel rilasciare a breve Castlevania: Requiem per PlayStation 4. Non a caso Symphony of the Night è uno dei titoli più belli della storia dei videogiochi e giocarlo, per un vero giocatore, è quasi un obbligo.

Giochiamoci!

La cosa più saggia da fare, in questo momento, è aspettare l’uscita del prossimo Castlevania: Requiem e godersi Symphony of the Night in questa nuova generazione. Tuttavia ci chiediamo: quale versione inseriranno nella collection? Eh si, di Castlevania: Syphony of the Night esistono tante versioni, recuperabili in molte piattaforme; pertanto, sia per i più curiosi che per i più impazienti che vogliono recuperarlo prima del 26 Ottobre (in quanto, giustamente, non tutti abbiamo una PlayStation 4), vi spiegheremo in dettaglio tutte le versioni disponibili.
La prima, la versione per PlayStation, è quella più pura e pertanto è la migliore della generazione 32 bit: i controlli sono studiati per il set di tasti del joypad di PlayStation, così come tutto il comparto grafico e la programmazione generale che permette tempi di caricamento brevi e azione veloce anche quando nell’area di gioco ci sono molti nemici. Questa è la versione che è stata presa come riferimento per le future re-release su PSP, come bonus del gioco Castlevania: The Dracula X Chronicles, e su Xbox 360 Live Arcade. Tuttavia, se volete giocare la versione originale per PlayStation, le copie originali PAL e NTSC-U costano parecchio e l’unica alternativa e puntare alle versioni NTSC-J, sempre molto costose ma più convenienti rispetto alle versioni americane e europee. Per quanto la critica fosse a favore di Castlevania: Symphony of the Night, il gioco non vendette benissimo e questo è il motivo principale dell’odierno sovrapprezzo.
L’anno successivo, nel 1998, uscì una versione per Sega Saturn, da molti vista come una sorta di passo indietro, il ché fu molto strano viste le capacità della console rivale in ambito 2D. Il porting fu affidato a Konami Computer Entertainment Nagoya, un team diverso da quello originale e, durante lo sviluppo, vi furono diversi problemi che portarono a una versione evidentemente poco curata: notabile sin dall’inizio e l’immagine “allargata” e non adattata per la maggiore risoluzione del Saturn, distorcendo così gli sprite di alcuni nemici particolarmente grandi; le cutscene all’inizio e alla fine del gioco poterono invece godere di questa feature ma l’immagine, stavolta, fu ristretta e per tanto non erano in fullscreen. Ad aggravare la situazione c’erano anche gli eccessivi tempi di caricamento, presenti persino alla transizione da un’area del castello all’altra, al richiamo del menu e al richiamo della mappa (che, in assenza di un tasto select nel controller del Saturn, si doveva richiamare dal menu di pausa. Dunque due caricamenti di fila!), i rallentamenti durante le sezioni più animate e la famosa assenza degli effetti di trasparenza necessari per rendere al meglio le cascate e gli ectoplasmi; tuttavia, probabilmente verso la fine dello sviluppo, il team riuscì a sviluppare correttamente gli effetti di trasparenza, come dimostrato dala battaglia contro Orlox, ma essendo in ritardo con i tempi di consegna avranno consegnato il gioco senza poter sistemare le restanti imperfezioni. A ogni modo, nonostante questi difetti, la versione per Saturn risulta la più ricca di contenuti e alcuni fan sono in grado di confermare che questa è la migliore versione di questo titolo: il gioco permette sin da subito di selezionare, alla creazione del file, Alucard, Richter e persino Maria, che oltre a essere un personaggio giocabile è anche un boss nella campagna principale. Poi, grazie alla disposizione dei tasti del Saturn, ad Alucard è stata aggiunta una “terza mano” utile per assegnargli le pozioni per recuperare vita o i punti magia (nella versione per PlayStation bisognava entrare nel menu, assegnare la pozione alla mano sinistra, tornare nel gioco e consumarla durante l’azione), sono stati aggiunti i Goodspeed Boots che permettono, una volta raccolti, di correre più velocemente e attraversare alcune zone del castello in modo rapido premendo due volte avanti, più nemici, più boss, più Famigli e due zone inedite dalla versione PlayStation. Le aggiunte di questa versione vanno a perfezionare il gameplay già ottimo di Castlevania: Symphony of the Night ma purtroppo l’unica feature recuperata per le versioni successive è la campagna di Maria Renarde per la versione PSP. Koji Igarashi è cosciente del fatto che molti fan vogliono la maggior parte delle feature per Saturn ma nel 2007 ha apertamente espresso che non si sente a suo agio con quella determinata versione e non sopporta il fatto che ci sia il suo nome sopra. Probabilmente le feature di questo porting non torneranno più ma in fondo, è anche vero che non sono indispensabili per godere appieno di questo gioco, specialmente visti i gli assurdi prezzi di questo gioco per Sega Saturn su eBay.
Nel 2006 Castlevania: Symphony of the Night è stato rilasciato per Xbox 360 Live Arcade e questa particolare versione si rifà esattamente alla versione per PlayStation; in aggiunta alla dashboard online e agli achievement, è stata la prima versione del gioco in HD e, grazie alla potentissima architettura della console Microsoft, sono stati corretti persino quei pochi rallentamenti presenti nella versione originale. Con buona probabilità questa sarà la versione che troveremo giorno 26 Ottobre per PlayStation 4 però, chissà: troveremo qualcosa della versione del Saturn? Troveremo qualcosa di completamente inedito, come una campagna con Trevor Belmont, Sypha Belnades e Grant Danasty visto che in un punto del castello si combatte contro i loro fantocci? Non possiamo fare altro che aspettare e sperare di trovare una versione ancora migliore delle precedenti!




Polymega: la nuova frontiera del retrogaming

Le librerie digitali di PC e console sono inondate da titoli dall’aspetto vintage ma per ora, dopo la chiusura di LOVEroms e LOVEretro e dell’effetto domino che si è venuto a creare, gli interessati a riscoprire i veri e propri titoli del passato per ora non vivono giorni facili. Sia Steam che gli store digitali delle console non stanno offrendo una vera alternativa alle tanto amate ROM e i rivenditori su eBay sembrano voler girare il coltello nella piaga. Per quanto nero possa sembrare lo scenario attuale qualcuno si sta già muovendo e un ambiziosissimo progetto avviato un anno fa sta per vedere la luce: stiamo parlando della Polymega, una console di una nuova compagnia chiamata Playmaji e fondata da ex dipendenti di Insomniac e Bluepoint games (senza contare che questi hanno lavorato a giochi tripla A come Ratchet & Clank e Titanfall) e che promette compatibilità con ben 13 sistemi (in realtà 30 se contiamo che questa “frankenmacchina” è region free). Questi, per la gioia dei più appassionati, sono:

  • Sony PlayStation
  • Neo Geo CD
  • Turbografx 16/PC Engine
  • Turbografx 16 CD/PC Engine CD-ROM2
  • Supergrafx
  • Super CD ROM2
  • NES
  • SNES
  • Sega Mega Drive
  • Sega CD
  • Sega 32X
  • Sega CD32X
  • Sega Saturn (quest’ultima annunciata a sorpresa con il trailer di lancio per l’apertura dei preorder)

Chiunque di fronte una tale lista rimarrebbe senza fiato e i retrogamer di tutto il mondo potrebbero ritrovarsi un sistema che potrebbe risolvere un’infinità di problemi, dallo spazio in casa ai soldi da spendere per i sistemi, i giochi ed eventuali pezzi di ricambio o per la manutenzione di quest’ultime (specialmente per le console a CD costruite con un sacco di pezzi mobili o batterie RAM da cambiare). Ma cosa è esattamente questa macchina? Come può promettere una compatibilità così ampia e come risolverebbe l’attuale fame del retrogaming?

I can make this work

Il termine “frankenmacchina” che abbiamo usato poco fa descrive perfettamente la natura di questo prodotto – cara Accademia della Crusca, il mio codice IBAN è… –: la console è composta da una base, il cuore della macchina, in cui è presente il lettore CD che permette di leggere tutti i sistemi a supporto ottico (dunque ben sei sistemi) e a questa possono essere aggiunti dei moduli che leggeranno le cartucce originali, le cui ROM verranno caricate nel sistema interno per essere emulate (pertanto non sarà necessario inserirle ogni volta che vogliamo giocare con un determinato gioco), e saranno compatibili con i controller originali. Nella base troveremo inoltre due porte USB (come spiega la sezione FAQ del sito di Polymega e da come possiamo vedere dal trailer introduttivo), sarà compatibile con bluetooth e, visto che gli sviluppatori promettono aggiornamenti per il sistema operativo interno, sarà possibile connettere la macchina a internet per accedere a un futuro store, che verrà lanciato nell’ultimo quarto del 2019, dove poter scaricare giochi e, se l’obiettivo dei 500.000$ verrà raggiunto nei primi 35 giorni, persino mandare il proprio gameplay in streaming su Twitch e YouTube. Il sito ha da poco aperto i preorder: il modello base, che comprende un controller standard simil PlayStation 4 per giocare ai sistemi CD, costa 249,99$ (al cambio attuale, in Euro, sono circa 215,60€) mentre i singoli moduli, che verranno venduti insieme a dei controller cablati simili a quelli dei sistemi emulati, costeranno 59,99$ (attualmente 51,74€) e al loro interno saranno caricati ben cinque giochi. Essendo un sistema moderno, l’attacco principale della console sarà l’HDMI ma, come un NES mini o SNES mini ci permette, sarà possibile regolare l’immagine e pertanto decidere se scegliere il formato 4.3 o 16:9, se mostrare tutti i pixel, mostrare gli “scalini” o avere un’immagine “pixel perfect“. Come già accennato, questa console estrarrà le ROM dalle cartucce per poi, essenzialmente, emularle all’interno dei moduli (e permettere tutto quello quello che permettono gli emulatori: save e load state, fare screenshot, registrare il gameplay, etc) ma gli sviluppatori hanno promesso di creare degli emulatori da zero, senza l’ausilio di altri software preesistenti.

