Pac-Man VS K.C. Munchkin: un clone o un gioco originale?

Prima che Super Mario rivaleggiasse con Sonic nel mercato casalingo, l’iconico Donkey Kong di casa Nintendo dovette fare i conti con Pac-Man, lo strabiliante videogioco del 1980 prodotto da Namco e distribuito da Midway in Nord America. Toru Iwatani, il suo ideatore, ebbe la geniale idea di creare un gioco che potesse attrarre anche le donne e infatti il risultato fu strabiliante. Al di là dell’impressionante fatturato nelle arcade, Pac-Man diventò in pochissimo tempo parte integrante della cultura popolare dei tempi, tanto quanto Super Mario lo diventò negli anni successivi: ne fu prodotta una serie a cartoni animati, il duo musicale Buckner & Garcia lanciarono un singolo ispirato al suddetto videogioco, Pac-Man Fever, che raggiunse la nona posizione nella Billboard Hot 100 americana, senza contare i diversi spin-off che seguirono il gioco originale e tutto il merchandise a esso ispirato. Era normale aspettarsi presto una versione casalinga del popolarissimo arcade Namco e Atari, investì un milione e mezzo di dollari per il progetto, parte dei quali servì per assicurarsi l’esclusiva per le loro console. Atari dovette combattere contro centinaia di altre software house per evitare che il loro gioco fosse scopiazzato: cloni come Snøggle di Brøderbund Software furono tolti dal mercato non appena furono immessi, Atari riuscì addirittura a fermare Maze-Man di Stoneware non appena seppero che stavano preparando delle pubblicità su di esso! On-Line Systems, la futura Sierra Entertainment, e Atari furono sull’orlo di una battaglia legale quando la prima si rifiutò di togliere dal mercato i suoi Jawbreaker e Gobbler; il caso volle che nessun giudice accettò il caso ma Ken Williams non cantò vittoria in quanto nonostante difendesse l’originalità dei suoi giochi dicendo che non erano dei rip-off (ma che se un giudice avesse dichiarato diversamente l’avrebbe tolti volentieri dal mercato) aveva paura che tutto questo desse ad altre software house il diritto di copiare tranquillamente i giochi di chiunque. In tutto questo un caso particolare rimase impresso nella storia e mise anche le basi di come le battaglie sull’originalità dei videogiochi dovessero essere combattute in tribunale: questa è la storia di K.C. Munchkin! per Magnavox Odyssey², o Phillips Videopac G700 (o semplicemente Videopac) in Europa, e di come un clone, o rip-off, potesse essere definito tale nell’allora nuovo mondo dei videogiochi.

I pionieri delle console casalinghe

Nel 1972 il Magnavox Odyssey arrivò nei negozi diventando ufficialmente la prima console casalinga della storia. Il concept c’era ma l’esecuzione non fu delle migliori: i cavi che collegavano gli strani controller erano corti e poco flessibili (anche se è vero che il cavo che collegava la console alla televisione era parecchio lungo), le schede che contenevano i giochi, quasi tutti per due giocatori, erano molto simili fra di loro (quasi sempre due quadratini luminosi programmati in maniera leggermente diversa) e dunque servivano pellicole da attaccare alla TV per sopperire la grafica; in tutto questo bisognava usare carte, tabelloni e lunghi manuali di istruzioni (che dicevano anche quale pellicola usare per quale scheda) per poter fare una semplice partita con un amico. Il concept di videogioco era ancora freschissimo e a quei tempi giochi immediati come Pong e Gun Fight potevano stare solamente all’interno di grossi cabinati da piazzare in bar e negozi di vario tipo; pertanto la produzione del primo Magnavox Odyssey fu interrotta già nel 1975, giusto per far spazio alle miriadi di Pong Console (molte delle quali prodotte dalla stessa Magnavox) che cominciarono a prendere piede da quell’anno in poi.

Nel 1977 Atari lanciò la rivoluzionaria Atari 2600 con risultati eccellenti, dimostrando al mondo il potenziale delle console da gioco e dei videogiochi in generale. Atari 2600 non fu né la prima console a utilizzare cartucce intercambiabili (quell’onore va al Fairchild Channel F) né la prima a entrare nel mercato ma il suo versatile hardware permise di diventare la console numero uno negli Stati Uniti e nel mondo. Intanto Magnavox, che ricordiamo è a tutt’oggi una compagnia gemella di Phillips, decise di sfruttare nuovamente il brand Odyssey per rilanciarsi nel mercato dei videogiochi e così verso la fine del 1978 vennero lanciate in Europa e Nord America i rispettivi Phillips Videopac G7000 e Magnavox Odyssey². La console era buona, vendette più unità della prima, ma tutto sommato il confronto con l’Atari 2600 non reggeva affatto, né come potenza né come libreria software. Pac-Man, dal suo lancio nel 1980, spopolava nelle arcade e fu normale per Phillips, che ovviamente non aveva alcun problema di fondi, pensare di creare un porting per la loro console che intanto faticava a ritagliarsi una fetta all’interno del mercato dominato da Atari; contattarono Midway per contrattarne i diritti ma per loro sfortuna Atari li aveva già battuti sul tempo. Nel frattempo, prima ancora di raggiungere Midway, Magnavox aveva già commissionato a Ed Averett, loro programmatore indipendente, di creare un porting di Pac-man per anticipare i tempi ma non avendo la licenza il gioco doveva essere trasformato in qualcos’altro. Il genere Dot-Gobbler, o Maze-Chase, andava forte e pertanto gli fu chiesto di creare qualcosa che potesse competere contro il concept di Pac-Man, che fosse ispirato ma non una copia. Magnavox dovette giocare attentamente le sue carte: il gioco doveva avere un look più diverso possibile da Pac-Man e le pubblicità, sia in televisione che sulle riviste, dovevano evitare il più possibile di fare qualsivoglia paragone. K.C. Munchkin! arrivò sul Magnavox Odyssey² nel 1981, un anno prima dell’uscita di Pac-Man per Atari 2600 riscontrando pareri più che positivi, diventando la killer app per quella sfortunata console.

Il diverso

Col tempo sono apparsi spudoratissimi cloni del popolare arcade Namco ma K.C. Munchkin! era diverso in molti sensi. Dunque, quali erano queste differenze? Innanzitutto i colori: il labirinto è fucsia e K.C. Munchkin, il nostro protagonista (il cui nome ricalca quello del presidente della Phillips Kenneth C. Menkin), ha delle sembianze simili a Pac-Man ma è azzurro, ha un espressione facciale ben distinta e ha delle piccole antenne, esattamente come i fantasmi che in questo gioco sono tre e non quattro. Il labirinto è rettangolare, ha una struttura irregolare (dunque non speculare come in Pac-Man), una parte di esso gira, permettendo dunque al giocatore di passare da una parte all’altra immediatamente e persino in sicurezza (dunque sbarrando la strada a un potenziale fantasmino) e sono presenti livelli in cui le pareti del labirinto si oscurano rendendo difficile il prosieguo al suo interno. Inoltre K.C. Munchkin! è uno dei primissimi giochi in cui era possibile per il giocatore programmare dei livelli, dando un grado di personalizzazione fino ad allora mai visto. La più grande differenza, tuttavia, stava nel fatto che in tutto il labirinto sono presenti soltanto 12 “pallini” da prendere (quattro sono pallini speciali che permettono, come in Pac-Man, di mangiare i fantasmi), nessuno dei quali stava fermo in un punto fisso e che dunque si spostavano per tutto il labirinto; ogni volta che un pallino veniva eliminato gli altri aumentavano di velocità, l’ultimo supera addirittura la velocità base di K.C. Munchkin e perciò bisogna intercettarlo anziché corrergli dietro.
L’originalità del gioco fu ripagata: il gioco vendette bene, le critiche erano favorevoli e il passaparola di sparse tanto che molti giocatori comprarono il Magnavox Odyssey² principalmente per giocare K.C. Munchkin! (probabilmente portando la console ai 2 milioni di unità vendute oggi riportate).

(Un gameplay dal canale Retro Games Fan)

Ad Atari non piace questo elemento

Magnavox fece di tutto per evitare di citare Pac-Man nelle pubblicità e occasioni varie; tuttavia nulla poteva fermare venditori e giornalisti di citare il gioco Namco. Un negozio di Chicago aveva comprato grossi spazi pubblicitari sul Chicago Sun-Times e Chicago Tribune e nel tentativo di promuovere i videogiochi in negozio descrisse K.C. Munchkin! come “un gioco a là Pac-man“; viste queste strane pubblicità Atari mandò degli investigatori nei negozi di elettronica e i commessi descrivevano il gioco come “una specie di Pac-Man” e “il Pac-Man dell’Odyssey“. Atari si infuriò e fece subito causa alla Phillips affinché rimuovessero K.C. Munchkin! dai negozi.
Atari chiese un ingiunzione preliminare a una corte distrettuale americana ma questa, nonostante il caso sembrasse a senso unico, si schierò dalla parte di Phillips dichiarando che K.C. Munchkin! non era sostanzialmente simile a Pac-Man e dunque non ne violava il copyright. Phillips giocava sul fatto che gli sviluppatori non avevano copiato alcuna linea di codice da Pac-Man e la corte se ne accorse, osservando le differenze fra i due giochi come pallini in movimento, le espressioni facciali dei personaggi e i colori generali. La corte decretò che K.C. Munchkin! aveva un carattere diverso da Pac-Man e i suoi fantasmi erano più “paurosi”. Phillips rimase molto sorpresa da questo risultato inaspettato ma successivamente la corte d’appello si schierò invece dalla parte di Atari e fu lì che persero definitivamente la battaglia. Nonostante i giochi fossero diversi, come la corte distrettuale aveva dichiarato, entrambi i giochi dipendevano dal fatto che lo scopo del gioco era mangiare i pallini, il tutto inseguito da fantasmi; questo era ciò che distingueva Pac-man, invece, da altri Maze Game come Rally X o Take the Money and Run. Inoltre fu portato all’attenzione il fatto che Pac-Man fu creato specificatamente per far avvicinare “giocatori senza una personalità violenta”, come appunto le donne. La corte d’appello dichiarò dunque:

«La conclusione della corte distrettuale, cui dichiara che i due lavori non sono sostanzialmente simili, è chiaramente erronea, e il suo rifiuto di emanare un’ingiunzione preliminare costituisce un abuso di discrezione».
(-672 F. 2d 607, US Court of Appeals, Seventh Circuit)

In seguito Phillips tentò di portare il caso alla corte suprema ma questa non accettò il caso. Fu così che Phillips, nel marzo 1982, dovette ritirare le copie di K.C. Munchkin! dagli scaffali.

(Un gameplay dal canale World of Longplays. Se avete gli auricolari vi consigliamo di toglierli!)

Tanto rumore per nulla!

Lo stesso mese Pac-Man fu rilasciato con licenza ufficiale per Atari 2600 e finalmente, il popolare gioco arcade poteva essere giocato comodamente sul proprio divano di casa. Le aspettative erano altissime e ciò permise a Pac-Man di diventare il gioco più venduto per Atari 2600. Tuttavia, come ormai noto, in molti portarono a casa una versione che si stanziava parecchio dalla versione arcade: Tod Frye, il programmatore principale del progetto, pensava che il gioco potesse spopolare inserendo una modalità per due giocatori ma ciò non fece altro che consumare grossa parte della limitata memoria dei giochi per Atari 2600. I colori erano diversi, Pac-Man, nonostante si muovesse verso l’alto, poteva guardare solo a destra e a sinistra, produceva un rumore fastidiosissimo (anziché il popolare “waka-waka” per la quale diventò famoso), i pallini erano diventati dei rettangoli, il labirinto era ben diverso dalla versione arcade, i controlli erano un po’ poveri ma soprattutto i fantasmi, pur essendo quattro, sfarfallavano costantemente, come se il gioco si dovesse rompere da un momento all’altro. Dopo tutto quello che Atari fece per tener fuori gli imitatori questo era il risultato! La rivista Softline accusò Atari di aver fatto di tutto per far sì che fossero gli unici nel mercato per poi consegnare in seguito una poverissima versione di Pac-Man, elevando invece nel contempo i cloni come i più vicini all’originale. Ed Averett invece evitò di dare la colpa a Tod Frye, invece se la prese con l’hardware dell’Atari 2600 che secondo lui, e fu anche questo il motivo per cui un gioco come Pac-Man non poteva arrivare in console né come l’Atari 2600 né nel Magnavox Odyssey², non era sufficientemente potente, perciò bisognava produrre altro, come appunto K.C. Munchkin!.

Sempre nel 1982 K.C. Munchkin fece il suo ritorno nel nuovo K.C.’s Crazy Chase!, una piccola rivincita contro Atari che ebbe l’ultima risata in tribunale. In questo gioco K.C. Munchkin, sempre all’interno di dei labirinti simili a quelli del primo gioco, deve inseguire e mangiare pezzo per pezzo una specie di serpentone che somiglia parecchio al dragone di Centipede di Atari. In molti videro questo gioco come una sorta di parodia dell’intera vicenda, una voracissima Atari, sotto forma serpentone, intento a mangiare il piccolo K.C. Munchkin ma Ed Averett dichiarò in seguito che il gioco non fu creato affatto con questo spirito in mente. In quanto ad Atari, chissà, forse avranno visto il gioco ma dopo la bruttissima figura fatta col porting di Pac-Man preferirono stare zitti e lasciar correre l’acqua sotto il ponte.

E voi cosa ne pensate? K.C. Munchkin! è davvero un rip-off? In un universo parallelo ha superato Pac-Man e il suo protagonista è oggi una delle icone retrò più amate fra i giocatori?

(Un gameplay di K.C.’s Crazy Chase! dell’utente Marc Ruef)



Il Nintendo Virtual Boy: dal concetto al flop

È incredibile come oggi la tecnologia dei visori per la realtà virtuale sia (quasi) quella che già, a cavallo fra gli anni ’80 e ’90, si sognava a occhi aperti. Da quei giorni fino a oggi i VR headset sono esistiti ma ben fuori dal mercato dei videogiochi: alla NASA, già negli anni ’70, i visori VR venivano già utilizzati all’ordine del giorno per esercitazioni e simulazioni di diverso tipo. I videogiochi sembravano il perfetto campo d’applicazione per questo tipo di tecnologia: già negli anni ’60 la giovanissima SEGA lanciò Periscope che, per quanto fosse un gioco elettromeccanico, preannunciò in qualche modo come fosse possibile immergersi in un mondo artificiale tramite più sensi possibili; più avanti nel tempo, Atari lanciò Battlezone, un vero antenato dei VR headset visto che per giocare bisognava guardare attraverso un telescopio (e il successo divenne tale che questo si trasformò in The Bradley Trainer, un vero e proprio strumento utilizzato per le esercitazioni dei capocarro). Ai giocatori servirono ben pochi assaggi per immaginare questa splendida tecnologia: fin dove ci si poteva spingere con la tecnologia? Fin dove era possibile arrivare? Ma soprattutto, quando il mercato avrebbe per messo ai giocatori di avere un personalissimo headset VR? In un mondo pieno di sogni e speranze, Nintendo un giorno provò a consegnare un primo prototipo di visore VR (anche se in realtà era una console) che potesse essere economico e aprire le porte della realtà virtuale, ma che invece finì per essere uno dei più tremendi fallimenti commerciali nella storia dei videogiochi. Oggi, in vista del rilascio del nuovissimo visore VR Nintendo tramite la linea di prodotti Labo, vi parleremo del loro primo vero esperimento in questo campo, un evento che, probabilmente, posticipò di molto l’arrivo dei visori VR su larga scala in attesa di una migliore tecnologia accessibile a tutti. Qui su Dusty Rooms vi parleremo del famosissimo incubo rosso nero… no, non l’AC Milan, ma il Nintendo Virtual Boy!

Il Private Eye

Che ci crediate o meno, le radici del Virtual Boy risalgono al 1985, una decade prima del suo rilascio, prima ancora del rilascio del Game Boy e del Super Nintendo. Tuttavia il concetto di questa macchina non nasce a Kyoto ma a Cambridge, in Massachusetts, dalla mente di un abile ingegnere che lavorò al primo scanner piano per computer. Allen Becker, per via del suo lavoro, era costretto a spostarsi spesso per lavoro e ciò significava salire a bordo di tanti aerei: ai tempi erano molto stretti e molti dispositivi elettronici, come il popolarissimo Walkman o i primi computer portatili, non potevano essere accesi durante il volo. Anche se non ci fosse stato alcun divieto, era impossibile portare un computer portatile all’interno di un aereo e poter continuare a lavorare in viaggio: questi dispositivi esistevano già ma erano molto inferiori ai computer fissi, serviva un’alimentazione fissa e, per quanto portatili, era impossibile usarli negli angusti sedili degli aerei dei tempi.