Cosa significa Polymega per l’industria?

Prima di sottolineare come Polymega potrebbe incidere sul mercato vogliamo, per prima cosa, evidenziarne alcuni aspetti. Innanzitutto, questa console viene incontro alle richieste dei retrogamer finora rimaste inascoltate; nessuna terza compagnia, le molte che operano nel campo del retrogaming per offrire nuovi dispositivi per le vecchie macchine, aveva finora pensato alle piccolezze di alcune di queste, come offrire la compatibilità con il 32X per i cloni del Sega Mega Drive, offrire un’alternativa moderna agli ormai costosissimi Turbografx 16/PC Engine, senza contare che il loro modulo leggerà, praticamente, le sei cartucce del Supergrafx (console che si sarebbe dovuta comprare a parte anche possedendo una delle due versioni della console NEC), ma soprattutto offre la prima vera soluzione per i giochi su compact disk la cui compatibilità, grazie agli aggiornamenti firmware, potrà essere espansa a ben altre console a supporto ottico in futuro come il Sega Dreamcast (continuamente citato nella sezione FAQ) il 3DO o persino la PlayStation 2. Non dimentichiamoci inoltre che l’annunciata compatibilità con i giochi per Sega Saturn è molto importante perché da sempre questa console ha avuto la negativa fama di essere la più difficile da emulare per via del suo arduo sistema dual core, parallelamente all’essere una delle più ricercate fra i retrogamer. Similarmente, i moduli da comprare a parte, che potranno anche essere sviluppati da altre compagnie, continueranno ad uscire per offrire ai giocatori nuove soluzioni per console come il Nintendo 64, Atari 2600 o chissà cosa!
La console, diversamente da altre come il Retron 5 di Hyperkin o l’AVS di Retro USB, vuole porsi letteramente come un faro per i retrogamer e, come già citato precedentemente, vuole lanciare uno store digitale dove offrire legalmente tutte le ROM apparse finora nei maggiori siti di emulazione come emuparadise.me; questo significa anche, e soprattutto, raggiungere gli sviluppatori originali e coinvolgerli in tutto e per tutto nel progetto Polymega, ponendosi come una quarta console attuale ma dedicata esclusivamente al retrogaming. Alcune grandi compagnie come Capcom o Irem hanno già espresso interesse verso questo particolare mercato fornendo, pur sempre in quantità limitate, delle cartucce commemorative funzionanti e operative prodotte da RetroBit di Street Fighter II, Mega Man 2 e Mega Man X, R-Type III e Holy Diver (ebbene sì, un gioco ispirato a Ronnie James Dio e ai Black Sabbath! Un giorno ne parleremo), senza contare che altre compagnie, anche senza il consenso dei publisher, hanno prodotto molte reproduction cartridge per giochi ormai andati persi nelle obbrobriose aste eBay come Nintendo World Championship. Grazie a Polymega potrebbe esserci un rinnovato interesse in questi prodotti repro che potrebbero persino coinvolgere i giochi su disco, cosa che finora nessuna compagnia ha mai preso in considerazione, e dunque vedere delle nuove stampe – dei reproduction disk oseremo dire – di molti giochi per Saturn, Neo Geo CD o TG16/PC Engine CD, spesso dimenticati nel vastissimo oceano retrò. Playmoji, probabilmente visti i recenti sviluppi, non si è espressa sul tema ROM da caricare via USB o backup, per ciò che riguarda i giochi su CD, però hanno lasciato intendere che una volta caricata l’immagine sul sistema, potranno essere patchati; questo aprirebbe Polymega all’intera scena hack e delle traduzioni. Che dunque che potrà esistere un modo per permettere tutto questo? Probabilmente lo sapremo solo una volta che metteremo le mani su questo fantastico prodotto.

Questioni sul sito e il chip FPGA

Un po’ di tempo addietro, il sito è stato chiuso per qualche giorno e, alla riapertura, che ha lanciato definitivamente i preorder, sono state cambiate alcune specifiche del sistema: tutti i cambiamenti sono stati spiegati in un articolo su Nintendolife, redazione molto vicina alla compagnia che sta producendo il Polymega. Playmoji ha aperto uno stand durante l’ultimo E3 in cui era possibile provare la base della console e alcuni moduli, il tutto ancora in stadio di prototipo; lì hanno raccolto i primi feedback dei potenziali consumatori e in molti si sono lamentati dei lag durante l’emulazione dei giochi per PlayStation. Gli ingegneri hanno considerato attentamente l’opinione dei giocatori e così si è optato per ottimizzare l’hardware della console cambiando il vecchio processore FPGA quad core Rockchip RK3288 di 1.8Ghz che emula i sistemi in questione, un tipo di chip montato in console come l’Analogue NT o l’AVS; per spiegarlo in breve, le schede madre delle vecchie console non vengono ricreate da capo o in una maniera diversa per evitare questioni con le case produttrici originali, ma l’intero hardware viene emulato all’interno di un processore chiamato FPGA. Adesso, all’interno del modulo base, il chip in questione è stato sostituito da un più potente Intel CM8068403377713 dual core, il ché dovrebbe un fattore positivo (e che avrebbe probabilmente permesso l’emulazione per Sega Saturn) ma non è un chip specifico FPGA che permette l’emulazione ibrida dei sistemi sopracitati; per altro, questi chip dovrebbero essere inseriti all’interno di ogni modulo ma adesso il tutto grava sul nuovo chip montato all’interno della base. È possibile che il cambio del processore non gravi per nulla sull’emulazione dei sistemi e che i competenti sviluppatori in questione sanno quello che fanno (senza contare che un prototipo funzionante è apparso all’E3 e presentava solamente problemi per l’emulazione PlayStation) ma dalla riapertura del sito Playmoji non ha rilasciato nessuna dichiarazione ufficiale oltre all’articolo su Nintendolife e le domande degli appasionati alla ricerca dell’emulazione perfetta sono ancora senza una risposta ufficiale. Ad alcuni non interessa e sono certi, visto che il nuovo processore è più potente del precedente (e dunque semplicemente facendo 2 + 2), che il sistema possa essere addirittura migliorato ma ad altri sorgono altri dubbi, specialmente visto lo strano silenzio della compagnia dopo il rilascio dell’articolo e la riapertura del sito. Bisogna dire che la zona FAQ del sito è veramente esaustiva ma ancora molte domande necessitano di una risposta abbastanza tempestiva.
Vale ricordare inoltre, che il Polymega non è un kickstarter o un crowdfunding ma c’è un reward system dalla quale, in base alle prevendite, si raggiungeranno degli obbiettivi che permetteranno di creare nuove feature per gli acquirenti, come compatibilità espansa per il lettore CD e nuovi moduli; se l’obiettivo minimo di 500.000$ non verrà raggiunto le console verranno richiamate e rilanciate successivamente seguendo il feedback dei compratori ed è per questo che Playmoji, ora più che mai, deve garantire una buona comunicazione con chi sta per prendere in considerazione l’acquisto del sistema. Di certo non si tratta di una truffa come il Coleco Chameleon (tratteremo questo tema in futuro) in quanto il sistema è già stato mostrato funzionante all’E3 e le persone dietro al progetto sono davvero competenti ma le uniche domande che per ora gli appassionati si pongono sono: sarà un sistema all’altezza delle aspettative? Vale la pena comprare questo sistema al lancio? E se il lancio va male?

Aggiornamento del 13/09/2018

Proprio di recente, per fortuna, gli sviluppatori hanno dato prova della potenza del loro  sistema e tutto sembra essere tornato alla normalità. Sul loro canale YouTube sono apparsi ben tre video di gameplay di alcuni giochi per Sega Saturn, che si avviano dalla selezione dei titoli nel sistema operativo; con questa mossa gli sviluppatori hanno dimostrato che il processore è in grado di emulare perfettamente questa macchina problematica (visto che alcuni si sono lamentati del fatto che alcuni video di gameplay mostrati nel trailer di lancio appartenessero ad alcune controparti arcade) e perciò, se è in grado di emulare il Saturn, è fondamentalmente in grado di emulare tutto il resto. In breve, la console 32 bit di Sega era la prova del nove e Polymega l’ha superata. Il primo video mostra un gameplay variegato: vengono caricati Guardian Heroes, Sega Rally Championship, Panzer Dragoon Zwei, Fighting Vipers, Dungeons and Dragons Collection: Shadow Over Mystara (questo titolo è molto importante poiché richiede l’esclusiva cartuccia RAM da 4 Mb da inserire nel Saturn, dunque questa è la prova che è anche in grado di emulare questo hardware esterno) e House of the Dead (giocato col controller, visto che le lightgun dei tempi non funzionano più coi televisori nuovi). Il secondo e il terzo video mostrano un ulteriori gameplay di Sega Rally Championship e Fighting Vipers girare a 60 FPS, meglio di come potrebbe fare un Sega Saturn originale. In tutti i video, insieme al gameplay cristallino, viene inoltre mostrata la capacità di creare dei save state e ricominciare esattamente dal punto in cui si lascia l’azione, sottolineando dunque che la macchina estrae letteralmente l’immagine per poi emularla. A questo punto, tutti i peccati di Playmoji sono stati assolti ma rimane giusto qualche dubbio: l’ultima cosa che gli utenti vorrebbero solamente vedere, stando ai commenti sui video, è uno stream su Twitch/YouTube in cui mostrano gli sviluppatori giocare effettivamente con la Polymega, inserire qualche disco e vedere il sistema che estrae l’immagine, provare e scambiare qualche modulo, etc… Si spera dunque che gli sviluppatori diano ancora più prove a sostegno della versatilità di Polymega (anche se, in realtà, ne hanno date abbastanza all’ultimo E3) ma a ogni modo, finalmente, alla preoccupazione più grande, ovvero l’efficienza del nuovo chip, è stata data una risposta molto esaustiva.
Per le comunicazioni ufficiali da parte degli sviluppatori vi basterà seguirli sul loro canale YouTube e sulla loro pagina Facebook.