Di lì a poco, Allen Becker si mise a lavorare a un qualcosa che potesse funzionare come un PC ma che fosse piccolo e comodo da usare in ogni situazione. L’idea era quella di costruire qualcosa composto da due pezzi: un piccolo computerino da attaccare a un piccolo schermo. Ma come fare? I monitor CRT a tubo catodico, la migliore tecnologia per l’epoca, richiedevano troppa potenza ed erano troppo ingombranti, e gli LCD, per quanto impiegati in oggetti come calcolatrici, radiosveglie e orologi da polso, non erano al passo coi tempi in quanto serviva ancora molta ricerca e sviluppo. La scelta così cadde sul LED, strumento con la quale Becker lavorò proprio per il suo scanner. Intorno a quei anni un famoso scienziato e inventore di nome Raymond Kurzweil, una delle menti più grandi degli ultimi secoli, usò il suo scanner per creare una macchina che potesse aiutare i ciechi a leggere; ispirato da questa idea, la sua intenzione era quella di utilizzare i LED, che muovendosi velocemente scannerizzavano un testo per poi trasmetterlo allo schermo del PC, per proiettare le immagini direttamente alla retina dell’occhio umano. Per proiettare un immagine serviva che questi LED fossero in costante movimento, cosa che poteva provocare forti danni alla retina; con un colpo di genio, Allen Becker decise di far proiettare l’immagine dei LED a degli specchi che oscillavano per 50 volte al secondo, in modo da non nuocere all’utente e trasmettere un immagine ancora più nitida e chiara. In assenza di finanziamenti per poter avviare un prototipo, l’ingegnere cominciò ad utilizzare pezzi di alcune stampati per poter creare delle bozze e fu proprio in questo periodo che la scelta cadde sui LED rossi: per quanto all’apparenza fosse una scelta poco saggia, in quanto per funzionare avevano bisogno del buio, in realtà si poteva rivelare una scelta vincente, poiché i LED rossi erano i più comuni e i meno costosi e dunque la sua invenzione finale poteva essere prodotta economicamente e venduta a prezzi competitivi. Inoltre, essendo ancora nel 1986, da lì alla realizzazione del prodotto finale, la tecnologia poteva migliorare ancora di più, perciò non c’era bisogno di preoccuparsi più di tanto. In sei mesi di lavoro, utilizzando la tecnologia che venne in seguito da lui battezzata come “Scanned Linear Array“, Alan Becker creò il primo prototipo del Private Eye nel 1987, un micro schermo per computer composto da un cerchio, da appoggiare alla testa esattamente come una corona, che regeva un piccolo dispositivo che si andava a posizionare davanti all’occhio dell’utente.
Il Private Eye non nasceva come videogioco, Alan Becker visionava la sua creazione per scopi ben diversi dal gaming: egli sperava infatti che i chirurghi potessero utilizzarlo per tenere sempre sotto controllo la scheda del paziente e gli esiti delle risonanze magnetiche durante le operazioni, che i meccanici potessero utilizzarlo per tenere i manuali delle auto (letteralmente) sott’occhio e che l’utente comune potesse utilizzarlo per altri usi, come ad esempio alla guida per dare una sbirciata alle mappe. Se ci pensate, Allen Becker anticipò il concetto dei Google Glass di quasi ben 25 anni!
Fondata la Reflection Technology nel 1987 Allen Becker andò subito alla ricerca di investitori ma, sebbene il Private Eye attrasse qualche interesse da parte di alcune compagnie aeree, nessuno finanziò questo rivoluzionario progetto perché era troppo difficile immaginarne degli impieghi reali – in questo caso si può dire che la sua invenzione era davvero “troppo avanti”. Tuttavia nulla era perduto, bisognava solamente trovare un altro impiego per questa tecnologia.

Verso il gaming

Negli anni ’90 si assistette a grandi rivoluzioni tecnologiche: la grafica 3D diventava sempre più facile da processare, gli effetti speciali al cinema si facevano sempre più reali e film come Il Tagliaerbe (The Lawnmower Man) non facevano altro che alimentare le fantasie degli appassionati di tecnologia, computer e videogiochi di tutto il mondo. Nelle fiere come il Consumer Electroincs Show veniva dedicato dello spazio per i visori per la realtà virtuale ma il tutto era a uno stadio primitivo: Reflection Technology creò un prototipo di un visore letteralmente mettendo due Private Eye su un casco da saldatore e, nonostante la bizzarra idea, il loro fu uno dei visori più apprezzati durante le fiere. Veniva avviata una demo di un gioco in cui si era alla guida di un carro armato, esattamente come in Battlezone di Atari (alcuni pensano che il gioco fosse proprio quello) e, fra i tanti stand, il loro riscosse un grande successo fra appassionati e non. Reflective Technology aveva creato, quasi accidentalmente, una realtà virtuale con pochissime risorse, facile da produrre e persino divertente! Per tale motivo servivano investimenti, ma compagnie come Hasbro e Mattel, per quanto interessate, non volevano ancora nulla a che fare con gli headset VR, specialmente per il fatto che la tecnologia per l’headtracking era agli albori: era lenta, imprecisa e per tanto avrebbe avrebbe assicurato motion sickness agli utenti. A questo punto, visto che ormai il suo scopo era chiaro, era meglio presentare il Private Eye direttamente alle compagnie videoludiche.

(Eh… Non ci sono più gli headset di una volta!)

Alan Becker raggiunse per prima Sega, dove fu accolto da uno scettico Tom Kalinske che respinse il progetto. Il motivo principale, oltre ai problemi relativi al motion sickness, fu proprio il singolo colore: Sega aveva già lanciato il Sega Game Gear cui era in grado di gestire una palette capace di 4096 colori. Lanciare un prodotto così, dopo l’incredibile Sega Mega Drive, e il Game Gear che riscuoteva un buon successo grazie alla promozione dei suoi vantaggi rispetto alla concorrenza, rappresentava un grosso rischio per la compagnia, e così Sega decise di tirarsene fuori (magari avesse pensato così prima del lancio del 32X).
Becker non si scoraggiò e invece andò dalla concorrenza per riscontrare il risultato opposto: Reflection Technology mostrò a Nintendo le capacità del loro visore e tutti ne rimasero sorpresi, soprattutto una delle persone chiave della compagnia, Gunpei Yokoi, il padre del Ultra Hand, dei Game and Watch e del magistrale Game Boy. Il sistema di Becker sembrava realmente ispirato dalla sua filosofia (che a tutt’oggi influenza Nintendo): utilizzare una tecnologia superata per poterla riutilizzare in modi diversi, sfruttandola al limite delle sue capacità, guadagnando bene con una produzione che si manteneva a costi contenutissimi. Il Nintendo Gameboy, in poche parole, era la perfetta rappresentazione della sua filosofia: grazie allo schermo monocromatico riuscì ad avere il più grosso vantaggio sui competitor, punto sulla quale né SegaAtari col loro Lynx si concentrarono, ovvero la più lunga durata delle batterie (per giunta ne servivano due in meno rispetto alla concorrenza, che ne utilizzava sei), nonché una piattaforma semplicissima per ciò che riguardava la programmazione da parte delle 3rd party. Le aree create tramite l’uso dei LED potevano dare un senso di profondità potenzialmente infinito in quanto il contrasto per gli oggetti era semplicemente il buio stesso, un vuoto di colore; era esattamente quel tipo di cose che interessavano a Gunpei Yokoi che, prossimo alla pensione, odiava il fatto che il mondo del gaming si stesse interessando troppo alle tecnologie e meno al core gameplay, alla fantasia e la genialità dei giochi e dei dispositivi stessi. Un secondo meeting fu organizzato con i piani alti di Nintendo, in cui Yokoi e Becker presentarono il prototipo di quello che poteva essere un nuovo prodotto da lanciare… durante l’incontro, Hiroshi Yamauchi si addormentò! Becker e Reflection Technology non potevano fare altro che interpretare che quel gesto come disinteresse per il loro prodotto, un ulteriore fallimento, ma Gunpei Yokoi e altri funzionari Nintendo li rassicurarono dicendogli che in realtà… era una reazione più che positiva! Il business in estremo Oriente è ben diverso da quello di stampo americano o europeo e Yamauchi ne incarnava tutte le caratteristiche: il fatto che dormisse significava che stava letteralmente facendo “sogni tranquilli”, era così confidente in Gunpei Yokoi che non c’era alcun bisogno di intervenire (una cosa simile accadde quando Nintendo accolse i funzionari Atari per una possibile distribuzione del Famicom in Nord America, meeting in cui Hiroshi Yamauchi entrava e usciva dalla stanza per sottolineare quanto fosse impegnato e che se Atari non avesse colto l’occasione al volo avrebbero potuto perderla). In poche parole quel gesto si traduceva con “totale approvazione“, e così fu: Reflection Technology ricevette 10 milioni di dollari per avviare il segretissimo “Dragon Project“, che fu subito dopo rinominato “VR32“.

(Gunpei Yokoi)

Il travagliato sviluppo: tagli e compromessi

Il prodotto in quello stato (un casco per saldatori con due Private Eye collegati a un unità centrale) non poteva assolutamente essere venduto, e pertanto doveva essere ridisegnato. Gunpei Yokoi avanzò l’idea di costruire un visore con la console stessa inserita al suo interno, insieme a un sistema di head tracking che avrebbe permesso al giocatore di avanzare nel mondo 3D camminando nella realtà; il leggendario inventore di casa Nintendo descrisse il concetto come una “Virtual Utopia” e fu considerato come uno dei nomi finali per la console (ciò è riflesso nelle cartucce dei giochi del Virtual Boy che includono la sigla VUE nei numeri seriali). Per il processore si optò per un chip 32 bit (NEC V810), la scelta ideale per creare della grafica poligonale ma, per via delle radiazioni emesse da questo dispositivo, tenendo in considerazione che la console doveva essere tenuta in testa per giocare, furono costretti a chiuderlo in una sorta di scatola di metallo spesso per evitare danni di qualsiasi tipo. L’aggiunta di questo componente rese il visore pesantissimo e così si optò per una sorta di tracolla mista a uno stand per mantenere il sistema di head tracking e movimento. A questo punto i legali Nintendo misero in alt il progetto di Gunpei Yokoi: si preoccupavano soprattutto per i più piccoli che sarebbero potuti inciampare per casa con il visore in testa, il Virtual Boy poteva diventare una vera e propria causa di infiniti incidenti domestici. La ricerca sull’head tracking non andava neppure bene in quanto non era ancora perfettamente sincronizzata coi movimenti della testa e provocava ancora motion sickness; fu così che il Virtual Boy fu relegato a quel buffo stand che oggi conosciamo (e amiamo, in qualche modo), rendendolo così a tutti gli effetti una console casalinga (nonostante sia stata promossa più in là come console portatile, con il nome rafforzato per altro da quel “Boy” che lo legava al retaggio dell’incredibile Gameboy).

I primi giochi sviluppati utilizzavano una grafica 2D abilmente disegnata per dare quel senso di profondità che ci si poteva aspettare, dunque un finto 3D. Gunpei Yokoi voleva comunque implementare un ulteriore chip per poter rendere elementi 3D pienamente poligonali e mappati ma ancora una volta fu bloccato: Nintendo aveva già speso considerevoli somme di denaro per lo stampo fisico della console, perciò non si poteva tornare indietro, e fu così che la console rimase solo con un unico chip 32 bit non capace di poter rendere quelle immagini 3D che tutti quanti si aspettavano. Nonostante lo scetticismo che cominciava a crescere in Gunpei Yokoi, Nintendo era così confidente sul Virtual Boy che sperava di lanciarlo come quarto progetto principale; fu addirittura aperta una nuova fabbrica in Cina per produrre esclusivamente il nuovo prodotto!

Cambi di programma e il disastroso lancio

Seppur l’arrivo del Virtual Boy fu accompagnato con un particolare entusiasmo, Hiroshi Yamauchi sentiva la pressione dei competitor Sega e Sony che avrebbero lanciato i loro Saturn e PlayStation alla fine del 1994; l’Ultra 64 (precedente nome del Nintendo 64) sarebbe stato pronto solamente nel 1996, quindi era necessario immettere un prodotto nel mercato il prima possibile. In tutto questo però le cose al dipartimento di ricerca e sviluppo 1 (R&D 1), dove veniva sviluppato il Virtual Boy, non andavano per niente bene, e piano piano i fondi necessari per il miglioramento di questo dispositivo (molto difficile da gestire in quanto doveva produrre grafica 3D senza poligoni, con due schermi all’interno del visore e con meno elettricità possibile per mantenere la sua “portatilità”) furono trasferiti al più concreto progetto del Ultra 64 gestito dal R&D3, il quinto prodotto. L’attenzione per il Virtual Boy calò gradualmente dal 1995, e ciò lo si può riscontrare a tutt’oggi nella libreria dei giochi della console: la presenza di Mario nella console fu limitata a soli due giochi, mentre di The Legend of Zelda, Metroid e altri franchise principali non se ne parlava neanche, eppure questa strana macchina doveva essere lanciata nel mercato nonostante tutto. Ultimata la console, questa finì fra le mani del dipartimento marketing che doveva promuovere la console evitando ad ogni modo di non distogliere l’attenzione dal Nintendo 64. Le pubblicità lanciate più in là per il Virtual Boy, nonostante fossero molto strane, riscontrarono un buon successo in quanto puntavano al (reale) fatto che senza provare la console di persona non si poteva neanche avere un idea di come fossero i giochi. Il lancio era prossimo e il Virtual Boy doveva competere con Sega Saturn e Sony PlayStation, console ben fuori dalla sua portata e con… più colori!

(Perché scappare dal Virtual Boy? Non dovrebbe essere una console rivoluzionaria?)

Il Virtual Boy fu rivelato al pubblico in Giappone il 15 Novembre 1994, per lo Shoshinkai Software Expo, esattamente una settimana prima del lancio del Sega Saturn. Le reazioni del pubblico furono miste: da un lato la gente apprezzò la grafica (simil) 3D ma dall’altro rimase delusa per il singolo colore rosso e l’esorbitante prezzo di 15.000¥ (199,99$), molto più alto del prezzo di un Gameboy o persino di un Super Nintendo, macchine che offrivano un alternativa già visivamente superiore (pur essendo 8 e 16 bit rispettivamente).
Qualche mese dopo il Virtual Boy riscontrò gli stessi pareri negli Stati Uniti ma lì gli venne dato il beneficio del dubbio: il NES non riscontrò grandi pareri positivi alla presentazione, né il landscape videoludico sembrava a loro favore ma alcuni erano sicuri che il Virtual Boy avrebbe venduto almeno 3 milioni di unità. Tuttavia c’era un punto ancora non chiaro sulla vita di questa nuova console, ovvero la sicurezza della console stessa. Quei pochi che comprarono le prime unità sia in Giappone che negli Stati Uniti nelle date del lancio (21/07/1995 e 14/08/1995) trovarono una confezione colma di avvertenze per la salute dei giocatori, persino sulla facciata principale della scatola! Si sparse immediatamente la voce, soprattutto in Giappone, che il Virtual Boy fosse un dispositivo tremendo per gli occhi dei giocatori e che avrebbe potuto portare persino alla cecità. In realtà, a questo punto bisogna spezzare una lancia a favore del Virtual Boy e sfatare un mito che da sempre avvolge questa console:  Nintendo chiese a Reflection Technology di condurre ricerche sulla sicurezza di questa nuova console e pertanto un Virtual Boy fu mandato allo Shepens Eye Research Institute a Boston. I risultati furono più che normali, il Virtual Boy era a ogni modo sicuro ma era comunque raccomandabile non farlo usare ai bambini sotto i sette anni poiché lo sviluppo dell’occhio, a quell’età, non è ancora completo. Tuttavia Nintendo rilasciò il Virtual Boy prima ancora che le ricerche fossero concluse ed è per questo che la console fu imbottita di avvertenze (probabilmente se avessero aspettato i risultati dei test probabilmente ne avrebbero potuto mettere meno); il tutto era aggravato inoltre da una nuova legge approvata intorno alla metà del 1995 in Giappone con la quale le compagnie produttrici di beni di consumo diventavano più facilmente imputabili in caso di malfunzionamenti o incidenti di varia natura che coinvolgessero i loro prodotti. Nonostante fosse possibile sistemare il contrasto e calibrare le lenti del Virtual Boy, i legali Nintendo non volevano correre rischi e perciò armarono la console di avvertenze e convinsero gli sviluppatori ad inserire nei loro giochi un cronometro al termine del quale fa apparire dei messaggi che invitano il giocatori a fermarsi per un break.
Il lancio in Giappone passò quasi inosservato e la produzione della console fu già fermata nel Dicembre dello stesso anno; queste furono in realtà “buone notizie” per gli Stati Uniti, nei quali si può dire che la console ebbe una vita migliore. Durante la prime settimane vendette addirittura di più del Sega Saturn e tagliando la produzione in Giappone si poterono permettere un price drop drastico di soli 99$ per il Natale del 1995. Ciò non bastò per salvare questa macchina e, nonostante gli sforzi, la console non decollò mai, né ebbe mai una fanbase solida o un parco titoli interessante (giochi nettamente migliori erano reperibili su Sega Saturn, Sony PlayStation e persino Gameboy e Super Nintendo); le figure di vendita si chiusero per 770.000 unità totali fra Giappone e Stati Uniti, il Virtual Boy non raggiunse mai né l’Europa né l’Australia.

(Un overview di tutti i giochi presenti su Virtual Boy da parte dell’utente Dubbloseven)

Chiusa una porta, si apre un portone

Anche se nuovi giochi furono annunciati per l’E3 del 1996 (un gioco di Worms, un porting di Goldeneye 007, un gioco di carri armati ispirato alla demo di Reflection Technology e altri) Nintendo interruppe la produzione del Virtual Boy di lì a poco in modo che sia loro che i suoi utenti si potessero concentrare sul Nintendo 64, vero successore del Super Nintendo; i rimanenti Virtual Boy rimasti nei negozi furono venduti intorno ai 20$. Insieme ai giochi, altri prodotti non arrivarono mai a quei pochi consumatori, come lo stand aggiustabile e il link cable che, esattamente come quello del GameBoy, avrebbe permesso di collegare due Virtual Boy per il multiplayer. Nintendo riuscì a spostare l’attenzione dei fan al Nintendo 64 e il Virtual Boy, essendo stato una vera e propria meteora, fu dimenticato di lì a poco. All’interno della compagnia il Virtual Boy fu visto come una disgrazia, e Gunpei Yokoi si sentì responsabile di ciò che successe; Hiroshi Yamauchi però era tranquillo e, nonostante Yokoi si addossasse la colpa del fallimento dell’intero progetto, non diede mai la responsabilità di ciò che successe al suo collaboratore.

Yokoi si sentiva ugualmente coperto di vergogna. Il Virtual Boy doveva essere il suo ultimo prodotto prima del suo programmato (e meritatissimo) pensionamento a cinquant’anni ma l’insuccesso di quest’ultimo lo spinse a restare in Nintendo ancora per un po’. In molti riportano che il Virtual Boy sia stata la causa del suo presunto licenziamento, ma non è così (in quanto in primo luogo non fu licenziato, ma si ritirò di sua spontanea volontà): Gunpei Yokoi di lì a poco tornò a interessarsi del GameBoy, e presto lanciò nel mercato il GameBoy Pocket, un nuovo successo per Nintendo nonché suo vero ultimo prodotto nella compagnia.
Di solito, in Giappone, quando persone chiave come Gunpei Yokoi vanno in pensione è tradizione lasciare un ultimo segno della loro permanenza nella compagnia, sia come lascito sia per dare un ultimo sprint prima del meritato riposo; non poteva di certo andar via col Virtual Boy, il GameBoy Poket si rivelò il prodotto perfetto con la quale uscire di scena. L’abbandono di Gunpei Yokoi ebbe ripercussioni persino sulla borsa di Kyoto in quanto le azioni di Nintendo calarono drasticamente già dal giorno in cui andò via! Tuttavia i giornali di settore speculavano al licenziamento avvenuto sulla base dell’insuccesso del Virtual Boy. Yokoi sentì la pressione dell’opinione pubblica e decise di non darsi sotto: di lì a poco il leggendario inventore fondò la Koto Laboratory e la loro nuova console, il WanderSwan, fu presa in considerazione e successivamente prodotta dalla grandissima Bandai. Tuttavia Gunpei Yokoi non poté assistere né lancio nel 1999 in Giappone né al successo del WanderSwan in quanto morì in un incidente stradale nel 1997.

La Reflection Technology uscì distrutta dall’insuccesso del Virtual Boy, ma tentò di rifarsi con un nuovo prodotto chiamato Faxwiew, un piccolo dispositivo che permetteva di visualizzare i fax guardando attraverso un piccolo schermo, esattamente come il Private Eye o lo stesso Virtual Boy. Tuttavia nessuno finanziò questa invenzione e la Reflection Technology chiuse i battenti di lì a poco. Allen Becker cominciò invece a lavorare nel campo della purificazione delle acque per le nazioni in via di sviluppo, ma purtroppo si spense nel 2001, all’età di 53 anni.

(Allen Becker)

Per correttezza

Il Virtual Boy fu una console terribile, con una dubbia tecnologia e una grafica in grado di far venire il mal di testa a chi la usa, ma non è tutta da buttare.
Per quanto la si possa schernire, i giochi, nonostante la semplicità, sono ben lungi dal fare schifo, e perciò vogliamo rendere giustizia ad alcuni titoli di questa console, mai rilasciati per nessun’altra console. Esistono giochi che hanno davvero provato a trarre il massimo da questa console e dimostrato, per quanto possibile, che il Virtual Boy poteva realmente dare la sensazione di essere immersi in una realtà virtuale. Uno di questi giochi è certamente Teleroboxer, considerabile come una specie di spin-off della saga di Punch Out!!. Oltre al fatto di giocare con una visuale POV, dando già da subito l’impressione di essere all’interno del gioco, questo titolo sfruttava soprattutto lo strano controller del Virtual Boy che, in un certo senso, può essere considerato come una sorta di precursore dei controlli dual analog in quanto fu il primo ad includere due D-pad; al di là dei metodi di gioco, Teleroboxer è soprattutto un gioco molto divertente e se c’è un gioco per cui provare un Virtual Boy è proprio questo. Fondamentalmente, per quanto superficiale possa essere l’immersione, altri giochi che includono la visuale POV come Red Alarm, Bound High, Innsmouth no Yakata e Niko-Chan Battle meritano di essere provati con la console reale. Altri titoli come Mario Tennis, Mario Clash, Galactic Pinball e Waterworld (unico gioco basato su un film prodotto su questa console) sono  abbastanza interessanti e possono essere anche giocati anche con un emulatore, visto che gli effetti 3D non sono mandatori per questi titoli.
Discorso a parte va invece fatto per Virtual Boy Wario Land, altro grande titolo per i collezionisti di questa console; questo è considerato una vera e propria gemma del Virtual Boy e il fatto che sia rimasto relegato alla libreria della console e mai più rilasciato per nessun’altra riempie il cuore di tristezza (potrete comunque giocarlo con un emulatore). Per questo ci piacerebbe un giorno trovare per Nintendo Switch una collection con tutti i giochi mai usciti per Virtual Boy da giocare col nuovo headset VR della linea Nintendo Labo! Chissà se arriverà mai.

Non ci sono grandi premesse da fare per un collezionista o amatore che abbia intenzione di acquistare un Virtual Boy: assicuratevi solamente che il tutto funzioni regolarmente, soprattutto il sistema dei vetri riflettenti. Tuttavia, per voi che vi siete incuriositi leggendo queste righe, il Virtual Boy è raro e costoso e per quanto sia possibile trovarlo in vendita su siti come Ebay, e non ci sono grossi rischi di riceverne uno non funzionante, dovrete pagare ben più del suo prezzo originale. Certi titoli, essendo usciti alcuni solo in Giappone e altri solo negli Stati Uniti, sono rari e costosi e ancora non esiste, diciamo, una fanbase così grande che si stia mettendo a l’opera per produrre nuovi accessori, everdrive e pezzi di ricambio per questa console (e probabilmente non ci sarà mai). Esiste un sito in grado di produrvi una sorta di flashdrive per la console ma dovrete fornire al tecnico una cartuccia da sacrificare (e inoltre non sappiamo quanto sia affidabile). Acquistare questa console è solo una particolarissima e costostissima chiccheria ma… insomma, potreste dire di avere un Virtual Boy!




Nel Football Manager che vorrei, regen a cinque stelle e 666

Football Manager è più di un normale gestionale calcistico. È parte della vita di ogni allenatore virtuale che si rispetti, talmente tanto da costringerci a compiere azioni che “normalmente” non nessuno farebbe: basta chiedere a chi ha affrontato una stagione con la Lazio mentre la moglie era in travaglio, per esempio; oppure al conteggio delle mie ore passate su FM dal 2012 a oggi, più di 5000 giri d’orologio passati a imprecare contro i movimenti sbagliati dei miei difensori o a esultare per una promozione in Serie A col Palermo ottenuta sul filo di lana.
Insomma, come diceva Robbie Williams, «è la cosa migliore che abbia giocato in vita mia», ma è sempre così? I forum, d’altronde, traboccano di suggerimenti degli appassionati diretti agli sviluppatori di Sports Interactive. Quindi, da buon fan, mi unisco a loro: ecco cinque cose che vorrei su Football Manager 2020.

#1: più elementi ruolistici

“Ma Football Manager è un manageriale, mica un GDR” direte voi. Eppure Miles Jacobson, head director di Sports Interactive, intervistato da PC Gamer, ha detto «è uno strategico, ma anche un GDR. Ha più personaggi non giocanti (o NPC) di qualsiasi altro gioco di ruolo al mondo, permettendo di creare una storia unica, completamente diversa da giocatore a giocatore». Proprio perché FM è una simulazione con elementi ruolistici, c’è bisogno di sentire la crescita del nostro allenatore virtuale. Per questo vorrei che in FM 2020 si potessero finalmente allenare le giovanili dei club, magari delle serie inferiori, non avendo requisiti particolarmente alti, imitando in qualche modo il percorso di alcuni ex calciatori, poi diventati allenatori, come Fabio Grosso, passato dalla primavera della Juventus all’Hellas Verona.
E a proposito degli elementi GDR, sarebbe molto apprezzato un intervento mirato allo stipendio che percepiamo durante la stagione, cosa che, al momento, è praticamente inutile. Perché non stimolare l’aspetto ruolistico del gioco, usando proprio i soldi che riceve il nostro allenatore virtuale, nel miglioramento delle skill tramite vari corsi da frequentare, seguendo il modello dei patentini? E a proposito di quest’ultimi, sarebbe ancora più intrigante vedere la nostra reputazione crescere in base ai risultati ottenuti durante le stagioni, rispetto ai patentini ottenuti. Non vedo perché un allenatore senza patentino che vince un campionato di Prima Categoria debba valere meno di qualcuno più qualificato, ma reduce da un esonero o da una retrocessione. D’altronde, Maurizio Sarri è partito proprio ottenendo promozioni nei campionati inferiori, per poi compiere la scalata che lo ha portato ad allenare il Chelsea

#2: Sui giovani d’oggi non ci scatarro su

I cosiddetti newgen (o regen), ovvero i giovani creati dal gioco che, in un periodo della stagione, arrivano nel nostro settore giovanile. Amati da molti, odiati da alcuni, un buon lavoro di scouting può permetterci di scovare quel regen dalle potenzialità incredibili e che potrebbe migliorare, grazie alla mano dello staff e al tutoring di qualche giocatore più esperto. Purtroppo, i giovani soffrono di un problema atavico della serie, dovuto al loro mercato: molte volte, quando finalmente si trova quel giovane dall’abilità potenziale da almeno quattro stelle su cinque, e si cerca di acquistarlo, la squadra detentrice del cartellino “spara” pretese impossibili (per esempio, 50 milioni per un giocatore che al momento vale 300.000€). Se questo modus operandi è plausibile per un giocatore ritenuto fulcro di una squadra (citando un esempio di qualche anno fa, i 100 milioni di euro richiesti da Urbano Cairo per Andrea Belotti del Torino), trovo francamente insensato un salto così alto per un giovane che potrebbe avere sì grandi potenzialità, ma difficilmente usciranno fuori da una squadra dalle caratteristiche inferiori rispetto una squadra di mezza classifica in Serie A. D’altronde, nella scorsa sessione estiva di mercato, l’Empoli ha acquistato il cartellino di Antonino La Gumina dal Palermo per nove milioni…
A parte il folle mercato dei regen, trovo che sia più realistico veder arrivare nuovi giocatori nelle giovanili già dall’inizio della stagione, rispetto ai regen apparsi in Italia nel mese di marzo, quando la stagione calcistica si avvia alla conclusione. Chissà, magari potremmo trovarci in casa un potenziale exploit come Cutrone da inserire piano piano nelle gerarchie della squadra già dalla preparazione estiva.

#3: «stai zitto lo dici a tuo fratello»

Diciamoci la verità: le conferenze stampa su Football Manager sono sempre la solita solfa, noiose e ripetitive. Molti giocatori infatti, preferiscono affidarle al proprio allenatore in seconda e a questo punto: perché non inserire un po’ di “pepe“? Magari sempre affidandoci all’elemento ruolistico? Nel profilo del nostro allenatore troviamo la nostra reputazione dettata dai colleghi. Perché non inserire anche giornalisti e opinionisti al novero? Magari non è tanto di costume in Inghilterra come da noi (basti pensare alla lite Varriale-Zenga o alla recente querelle tra Adani e Allegri), però potrebbe dare quel quid in più che manca a FM. Volendo, si potrebbero sfruttare i dissapori contro i giornalisti di settore (o alcune fonti velenose nei nostri confronti) per indurre un silenzio stampa da parte della nostra società, atta a proteggere non solo noi, ma anche la squadra e il suo morale.

#4: Un po’ di comodità in più…

Football Manager è un gioco a cadenza annuale, come molti altri del genere: mi viene da pensare, per esempio, a Out of the Park Baseball. OOTP, così come FM, condivide l’immensa mole di dati e l’attenzione per il lato manageriale del cosiddetto diamante. Ma il titolo di Out of the Park Developments ha un vantaggio: la possibilità di migrare i salvataggi dal titolo precedente a quella nuova. Trovo assurdo che un titolo molto venduto come il manageriale di Sports Interactive non abbia questa comodità in più che sicuramente sarebbe gradita dai fan. Anche perché, affrontare una carriera lunga magari una dozzina d’anni, per poi essere costretto a ricominciare tutto da zero è, francamente, fastidioso. E credo anche che una scelta del genere aiuterebbe molti modder della scena, come Claassen, a non dover ricompilare una mole assurda di dati solamente per modificare qualche promozione o retrocessione.

#5: Un mondo migliore

A proposito di spunti da prendere da altri titoli, porto come esempio Motorsport Manager di Playsport Games e distribuito da SEGA, proprio come FM: una delle cose che più apprezzo di questo manageriale motoristico è la possibilità di votare il regolamento della stagione successiva, rendendo così il mondo di gioco più dinamico, aggiungendo un po’ di strategia in più, se pensiamo alla nostra scuderia. Tutto ciò potrebbe (e dovrebbe) essere applicabile anche su Football Manager, visto che il mondo del calcio è in costante evoluzione: è un po’ strano vedere la VAR disponibile in game nelle sole Serie A, Bundesliga e Liga quando, nella realtà, viene decisa l’introduzione della tecnologia a partire dagli ottavi di Champions League o nei prossimi playoff e playout di Serie B. Ma a parte l’applicazione di VAR e Goal Line Technology, sarebbe interessante vedere dei punti di penalizzazione in classifica dati dal gioco, senza dover intervenire obbligatoriamente nell’editor esterno: basta vedere l’ingarbugliata situazione della Serie B degli ultimi anni per avere un esempio. Per quanto sia una situazione complicata, il tutto darebbe quel tocco di realismo del quale Football Manager s’è sempre fatto alfiere. D’altronde, se viene simulata la brexit nel gioco, non vedo perché non si possa applicare lo stesso ragionamento anche per ciò che riguarda direttamente il mondo del calcio.




Google Stadia vs. The World

L’avvento di Google Stadia ha accelerato i tempi verso un futuro atteso da tutti. Del resto il digital delivery è sempre più una realtà prossima, con anche Sony e Microsoft che cominciano attivamente a sondare il terreno, cercando di capire quanto l’utenza sia ancora legata alla copia fisica o se cominci già a strizzare l’occhio al digitale. Gli approcci sono diversi, ma c’è un dato impossibile da ignorare: le console fisiche esistono ancora e l’avvento di PlayStation 5 e Microsoft Scarlett pare procedere costante.
Google, dunque, è stata fin troppo ambiziosa o Sony e Microsoft sono state troppo conservatrici? Analizziamo in dettaglio la situazione.