(video del gameplay variegato)

(Sega Rally Championship a 60 FPS)

(Fighting Vipers a 60 FPS)



Dusty Rooms: il Pippin e gli anni bui di Apple

Da tempo si discute riguardo la fisionomia della prossima generazione di console, su chi entrerà nello scenario videoludico e su chi invece potrebbe addirittura essere propenso a lasciare il mercato hardware in favore dello sviluppo software. Come abbiamo letto altrove, si starebbe concretizzando il progetto di una console da parte del colosso Google, fra i nomi più accreditati. In molti si chiedono come mai la Apple, rivale per antonomasia per quel che riguarda il mercato degli smartphone, non voglia gettarsi nella mischia; come accade dall’epoca in Steve Jobs rilanciò la compagnia da lui stesso co-fondata nel 1976, ogni prodotto della Mela, ancora oggi, riscuote sempre un grosso successo fra chi segue la compagnia dagli albori e i semplici curiosi e perciò una console da gioco sembrerebbe un passo logico. Apple, a quanto pare, non avrebbe la benché minima intenzione di buttarsi nel mercato del gaming e le ragioni sono due: la prima perché l’App Store abbonda già di giochi che, specialmente nel caso in cui ci sia dietro un grosso developer, girano molto bene su grossa parte dei dispositivi Apple, ovvero la linea di computer Macintosh, gli iPhone e gli iPad (nonchè i semi-dimenticati iPod); la seconda è semplicemente perché la nota compagnia californiana… ha già avuto la sua (pessima) esperienza nel gaming! Oggi, qui in questa nuova puntata di Dusty Rooms, vi porteremo nella epoca buia di Apple, gli anni di una compagnia confusa e senza il suo visionario leader. Che cosa è andato storto per il Pippin e come mai nessuno si ricorda di questa console?

Apple in alto mare

Già all’inizio degli anni ’90 era già possibile vedere le prime conseguenze dell’uscita di Steve Jobs con il valore sempre in calo delle azioni Apple. Quegli anni si aprirono con i rilasci delle linee di computer Quadra, Centris e Performa che, per via delle loro caratteristiche tra loro fin troppo simili, finirono per alienare consumatori e persino rivenditori (in quanto non sapevano quali “tasti” spingere per vendere questi prodotti) in favore dei più semplici computer IBM con i sistemi operativi Windows. Cominciò così una fase che potremo definire a oggi sperimentale: Apple non solo permise a terze parti di produrre sia software che cloni hardware su licenza ma, insieme ai computer, la compagnia californiana si concentrò su molti prodotti come il Newton, il fallimentare PDA touch screen pesantemente stroncato per via del suo pessimo riconoscimento calligrafico, macchine fotografiche digitali, lettori CD e, ben presto, anche console da gioco.

Il vero scopo del Pippin, la cui parola rimanda a una particolare tipologia di mela, era offrire un hardware computeristico in forma di console in grado sia di navigare in internet che di leggere software interattivi come videogiochi o enciclopedie multimediali. Così come accadeva per i loro PC durante quel periodo, Apple avrebbe permesso a chiunque volesse produrre la loro console di differenziare la propria versione con caratteristiche uniche (sempre rispettando gli standard della scheda madre e del look da loro forniti). La prima forma di questa console apparve nel 1994 come Pippin Power Player, che non fu mai venduta al pubblico; questo modello venne usato solamente per attrarre gli investitori nelle fiere e nelle conferenze coi media. Ben presto la Bandai si interessò al progetto e fu normale aspettarsi una sua buona riuscita; non solo erano responsabili della produzione delle linee di giocattoli di Sailor Moon, Gundam, Dragon Ball e Power Rangers che spopolavano in tutto il mondo, ma avevano già un’ottima esperienza nel mondo videoludico grazie alla distribuzione dell’Emerson Arcadia 2001 negli anni ’80, alla produzione delle loro pong console, il controller Family Fun Fitness per il NES (che fu in seguito comprato da Nintendo e riconfezionato come Power Pad) e ovviamente dei diversi software per questa console. Bandai usciva dalla disastrosa esperienza del Playdia (che probabilmente tratteremo più in là) e Yamashina Makoto, l’allora presidente e figlio del fondatore Yamashina Naoharu, vide nel Pippin un buon progetto per potersi rilanciare nel mondo dei videogiochi; avrebbero fornito ai consumatori sia una buona console di gioco e una versione low cost di un computer Apple. Gli accordi erano i seguenti: Apple si sarebbe occupata di progettare il look, la scheda madre e i software mentre a Bandai erano affidate la produzione, la distribuzione, il marketing e qualsiasi altra cosa al di fuori delle mansioni affidate alla compagnia americana. Tuttavia Bandai, fiutando un fallimento semi-assicurato viste le presentazioni di Sony PlayStation, Sega Saturn e Nintendo 64 che sarebbero uscite a breve, decise di spartirsi il fardello della produzione fisica della console con Mitsubishi e ciò fece decollare i prezzi di lancio; il Pippin Atworld uscì nel 1996 con il folle prezzo di 599 $ negli Stati Uniti (che includeva un abbonamento ad internet con PSINet per 6 mesi, per un valore totale di 150 $) e 64.800 Yen in Giappone (dove si chiamava Bandai Pippin Atmark), escludendo automaticamente sia quella fascia di mercato che già aveva preso in considerazione l’acquisto di una delle tre console 32-bit e sia quelli che volevano semplicemente comprare un computer Apple, la cui domanda era già scarsa di suo. Nonostante il prezzo spropositato, Bandai sperava che il Pippin Atmark vendesse almeno 200.000 unità in Giappone e 300.000 negli Stati Uniti ma, per via del successo spropositato di PlayStation, riuscì a vedere solamente 42.000 unità totali. Ad ogni modo, sempre nel 1996, Apple riuscì a concludere un nuovo accordo con la compagnia norvegese Katz Media, che avrebbe prodotto il Pippin per il mercato canadese ed europeo; al progetto si unì anche Bandai che avrebbe prodotto l’hardware e il Pippin KMP2000 fu venduto principalmente agli hotel, per permettere l’accesso a internet ai turisti nelle camere d’albergo, e alle catene di negozi Redwall per la creazioni di dei chioschi interattivi. L’esperienza di Katz Media, rispetto a Bandai, andò molto meglio ma il ritorno di Steve Jobs alla Apple nel 1997 decretò definitivamente la fine del Pippin e il supporto per i cloni Apple; nel 1998 i rimanenti Pippin furono venduti alla Daystar Digital che li vendettero a quei pochi interessati fino a esaurimento scorte.

Navighiamo nell’internetto!

Bisogna riconoscere che la console Apple era molto solida e all’avanguardia per i tempi: il Pippin, costruito intorno al processore PowerPC 603 di 66 MHz, includeva un lettore floppy, modem ed era possibile connettere una tastiera con un tablet da disegno, le stampanti Color Style Writer 2400 e 2500 ed era possibile attaccarlo a un computer Apple tramite un apposito cavo. Il retro della console ci mostra che era possibile collegarlo alla tv tramite i normali cavi RCA, S-Video e persino tramite VGA, all’epoca il massimo della risoluzione; inoltre, sempre dal retro – e questa è una feature che i collezionisti desidererebbero in ogni console retro – era possibile cambiare la codifica del video da 60 a 50Hz rendendola dunque una console region-free a tutti gli effetti. Il controller aveva una strana forma a banana (molto simile, se ci pensate, al controller presentato con la PlayStation 3) ma i consumatori non lo trovarono scomodissimo: insieme alla croce direzionale c’erano quattro tasti frontali, due dorsali, tre tasti per richiamare i menù e un controller a sfera (più propriamente una trackball) che avrebbe letteralmente sostituito il mouse. Ogni gioco per Pippin includeva al suo interno una versione del sistema operativo Mac e questo sarebbe servito sia a proteggere la console dalla pirateria che per fornire agli utenti una versione di Mac Os sempre più aggiornata; questo significava che Apple avrebbe potuto aggiornare il sistema operativo senza necessariamente dover ritirare l’hardware ma questo significava anche che, una volta terminata la produzione software, non sarebbe più stato possibile aggiornarlo.
Ad ogni modo, con un solo anno di attività, il sistema operativo non arrivò oltre la versione 7.5.2 e, inutile a dirlo, i giochi rilasciati furono veramente pochi (circa 80). Purtroppo non esistono dei grandi giochi su Pippin e, così come per 3DO, quei pochi titoli validi sono presenti altrove. Tuttavia, vale ricordare che una delle poche compagnie che credette fortemente nel progetto fu Bungie, la stessa che ha regalato al mondo la serie di Halo e Destiny 2; è possibile infatti trovare su Pippin delle ottime versioni di Marathon e Marathon 2 ma giocarli lì è un impresa ardua in quanto le console Bandai e Katz Media sono molto rare e perciò costano moltissimo su Ebay. A quanto pare non esiste neppure un emulatore per le console Pippin, dunque comprare l’hardware fisico è l’unico modo per godere del poco interessante parco titoli di questa console. A ogni modo, sul sito ufficiale Apple esiste ancora una pagina FAQ dedicata al Pippin in cui si trova tutto ciò che c’è da sapere sulla console! Questo sì che si chiama supporto!