Forzare il cambiamento

Da quando il servizio Stadia è stato presentato, la domanda è stata una soltanto: riuscirà Google a gestire centinaia di migliaia di videogiocatori contemporanei sui diversi dispositivi? È una domanda importante, fare il passo più lungo della gamba è un rischio che il colosso di Mountain View non può certo permettersi.
Dal canto suo, la presentazione ha avuto successo, lasciando sbalorditi gli addetti ai lavori e meravigliando i videogiocatori che, improvvisamente, hanno visto cadere le catene che li vincolavano a un singolo hardware. L’importante è giocare, poco importa su quale supporto. Del servizio streaming ancora mancano alcuni dettagli, come la modalità di pagamento o se serva o meno il possesso di un gioco, ma di certo le luci della ribalta al prossimo E3 saranno sicuramente puntate verso questo nuovo inizio. LE caratteristiche tecniche ve le abbiamo già raccontate, sono sicuramente molto allettanti e capaci di portare il gaming su nuovi livelli, non solo per chi gioca ma soprattutto per chi sviluppa e produce, cambiando per sempre la faccia del mercato: l’aver disponibile tutto, subito e ovunque eliminerà all’istante aggiornamenti e add-on scaricabili e patch, il rilascio di demo e beta, nonché la distribuzione in generale con i publisher che dovranno cambiare strategia comunicativa, forse più diretta e personalizzata.
Il futuro sembra proprio roseo, un futuro arrivato molto presto e capace di prendere tutti alla sprovvista. Tra questi Sony, Microsoft e Nintendo, con lo sviluppo di nuove console in dirittura d’arrivo, in qualche modo già obsolete.
In questo periodo però, si sta sondando il terreno, con strategie diametralmente opposte: PlayStation Now è realtà e sembra funzionare abbastanza bene anche nel nostro paese, anche se ancora non vanta una libreria da capogiro. Il servizio Sony ha permesso a molti utenti PC di saggiare finalmente alcuni dei suoi titoli più importati (Bloodborne su tutti), completamente in streaming, un evento totalmente inedito e fino a poco tempo di fa inimmaginabile. PlayStation 5 è una console fisica, di cui sappiamo già le caratteristiche tecniche, che porta il gaming verso una reale next-gen; a questo punto però, next-gen non è riferito solo alla componente tecnica. Purtroppo Mark Cerny non si è sbottonato su streaming e servizi tangenti, ma le peculiarità della nuova console lasciano ben sperare, pur mantenendo un supporto ottico vista anche la retrocompatibilità con PlayStation 4.
E Microsoft? Proprio in questi giorni, la presentazione della nuova Xbox One S All-Digital, console interamente dedicata al digital delivery. Questa mossa, visto anche il prezzo di 229,99€, ha lasciato interdetti i più, visto che la stessa console con supporto fisico ha lo stesso prezzo se non addirittura minore. La via della casa di Redmond è dunque diversa, ibrida, presentando ancora la “classica scatola”, quasi per non disorientare l’utenza; una scelta senza dubbio interessante, e tutto questo lascia presupporre come anche Microsoft stia sondando il terreno, in preparazione della sua nuova console.

Il futuro degli altri

Alle 22:00 del 9 Giugno, Microsoft sarà chiamata a rispondere sul campo alla proposta allettante di Google e alle caratteristiche estreme di Sony. È chiaro come la divisione gaming del colosso di Bill Gates abbia imparato dai propri errori, puntando su una maggiore attenzione alla comunicazione e sui feedback della community. Proprio per questo la nuova Scarlett (nome ancora in codice delle nuova console) è un passo cruciale per il futuro del mercato, facendo saggiare probabilmente le caratteristiche del Project xCloud, definito come il “Netflix dei videogame”. Della nuova console si sa poco o nulla: è ovvio che sarà estremamente performante ma non è quello che interessa. Quello che conta adesso è la visione del futuro e l’approccio che Microsoft (come Sony del resto) avrà in questi mesi. Da giugno in poi, infatti, contando che Stadia uscirà a fine anno, potremmo avere un nuovo catalogo di scelta che non si baserà più sulle caratteristiche tecniche o sui titoli esclusivi ma sul tipo e sulla convenienza del servizio offerto. Questo apre un ventaglio immenso di possibilità, fatta di eventuali abbonamenti e fruibilità su diversi dispositivi. A questo proposito Apple non è rimasta a guardare: Apple Arcade non è ancora stato accostato allo streaming, certo, ma la presenza di un abbonamento per poter usufruire di titoli esclusivi è quasi certo. Questo aprirebbe il mercato a una concorrenza spietata e, nonostante l’approccio sembra essere ben diverso rispetto a Google, la casa di Cupertino sembra voler entrare a gamba tesa, sfruttando nomi altisonanti come Devolver Digital, Sega e Konami, facendosi via via strada nell’intricato mondo del gaming.
Nintendo rimane perora in disparte: se è vero che in Giappone è possibile giocare a Resident Evil VII e Assassin’s Creed: Odyssey in streaming su Switch, non si hanno ulteriori notizie sulle prossime mosse del colosso di Kyoto. Il suo approccio è cambiato radicalmente dopo la mala sorte toccata a Game Cube, cercando via traverse (per lo più di successo) per conquistare il pubblico. Ma adesso il mercato sta cambiando nuovamente e i giocatori, come si evince, sembrano attirati dal nuovo Eden offerto dalle nuove tecnologie.
L’avvento di Google Stadia dunque, sembra aver messo tutti sull’attenti, e fare un passo falso adesso decreterebbe un avvio difficoltoso e un gap difficilmente colmabile negli anni a venire. Microsoft, Sony, Apple e Nintendo, sono pronte a darsi battaglia portando la loro visione del futuro in un mercato che aveva disperatamente bisogno di una reale novità. La novità è arrivata, e non vediamo l’ora di entrare in un mondo che fino a pochi mesi fa sembrava fantascienza.




Hi, my name is… Hideki Kamiya

Dopo una breve pausa, riprende la nostra consueta rubrica sulle più importanti personalità del mondo del Game Design. In occasione dell’uscita del quinto capitolo della saga action più apprezzata degli ultimi anni, Devil May Cry 5, ci occupiamo della mente che ha dato i natali alle avventure di Dante: Hideki Kamiya. Classe 1970, Kamiya ha avuto l’arduo onere di provocare un violento scossone all’interno del genere d’azione in terza persona, da anni ormai stagnante nelle sue vecchie meccaniche logore e non al passo con i tempi. Facciamo però qualche passo indietro.
Kamiya inizia la sua gavetta in casa SEGA e successivamente passa alla Namco ma, nonostante una buona partenza nel settore, il nostro Hideki non si sente pienamente realizzato, costretto dalle case produttrici a lavorare come semplice artista senza alcuno spazio nelle scelte di game design. Decide così di migrare verso altri lidi di sviluppo, riuscendo a ricoprire il ruolo di designer in Capcom nel 1994. Il suo primo incarico con la casa di Osaka comporta una notevole dose di responsabilità sulle spalle di Kamiya, il quale si ritrova a dover portare avanti una saga che si preannunciava iconica già fin dal primo titolo: il designer viene affiancato al maestro Shinji Mikami nella lavorazione di Resident Evil 2, sequel dell’apprezzatissimo capostipite, ricoprendo il delicato ruolo di director.
Il nuovo capitolo della saga horror di Capcom doveva rivoluzionare le meccaniche alla base del precedente capitolo ed espandere l’universo di gioco, pur rimanendo fedele a se stesso. Mikami in prima persona era stato messo al comando dello sviluppo ma i vertici di Osaka non rimasero soddisfatti del lavoro compiuto, motivo per cui il team venne affidato al giovane Kamiya alla sua prima esperienza come direttore. Il prototipo di Mikami, lo storico Resident Evil 1.5, viene messo da parte dal nuovo team di sviluppo e il progetto prende una piega completamente diversa. Viene rivisto il gameplay, rendendolo più dinamico rispetto al primo episodio, viene stravolto l’impianto scenografico conferendogli un respiro hollywoodiano e ampliato enormemente il numero di nemici su schermo superando il limite di 7 zombie per schermata, aspetto che mette a dura prova le capacità tecniche della prima PlayStation. Vengono introdotti nuovi personaggi per dare continuità ai fatti raccontati nel primo capitolo, grazie all’apporto in sceneggiatura di Noboru Sugimura e per la prima volta fanno la comparsa i temibili Licker , divenuti presto le icone di Resident Evil 2.
Il gioco è apprezzato dai capoccia di Capcom e anche in termini di vendite e critica viene accolto positivamente, stabilendo numeri che permisero al lavoro di Kamiya di entrare a far parte della lista dei best seller Playstation. Uscito nel 1998, Resident Evil 2 è stato il primo grande passo per il designer che ha saputo dimostrare all’intero mercato il suo valore e la grande capacità di unire novità e tradizione, incontrando anche i favori di un pubblico che si faceva sempre più esigente e diversificato.

La carriera del giovane Kamiya è soltanto agli albori e l’esperienza al fianco di Mikami non è del tutto archiviata. Agli inizi degli anni 2000 gli viene affidato il compito di lavorare al quarto capitolo della saga di RE con l’obiettivo primario di dare una svolta totale alle meccaniche di gioco; ripartire da zero nel tentativo di allargare sempre di più l’utenza senza rinunciare all’altissimo livello qualitativo richiesto dal publisher. Un compito per niente facile a cui il nostro Hideki non si sottrae.
Aiutato un’altra volta da Sugimura alla scrittura, il progetto prende una piega totalmente diversa rispetto alle idee iniziali. Lo scenario di gioco viene stravolto a favore di una ambientazione più gotica e medioevale; le meccaniche da survival horror abbandonate per fare spazio a un approccio più votato all’azione e al dinamismo, gli sfondi prerenderizzati che caratterizzavano i capitoli precedenti vengono del tutto sostituiti da ambientazioni completamente in 3D, e di conseguenza anche la telecamera fissa lascia il posto a una camera più attiva e veloce. Del classico Resident Evil insomma rimane veramente poco ed è Mikami a suggerire di dare la luce a una nuova IP, sfruttando le grandi potenzialità del nuovo progetto e mettendo la sua creatura al sicuro da possibili contaminazioni che avrebbero portato la serie verso altri lidi.

Il team capitanato da Kamiya viene soprannominato Team Little Devils ed è proprio da qui che il director prende spunto per battezzare il suo ultimo lavoro: Devil May Cry. Uscito esclusivamente su PS2, il gioco diventa subito una devastante killer application per la casalinga di Sony e con il tempo raggiunge lo status di vero e proprio cult riuscendo a stupire per l’incredibile audacia di Kamiya nel saper unire alla perfezione meccaniche hack’n’slash con l’azione in terza persona. Adrenalinico, divertente e con un forte carisma, la prima avventura di Dante ha dato il via a una saga che oggi conta 5 episodi e un reboot distribuiti su tre generazioni di console. Tra alti e bassi, Devil May Cry è diventato velocemente un titolo di punta per la casa di Osaka, anche se il suo padre ideatore ne ha curato solamente il primo episodio per poi focalizzarsi su altri progetti.

Dopo il grande successo ottenuto con DMC, Capcom ripone piena fiducia nelle capacità del giovane designer tanto da concedergli carta bianca per i futuri progetti, ma non abbastanza da affidargli esosi budget. Così Kamiya mette in cantiere un prodotto atipico, unendo la sua passione per i vecchi giochi a scorrimento orizzontale con quella per i supereroi. Nasce un gioco talmente bizzarro da riuscire a trovare soltanto una piccola fetta di pubblico entusiasta, ma viene totalmente ignorato dalle grandi masse. Previsto inizialmente come esclusiva per Nintendo Game Cube e un anno dopo approdato anche sui lidi PlayStation, nel 2003 la Capcom distribuisce Viewtiful Joe. Seguendo le vicende di Joe e della sua compagna Go-Go Silvia, Kamiya imbastisce un beat’em up a scorrimento orizzontale che fa della sua cifra stilistica il maggior punto di forza. Tra citazionismi da otaku e scelte di gameplay atipiche, basate su una sorta di slowmotion controllato dal giocatore, il gioco racchiude in sé un potenziale che verrà fuori pienamente soltanto con il secondo capitolo. Purtroppo la saga non avrà lunga vita e dopo due capitoli principali, uno spin off sulla falsa riga del picchiaduro Super Smash Bros. e qualche exploit su portatile, Viewtiful Joe e soci sono stati presto dimenticati dal pubblico e da Capcom stessa, che riserverà al supereroe in calzamaglia rossa soltanto sporadiche apparizioni in altri titoli, come a dire “sì, ci piaci ma non così tanto da concederti un’ulteriore possibilità”.

Intanto, nei corridoi di Capcom, alcuni sviluppatori cominciano a sentire una certa insofferenza verso la casa produttrice, riguardo le sue scelte aziendali. Molti dei progetti in cantiere in quel periodo sono indirizzati con l’obiettivo di rischiare il meno possibile in termini di risorse ed investimenti. La dirigenza preferisce spendere budget in sequel di saghe che hanno dimostrato un ricavo sicuro e le creazione di nuovi brand non viene neanche preso in considerazione. Autori come lo stesso Mikami, Keiji Inafune, Atsushi Inaba e Masafumi Takada cercano di svincolarsi dal controllo dei vertici attraverso la creazione di team di sviluppo interni che rivendicano la loro indipendenza concettuale. Nasce così il leggendario Clover Studio, una piccola bottega delle meraviglie dove presero vita, oltre a Viewtiful Joe lo sfortunato God Hand e un secondo gioco di Kamiya: Okami.
È il 2006 quando il gioco viene pubblicato e fino ad oggi risulta essere il titolo tecnicamente più ispirato di tutta la produzione del designer giapponese. Okami è un vero e proprio tributo d’amore alle saghe preferite di Hideki, prima fra tutti un immancabile The Legend of Zelda, se non altro per le meccaniche di gameplay che strizzano continuamente l’occhio al capolavoro Nintendo; Kamiya non si limita a una vuota riproposizione degli stilemi classici della serie, ma aggiunge tasselli nuovi e originali, come la capacità del giocatore di pennellare letteralmente gli oggetti su schermo e di attaccare i nemici tramite questo magico strumento. E se un solidissimo adventure non dovesse bastare, i ragazzi Clover regalano ai giocatori uno spettacolo per gli occhi prendendo a piene mani dall’arte tradizionale del Sumi-e, ovvero la pittura a inchiostro e acqua. Uscito come esclusiva PS2, Okami non ha mai realmente brillato sul piano delle vendite, ma è stato così apprezzato nel lungo periodo che sono stati numerosi i porting operati da Capcom nel corso degli anni, portandolo su Wii e su tutte le console di attuale generazione attraverso i corrispettivi store digitali, dando la possibilità agli utenti di poter giocare a questa piccola gemma senza tempo.

Dopo la parentesi Okami, Clover Studio viene chiuso definitivamente da Capcom e gran parte del team si riunisce sotto un nuovo nome: lo stesso anno infatti viene fondata PlatinumGames, oggi famosa nell’intero globo per aver dato i natali ai migliori action degli utlimi anni. Grazie alla nuova indipendenza conquistata, i membri di Platinum iniziano a sviluppare giochi multi piattaforma sotto diversi publisher, mantenendo un buon margine di libertà creativa. Nel 2009 è sega la casa a finanziare i primi giochi del nuovo team a partire dal divertente Mad World uscito in esclusiva su Wii, passando per lo strabiliante Vanquish su PS3 e X-box 360.
Ed è sotto la nuova software house che Kamiya concepisce, a giudizio di chi scrive, il suo capolavoro: pubblicato per le console casalinghe di Sony e Microsoft, Bayonetta sarà la summa totale di ciò che il designer ha sempre cercato di raggiungere, l’action game definitivo. Il gioco è l’esatta evoluzione di quanto fatto con Dante su PS2: con un colpo di spugna Kamiya setta un nuovo standard per tutta la concorrenza e crea un manuale perfetto per le software house che da quel momento in poi vogliano cimentarsi nello sviluppo di un gioco d’azione. Con un palese riferimento allo storico Team dei “piccoli diavoli”, il designer chiama a raccolta i suoi migliori sviluppatori e crea il Team Little Angels lanciando più di una frecciatina alla sua ex compagnia, la Capcom. Kamiya alleggerisce i toni rispetto al più serioso e oscuro Devil May Cry: i personaggi si prendono meno sul serio e la storia, nonostante raggiunga momenti drammatici, non risulta mai pesante. Il gamepla è d’altro canto quanto di meglio si possa desiderare da un gioco di questo genere, la componente di attacco è incredibilmente bilanciata con la pericolosità e velocità dei nemici. Inoltre per poter uccidere un determinato tipo di avversari sarà necessario sbloccare il climax, ovvero una sorta di dimensione parallela dove Bayonetta può indistintamente colpire senza dare la possibilità al nemico di difendersi. Stilisticamente il gioco si discosta dalle avventure di Dante, preferendo un’ambientazione gotica che convive con strutture Liberty in grado di dare eleganza e un giusto tocco di femminilità e grazia. Tutto il gioco è un continuo ammiccare verso il giocatore e più di una volta vi ritroverete a parlare direttamente con la protagonista come se fosse cosciente della vostra presenza al di là dello schermo del televisore, una rottura della quarta parete inserita con intelligenza e grazia. Al momento della sua uscita il gioco riscosse un discreto successo di pubblico, purtroppo limitato dalla sventurata versione PS3 convertita in fretta e furia e senza le adeguate attenzioni. Il risultato fu talmente disastroso da inficiare il gameplay, con FPS ballerini e una resa grafica mediocre. Nel corso del tempo, e grazie alla mano vigile di Nintendo sul brand, il capolavoro di Kamiya ha ritrovato una seconda giovinezza passando da multi piattaforma a esclusiva totale per le console della casa di Tokyo, fatto che ha portato Bayonetta 2 (diretto da Hirono Sato) a essere una killer application per WiiU nel 2014 e che vedrà un terzo capitolo in esclusiva per la ibrida Nintendo nei prossimi anni.

L’ultimo gioco diretto da Kamiya risale però al 2013 ancora una volta su WiiU e rappresenta l’esperimento più bizzarro dell’ex Capcom: The Wonderful 101, un particolare incrocio tra un RTS e un gioco d’azione, basato sui riflessi e la coordinazione del giocatore. Il gioco chiama in causa un gruppo di supereroi determinati a salvare la terra dall’attacco di terroristi alieni nominati Geathjerk. Assurdo e improbabile, il gioco è un concentrato di idee geniali che sfruttano pienamente il paddone del WiiU. Graficamente piacevole e dal ritmo sfrenato, purtroppo non è stato considerato dal pubblico relegandolo nel girone dei giochi dimenticati troppo velocemente. È notizia recente però la volontà del designer giapponese di riportare la sua creatura all’attenzione del mercato attraverso un porting su Switch, occasione perfetta per incontrare il favore del pubblico su una piattaforma molto più popolare della precedente.

Il lavoro e la grande passione di Hideki Kamiya hanno portato una importantissima rivoluzione all’interno del genere action , creando due brand che hanno spinto i limiti fino ad allora raggiunti e che ancora oggi sono considerati dei veri e proprio cult nel settore. Nonostante la sua versatilità, il designer non sempre è riuscito a catturare l’attenzione del mercato mondiale pur continuando a regalare ai suoi sostenitori prodotti di una qualità estremamente elevata. In attesa di farci stupire ancora una volta dal padre di Dante non possiamo fare altro che augurare un futuro radioso all’intero team, abbracciando pienamente la loro filosofia di sviluppo che ha saputo donarci più di una soddisfazione da videogiocatore.




SNK 40th Anniversary Collection

Se qualcuno non lo sapesse, cominciamo col ricordare che SNK è stata una delle case videoludiche più influenti e importanti del Giappone in campo hardware e software. La Shin Nihon Kikaku (in inglese “New Japan Project”) fu fondata nel 1973 e cominciarono a produrre videogiochi dal ’79 per tutti gli anni ’80 ma fu negli anni ’90 che diventarono dei protagonisti del gaming di quegli anni. Popolari nell’home market ma soprattutto nelle arcade, la SNK rilasciò il Neo Geo MVS (che sta per Multi Video Sistem) nel 1990, segnando così un punto di svolta nel mercato. Oggi SNK è una delle compagnie più attive nell’ambito del retrogaming, avendo rilasciato molti dei suoi titoli chiave sullo store del Nintendo E-Shop e lo spettacolare Neo Geo Mini, una bellissima mini console che riproduce la forma e le funzionalità di un cabinato MVS.
A fine 2018, il 13 Novembre, SNK ha rilasciato per Nintendo Switch la bellissima SNK 40th Anniversary Collection, approdata lo scorso 29 marzo su PS4, una raccolta di titoli pre-MVS curata da Digital Eclipse e SNK, che racconta le radici di questa nota compagnia giapponese. Non troveremo nessun Metal Slug, King of Fighters, Fatal Fury o Samurai Showdown ma avremo in compenso dei grandi titoli che hanno posto le basi per l’avvenire di SNK e i suoi futuri “big red monster”, i cabinati Neo Geo MVS,  che dominarono le arcade negli anni 90. Vediamo cosa c’è all’interno di questa bellissima collection che celebra la vita e l’eredità di una compagnia giapponese che fronteggiò Nintendo e Sega con risultati veramente eccellenti.

Una notte al museo

Prima di scendere nelle (brevi) analisi dei singoli giochi che compongono questa raccolta, vogliamo analizzare la presentazione della collection in sé. All’avvio avremo la possibilità di accedere alla sezione museo dove poter conoscere la storia dei titoli SNK dal 1978 – pensate –  al 1990, anno in cui fu lanciato il più standardizzato sistema Neo Geo MVS, includendo dunque anche giochi che non sono presenti in questa raccolta. Ogni presentazione include solitamente artwork, manuali di istruzioni, illustrazioni pubblicitarie, screenshot e a volte anche foto dei cabinati, il tutto accompagnato da brevi ma dettagliatissime linee di testo che ci raccontano la storia dello sviluppo del gioco in questione, le innovazioni portate e retroscena esclusivi. Sono così utili e belle che le abbiamo consultate più volte nel compilare questa stessa recensione!
La sezione museo include inoltre le colonne sonore di tutti i giochi presenti in questa collezione, nel caso vorreste ascoltare singolarmente alcuni dei brani dei giochi a cui avete giocato. Nelle opzioni invece potrete guardare i crediti, cambiare la lingua (dei menù, non certo dei giochi), vedere il progresso degli achievement esclusivi di questa collection e scegliere la visualizzazione verticale o orizzontale, come un vero cabinato arcade (ma questa opzione è possibile solo in modalità portatile).
Nei giochi, così come accade per le migliori collection che si rispettino, abbiamo la possibilità di cambiare il ratio dell’immagine, ovvero il classico 4:3 (spesso allungato) centrato, il 4:3 che si lega ai bordi superiori e inferiori dello schermo e 16:9 (le stesse opzioni presenti nella release Sega Ages di Thunder Force IV); poi possiamo cambiare filtro dell’immagine, ovvero il pixel perfect (senza filtro), con gli scalini della TV e il filtro monitor da sala giochi, ai tempi più avanzati rispetto ai monitor casalinghi. Essendo questa collection principalmente indirizzata ai giocatori di una certa età che hanno giocato in passato a questi titoli, e che con buona probabilità hanno sempre meno tempo per giocare ai videogiochi, è stato inserito un tasto rewind, “L”, che permette di mandare indietro l’emulazione dei giochi giocati e dunque giocare al meglio ogni singola partita; un compromesso veramente superiore, e più veloce, dei più comuni save/load state (a ogni modo presenti e utilizzabili dal menù di pausa). Qualora doveste abbandonare per forza la vostra partita potrete tornare al menù principale con l’opzione “salva ed esci”; in questo modo, quando riprenderete la vostra partita, vi ritroverete esattamente nel punto in cui l’avevate lasciata, una scelta semplice, standard, essenziale e perfettamente funzionale. In alcuni dei giochi è possibile cambiare la regione e scegliere le versioni arcade e Nintendo Entertainment System (ove presente). Quest’ultima opzione è una vera e propria manna dal cielo per quegli utenti che non hanno ancora preso in considerazione l’iscrizione al servizio online di Nintendo Switch che permette l’accesso ai titoli NES in streaming. Ma adesso diamo un breve sguardo di dettaglio a buona parte dei giochi inclusi in questa raccolta.
Di seguito vi verranno riportati i titoli (anche alternativi), l’anno di produzione, le versioni regionali (selezionabili dal menù col tasto “X”) e versione hardware, ovvero arcade e/o NES.

  • Alpha Mission/ASO1985US, JPArcade, NES. Uno dei primi shoot ‘em up moderni della SNK, che dunque seguì la rivoluzione lanciata da Gradius nel 1985. Il gameplay si rifà principalmente a Xevious, con obiettivi in volo e in superficie da eliminare coi missili, ma la sua unica meccanica consistente nel raccogliere pezzi di armatura in volo, e dunque creare diverse combinazioni di offesa e difesa, lo accostava tranquillamente ai giochi RPG di cui i programmatori SNK erano ghiotti. È un gioco veramente difficile e tedioso ma grazie alle opzioni inserite in questa collection potremo giocarlo con molta calma, la stessa che mancava tempo addietro quando orde di bambini sudati inserivano le proprie 500 lire per provare a superare anche un solo livello.
  • Athena1986INTArcade, NES. Platform che ha per protagonista la dea greca della sapienza, dell’arte e della guerra (rigorosamente in bikini rosso come da tradizione epica), lo si può considerare come un insolito mix di Alex Kidd in Miracle World, per il design generale, e Ghost ‘n Goblins per la sua incredibile difficoltà. Sebbene il gioco non sia esente da difetti, Athena fu una delle più grandi hit della SNK prima del lancio del Neo Geo MVS; il titolo portò elementi propri del RPG, genere più propriamente legato alla dimensione casalinga, in un semplice platform per arcade tramite la semplice collezione di armi, scudi e pezzi di armatura che apparivano addosso ad Athena una volta raccolti: una vera rivoluzione per l’epoca. La protagonista stessa divenne una delle prime mascotte della SNK, tanto che per il titolo Psycho Soldier (che vedremo più avanti) venne creata Athena Asamiya, una discendente diretta dell’originale Athena, che apparirà più in là anche nella serie picchiaduro King of Fighters, anche con l’iconico bikini rosso nelle schermate di vittoria. Sconsigliato a chi ha poca pazienza e ai puristi dell’epica greco-romana.
  • Crystalis/God Slayer1990US, JPNES. Questo titolo per NES si discosta in tutto e per tutto dallo stile arcade che caratterizza molti dei giochi SNK presenti in questa collection, infatti Crystalis è un iconico gioco d’avventura sullo stile di The Legend of Zelda che provò a colmare la grande fame venutasi a creare dopo il rilascio di Zelda II: The adventure of Link, titolo che lasciò i fan della saga con uno strano amaro in bocca per il suo forte scostamento dal primo capitolo. A differenza dell’iconica saga Nintendo, il design generale di Crystalis ha una spiccata sfumatura sci-fi, più vicina a Phantasy Star, e altre componenti RPG non presenti in The Legend of Zelda, prima fra tutti la crescita livellare. Il gioco ricevette nel 2000 un porting per Gameboy Color ma solamente con l’avvento di internet Crystalis ottenne lo status di cult following. Una vera e propria chicca per NES che difficilmente gli iscritti del servizio online di Nintendo Switch vedranno in tempi brevi (sempre se mai arriverà) in streaming; una vera e propria gemma nascosta che potrete persino giocare offline! Se c’è un titolo che vale l’acquisto di questa collection, Crystalis è esattamente quel gioco.

  • Ikari Warriors/Ikari1986US, JPArcade, NES. Ispirato a film come Rambo e Commando, Ikari Warriors è un gioco simile a uno shoot ‘em up che però ci permette di controllare l’avanzamento dei nostri soldati Ralph e Clark (Paul e Vince al di fuori del Giappone), futuri combattenti in King of Fighters. Sebbene, come Athena, il gioco presentava una miriade di difetti (soprattutto sulla versione per console) il gioco diventò popolarissimo, sia nelle sale giochi che nelle case dei possessori del NES, per via dell’avvincente campagna da giocare in due giocatori contemporaneamente. Dopotutto, come non poteva Ikari Warriors diventare popolare? Insomma, includeva due virili soldati che uccidevano ondate di nemici in una giungla a petto nudo a colpi di fucile (infatti molti giocatori speculavano che i due personaggi giocabili erano proprio John Rambo e John Matrix di Commando, in poche parole Sylvester Stallone e Arnold SchwarzeneggerRambo Commando!), granate ed era possibile anche guidare i carri armati, feature che diventerà essenziale in Metal Slug. La versione per console è decisamente la più difficile in quanto non era possibile includere la feature dello stick rotante presente in sala giochi (oggi fedelmente riprodotta nella la versione arcade col secondo stick del controller del Nintendo Switch, le stesse meccaniche di un twin stick) e non era possibile continuare a giocare dopo la perdita delle due vite; tuttavia, alla perdita dell’ultima vita, potrete riprendere a giocare se digiterete, con i tasti “A” e “B” del NES, il nome di una famosa pop band svedese di quattro lettere… Mamma Mia, che complicazione!
  • Ikari Warriors II: Victory Road1986US, JPArcade, NES. Terminata la prima avventura, Paul e Vince tornano a casa in aereo ma una strana turbolenza li porta avanti nel futuro, in uno strano mondo sci-fi popolato da strane creature e alieni. Il gameplay generale rimase lo stesso del primo capitolo ma furono aggiunte giusto nuove armi, come i bazooka e le spade in grado di uccidere i nemici senza un proiettile, le aree nascoste e sostituiti i carri armati con delle armature. Questo nuovo titolo incluse inoltre delle chiarissime linee di dialogo, uniche per entrambe le versioni. Nonostante i temi più seriosi, in Ikari Warriors II furono inseriti elementi di humor per rendere la fruizione del gioco più leggera. Se giocate a questo gioco in due provate a incrociare le spade come si vede nell’artwork!
  • Guerrilla Wars/Guevara1987US, JPArcade, NES. Inizialmente il gioco fu concepito come un ulteriore sequel di Ikari Warriors ma durante lo sviluppo il presidente della SNK si interessò ai personaggi di Ernesto “Che” Guevara e Fidel Castro dopo aver letto il libro “La Guerra di Guerriglia” scritto dal rivoluzionario cubano, unico libro che trattava la rivoluzione cubana disponibile in Giappone. Fu così che un giorno, a metà dello sviluppo del sequel, si presentò ai programmatori chiedendo che il titolo venisse trasformato in un gioco sui rivoluzionari cubani. Ebbene sì, nella versione Giapponese (in realtà anche quella americana ma i nomi dei personaggi giocabili non vengono mai menzionati) controllerete il guerrigliero Che Guevara e l’ex leader cubano Fidel Castro, come secondo giocatore, intenti a rovesciare il durissimo governo di Fulgencio Batista… altro che lezioni di storia! Il gameplay riprende Ikari Warriors in tutto e per tutto ma aggiunge il salvataggio di ostaggi, che se colpiti da un nostro proiettile comporteranno la perdita di 500 punti, e il miglioramento delle AI dei nemici, ora più furbe e più strategiche. Probabilmente è un gioco che non portò grandi innovazioni, ma era un gioco “rivoluzionario” a modo suo!

  • Ikari III: The Rescue1989US, JPArcade, NES. Stavolta per la rabbia, visto che “Ikari” in giapponese significa proprio “rabbia”, Paul e Vince abbandonano le armi e decidono di far fuori i nemici alla vecchia maniera: “mazzate”! In Ikari III le armi da fuoco si fanno rare, così come i neo-introdotti oggetti contundenti, e il nostro metodo di difesa principale diventano i pugni e i calci – un vero e proprio tributo a Chuck Norris!. Da notare è anche l’abbandono dello stile animato degli artwork in favore di uno più realistico e crudo.
  • Iron Tank1988US, JPNES. Altro titolo sviluppato per NES che non arrivò mai nelle sale giochi ma che, a differenza di Crystalis, conserva un gameplay prettamente arcade. Iron Tank è il sequel di TNK III (che vedremo più avanti), ovvero un gioco simile a Ikari Warriors ma in cui controlleremo un carro armato. I due tasti del NES serviranno a sparare due tipi di fuoco diversi, ovvero uno sparo che segue la direzione del carro armato e uno direzionato nel verso del cannone principale. TNK III era dotato dello stesso stick rotante di cui Ikari Warriors era munito per muovere il cannone principale (dunque si poteva mirare dritto col cannone principale e spostarsi lateralmente continuando a sparare coi cannoni inferiori, sparando così in due direzioni contemporaneamente) ma col controller del NES è tutto un altro discorso: il cannone superiore si muove soltanto quando terremo premuto “B” (layout del NES), ovvero il tasto dei cannoni inferiori, perciò sarà impossibile sparare in due direzioni in questa versione. Nonostante le limitazioni Iron Tank risulta comunque un gioco molto gradevole.
  • P.O.W. Prisoners of War/Datsugoku1988US, JPArcade, NES. Uno dei primi beat ‘em up della SNK, P.O.W. si rifà principalmente a film come Fuga di mezzanotte o Fuga da Alcatraz in cui un protagonista programma, e conclude, una fuga da una prigione di massima sicurezza. La versione arcade di questo gioco ha un sistema di controllo a quattro tasti che includono un calcio e un pugno forte, un tasto per le combo e un tasto per il salto. Nel 1989 P.O.W. uscì per NES e, visti i problemi relativi al controller e alla memoria del sistema, fu semplificato il sistema di combattimento e tolta la modalità per due giocatori; in compenso furono introdotte nuove armi e oggetti contundenti, sub-aree e un nuovo boss finale. Per una volta la versione NES sembra che abbia dato di più rispetto alla controparte arcade!