(Un video dell’utente YouTube Applemctom che mostra una buona manciata di titoli Pippin)



Dusty Rooms: qualcuno sa cos’è il Nuon?

Abbiamo già trattato su Dusty Rooms alcune delle console più strane o sottovalutate e che – certamente – non sono rimaste nella mente dei giocatori (o lo sono rimaste per i motivi sbagliati). Oggi, non sappiamo dirvi se ciò di cui stiamo parlando è effettivamente una console, ed è anche per questo che nessuno ne ha memoria. Il Nuon, sviluppato da VM Labs di Richard Miller, non era propriamente una console ma bensì una tecnologia costruita all’interno di alcuni lettori DVD per leggere una serie di  giochi 128-bit e, con alcuni film, avrebbe permesso l’accesso a menù esclusivi. Questo esperimento durò pochissimo, tanto è vero che il Nuon non appare mai nelle liste delle peggiori console mai costruite. Ma come mai i giocatori non ne sentirono mai parlare e, soprattutto, di cosa si trattava?

(La tecnologia Nuon fu presentata al mondo come “Project X”)

Contenuti ancora più speciali

La VM Labs, come già accennato, era stata fondata da Richard Miller, che a un certo punto fu vicepresidente di Atari, e con lui, dopo l’esperienza nella leggendaria compagnia americana, si portò dietro diverse persone che lavorarono al Jaguar. Come per il 3DO, la tecnologia del Nuon sarebbe stata venduta a terze parti per far sì che potesse essere prodotta e commercializzata. Davvero un bel quadretto! Le stesse persone che portarono alla luce il fallimentare Atari Jaguar, seguivano le stesse orme che portarono Trip Hawkins all’insuccesso. A primo acchito sembrava che VM Labs non aveva idea di ciò che stesse facendo ma per i tempi che stavano per arrivare era una mossa interessante poiché, anche se le compagnie produttrici di hardware non avrebbero guadagnato nulla dalla vendita dei giochi, la tecnologia proposta non era per niente proibitiva e, probabilmente, era il momento giusto.
La tecnologia Nuon fu ceduta a Samsung, Toshiba e RCA e messa all’interno di alcuni lettori DVD, formato che nei primi anni 2000 era pronto a esplodere; era più o meno la stessa mossa che fece Sony per la sua PlayStation 2, ovvero offrire una console ai giocatori e un lettore DVD a coloro che erano interessati soltanto al nuovo formato, con l’incentivo però di ulteriori menù extra accessibili solo dai lettori Nuon. Tuttavia, i menù esclusivi non erano nulla di ché infatti, non solo quello che venne proposto fu raggiunto in poco tempo da tutti i lettori DVD concorrenti, come lo zoom durante l’azione, lo storyboard interattivo e la selezione dei capitoli con anteprime in movimento, ma vennero prodotti solo quattro film con le migliorie Nuon: questi sono Le Avventure di Buckaroo Banzai nella Quarta Dimensione, Indiavolato, Il Dottor Dolittle 2 e Il Pianeta delle Scimmie di Tim Burton. Già nei primi 2000, nonostante il formato DVD fosse nuovo di zecca, il blu-ray era già in fase di sviluppo e dunque nessuno si volle concentrare su una sorta di DVD+ che ben presto si sarebbe rivelato obsoleto e non avrebbe offerto nulla sul piano dell’innovazione; pertanto la 20th Century Fox, che fu l’unica a interessarsi alla tecnologia, non si scomodò più di tanto per far sì che il Nuon spiccasse nel mercato e dunque rilasciò solamente quattro film per niente eccezionali (diciamo che un X-Men o un Fight Club avrebbe potuto attrarre giusto qualche curioso in più). Perciò, sia gli spettatori più casual che quelli più esigenti, avrebbero lasciato perdere questa nuova tecnologia per i propri film. Tuttavia, cosa proponeva la console in termini di gaming?

TKO!

Questa macchina, letteralmente a metà fra una console di gioco e un lettore DVD, sarebbe entrata in competizione con PlayStation e prestissimo con PlayStation 2 e dunque aspettarsi una bella line-up di titoli era più che giustificato; in ogni caso, al di là del fatto che addirittura alcuni Nuon non avrebbero avuto un lettore di giochi, furono rilasciati solamente otto titoli dal 2000 al 2003, anno in cui la produzione venne interrotta. Molti molti di essi erano disponibili anche per PlayStation e le vere esclusive non furono nulla di speciale:

  • Space Invaders XL: da come ci si può aspettare, non era altro che una riproposizione del popolare titolo arcade, giusto con qualche ghirigori e qualche modalità in più; un gran titolo per mostrare le capacità 128-bit del Nuon!
  • Crayon Shin-Chan: basato sull’adorabile omonimo manga, finì praticamente per diventare il gioco più raro e criptato al mondo! Questo gioco uscì esclusivamente in Corea del Sud e perciò, per via del region locking (che è più severo per ciò che riguarda i DVD), è possibile giocare a questo titolo esclusivamente con un Nuon sudcoreano… di marca Samsung!
  • Merlin Racing: un titolo a metà fra Mario Kart 64 e Diddy Kong Racing e, come quest’ultimo, ha una modalità storia. Nulla di ciò che ci viene presentato è degno di nota: personaggi per niente interessanti, gameplay disastroso (massimizzato dal terribile controlle per Nuon) e mediocrità generale.
  • Freefall 3050: un virus ha infettato il mare e perciò la civiltà si è trasferita in degli edifici fluttuanti. Nonostante il trasferimento delle città nel cielo, il crimine continua a dilagare e perciò gli agenti di polizia agiscono saltando degli edifici nel vuoto sparando ai criminali in volo. Il gameplay è molto arcade e le sezioni d’azione terminano in poco tempo; tuttavia, un po’ come per il gioco di Shin-Chan, questo titolo non è compatibile con tutti i controller Nuon e dunque per giocarci dovrete ritrovarvi  con quello adatto.
  • Tempest 3000: così come Tempest 2000 (a sua volta sequel del classico arcade Tempest) finì per diventare il titolo più popolare per Atari Jaguar, il suo sequel finì per diventare il titolo più interessante nella libreria Nuon (interessante è anche il fatto che lo svilupparono le stesse persone). Il gameplay rimase pressappoco lo stesso del gioco precedente: azione frenetica, addicting e accompagnata da della musica techno eccezionale. Nonostante dei lievi rallentamenti, Tempest 3000 potrebbe seriamente rappresentare l’unico motivo per comprare un lettore DVD Nuon.
  • Iron Soldier 3: un altro sequel di una serie di giochi per Atari Jaguar. Anche questo titolo presenta un gameplay interessante e valido; tuttavia è anche disponibile per PlayStation perciò, semplicemente, non vale la pena giocarlo qui.
  • The Next Tetris: una versione del popolare gioco russo che si concentra sulla modalità cascata. Anche questo disponibile per PlayStation, PC e Sega Dreamcast.
  • Ballistic: il titolo in bundle con i modelli Samsung. Il gioco presenta un gameplay simile ad Actionloop o Zuma (noi, un po’ di tempo fa, abbiamo messo le mani su Sparkle 2, gioco molto simile); ancora nulla di che per una console a 128-bit e, ancora una volta, disponibile anche su PlayStation e Game Boy Color.
(Tutti i giochi sopracitati in un montaggio video dell’utente YouTube Applemctom)

Si o Nuon?

Comprare un lettore Nuon, viste le sue limitazioni coi controller e con la compatibilità dei giochi stessi, comporta un rischio anche se non troppo grande (visti i prezzi abbordabili). È possibile trovarne alcuni sullo store americano di Amazon, ma andare alla ricerca dei giochi, ovviamente, è un altra ardua impresa; se siete interessanti vi consigliamo inoltre, se andrete per qualche mercatino dell’usato, di controllare bene i lettori DVD in vendita in quanto alcuni potrebbero inaspettatamente presentare il marchio Nuon e i proprietari, essendo le sue caratteristiche così criptiche, probabilmente non hanno idea del loro utilizzo (si stima infatti che molti dei lettori venduti siano stati comprati senza avere una chiara idea delle sue capacità). Tuttavia esistono dei siti dedicati al Nuon ed è possibile riscoprire questi otto titoli con un emulatore. Come per i computer MSX, eticamente, non arrechiamo nessun danno a nessun developer o produttore in quanto nessuno di questi titoli è reperibile per un sistema recente né nuoceremo alla VM Labs che, dopo Nuon, sembra sia scomparsa nel nulla.




Dusty Rooms: la tragedia di Sonic X-Treme

Oggi il Sega Saturn è decisamente una delle console più gettonate fra i retrogamer e sta vivendo una seconda vita grazie a internet e alla condivisione di informazioni riguardanti tutti quei giochi oscurati dalle più popolari Sony PlayStation e Nintendo 64, molti dei quali mai arrivati dal Giappone. Tuttavia, in molti concordano nel dire che uno dei più grandi fattori che ha sancito il fallimento di quest console, insieme ad altri fattori riguardanti il complesso hardware e le pubblicità poco convincenti, è stato quello di non avere un titolo dedicato a Sonic, la mascotte che riuscì a dar filo da torcere a Mario e Nintendo. Nel Sega Saturn è possibile trovare Sonic Jam, una compilation contenente i quattro titoli per Sega Mega Drive ottimizzati per la nuova macchina, Sonic 3D Blast, essenzialmente un porting del titolo per la precedente console 16-bit, e Sonic R, un discutibile gioco di corse (senza veicoli) con i personaggi della saga; nessuno di questi titoli fu mai posto come principale della saga da lanciare, se non altro, contro Super Mario 64 e il nuovo Crash Bandicoot. Poteva mai Sega pensare di lanciare la sua nuova console senza un gioco di Sonic? Ovviamente no. Sonic X-treme sarebbe dovuto diventare non solo il nuovo titolo principale del porcospino blu ma anche la killer-app che avrebbe lanciato il Saturn una volta per tutte, ma purtroppo il gioco non uscì mai. Ma come mai Sega cancellò un progetto così grande e perché la loro console 32-bit rimase senza un gioco dell’iconico porcospino?