  • Prehistoric Isle in 19301989US, JPArcade. In questo spettacolare shoot ‘em up sulla scia di R-Type partiremo alla volta di una misteriosa isola per capire cosa si cela dietro allo strano fenomeno della scomparsa degli aerei che le si avvicinano; una volta lì scopriremo che l’isola è abitata da creature preistoriche, dinosauri, cavernicoli e altri esseri ancestrali. Come il rivoluzionario gioco della Irem, avremo una sorta di satellite che rimarrà attaccato al nostro aereo ma potremo posizionarlo in otto posizioni diverse dalle quali partirà un colpo di supporto diverso: in diagonale bassa verrà lanciato un siluro in pieno stile Gradius, se lo posizioneremo sul retro lasceremo delle mine, e così via. I passi avanti rispetto ad Alpha Mission e Chopper I (arrivato in questa collection come DLC) sono evidenti e, fra gli Shmup presenti in questa collection, Prehistoric Isle in 1930 è certamente il più completo e il più avvincente.
  • Psycho Soldier1987US, JPArcade. Sequel spirituale di Athena che include la sua erede Athena Asamiya, Psycho Soldier è un platform a scorrimento automatico che funziona su quattro superfici, un po’ come avviene in City Connection della Jaleco. Ha pochi legami con l’originale Athena, come il poter rompere i blocchi e l’inclusione di Athena stessa, ma offre un gameplay nettamente superiore al suo predecessore, con potenziamenti di vario tipo e persino trasformazioni, e si gioca con molto piacere, soprattutto in cooperativa con un secondo giocatore che comanderà l’amico Sie Kensou, anche lui futuro combattente in King of Fighters. Di degna nota è soprattutto la colonna sonora, la prima nella storia dei videogiochi a includere una traccia con delle linee cantate dalla cantante giapponese Kaori Shimizu; la versione giapponese venne curata con particolare attenzione, tanto che poi per l’uscita di Athena per Famicom venne inclusa una musicassetta con il singolo, ma la versione inglese presenta delle linee “broken english” molto risibili!
  • Street Smart1989US,JPArcade. Il primo esperimento della SNK in ambito picchiaduro. Il genere era ancora agli albori: Street Fighter, uscito nel 1987, pose le basi per i picchiaduro in tutto il mondo, ma non stupì abbastanza da imporre uno standard, e molte compagnie videoludiche ponevano in essere un proprio sistema di gioco sempre diverso. Street Smart mette i giocatori in un area di gioco tridimensionale, ponendosi dunque come una specie di area boss di un beat ‘em up, ma il tutto risulta molto giocabile pur non avendo mosse speciali e tutte quelle feature che faranno grandi i tournament fighter à la Street Fighter II. Al posto della parata, Street Smart offre un tasto per fare una capriola all’indietro e evitare con stile gli attacchi avversari. Gli unici due personaggi disponibili, Karate Man e Wrestler, sono rispettivamente primo o secondo giocatore. L’obiettivo del gioco? Mettere al tappeto gli avversari per la gloria, i soldi… e le ragazze!

  • TNK III/T.A.N.K.1985US, JPArcade. In TNK III si combatte con un carro armato, guidato dal Ralph di Ikari Warriors, e il sistema dello stick rotante, per la prima volta implementato qui, permette di far fuoco col cannone principale in una direzione e muoversi in un’altra facendo fuoco con un altro cannone che segue la direzione dell’autoblindo. Grazie ai controlli di una console moderna come il Nintendo Switch possiamo rivivere l’esperienza autentica di questo storico titolo che non solo ha avviato questo filone di titoli di sparatutto dall’alto con lo stick rotante ma ha anche salvato la SNK da un incombente fallimento. Un vero e proprio capolavoro!
  • Vanguard 1981 INTArcade. Primo grande successo mondiale per SNK, Vanguard era così popolare che Atari ne comprò i diritti per poter fare un porting per l’Atari 2600 che divenne un successo anche nel mercato casalingo. Era uno shooter simile a Scramble, gioco della Konami che pose le basi per gli shmup e la sua stessa saga di Gradius, ma proponeva feature ambiziosissime: aveva quattro tasti per sparare in alto, in basso, a destra e a sinistra, scorreva in orizzontale, in diagonale e in verticale, aveva delle linee di dialogo, rese con una primitiva sintesi vocale simile a quella vista in Berzerk, ed era uno dei primi giochi per sala giochi a includere una funzione di continue (tanto che nei filmati demo, prima di inserire il gettone, veniva spiegata questa futuristica feature). A bordo della nostra navicella dobbiamo arrivare in fondo alla caverna in cui risiede il re Gondo, un alieno che terrorizza le colonie vicine; al termine dell’avventura, come consueto per i primi giochi arcade, il gioco ricomincia a una difficolta elevata e potremo continuare fin quando ne abbiamo voglia (che fortuna non dover più inserire monete in una macchina). Magari ai giocatori più giovani Vanguard potrebbe non dire niente, ma ciò non toglie che è uno dei giochi più importanti della storia del gaming e merita di essere giocato almeno una volta nella vita. L’unica cosa che avrebbe potuto migliorare questo gioco sarebbe stata inserendo un’intonazione di Danger Zone di Kenny Loggins ogni qual volta la voce robotica annuncia l’ingresso in una “danger zone“, ma in fondo va bene così (e poi… non l’aveva ancora scritta)!

Quelli che abbiamo elencato sono i titoli originariamente rilasciati per Nintendo Switch, ma la stessa edizione è stata gratuitamente implementata l’11 dicembre 2018, quando tutti i possessori di SNK 40th Anniversary Collection si sono ritrovati un aggiornamento che aggiungeva ben altri 9 titoli:

  • Bermuda Triangle1987US, JPArcade. Un insolito shoot ‘em up che incorpora le meccaniche dello stick rotante visto in TNK III e Ikari Warrior, Bermuda Triangle permette di controllare una nave madre di grandi dimensioni (simile a una Great Fox della saga di Star Fox, per intenderci) e pertanto, visto che schivare i proiettili non sarà semplicissimo, potremo contare sui caccia che affiancheranno la nostra nave madre, anche per quel che riguarda la potenza di fuoco. Ciò che stupì all’epoca, insieme all’emozionante gameplay che includeva anche meccaniche di viaggio nel tempo, fu anche la sua coloratissima e vibrante grafica, visivamente un grande passo in avanti per SNK.
  • Chopper I/Legend of Air Cavalry1988US, JPArcade. Un moderno shoot ‘em up che ricorda nelle sue fattezze la saga di 19XX di Capcom. Altro grande titolo per SNK, Chopper I offre un gameplay veramente da manuale, con un intensità di proiettili nemici simile ai primi titoli della Toaplan, come Truxton e Zero Wing, famosi per aver – diciamo – lanciato quella tendenza che anni più avanti si sarebbe evoluta nel bullet hell (ma questo titolo è ben lontano dall’esserlo). Un titolo più che mai adatto per gli appassionati degli shmup vecchio stile, non troppo moderno ma neanche troppo datato.
  • Fantasy 1981US, JPArcade. Altro titolo proveniente dall’epoca d’oro delle arcade, per tanto costruito intorno allo stesso hardware di Vanguard e Sasuke vs. Commander (rilasciato in questi DLC), questo titolo offre un gameplay incredibilmente vario che si rifà principalmente ai più popolari Donkey Kong, Jungle Hunt e lo stesso Vanguard, in cui un ragazzo corre dietro alla sua sfortunata ragazza che viene rapita da pirati, scimmioni e tribù di cannibali. Come il precedente successo arcade SNK, Fantasy include l’innovativa feature di continue, chiare (ed esilaranti) linee vocali e persino, in un livello, parte della popolarissima hit disco “Funkytown”! Un altro titolo storico che, come Vanguard, possiede quella magia capace di portarci in un epoca in cui ci si stupiva con poco fatta principalmente di giochi elettronici, code interminabili dietro a un cabinato, senza cellulari e senza internet.

  • Munch Mobile/Joyful Road1983US, JPArcade. In questo strano gioco dai toni “pucciosi” controlleremo un’automobile senziente dalle braccia elastiche, utili per raccogliere mele, ciliegie, pesci, sacchi di soldi e taniche di benzina ai bordi della strada. Munch Mobile è un gioco particolarmente difficile, soprattutto perché la strada è piccola e l’uscita fuori strada comporta la perdita di una vita, ma se si è bravi potremo arrivare addirittura agli uffici della SNK! Il gioco, inoltre, tenta di sensibilizzare i più piccoli riguardo i temi dell’ambiente e dell’inquinamento: una volta raccolto e mangiato un oggetto commestibile possiamo guadagnare molti più punti se getteremo i suoi resti nei cestini della spazzatura riallungando le braccia verso questi oggetti sparsi nei per i bordi della strada. L’ironia sta proprio nel fatto di come un’automobile, un oggetto artificiale, riesca ad essere più pulita di certe persone!
  • Ozma Wars1979 INTArcade. Questo titolo, il più vintage di questa collection, è un fix shooter sulla scia di Space Invaders, il primo gioco che imitò il successo arcade della Taito. Ozma Wars nacque dall’impossibilità di Taito di produrre abbastanza cabinati e tabletop di Space Invaders; SNK, in mezzo alle tante compagnie che acquistarono i diritti per produrre Space Invaders al fine di aiutare Taito con la distribuzione, creò parallelamente sullo stesso hardware un kit di conversione per offrire ai giocatori delle sale giochi, che erano colme di cabinati di Space Invaders, un’esperienza diversa e lanciarsi nel mercato come un nuovo produttore, al pari di Taito, Sega e Nintendo. Anziché far fuori una schiera di alieni come nel popolare arcade, Ozma Wars innova il concetto proponendo navicelle, più dettagliate e sullo stile dei caccia spaziali di Star Wars, che come in uno shooter moderno scendono dall’alto verso il basso, sparano con più frequenza e persino di riducono la loro hitbox mettendosi di taglio (come quando si premono “L” e “R” in Star Fox) o addirittura rendendosi invisibili per qualche secondo; probabilmente, però, l’innovazione più grande di questo titolo fu quella di offrire dei livelli sempre diversi e la barra di energia, che si ricarica attaccando la nostra navicella alla più grande nave madre. Il modesto successo di questo gioco, primo vero loro titolo originale, spinse la SNK a puntare sempre più in alto e Ozma Wars rappresenta in tutto e per tutto l’inizio della compagnia che noi oggi conosciamo e amiamo.
  • Paddle Mania 1988INT Arcade. Probabilmente uno dei primi crossover della storia, ma non come intendiamo oggi un Super Smash Bros.: Paddle Mania mette faccia a faccia, in un campo chiuso in cui la palla non può andare fuori campo, giocatori di tennis, pallavolo, pallanuoto, sumo e persino surfisti! Nonostante le bizzarre premesse lo scopo del gioco è comunque molto semplice: mandare la palla nella porta avversaria, esattamente come in Pong. Sebbene il gioco originale prestava due tasti per muovere la racchetta da destra verso sinistra e viceversa, sul Nintendo Switch si è deciso di optare per dei controlli twin stick che rendono l’esperienza un po’ tediosa e non realmente gradevole. L’esperienza del twin stick è portata avanti in tutta la collection, ma probabilmente Paddle Mania è il gioco a cui meno serve questa feature!

  • Sasuke vs. Commander 1980INTArcade. Altro innovativo gioco arcade della SNK, costruito ancora una volta sullo stesso hardware di Vanguard, Sasuke vs. Commander è ancora una volta un gioco simile a Space Invaders. Invece di conformarsi a uno stile sci-fi, come andava di moda ai tempi, questo titolo offrì al giocatore uno scenario tipicamente giapponese con shogun, il carattere “grande” che si vede in lontananza (che segnala il culmine della festa dei morti di Kyoto) e gli immancabili ninja. Alla fine delle schermate di combattimento, in cui i ninja lanceranno a Sasuke gli iconici shuriken, apparirà un nemico più tenace e più grande; per tale motivo si dice che Sasuke vs. Commander introdusse il concetto di boss al termine di un livello. Un altro gioco che ci racconta le origini delle arcade.
  • Time Soldiers/Battle Field1987 US, JPArcade. Ancora una volta un top-down shooter sulla scia di Ikari Warriors con la differenza che lo stick ruotante qui montato ruota in 16 direzioni anziché in 8 come in tutti i giochi con questa caratteristica che abbiamo visto in questa collection. Time Soldier offre un campo di gioco più ampio e perciò possiamo muoverci in tutte le direzioni che vogliamo. Ovviamente, come il titolo ci suggerisce, questi futuristici combattenti – uno dei quali, dall’alto, sembra Pegasus dei Cavalieri dello Zodiaco – si spostano nel tempo per salvare i loro compagni, alcuni di loro in un’antica Roma popolata da soldati romani e persino creature mitologiche! Anche se il gameplay, dopo aver giocato ai vari Ikari Warriors, Guerrilla Wars e TNK III, può risultare ripetitivo almeno ci consola il fatto che qui il ritmo si presenta un po’ più veloce, con una difficoltà attenuata e una grafica più dettagliata.
  • World Wars1987 INTArcade. Sequel di Bermuda Triangle, il gioco, che gira sulla stessa arcade board, presenta le medesime caratteristiche del suo prequel ma con una navicella più piccola. Il concept della nave madre fu abbandonato in favore di un gameplay più fruibile e classico, con power up e proiettili più facilmente evitabili; viene abbandonata anche la componente del viaggio nel tempo in favore di un più semplice viaggio intorno al mondo, anche se mantiene le stesse componenti sci-fi. Da provare indubbiamente.

The future is now!

Come abbiamo visto, la collection (che include anche Beast Busters e SAR: Search and RescueI) prende in considerazione un periodo poco conosciuto della storia della SNK ma ciò non toglie che sono comunque 32 grandi giochi che vi possono regalare ore e ore di gameplay di stampo prettamente arcade, ormai quasi del tutto perduto. La presentazione e le funzionalità di questa collection sono veramente superbe e ci sono comunque diversi giochi in grado di giustificare l’acquisto per Nintendo Switch e PS4, primo fra tutti Crystalis. Non sarà forse una collection che interesserà ai più giovani (a parte i più virtuosi interessati a “studiare la storia”) ma vi garantiamo che è un gran salto nel passato e, per chi non conosce la SNK, una vera e propria lezione sulla loro storia e sulla loro eredità che ancora oggi influenza il panorama videoludico mondiale.




Valkyria Chronicles 4

Nonostante gli episodi usciti su PSP, Valkyria Chronicles 4 si collega direttamente al primo episodio uscito nel lontano 2008 in esclusiva su PS3, un ibrido tra JRPG e strategico a turni con una grafica in cel-shading molto gradevole ai tempi dell’uscita. Nonostante le ottime recensioni, il gioco non fu un vero e proprio successo, e i seguiti furono dirottati sulla console portatile di casa Sony, i quali ebbero ottimi riscontri in Giappone ma non in Occidente, e dopo le scarse vendite del secondo episodio, uscito nel 2010, SEGA decise di non distribuire il terzo episodio se non in terra nipponica. Dopo anni la tendenza sembra essere cambiata, e oltre ad aver rilasciato l’intera saga di Yakuza e la remaster dei primi 2 Shenmue, nonostante il deludente spinoff Valkyria Revolution, SEGA ci riprova con il quarto episodio della saga principale di Valkyria Chronicles.

Il gioco non è un vero e proprio sequel: si svolge parallelamente al primo episodio, ma con un punto di vista differente, l’ambientazione è collocata in una realtà alternativa nella quale l’Europa del 1935 è al centro di una guerra che vede come antagonisti non più la Gallia e l’Impero del primo episodio, ma l’Impero e la Federazione Atlantica (di cui noi faremo parte). A differenza del primo episodio però non dovremo più difenderci dall’impero ma saremo impegnati ad attaccarlo (almeno nelle prime fasi di gioco), nei panni del comandante Claude Wallace, il quale essendo molto giovane commetterà degli errori che si ripercuoteranno nei rapporti con il resto della squadra, i personaggi sono caratterizzati dal tipico stile anime, presente anche negli altri episodi, e anche la storia si adatta benissimo a questo stile, alternando situazioni comiche ad altre dure e tragiche come solo gli anime giapponesi riescono a fare.