Verso il 3D

La storia di Sonic X-Treme comincia nel 1993: Sonic è in capo al mondo con ben tre titoli principali (Sonic the Hedgehog, il suo sequel e Sonic CD), altri due giganteschi titoli in uscita (Sonic the Hedgehog 3 e Sonic & Knuckles) e un’infinità di spin-off su Mega Drive, Master System e Game Gear. Yuji Naka, ideatore del personaggio, e Hayao Nakayama, presidente di Sega in quel periodo, chiamarono il Sega Technical Institute, lo studio di Sega negli Stati Uniti che si occupò della saga dopo il primo capitolo insieme al Sonic Team, chiedendo un nuovo rivoluzionario titolo del porcospino blu basato sulla serie a cartoni animati della ABC per una nuova console Sega (che ai tempi non aveva chiaro quale sistema, fra 32X e Sega Saturn, lanciare). Lo studio americano non aveva idea di cosa proporre in Giappone, soprattutto per il mancato sviluppo di Sonic & Knuckles. Sega Technical Institute si divise letteralmente in due: una parte rimase negli Stati Uniti per completare l’ultimo titolo 2D di Sonic per Sega Mega Drive mentre l’altra andò in Giappone per proporre nuove idee per un titolo principale. Furono proposte 3 idee:

  • Sonic 16: titolo 2D e proponeva un insolito gameplay basato sullo stealth. Un gioco decisamente interessante, ma nulla a che vedere con il velocissimo gameplay dei giochi precedenti e perciò venne scartato. A ogni modo, molte parti della sceneggiatura, apparse su internet più tardi, vennero prese come spunto per essere utilizzate più in là con il progetto di Sonic X-treme.
  • Isometric Game: al di là di non avere neanche un vero nome, questo progetto non superò mai lo stadio concettuale e non venne presentato alcun gameplay. Di questo progetto ne presero gli asset, alcuni anni più tardi, per Sonic 3D Blast ma quel sistema di gioco, un po’ sperimentale, non poteva mai andare oltre lo stato di spin-off.
  • Sonic Mars: fra i tre progetti questo era considerato il più valido in quanto era concepito totalmente in 3D e sul 32X ma Yuji Naka, anche se approvò il progetto, non era totalmente impressionato da ciò che vide. Fu l’unico progetto a passare allo sviluppo ma alcune dispute interne, insieme all’insuccesso dell’ultimo add-on per Mega Drive, portarono all’abbandono del capo programmatore e al momentaneo alt generale. Chris Senn, che lavorò all’eccellente Comix Zone, fu messo a capo del progetto: scartò il tema del cartoon ABC e interruppe un’altra volta lo sviluppo in attesa che Sega definisse meglio il successore del Mega Drive. Come i precedenti 3 progetti, anche questo, fu cancellato.

Malgrado tutto, Sonic Mars mise il team di sviluppo sul giusto binario, ovvero sul Sega Saturn, e un nuovo definitivo progetto fu avviato… e ancora una volta cancellato! Sonic Saturn non uscì mai dallo sviluppo né fu mai annunciato ufficialmente ma alcuni concept art e immagini dei prototipi confermarono la grafica 3D, l’idea per un bonus stage che fu usato, più in là, per Sonic 3D Blast e uno stile molto realistico e un po’ più serioso dei precedenti titoli (i fan si accorsero inoltre che alcune piastrelle dei pavimenti furono usate più tardi per Sonic R). A questo punto, per l’ennesima volta, il Sega Technological Institute dovette non solo ricominciare da capo ma dividersi ulteriormente: un primo team capitanato da Chris Senn e Ofer Alon (che chiameremo più in la “Team-A“) avrebbe sviluppato i livelli mentre un secondo capitanato da Chris Coffin (che chiameremo “Team-B“) avrebbe sviluppato gli scontri contro i boss, utilizzando un motore preesistente per 32X, ed entrambi sarebbero stati supervisionati da Mike Wallis. Finalmente esisteva un assetto definito per poter sviluppare il titolo definitivo di Sonic per Sega Saturn ma questo schema, prima o poi, si sarebbe rivelato poco efficace.

(La demo di Sonic Mars su 32X)

Uno sviluppo faticoso

Quello che si creò dalla divisione in due team… furono ulteriori divisioni! All’interno dei gruppi di lavoro si crearono altri piccoli sottogruppi e mantenere una comunicazione costante fra i due team era molto difficile per il numero generale dei dipendenti e le suddivisioni; nonostante tutto, entrambi i team stavano facendo un bel lavoro e i primi risultati stavano venendo fuori. Il Team-A aveva sviluppato un motore su un computer Mac che animava i personaggi, resi con un 3D prerenderizzato simile a Donkey Kong Country, e produceva una prospettiva “fish eye” (in italiano diremo a grandangolo) che davano ai livelli una rotondità mai vista prima (che avremmo visto molto più tardi in giochi come Super Mario Galaxy). L’ambiente girava intorno a Sonic e questa sarebbe stata la caratteristica chiave del nuovo titolo Sega. A un certo punto dello sviluppo sarebbero stati introdotti dei livelli specifici per altri personaggi: Knuckles sarebbe stato protagonista di alcuni livelli con una prospettiva top-down (simili a quelli di Contra 3: the Alien Wars), Tails avrebbe affrontato dei livelli simili a quelli che sarebbero stati i suoi in Sonic Adventures per Dreamcast e per Tiara, un nuovo personaggio femmina introdotto in Sonic Mars, stavano programmando dei livelli classici in 2D. Il motore grafico, prima prodotto su Mac e poi utilizzato su Windows, restituiva un azione fluidissima su computer ma i programmatori sopravvalutarono le capacità del Saturn; il prototipo, a detta dei programmatori che ci lavorarono, girava fra i 3 e i 4 FPS sulla console e perciò dovettero ricorrere a un aiuto.
A questo punto il Team-A aveva bisogno di supporto e fu così che coinvolse la casa produttrice Point of View. La nuova compagnia propose al team un loro motore mostrando l’immagine di un Sonic poligonale sopra una superfice a scacchi e una sfera in aria; Chris Senn non fu totalmente impressionato dalla loro tecnologia e non aveva intenzione di scartare il motore alla quale aveva lavorato tanto perciò lasciarono perdere la loro offerta. Tuttavia, su consiglio di Ofer Olan, la Point of View fu coinvolta nel progetto preesistente per migliorare il motore del Team-A e farlo funzionare meglio su Saturn e così, da una costola del suddetto team, si formò un Team-C capitanato da Chris Senn (uscendo definitivamente dal suo team originale).

(Il motore dei livelli del Team-A e Team-C)

L’ira dal Sol Levante

Nel Marzo del 1996 Hayao Nakayama programmò un volo per gli Stati Uniti per controllare il lavoro del Sega Technical Institute. Il Team-C, malgrado tutto, riuscì a ottimizzare il motore per il Saturn, lavorando giorno e notte fino all’arrivo del presidente di Sega. Chris Senn e Ofer Alon si diressero al meeting per trovare un Nakayama furioso che camminava verso il senso opposto; stupiti dalla reazione del presidente capirono che il meeting era già avvenuto e il Team-A aveva presentato una versione vecchissima del loro lavoro, una di quelle che girava fra i 3 e i 4 FPS. Tuttavia, Nakayama fu soddisfatto dal lavoro del Team-B, e decise che il gioco doveva essere sviluppato tramite quel motore (che non aveva la caratteristica chiave del motore del Team-A poiché basato sulle boss fight); Chris Senn e Ofer Alon tentarono in tutti i modi di mostrare al presidente la versione più recente del loro lavoro ma egli aveva già lasciato l’edificio mettendo così un punto definitivo al lavoro del Team-A e Team-C sollevando allo stesso tempo i due programmatori e Point of View dai loro incarichi.
Il progetto si avviò verso una fase più definitiva: il Team-B, il cui capo Chris Coffin sarebbe diventato il nuovo lead programmer, avrebbe condotto il resto del progetto (che assunse la nuova denominazione “Project Condor“) e questo sarebbe dovuto essere pronto per Natale, in tempo per competere contro Super Mario 64 e Crash Bandicoot. A questo punto della storia c’è un evento che coinvolge il motore grafico di Nights into Dreams… ma non si sa esattamente cosa sia successo; tutti i fatti riguardanti questo progetto sono state fornite da Chris Senn nel suo sito Sonic X-treme Compendium (oggi offline) ma da questo punto in poi egli non è più presente e perciò il prossimo evento è un po’ avvolto nel mistero. Essendo stata fissata una data per Natale, il Team-B aveva bisogno immediatamente di mezzi per completare il loro gioco. Avrebbero chiesto dal Giappone il motore per Nights into Dreams… ma, apparentemente, senza alcun permesso da parte di Yuji Naka che sviluppò il popolare gioco per Saturn; il noto creatore di Sonic bloccò immediatamente i lavori mettendo un punto ai progressi fatti col suo motore grafico. Si dice anche che il motore di Nights non fu mai utilizzato in sé ma bensì plagiato, scatenando ugualmente l’ira di Yuji Naka. A ogni modo, di tutte le versioni, questa è l’unica versione trapelata su internet e, a oggi, è possibile scaricare l’immagine per poterla provare sul proprio Sega Saturn o su un emulatore. La iso è giusto una sorta di tech demo e perciò si può giusto correre per delle collinette, attraverso un fiume, collezionare una cinquantina di anelli e non c’è alcun nemico.