Lo stile grafico si rifà ai precedenti episodi, proponendo un cel-shading convincente, anche se con poche migliorie rispetto al prequel uscito su PS3, la conta poligonale non fa gridare al miracolo, ma la direzione artistica di gran livello permette di passare sopra a questo difetto, di certo non è un titolo per gli amanti della grafica ultra pompata.
Sul fronte sonoro ci troviamo anche vicini al prequel, con il quale il titolo condivide buona parte della colonna sonora insieme ovviamente a brani originali, anche gli effetti sonori sono molto simili, e il doppiaggio in inglese fa un discreto lavoro (questa volta però sono presenti i sottotitoli in italiano per la gioia di chi non mastica bene la lingua anglosassone), per chi invece volesse il doppiaggio in giapponese dovrà scaricare un dlc gratuito per poterlo attivare.

Purtroppo le similitudini (negative) con il primo capitolo non si riscontrano soltanto sul piano tecnico: il gameplay è praticamente invariato, con poche novità; è presente come nel prequel la “modalità libro“, dove possiamo sfogliare le pagine contenenti cutscene che sono fondamentali per capire la storia ma anche prendere parte alle missioni principali e secondarie, nonché accedere alla caserma, dove possiamo personalizzare la nostra squadra e addestrare i soldati, i quali possono aumentare di livello e apprendere nuove abilità grazie all’esperienza accumulata in battaglia. Risulta importante formare una squadra con dei membri che abbiano affinità tra di loro: non tutti vanno d’accordo fra loro, e questo può essere deleterio per la riuscita delle missioni.
Nelle missioni dovremo prima schierare la squadra esattamente come nel primo capitolo, e dovremo scegliere tra varie classi, anch’esse invariate rispetto al prequel con l’unica eccezione rappresentata dal granatiere, il quale può lanciare granate a lungo raggio con una potenza devastante, ma deve perdere molto tempo a ricaricare.
Le missioni si svolgono a turni, le unità possono muoversi fin quando la barra del movimento non si consumerà e poi attaccare, ognuna di loro avrà delle abilità uniche a seconda della classe e anche a seconda del personaggio stesso (ci sono ad esempio personaggi che potranno avere dei malus quando sono presi dal panico e via dicendo).
Il gameplay è quindi rimasto sostanzialmente invariato rispetto al primo capitolo, dicevamo, con leggerissime differenze, ma questo non deve necessariamente essere considerato un difetto, in quanto stiamo parlando di un ottimo gioco, con un bel ritmo e missioni molto impegnative, quindi anche se non innova rimarremo comunque soddisfatti dalla lunga campagna che dovremo affrontare.

In conclusione, Valkyria Chronicles 4 è un ottimo titolo che ci riporta alle origini della saga, sia perché è contemporaneo al primo capitolo, ma anche perché ha un gameplay sostanzialmente in continuità, seppur con qualche eccezione: il gioco è impegnativo al punto giusto, la storia è  ben raccontata e ci terrà incollati fino alla fine dell’avventura di Claude Wallace e della sua squadra.




Football Manager 2019

Il 2018 è un anno che, a livello calcistico nel nostro paese, sarà ricordato per la cocente eliminazione alle qualificazioni mondiali contro la Svezia. Per la prima volta dopo sessantanni gli azzurri non hanno partecipato ai mondiali di calcio. E se fosse andato tutto diversamente? Dopotutto si dice dell’Italia che è un “paese di santi, navigatori e allenatori di calcio” e, in nostro soccorso arriva, puntuale come lo Shinkansen giapponese, Football Manager 2019, nuovo capitolo della pluripremiata e apprezzata saga manageriale sul calcio di Sports Interactive. Quest’anno gli sviluppatori inglesi hanno ribadito più volte di voler voltare pagina, a partire dal nuovo logo e dall’addio del “manager man”, mascotte della copertina del gioco dal 2005. Ma sarà l’unica novità?

Chi sa solo di calcio, non sa nulla di calcio

Innanzitutto, partiamo dalla nuova interfaccia: molto più moderna e accattivante, oltre che ben strutturata anche con risoluzioni da laptop. Un’altra novità è la sezione tattica, completamente rinnovata rispetto al passato e pensata per tendere una mano ai veterani della serie e a chi si approccia da novizio a Football Manager. Cliccando per la prima volta lì, ci viene chiesta la filosofia al quale vogliamo ispirarci, se al gegenpressing tanto caro a Jurgen Klopp, allenatore del Liverpool, il tiki-taka di Pep Guardiola, il celebre catenaccio all’italiana o il “parcheggiare il bus” davanti alla difesa, tipico dell’epopea di José Mourinho al Chelsea. Oppure possiamo scegliere anche di voler fare tutto da noi, selezionando la mentalità “crea il tuo stile”.  Dopo aver scelto, ci viene suggerito se usare un modulo adatto alla filosofia, con tanto di ruoli già assegnati ai giocatori, oppure di volerne usare uno ex novo e a nostra completa disposizione.
Una scelta che accontenta sia i veterani che i novizi e che fa sentire il suo peso quando, durante la stagione ci si trova intenti a cambiare modulo e tattica perché magari i giocatori della nostra rosa non si sono adattati: per esempio, col Palermo sono partito con un 4-2-3-1 incentrato sul gegenpressing che improvvisamente verso metà stagione stava cominciando a non rendere più come prima e quindi, mi sono ritrovato a finire la stagione con un 3-4-1-2 dal pressing più ordinato e meno asfissiante, molto simile a quello reale messo in campo da Roberto Stellone. Mai come quest’anno la tattica e la conoscenza della rosa assumono un ruolo fondamentale nell’ottica del titolo e sarà importantissimo per il proseguimento della stagione oltre che per il mantenimento del nostro posto di lavoro!

L’altra novità importante di Football Manager 2019 è la nuova sezione degli allenamenti: dite addio all’asettico passato, molte volte ignorato da tanti allenatori che, come il sottoscritto, lasciavano fare tutto agli allenatori in seconda. Questa volta si può decidere veramente tutto, con tre sezioni di allenamenti per giorno e vari template da utilizzare in base alle esigenze, in primis la tanto richiesta sezione di allenamenti dedicata alla pre-stagione. Qui il frutto del lavoro di Sports Interactive con preparatori e allenatori professionisti del calcio inglese si fa sentire: ogni minimo errore viene pagato a caro prezzo, che sia esso un infortunio grave della vostra stella o un’errata scelta di preparazione a ridosso di un big match o di una una partita contro una delle ultime in classifica presa sottogamba. Ogni decisione conta e tutto questo aggiunge uno strato di profondità al già vastissimo gameplay tecnico-tattico del titolo. In questa nuova sezione trovano posto anche un ammodernamento degli allenamenti individuali, non più a blocco unico, ma divisi in tre gruppi (portieri, difesa e attacco) e l’inserimento della sezione dedicata al mentoring, in passato marginale e nascosta, mentre in FM 2019 diventa fondamentale per la crescita dei ragazzi (e dei regen, ovvero i nuovi calciatori creati dal gioco stesso) della primavera.

Palla a terra e pedalare!

In campo la novità più eclatante è sicuramente l’arrivo del VAR e della goal line technology: Football Manager 2019 è il primo titolo calcistico che fa uso del cosiddetto video assistant referee, aiuto arbitrale che può cambiare le sorti di una partita, come nella realtà. Purtroppo questa tecnologia è in vigore solamente nei campionati che la utilizzano, come la nostra Serie A, la Bundesliga tedesca (per la prima volta con licenza ufficiale, così come gli altri due campionati minori), la Liga NOS portoghese e la MLS statunitense, oltre ai mondiali, visto il recente successo del VAR in Russia. Non ci saranno modifiche a gioco in corso, costringendoci a usare l’editor in game (a pagamento) in caso di cambiamenti nel regolamento. Un po’ un peccato, visto che avrebbe reso il gioco più appassionante e unico a ogni salvataggio, così come succede per Motorsport Manager.
Oltre alle novità tecnologiche è stata migliorata anche la fisica del pallone, cosa che si nota soprattutto con i cambi di gioco da una fascia all’altra. Non aspettatevi la grafica fotorealistica di FIFA e PES visto che su FM in molti continuano a preferire la visualizzazione in 2D piuttosto che quella in 3D, essendo più tatticamente precisa.

Per il resto è il classico Football Manager che siamo abituati a vedere ogni anno, ma i cambiamenti più grandi ci sono e fanno sentire il loro peso: il nuovo sistema tattico assume un peso fondamentale, come succedeva più di dieci anni fa e che, col passaggio al 3D un po’ è venuto a mancare. La sezione degli allenamenti è diventa, finalmente, una delle parti più importanti di tutto il titolo, cosa che avrebbe meritato anche in passato, ma meglio tardi che mai. Da appassionato del genere, posso dire che è il miglior capitolo della serie dal 2014 e Football Manager 2019, rappresenta un’ottima base di partenza per le uscite a venire. Se vivete con il sogno di vestire i panni di un allenatore e siete tra quelli che parlano continuamente di tattica e di statistiche sportive, questo è il titolo che fa per voi.




SEGA AGES: Thunder Force IV

Anche su Nintendo Switch, come in molte altre console prima di questa, arriva la collana di giochi Sega Ages, una serie di release di titoli per le vecchie console Sega migliorati per la nuova generazione e con nuove aggiunte. Per iniziare hanno deciso di rilasciare due dei più grandi titoli per Mega Drive, ovvero Sonic the Hedgehog e Thunder Force IV, gioco della Technosoft uscito nel 1992 che andremo a recensire. La saga è in stallo dal 2008, anno dell’uscita di Thunder Force VI, ma grazie all’acquisto delle proprietà intellettuali Technosoft avvenuta nel 2016, Sega ha adesso modo di poter continuare la loro fantastica saga di shooter e rilasciarne i titoli chiave; dopo l’uscita di Thunder Force III su Nintendo 3DS circoscritta al solo Giappone, questa nuova uscita avvenuta lo scorso 20 Settembre su Switch porta la saga ai più giovani giocatori di tutto il mondo, e quale miglior modo di presentarsi se non con il capitolo più forte e completo della serie? Thunder Force IV, ora come allora, offre un’azione e una colonna sonora in grado di accelerare il vostro battito cardiaco e un gameplay fra i migliori del genere; vediamo cosa rende speciale questo titolo in questa nuova release per l’ultima console Nintendo che ultimamente sta rilanciando un vero e proprio revival degli shoot ‘em up.

Una lotta all’ultimo sangue

La federazione spaziale, dopo gli eventi di Thunder Force III, è riuscita a fermare l’impero Orn ma con forti perdite fra le sue file. Proprio in questo momento, quando sono più deboli, un nuovo nemico si staglia all’orizzonte: i Vios, formati da terrestri e orniani, sferrano un attacco a sorpresa alla federazione registrando ulteriori perdite. Scoperta la loro base sul pianeta Aceria, la Federazione manda in avanscoperta il Rynex per sbarazzarsi della nuova minaccia, nonostante la navicella sia momentaneamente incompleta. Di questi risvolti, i giocatori potranno venire a conoscenza solamente connettendosi a internet e leggendo la trama da un vecchio manuale della versione Sega Mega Drive oppure dalle wikia degli appassionati che da anni archiviano le trame di questi shooter; Thunder Force IV proviene da un’epoca in cui la backstory, qualora non fosse stato possibile inserire ogni risvolto di trama all’interno del media ludico, veniva proposta nel manuale cartaceo e, sfortunatamente, il nuovo manuale online per la versione di Nintendo Switch non include la storia. Una volta letto quel che riguarda la cornice narrativa, ciò che avviene su schermo nelle sezioni “meno dinamiche” potrà avere un senso anche se non sarà necessario capire tutto quanto, visto che lo Shmup è un genere prettamente arcade; sarebbe stato carino poter includere questa backstory nel manuale digitale ma è vero anche che in giochi del genere la narrazione è veramente superficiale.
Ciò che conta in Thunder Force IV è il suo spettacolare gameplay: intricati livelli a velocità più o meno alta, boss battle all’ultimo sangue e ottimizzazione delle proprie risorse, ovvero i cinque power up collezionabili, i satelliti (Claw) e le capsule scudo da raccogliere in volo nonché la velocità modificabile in ogni momento. A tal proposito, è raro non poter trovare i power-up quando più ci servono e perciò, anche nelle sezioni più difficili, avremo sempre modo di cavarcela; il Rynex, se non altro, è ricordato dai fan come una delle navicelle più potenti della saga, specialmente per il fatto che dopo il quinto livello verremo dotati della Thunder Sword, arma speciale che permette un colpo caricato (solo se saremo dotati dei satelliti), perciò, anche con i power up di base (ovvero il twin shot, che spara due file frontali di proiettili ed è potenziabile nella più potente blade, e il back shot che ne spara una davanti e una dietro, potenziabile anch’esso in rail gun) saremo sempre ben equipaggiati per ogni situazione. Ricordiamo che, come da regola della saga, all’esplosione della navicella perderemo il power-up corrente, perciò, proprio quando si usa l’arma più utile per gestire una determinata situazione, quello è anche il momento in cui non ci si può distrarre, neanche per grattarsi il naso. Questo capitolo presenta i livelli più avvincenti della serie, che diventano anche quelli più difficili e avvincenti; premendo “X” e “Y“ all’avvio del gioco (ovvero durante l’apparizione del logo Sega e Technosoft) sarà possibile accedere al menù delle opzioni, e lì si potrà cambiare il livello di difficoltà (da “normale” a “facile”, ma anche da “difficile” o a “maniac”). Selezionare una difficoltà più esigua non comporterà alcuna penalità alla fine del gioco, perciò i meno esperienti del genere shoot ‘em up potranno diventare sempre più bravi per poi poter provare le restanti difficoltà; a supporto del giocatore, inoltre, tornano anche i vecchi cheat per le 99 vite e per ottenere tutti i power-up durante l’azione (che dovrete inserire premendo pausa ma orientandovi ricordando il layout dei tasti del joypad del Mega Drive). Tuttavia, se volete un esperienza autentica ma la normale difficoltà vi sembra un po’ estrema, e non volete neppure utilizzare i cheat, in questa release sarà possibile giocare alla versione parallela Thunder Force IV Kids. Il gioco rimarrà lo stesso sul piano del level design, e interverranno alcuni cambiamenti che renderanno il gameplay meno snervante:

  • i nemici cadranno con meno colpi rispetto alla versione normale.
  • I power-up non verranno persi alla perdita di una vita.
  • Tornando in campo dopo un’esplosione saremo muniti di satelliti, godendo dunque del massimo del raggio d’azione delle armi, e una capsula di protezione all’ultimo stadio (quindi basterà un colpo per perderla).

Se ancora tutto questo non vi basta, oppure conducete una vita che non vi permette di stare troppo tempo davanti ai videogiochi, questa release Sega Ages vi offrirà i save/load state tipici degli emulatori, in modo da salvare i progressi correnti e riprendere la partita quando il tempo ve lo permetterà.
Esattamente come nella versione di Thunder Force IV per Sega Saturn, inclusa nella collection Thunder Force Gold Pack 2, sarà possibile rigiocare l’intero gioco con la Styx, navicella del precedente capitolo, e con essa avremo a disposizione esattamente lo stesso arsenale di power-up di Thunder Force III; per sbloccare questa modalità basterà completare il gioco in qualsiasi difficoltà, a differenza della precedente versione in cui era necessario completare l’intero gioco con un solo credito. La navicella non verrà dotata della Thunder Sword al quinto livello ma i suoi power-up, specialmente se potenziati, saranno abbastanza potenti da abbattere con facilità molti dei nemici; tuttavia, giocando in questa modalità, ci si renderà conto di come i livelli, in realtà, siano stati disegnati per i power-up del Rynex, soprattutto per quelle sezioni in cui non avremo dei veri sostituti per le armi Free Way e Snake (che sono power-up più utili quando si passa per dei cunicoli stretti o ci serve adottare una tattica difensiva che garantisca un attacco mentre si va in ritirata) e perciò sarà più difficile rendere efficaci le armi esclusive dello Styx, ovvero la Wave e la Fire, in certe sezioni. Tuttavia, entrambe le navi possono essere utilizzate anche nella versione Kids perciò questa modalità può rappresentare un ottimo compromesso per la mancata affinità dei power-up dello Styx coi livelli di Thunder Force IV.