(La tech demo giocabile, realizzata col presunto motore di Nights into Dreams…)

La fine

Project Condor, ancora una volta, dovette ripartire da zero. Erano solamente rimasti alcuni modelli di grafica 3D e Chris Coffin doveva immediatamente fare qualcosa. Lavorò giorno e notte insieme al veterano della saga Hirokazu Yasuhara per poter arrivare alla scadenza e il gioco, arrivati a questo punto, assunse una grafica puramente 3D e cominciava a prendere una forma deliziosa; sfortunatamente, proprio per l’assiduo impegno che stava dedicando al progetto, si beccò una grave polmonite ad Agosto e i dottori dissero che se avesse continuato sarebbe potuto persino morire. Chris Coffin dovette annunciare a Mike Wallace che il gioco non sarebbe stato pronto per il tempo stabilito e così il progetto fu cancellato definitivamente. Sega, in vista del Natale del 1996, decise di fare un porting di Sonic 3D Blast per Mega Drive e Nights into Dreams… divenne il titolo più venduto per Saturn. Chris Senn tentò di salvare il progetto chiedendo a Sega di poter continuare lo sviluppo per un rilascio su PC ma le sue richieste non furono ascoltate. Più in là, vedendo un interesse dei fan riguardo a Sonic X-Treme, annunciò Project-S, un gioco indipendente ispirato a ciò che sarebbe stato questo gioco ma purtroppo cancellò il tutto nel 2010.

(La fase finale del progetto)

Cosa rimane

Finita l’esperienza di Sonic X-Treme, il Sonic Team si potè concentrare su Sonic Adventure per la futura Dreamcast. La lezione era stata imparata e il nuovo titolo Sega uscì senza problemi dovuti alla comunicazione o alla programmazione. Tuttavia, nel 2010, venne rilasciato Sonic Lost World per Nintendo Wii U, 3DS e Windows, titolo non scelto a caso poiché, appunto, presenta dei mondi rotoscopici e sferici proprio come il gioco che non uscì mai (appunto “Lost World“). Non sapremo mai come sarebbe stato Sonic X-Treme ma vorremo comunque porre una domanda: avrebbe potuto questo titolo salvare il Sega Saturn? La concorrenza era spietata e sia Crash Bandicoot che Super Mario 64 erano giochi incredibilmente belli; per poter mettere il Saturn in un piano di rilevanza Sega avrebbe dovuto mettere un gioco competitivo e, vista la programmazione frammentaria, probabilmente Sonic X-Treme sarebbe stato pieno di difetti e troppo differenziato. Bisogna anche ammettere che la mancata uscita di questo titolo ha permesso però a Saturn, molti anni dopo, di spiccare come console da collezione: grazie alla mancanza di un vero gioco di Sonic, molti Developer (interni ed esterni) hanno provato a far spiccare la loro IP per dare alla console Sega un identità diversa dalla competizione e dunque oggi abbiamo una libreria di giochi con una varietà impressionante. Solo su Saturn possiamo trovare Nights into Dreams…, Panzer Dragoon Saga, Virtua Fighter 2, Fighters Megamix, Guardian Heroes, Radiant Silvergun e molti altri. Sotto questo aspetto la mancata uscita di Sonic X-Treme potrebbe persino rappresentare un bene per la console ma è ovvio che la cancellazione del progetto non ha potuto dare all’hardware un vero volto per coloro che volevano saperne di più sulla console. Chissà se almeno, verso la fine, il gioco sarebbe stato davvero all’altezza della competizione; purtroppo non lo sapremo mai.




Dusty Rooms: la triste storia del 3DO

Verso la metà degli anni ’90 i nomi che componevano la scena videoludica erano ben di più di delle semplici Microsoft, Sony e Nintendo (se è per questo la prima non c’era proprio). Al di là delle leggendarie Sega e Atari, di tanto in tanto entrava qualche nome che provava a sfondare nel mercato videoludico ma non sempre lasciava un’impronta decisiva: gli arrivi degli hardware Casio, Philips o Apple (eh sì… un giorno ne parleremo) fecero storcere il naso a molti giocatori – tanto è vero che come arrivavano dal nulla, svanivano nel nulla ­– ma nel 1993 una console ebbe la possibilità d’inserirsi nel mercato, piantare radici e, chissà, a oggi poter essere ancora presente. Tutto cominciò quando Trip Hawkins, fondatore di Electronic Arts, si incontrò nel 1989 con Dave Needle e R.J Mical, designer dei computer Amiga e Atari Lynx, per creare una console in grado di imporsi nel mercato, dettare gli standard per le generazioni a venire e che il pubblico, sempre più interessato alla grafica poligonale, avrebbe apprezzato. L’esperienza del fondatore di EA, trascorsa a produrre giochi per console e PC dell’epoca, unita all’abilità di due designer che portarono alla nascita di due potentissime macchine da gioco, avrebbe dovuto essere una garanzia per una console spettacolare; fu così che da un tovagliolo di un ristorante nacque il progetto del 3DO, macchina che di lì a poco sarebbe diventata realtà.

(Trip Hawkins)

Un modello rivoluzionario?

3DO Company, fondata principalmente per sviluppare l’hardware, presentò la nuova console nel Computer Electronics Show del 1992 richiamando non poca attenzione da parte di fan, critici e persino stampa nazionale essendo stato discusso nella sezioni business del New York Times e Chicago Tribune. La console, il cui supporto ottico erano i compact disc, aveva un processore a 32-bit che girava a 12.5 MHz, in grado di garantire ben 20.000 poligoni dotati di texture, un’ottima risoluzione di 640×480, supportato anche dal segnale S-Video proprietario, e un chip sonoro in grado di campionare le tracce audio a 44.1 KHz; il controller, che ricalcava lo stile e il design di quello del Sega Mega Drive, includeva 5 tasti, un jack per gli auricolari e la seconda porta per i giochi multiplayer (in grado da poter collegare un numero indefinito di controller alla console… altro che conga!). Trip Hawkins era ambizioso e perciò aveva offerto ai developer un accordo imbattibile, ovvero il pagamento di soli tre dollari di royalty a 3DO Company per ogni gioco venduto, molto più competitivo rispetto alla concorrenza Nintendo (15$) e Sega (13$). Più di trecento developer firmarono per produrre su questa nuova potentissima macchina, anche se non tutti rispettarono il loro accordo. Sul fronte hardware invece la compagnia avrebbe ceduto le specifiche tecniche a terze parti affinché queste, con i loro mezzi, producessero la loro versione del 3DO. Pertanto, Trip Hawkins si rivolse alle maggiori compagnie giapponesi sia per produrre una console con componenti di qualità, che per sfruttare l’ottima reputazione di quest’ultime. I suoi obiettivi principali erano Sony e Panasonic ma riuscì solamente a firmare con la seconda (in quando la prima stava già lavorando al progetto PlayStation) anche se in compenso riuscì anche a coinvolgere Sanyo e Goldstar (che sarebbe divenuta più tardi LG). Nell’Ottobre 1993 il primo modello di 3DO, il Panasonic FZ-1 (ed è per questo che spesso l’intera console è spesso attribuita a questa compagnia), fu rilasciato al pubblico in bundle con Crash ‘n Burn, il primo gioco di Crystal Dynamics, e stando alle previsioni di Trip Hawkins avrebbe dovuto stravolgere il landscape videoludico grazie alla sua spaventosa potenza; tuttavia i problemi cominciarono dal day one.

Badaboom!

Il 3DO fu promosso in televisione e nelle riviste con pubblicità competitive e “toste”, similarmente alla competizione nel mercato e pertanto, puntavano allo stesso target demografico di Super Nintendo e Sega Mega Drive. Tuttavia, sebbene la libreria di giochi fosse abbastanza valida, il prezzo di 699,99 dollari era ben fuori dalla loro portata. Il motivo di questo sovrapprezzo era dovuto principalmente al coinvolgimento delle compagnie produttrici di hardware: Panasonic, Sanyo e Goldstar non avrebbero ricevuto nulla dalla vendita dei giochi e perciò dovettero gonfiare il prezzo affinché potessero ottenere dei profitti da questo progetto. Ci furono inoltre problemi di reperibilità hardware e software: Crash ‘n Burn finì per essere l’unico gioco disponibile al lancio della console per via del fatto che l’hardware finale è stato cambiato fino all’ultimo momento e perciò, i developer che avevano promesso delle uscite per lancio, non poterono testare i loro titoli rimandando così l’uscita a data da destinarsi. Per via dei cambi all’ultimo minuto, inoltre, si potevano spiegare anche le poche unità presenti nelle maggiori catene di negozi di elettronica; vennero distribuite circa due unità per negozio alienando così quei già pochi che potevano permettersela. A tutto questo si dovette aggiungere anche l’annuncio di Sony PlayStation, Sega Saturn, Nintendo 64 e Atari Jaguar, che sarebbe uscita un mese dopo il 3DO; anche se nessuna di queste console sarebbe stata reperibile in tempi brevi, i giocatori già in possesso delle console 16-bit erano più propensi ad aspettare e, semplicemente, lasciar perdere questa nuova costosa macchina che ben presto si sarebbe rivelata obsoleta.
Già nel 1994 il 3DO era in pericolo e perciò dovevano essere presi dei provvedimenti: ispirato dalle compagnie già esistenti, Trip Hawkins decise di contrattare con Panasonic per vendere le console in perdita recuperando così con la vendita dei giochi. Il prezzo passò da 699 a 499 dollari e più tardi, sempre nel 1994, Goldstar vendette la sua versione del 3DO per 399, che era per altro il prezzo di lancio del Sega Saturn. Nonostante questi saggi cambiamenti e una libreria di giochi rispettabilissima, verso la fine del 1994 3DO Company rimaneva a galla per miracolo e le loro azioni in borsa crollarono da 37 a 23 dollari a Dicembre. Il 1995 si aprì abbastanza bene per 3DO Company in quanto riuscirono a registrare delle buone entrate (anche se ancora non bastavano per coprire tutti i costi finora sostenuti) e videro il rilascio di alcuni dei suoi migliori giochi ma il periodo di rinascita cessò ben presto: Sega annunciò e rilasciò il Saturn nel Maggio del 1995 per 399 dollari e più tardi, a Settembre, Sony rilasciò la PlayStation all’imbattibile prezzo di 299. Questo fatale 1-2 segnò praticamente la fine del 3DO, sia in termini di competitività hardware che software in quanto molte delle loro migliori uscite finirono poco dopo su PlayStation e Saturn. Electronic Arts, che era il developer di bandiera del sistema, decise di abbandonare il progetto di Trip Hawkins definitivamente e così, deluso dalla decisione della sua stessa azienda, la abbandonò fondando 3DO Studio per poter produrre nuovi giochi di qualità per la sua console e per quella successiva. Nel 1996 infatti, venne annunciato un successore del 3DO chiamato M2: la console sarebbe stata prodotta esclusivamente da Matstushita e fu proprio con l’annuncio del nuovo hardware che la 3DO Company registrò il suo primo profitto di 1.2 milioni di dollari. Tuttavia la competizione era spietata e PlayStation dominò per tutto il 1996; a questo punto, nel 1997, non rimase altro che chiudere la divisione hardware e concentrarsi esclusivamente come software house per le altre console, fino alla bancarotta di 3DO Company nel 2003. Trip Hawkins, nonostante avesse perso la partita, fondò Digital Chocolate, compagnia tuttora attiva sotto il dominio della RockYou, che ha prodotto diversi giochi per mobile e Facebook; abbandonata la presidenza nel 2012 a oggi è professore di pratica nel corso di “technology managment” dell’università di Santa Barbara in California.

L’impatto del 3DO

Cosa rimane oggi del 3DO? Fare una top ten dei migliori giochi di questa console, come abbiamo fatto per il precedente Dusty Rooms, è un po’ inutile in quanto molti di essi sono apparsi su altre console e le vere esclusive, non sono proprio fantastiche. Il 3DO è stata la casa di bellissimi porting da PC, come Alone in the Dark, Myst e Lemmings, alcuni arcade, come Samurai Showdown e il porting definitivo di Super Street Fighter II Turbo, e altri titoli originali che sono apparsi poi sulle altre console dell’epoca e PC come Return Fire, The Need for Speed e Killing Time. Su 3DO è possibile giocare ai primissimi giochi di Crystal Dynamics come il già citato Crash ‘n Burn, Total Eclipse e il fantastico Gex. Tuttavia, e questo può anche essere citato come uno dei motivi del fallimento della console, 3DO ha ospitato una marea di giochi FMV (full motion video) che a oggi risultano bizzarri, brutti… E semplicemente fantastici! Come non si possono amare titoli come Night Trap, Mad Dog McCree e The Daedalus Encounter con le loro recitazioni di basso livello e il gameplay tutt’altro che user-friendly? E che dire dell’orrendo Plumbers don’t Wear Ties? Se vi addentrerete in questo genere vi garantiamo risate a mai finire!
A ogni modo: quanto vale l’acquisto di un 3DO di seconda mano? La nostra risposta è: dipende. Il prezzo, a oggi, è certamente invitante in quanto potrete aggiudicarvelo per una frazione di quel che costava all’epoca; tuttavia la libreria di titoli è veramente particolare e non sono giochi che potrebbero piacere a tutti, specialmente perché alcuni di essi sono reperibili in altre console. Inoltre, il 3DO è una console molto fragile dunque, se ne considererete l’acquisto su internet, fate in modo che il venditore vi mostri la console funzionante (sempre se il viaggio non la danneggi). Se siete interessati ad avere questo hardware originale e magari siete appassionati della scena videoludica di nicchia a cavallo fra il ’93 e il ’96 allora il 3DO è la console che fa per voi.
La tecnologia del 3DO M2, prima della sua cancellazione, era stata ceduta per lo sviluppo e perciò esistono alcuni giochi arcade Konami, usciti regolarmente nelle sale giochi, che girano su quell’hardware: fanno parte di questa rosa Polystars, Total Vice, Battle Tryst, Evil Night e Heat of Eleven 98. Inoltre, ma questa è una chicca per i soli “Indiana Jones” del retrogaming, sono stati prodotti anche dei prototipi dell’M2 ed è possibile vederli funzionare su YouTube; tuttavia, trovarli su eBay sarà pressappoco impossibile.




Dusty Rooms: Il retrogaming oggi: storia, prodotti, metodi ed etica

Precedentemente, in uno dei nostri speciali, abbiamo dato delle linee guida molto generali su come mettere su una collezione retrò, che sia di grandi o piccole dimensioni (quello dipende dal vostro portafoglio); sempre rimanendo in tema retrogaming, oggi vogliamo discutere un po’ della “storia del retrogaming moderno” e dei mezzi che vengono usati per godersi l’esperienza retrò, che siano legali, diffusi o, perlomeno, poco ortodossi. Non tutti disponiamo di grandi quantità di denaro né, tantomeno, spazio per custodire console, giochi e accessori e pertanto finiamo per utilizzare stratagemmi discutibili che talvolta risultano essere l’unico modo per giocare alcuni titoli (vedi Panzer Dragoon Saga). Come dobbiamo approcciare qualora ciò che ci interessa, in ambito di retrogaming, è al di fuori della nostra portata?

L’evoluzione della scena del retrogaming

Con l’arrivo della grafica 3D, più specificatamente con la quinta generazione di console (Sony PlayStation, Sega Saturn e Nintendo 64), il 2D, seppur non è mai stato abbandonato, ha perso il suo smalto e ha assunto uno status di “poco rilevante”; per quanto Castlevania: Symphony of the Night, Tombi, Mischief Makers o Silhouette Mirage fossero dei giochi spettacolari erano sempre eclissati, nelle riviste, nel primordiale internet o semplicemente nelle chiacchiere fra gli appassionati, da più grossi titoli come Metal Gear Solid, Final Fantasy VII o The Legend of Zelda: Ocarina of Time. Con l’avvento della sesta generazione il 3D raggiunse livelli eccellenti e i generi più classici sulla quale si fondarono le precedenti generazioni, quelli più collegati al 2D, vennero totalmente trascurati, divenendo quasi esclusiva delle console portatili; sono stati pochissimi – se ci fate caso – i titoli platform sidescroller su console di quell’epoca e quelli che uscirono, come Mega Man: Network Transmission o Contra: Shattered Soldier, passarono totalmente inosservati nonostante l’interessantissimo gameplay. Insieme ai platform, ovviamente, erano in crisi anche gli shoot ‘em up, le avventure grafiche, il cui disinteresse distolse totalmente la Lucasarts dal suo genere di punta (vi consigliamo, per tanto, di dare un’occhiata al nostro speciale sulle avventure grafiche), i beat ‘em up classici, eclissati dai più moderni hack and slash, etc… Tuttavia, nel 2006 avvenne una rivoluzione che, in retrospettiva, è stato uno dei motivi per cui il retrogaming (e di conseguenza anche la scena indie più tardi) è divenuto così popolare: stiamo parlando proprio della Virtual Console, servizio online lanciato insieme al Nintendo Wii: per la prima volta, dopo tanti anni, non solo un infinità di titoli per NES, SNES, Nintendo 64, Sega Master System, Mega Drive, Commodore 64 e molti altri tornavano disponibili in formato digitale ma si trovavano di nuovo sotto ai riflettori. I titoli retrò si rivelarono un successo e il servizio (che sfortunatamente terminerà definitivamente il 31 Gennaio 2019) diede voce ai moltissimi giocatori intenti sia a giocare ai titoli del passato e sia a quelli desiderosi di un gameplay più classico; il “ritorno dei pixel”, per ciò che riguarda i giochi moderni, fu sancito, infatti, definitivamente da Mega Man 9, rilasciato nel 2008 più o meno per tutti gli store digitali per console, e da allora sempre più developer fecero volentieri un “passo indietro” con risultati sempre positivi.
La “retromania” cominciò e oggi, sia per quanto riguarda le vecchie release che i giochi moderni in salsa vintage, stiamo godendo del suo massimo splendore; giocare ai titoli del passato ormai è una vera passeggiata e in ogni parte, che sia in uno store digitale o un semplice negozio di elettronica, troviamo sempre qualcosa per placare la nostra fame di retrogaming. Per prima cosa, per le console attuali e pc, si possono trovare tanti di titoli del passato, sottoforma di remastered o in formato originale (sugli store digitali), ma oggi si trovano soluzioni più convenienti nelle collection, con contenuti spesso migliorati per le TV di oggi e tanti extra: Mega Man Legacy Collection I & II, Rare Replay, e le imminenti Street Fighter 30th Anniversary Collection e Shenmue I & II sono solo alcuni dei bundle per riscoprire questi titoli che hanno fatto la storia del gaming. Se invece desiderate un’esperienza un po’ più vicina a quella originale sfruttando i joypad originali e le tv attuali (sfoggiando anche un po’ di sfarzosità) allora ci sono le mini console: NES e SNES Classic Mini vi offriranno, rispettivamente, ben 30 e 21 giochi, tutti in qualità HD e con componenti di qualità, il Sega Mega Drive Flashback di AT Games che, nonostante non raggiunga la qualità Nintendo in termini di hardware, vi darà una buona base di 85 giochi e la possibilità di utilizzare le cartucce e i controller originali, l’Atari Flashback 8 Gold, sempre di AT Games, con ben 120 giochi e caratteristiche simili alle console precedentemente citate, il prossimo Neo Geo Mini (annunciato ufficialmente da SNK) dalla forma di un cabinato con schermo, joystick arcade e casse integrate. La lista andrebbe avanti ancora per molto ma per ora vogliamo soffermarci solo, diciamo, ai canali e alle soluzioni “pubblicizzate”.

Prima di chiudere questo capitolo, però, non dobbiamo dimenticarci di altri grossi fattori culturali che hanno permesso la riscoperta delle vecchie console: stiamo parlando dei siti internet dedicati come Screwattack, Retroware, Classic Game Room (il cui show partì già nel 1999) e delle personalità a esse collegate, che diventarono parallelamente star del primordiale YouTube, come James Rolfe (ovvero l’Angry Video Game Nerd), Patrick Contri (Pat the Nes Punk), Chris Bores (Irate Gamer, oggi Chris Neo), Projared, Angry Joe, Mark Bussler e molti altri. In un epoca in cui si guardava al futuro, le arcade si svuotavano in favore del gioco online e la risoluzione HD diventava obbligatoria per il gaming queste persone rispolveravano le loro vecchie console, rievocando, anche con un po’ di rabbia, i loro ricordi a essi connessi e rivendicando un passato più semplice fatto prima di esperienze, di giochi comprati giudicando dalla copertina e da qualche debole descrizione sulla scatola o su qualche rivista, di chiacchiere a scuola e poi di tecnologia; i loro buffi show ebbero, per l’epoca, un grossissimo riscontro poiché per molti fu motivo di condivisione, un “tornare bambini” dopo una giornata di duro lavoro, magari trovare recensito quel gioco che si possedeva tanto tempo fa e non sentirsi l’unico a “rimanere bloccato in quel punto”. È impossibile non dare a YouTube, alle piattaforme indipendenti citate (nonché al succeso di Facebook e i gruppi di retrogaming ad esso collegati) buona parte del merito per l’esplosione del retrogaming.

Le terze parti, l’emulazione, le Everdrive e le modifiche

La retromania su internet spinse sempre più persone ad andare su eBay e cominciare a mettere su la propria collezione; ma come la retromania diventava sempre più popolare anche i prezzi su eBay crescevano di conseguenza e perciò cominciarono ad apparire le prime alternative agli hardware originali e persino ai giochi troppo rari sotto forma di reproduction cartdrige; alcune compagnie, come Hyperkin e Retro-Bit, sono sorte proprio per colmare molte delle esigenze relative al retrogaming, fornendo ai giocatori cavi e joypad di qualità, accessori di ogni tipo e anche console in grado di leggere cartucce di più sistemi, come appunto il Retron-5 o il Super RetroTRIO. In molti, soprattutto i puristi, non sono grandi estimatori di questi nuovi sistemi poiché, per via dell’emulazione, sono spesso presenti alcuni problemi minori per ciò che riguarda la risoluzione (nonostante molte abbiano l’uscita HDMI) e il sonoro. Gli hardware interni, poiché gli originali sono spesso difficili da riprodurre, sfruttano dei sistemi operativi proprietari e spesso questi copiano l’immagine della cartuccia inserita e li emulano nei propri sistemi.

L’emulazione, soprattutto su PC, è stata per molti anni l’alternativa per non comprare dei sistemi obsoleti su eBay e, per un certo verso, non è stato eticamente troppo sbagliato; fino a quando, con gli store online delle console e PC, i singoli giochi non sono stati resi di nuovo disponibili per la vendita, essa ha permesso la sopravvivenza di questi sistemi e questi giochi per gli appassionati e, senza di loro, oggi probabilmente non avremmo avuto cose come la Virtual Console, le mini console o il neo-annunciato catalogo online di giochi NES per Switch. In alcuni casi l’emulazione, e tutta la hacking scene a essa collegata, hanno permesso la sopravvivenza di alcuni titoli che altrimenti sarebbero andati persi per sempre: ne sono un esempio i titoli per l’esclusivo add-on giapponese Satellaview per il Super Famicom, dalla quale era possibile giocare via streaming a Radical Dreamers, una side-story di Chrono Trigger, BS Legend of Zelda e il suo sequel Ancient Stone Tablets, o l’intera scena arcade prima dell’arrivo dei titoli per Xbox Live Arcade; grazie al MAME, emulatore creato dall’italiano Nicola Salmoria, è stato possibile salvaguardare le schede che contenevano i giochi arcade e renderli disponibili fino all’arrivo dei canali ufficiali, tanto è vero che non è mai stato avviato alcun processo per violazione per copyright per i creatori del MAME. Ma se ad alcuni basta giocare su computer con una tastiera ai giochi più classici, ad altri questo non basta e allora si ricercano metodi per poter avere una riproduzione più fedele possibile senza dover spendere un capitale.

(Il Nesticle fu il primo emulatore gratuito NES mai concepito per PC. Uscito nel 1997 girava su Windows 95 e Dos)

Una delle soluzioni meno invasive e che negli ultimi anni hanno preso piede, soprattutto per le console pre-compact disk, sono le sempre più popolari Everdrive. Questi dispositivi, similarmente alle notissime R4 per Nintendo DS e 3DS, non sono altro che cartucce, modellate per ogni singola console vintage, con uno slot per le schede SD da dove è possibile inserire le rom scaricate da internet. È vero che gli store online di console e PC offrono molti dei giochi che potrebbero essere giocati legalmente ma questo è, tuttavia, un metodo per risalire alla fonte e dunque poter giocare con la risoluzione originale (ammesso e concesso che avete un televisore CRT), i joypad originali e, soprattutto, la console originale. Le Everdrive, tuttavia, sono un ottimo metodo per giocare in un insolito modo “originale” ai giochi hack (delle versioni di un gioco modificato dai fan) e con le rom di quei titoli mai usciti al di fuori del Giappone tradotti dai fan; è importante, in ogni caso, sapere che non tutti i giochi sono compatibili con le Everdrive in quanto, alcune volte, le cartucce originali includevano dei chip aggiuntivi per una migliore resa dell’esperienza (come il chip FX incluso in Star Fox o il chip SA-1 incluso in Kirby’s Fun Pack) e perciò, non potendo emulare questi pezzi di hardware, è bene conoscere quali titoli, specificatamente, non funzionano in questi curiosi dispositivi.
Esistono tuttavia, come si sa, altri metodi per rendere l’esperienza di gioco sempre più conveniente e non sempre sono molto etici: stiamo parlando ovviamente delle modifiche interne che, a differenza di quel che si possa pensare, possono servire a diversi scopi. Le console mod sono esistite sin dall’alba dei tempi e queste sono servite per motivi più o meno leciti: il taglio del quarto piedino del chip 10NES del NES europeo per permettere la lettura di tutti i giochi PAL (poiché nel continente c’erano due diverse codifiche a seconda della zona: PAL-A e PAL-B), la rimozione di due pezzettini di plastica all’interno dello slot delle cartucce dello SNES americano per renderlo, praticamente, compatibile coi giochi giapponesi, l’over clocking del Sega Mega Drive/Genesis per poter cambiare, con un interruttore, la codifica del video ma le più comuni sono quelle per leggere i backup nelle console che leggono i compact disk. Nonostante la lettura dei backup può rivelarsi un ottimo metodo per accedere all’intera libreria di giochi per console obsolete (dunque non più supportate) come Sony PlayStation, Sega Saturn e PlayStation 2, noi ve le sconsigliamo vivamente al di là dell’etica perché il dover toccare con mano i componenti potrebbe comunque danneggiare, talvolta irreversibilmente, le vostre console. Per tanto noi non contempliamo nulla di tutto ciò e, per quel che riguarda le console come queste, comprate sempre giochi originali o, se esistono, applicate una modifica software che sia facilmente applicabile e reversibile.

Qual è il nostro parere sulla “retro-etica”? Come già ribadito, viviamo in un epoca di riscoperta (potremmo addirittura chiamarlo rinascimento videoludico) e pertanto è facilissimo trovare i videogiochi retrò che ci interessano, che siano sotto forma di software digitali negli store di console e pc, all’interno di collezioni o incluse nelle spettacolari retroconsole che stanno spopolando fra gli appassionati; dall’altra parte, per ciò che riguarda il possedere gli hardware originali o dei cloni moderni con feature più vicine ai TV set moderni (come l’Analogue NT o l’AVS di Retro USB), esiste una scena attivissima sempre in evoluzione in grado mantenere vivi i vostri vecchi sistemi. Il nostro consiglio è semplicemente quello di scegliere le strade più etiche e corrette e dunque, che ci sia una grande compagnia come Nintendo o Hyperkin dietro a qualche progetto di retrogaming, sempre finanziarle e comprare tutto in maniera ufficiale, non solo per supportarle ma tanto più per far sentire la nostra voce da retrogamer e far capire che la scena a essa legata rimanga in totale attività. Lo stesso vale per le console moderne e ricordate sempre che la pirateria è un reato e pertanto comprate sempre tutto in maniera ufficiale per voi e per chi per anni ha lavorato allo sviluppo di un gioco e dunque a dissociare da ogni tipo di metodo illecito.