Arte classica

Ai tempi, Thunder Force IV fu affidato al team che portò Devil’s Crush su Mega Drive (un gioco pinball sviluppato originariamente su PC Engine) e pertanto il comparto artistico dal terzo capitolo è semplicemente sensazionale; la grafica in sé è una delle più belle mai proposte su Mega Drive e offre sprite dettagliati, proiettili sempre ben visibili e distinguibili, fondali ricchissimi, colorati ma soprattutto profondissimi grazie a un ingegnoso uso dei layer di scorrimento del Mega Drive da parte dei programmatori originali. Sfortunatamente, per via della qualità della grafica, velocità dell’azione e di alcune sezioni in cui più nemici appaiono contemporaneamente, il gioco soffre di rallentamenti che possono essere tuttavia sfruttati dal giocatore per affrontare con più calma le sezioni più difficili. La release Sega Ages, però, ci offre un’opzione per ridurre questi rallentamenti: in questo modo non elimineremo definitivamente il problema ma almeno si presenterà con meno frequenza.
Le opzioni offerte con questa nuova release permettono di visualizzare infatti il gioco nel modo che più ci piace: possiamo scegliere il ratio dello schermo da una gamma che vede un 4:3 centrato, un 4:3 che si lega ai bordi superiori e inferiori della tv/monitor del Nintendo Switch (secondo noi la migliore) e un 16:9 che copre tutto lo schermo; effetti di visualizzazione che permettono di vedere l’immagine in pixel perfect (ovvero visualizzando ogni singolo pixel dell’immagine), con uno smoothing che rende la grafica più omogenea e smussata oppure con gli scalini del tubo catodico (applicabili sia con lo smoothing che col pixel perfect). Bisogna dire che l’HDMI riesce a rendere migliore la grafica del Mega Drive, anche se questa non era la risoluzione pensata per i suoi giochi, e le diverse opzioni di visualizzazioni riescono ad accontentare ogni tipo di retrogamer o giocatore moderno. Inoltre, è possibile cambiare la title screen del gioco da Thunder Force IV a Lightening Force: Quest for the Darkstar, buffissimo titolo contenente un errore ortografico (inspiegabilmente) scelto per vendere il gioco in Nord America; il gioco non subirà alcuna variazione ma è giusto una chicca per gli appassionati.
Infine, è impossibile parlare di Thunder Force IV senza menzionare l’incredibile colonna sonora. Curata da ben tre compositori, ovvero Toshiharu Yamanishi, Takeshi Yoshida e Naosuke Arai, il titolo offre oltre un’ora e mezza di musica che spazia dal rock/metal al jazz/fusion ma anche, a tratti, alla musica elettronica; gli autori di questa colonna sonora hanno saputo trarre il massimo sia dal chip YM2612, che forniva alla macchina la sintesi FM di cui il Mega Drive era tipico, e dal chip PSG primariamente utilizzato per rendere la console retrocompatibile col Sega Master System. Anche se la sintesi FM non reggeva il confronto con l’avanzatissimo chip S-SMP del Super Nintendo, i compositori riuscirono a creare diversi suoni di chitarra elettrica distorta in grado di fornire al Mega Drive delle sonorità che potessero accostarsi tranquillamente all’heavy metal e al rock, rendendo la colonna sonora di Thunder Force IV non solo al passo contro la console Nintendo ma persino al pari delle migliori band metal a livello compositivo; la musica si fonderà perfettamente con le visual futuristiche e le spettacolari battaglie aree e perciò la qualità delle composizioni è semplicemente di qualità altissima. Inoltre, dopo aver completato il gioco per la prima volta, come nell’originale, sbloccherete i dieci pezzi Omake, ovvero dei pezzi scartati che potrete ascoltare solamente dal menù delle opzioni. Grazie alla sua colonna sonora il gameplay viene intensificato al massimo ed è ciò che rende Thunder Force IV un gioco unico nel suo genere.

(Ruin? Una sola? Ma soprattutto: Daser?!)

Un titolo storico

Questo titolo è semplicemente un pezzo di storia che oggi possiamo goderci con soli 6,99€ sul Nintendo E-Shop, un decimo degli osceni prezzi delle cartucce originali per Mega Drive vendute su eBay. Le migliorie per rendere appetibile Thunder Force IV sono ottime e il gioco ci arriva esattamente come è stato concepito in origine insieme alle ulteriori migliorie e alle aggiunte della versione per Sega Saturn, come la modalità con lo Styx e la riduzione dei rallentamenti; non avrà uno storytelling d’avanguardia, fattore che può allontanare coloro che a un videogioco debbano necessariamente una storyline solida, ma questo unico gioco della Technosoft è un vero e proprio esempio di come uno shooter va concepito ed è pertanto una pietra miliare della libreria del Sega Mega Drive. Assolutamente da provare, specialmente se siete appassionati degli Shmup e della favolosa console 16 bit di Sega.




Atari Jaguar: quando la potenza non è tutto

Atari: il marchio che introdusse i videogiochi al mondo negli anni ’80, un tempo magico, in cui la grafica e il suono venivano compensati con l’immaginazione del singolo giocatore. Come sappiamo e abbiamo accennato anche in un nostro precedente articolo, Atari godeva di grandissima fama, tanto da essere sinonimo di videogioco, ma la crisi del 1983 portò alla chiusura di Atari.Inc e il suo marchio cadde nell’oscurità, per sempre eclissato da Nintendo. Sotto la leadership di Jack Tramiel, fondatore di Commodore che acquistò i suoi asset hardware per poi rilanciarli sotto il nuovo brand Atari Corporation, la compagnia si rialzò in piedi con lancio di Atari 7800; sebbene la console non costituì un fallimento, grazie anche alla deliziosa feature della retrocompatibilità con Atari 2600, questa non riusciva a reggere il confronto con Nintendo a livello di marketing, software e supporto di terze parti, neppure con il computer/console Atari XEGS, rimanendo di conseguenza una console di nicchia e per pochi appassionati. Nel 1989 Atari lanciò Lynx, la prima console portatile a colori e con display retroilluminato, un anno prima del più aggressivo Sega Game Gear che presentava più o meno le stesse caratteristiche. Ancora una volta, nonostante le sue ottime capacità, la nuova console Atari (che cominciò il nuovo trend interno di chiamare le proprie console con nomi di specie feline) non ebbe lo stesso supporto del Nintendo Gameboy e Sega Game Gear, finendo dunque per rappresentare la nicchia. Vale ricordare però che il Lynx, come l’Atari 7800 e i computer XEGS e ST, erano molto popolari in Europa, specialmente in Regno Unito che rappresentò, in un certo senso, il nuovo core-market dell’azienda. Dopo il 1992 Atari, che fermò la produzione del 7800, non aveva più nulla sul fronte delle console casalinghe, mentre nel frattempo Nintendo e Sega se le davano di santa ragione “a colpi di bit”. Con l’arrivo di Sega Mega Drive (o Genesis in Nord America) i giocatori vennero messi di fronte alla nuova parolina “bit”, un termine che in realtà nessuno sapeva cosa significasse realmente ma stava a sottolineare, in un qualche modo, la potenza hardware di una determinata console o computer. Grazie “all’esposizione dei bit” Sega potè accaparrarsi un netto vantaggio contro il Nintendo Entertainment System con i suoi 16bit, otto in più rispetto alla controparte, ma con l’arrivo del Super Nintendo la guerra, da lì in poi, fu combattuta ad armi pari.
Atari, visto anche che il Turbografx 16 di NEC non decollava al di fuori del Giappone (dove si chiama PC Engine), capì che bastava “averlo grosso” per vincere la partita… Il numero dei bit – maliziosi che non siete altro –! In questo scenario Atari avviò ben due progetti capitanati dall’esperienza di alcuni ingegneri provenienti dal Regno Unito, uno che avrebbe permesso di sbaragliare la competizione corrente e un altro per la generazione futura, visto che la successiva generazione di console cominciava a prendere qualche sembianza; questa è la storia dell’Atari Jaguar, una console che più di tutti ricordò ai giocatori che la potenza non è tutto.

(Jaguar, Jaguar, JAGUARRRRRRRRRRR!!)

Sete di conquista

Prima di parlare del Jaguar bisogna parlare del Panther, la console 32bit che avrebbe dovuto competere originariamente contro Super Nintendo e Sega Genesis. Il progetto originale risale nel 1988 anno in cui Atari, spinta dal voler riconquistare il cuore dei giocatori di tutto il mondo, avviò il progetto di un prototipo utilizzando la tecnologia di un Atari XEGS e la scheda video del Atari Transputer Workstation. Lo sviluppo andava bene ma i progressi non entusiasmavano nessuno all’interno dell’azienda; Richard Miller, vicepresidente di Atari Corporation (che fonderà più in là la VM Labs che ha portato il mondo il Nuon), andò a chiedere aiuto alla Flare Technolgy, una piccola compagnia inglese fondata da tre ex ingegneri di Sinclair Research, ovvero Martin Brennan, Ben Chese, che andò a lavorare più in là con Argonaut Games alla quale si deve il chip FX montato nelle cartucce dei giochi 3D dello SNES come Star Fox e Stunt Race, e John Mathieson, suo ex collega e amico. Flare era nota per aver prodotto il chip Flare 1 montato in alcune schede arcade ma soprattutto nel Konix Multisystem, console 100% inglese che fu cancellata per diversi motivi: il chip poteva permettere uno scaling mai visto prima, ancora più veloce di quello nell’Atari ST. Atari diede dei fondi a Flare per migliorare il chip esistente e inserirlo nel Panther e avviare parallelamente il progetto del chip Flare 2, che sarebbe stato parte dell’Atari Jaguar.
Grazie al supporto di Atari, Flare potè cominciare lo sviluppo di una nuova console 32bit contenente il nuovo chip migliorato, che venne chiamato Panther come l’automobile della moglie di Martin Brennan (la Panther Kalista) e, presto, la denominazione del chip finì per rinominare l’intero progetto e il prodotto definitivo. In tutto questo, con due progetti avviati, Atari sperava prima di mettere in difficoltà la competizione corrente col Panther e poi, successivamente, lanciare il Jaguar con i suoi 64bit, anticipando la prossima generazione e porsi dunque come la più potente (visto che si vociferava già delle console 32bit). Il Panther era quasi pronto ma i suoi dev kit, da distribuire agli sviluppatori, non funzionavano una volta assemblati; Atari avrebbe dovuto investire ulteriori risorse per risolvere questo problema ma per sua fortuna lo sviluppo del Jaguar era in netto anticipo e perciò si deliberò nel non continuare a produrre il progetto 32bit. Al Consumer Electronic Show del 1991 Atari annunciò la cancellazione del Panther ma in compenso annunciò quella del Jaguar che sarebbe stato pronto per il 1993, un predatore pronto a fare a brandelli la concorrenza e riconquistare il suo trono all’interno del mercato dei videogiochi.

Dall’annuncio al lancio

L’annuncio a sorpresa al CES del 1991 non solo infiammò la stampa ma convinse anche i giocatori; il Jaguar si poneva sia come una console più potente di SNES e Mega Drive che una console di prossima generazione in grado di competere, persino superare, le future rivali 3DO, Sega 32X, Saturn e PlayStation. In tutto questo Atari riuscì anche ad accaparrarsi degli ottimi 3rd party come Micro Prose, Virgin Interactive, Gremlin Graphics, Activision, InterplayUbisoft, che lanciò proprio nel Jaguar il primo Rayman, e molti altri. Per tutto il 1993 Atari svelò a poco a poco le specifiche della console e futuri add-on come il Jaguar CD, un headset VR e un modem per il gioco in rete (questi due prodotti non uscirono mai), il tutto fino all’uscita su tutto il suolo americano previsto per il primissimo 1994. Nel Novembre del 1993 furono inviate 50.000 unità fra New York e San Francisco in test market e i risultati furono strabilianti: la console andò sold out in un giorno e poco dopo i pre-order in Europa toccarono le 2 milioni di unità. Arrivati a questo punto IBM, che produceva i componenti della console, si ritrovò con le spalle al muro non potendo soddisfare una domanda così grossa e così Atari, contro il suo stesso interesse, decise di concentrarsi sul mercato americano, accantonando il mercato dove andavano più forti; di conseguenza, al lancio, in Gran Bretagna arrivarono solamente 2.500 unità.
Ciononostante, per Atari le cose stavano girando per il verso giusto: insieme all’eccellente test market a New York e San Francisco, il Jaguar vinse nel Gennaio del 1994 il premio il “best new game system” su Videogame Magazine, “best new hardware system” su Game Informer e “technical achievement of the year” su DieHard GameFan. I più tecnici furono certamente attratti dalle potenti qualità del Jaguar: la console di base era in grado di creare oggetti 3D con texture, poteva produrre sprite alti 1000 pixel, era possibile cambiare la risoluzione nei background 2D (in modo da poter rendere, per esempio, meno visibile un layer più lontano, creando un ottimo effetto di profondità) e ostentava effetti luce e altri effetti speciali veramente all’avanguardia.
La console attrasse inizialmente una base di giocatori di tutto rispetto grazie sia a un’aggressiva campagna di marketing, il cui slogan principale era “do the math” (più o meno “fai i conti”, in quanto le pubblicità sottolineavano il “gap dei bit” fra il Jaguar e le restanti console), e una buona linea di titoli di lancio e altri che arrivarono man mano; dopo gli iniziali Cybermorph, Raiden e Evolution: Dino Dude arrivarono l’incredibile Tempest 2000, Wolfenstein 3D e Doom, i cui porting erano i più belli e i più vicini al PC (ai tempi) e Alien vs Predator che diventò la killer app del sistema. In aggiunta a tutto questo, a metà del 1994 Atari vinse una causa legale contro Sega per violazione di brevetto: la compagnia giapponese dovette pagare alla compagnia di Jack Tramiel 50 milioni di dollari in spese giudiziarie, fu costretta ad acquistare azioni Atari per 40 milioni e rilasciare alcuni giochi esclusivi Sega su Atari Jaguar (che non uscirono mai). Jaguar aveva tutte le carte in tavola per diventare un competitor importante nel mercato ma Atari non aveva fatto i conti con il nemico numero uno della macchina: la sua stessa scheda madre.

(Il controller del Jaguar, come quello del ColecoVision e Intellivision, aveva un tastierino numerico sulla quale era possibile attaccare degli overlay. È stato, probabilmente, l’ultimo controller con una tale feature.)

Tom & Jerry

Sin dal lancio i giocatori si accorsero che Cybermorph, che era uno shooter sulla falsariga di Star Fox ma presentava una struttura più aperta, era molto più avanzato di Raiden e Evolution: Dino Dudes e che questi due  sembravano dei normalissimi giochi 16 bit. Col tempo, nonostante la console ricevette tanti grandi titoli, i giocatori si accorsero che qualcosa andava storto e che non tutti i giochi sfruttavano le vere capacità dell’Atari Jaguar. Si dice appunto che questa console è in realtà una console 32+32bit e che dunque non è una vera macchina 64bit; ma qual è la verità?
Il cuore della macchina era un processore Motorola 68000 ma in realtà era supportato da altri due processori RISC chiamati “Tom” e “Jerry“: Tom si occupava di tutto il piano grafico, dunque era la GPU e generava gli oggetti in 3D, mentre Jerry si occupava del comparto sonoro, dunque processava i segnali audio e gli effetti sonori. In pratica i programmatori dovevano programmare grafica e sonoro separatamente su quei due chip in modo che venissero mandati al Motorola 68000 che avrebbe processato il tutto e “generato” il gioco al giocatore; John Mathisen descrisse il chip principale come un project manager, che non fa nessun effettivo lavoro ma è lì per dire a tutti cosa fare. Programmare sul Motorola 68000 era molto più facile visto che era un chip montato nei primi computer Macintosh, il Commodore Amiga, l’Atari ST e persino il Sega Mega Drive; per venire in contro alle date di scadenza, visto che il sistema Tom & Jerry non era chiaro a tutti, i giochi venivano programmati direttamente sul Motorola 68000 in quanto molti programmatori avevano già programmato per quel determinato chip, e perciò molti dei giochi vennero fuori con una veste tutt’altro che 64bit, alcuni porting erano persino più carenti delle controparti 16bit. La credibilità del Jaguar si sgretolava piano piano e, contrariamente alle previsioni di Jack Tramiel che si aspettava almeno 500.000 unità vendute in un anno, alla fine del 1994 i dati di vendita riportarono solamente circa 100.000 unità. Adesso per Atari arrivava l’anno 1995, anno in cui il Jaguar sarebbe dovuto entrare in competizione con Sega Saturn e Sony PlayStation.

(I due grossi chip sulla sinistra sono Tom e Jerry, mentre il chip più grosso sulla destra è il Motorola 68000)

La seconda fase

Al CES del Gennaio 1995 Atari comincia l’anno nuovo col botto: vengono annunciate le date di uscita e il prezzo per il Jaguar CD, insieme all’annuncio di dei dischi proprietari dalla capienza di 790Mb, Jaglink, che premette di collegare due Jaguar, per il VR headset (annunciato per il Natale ma mai uscito) e per moltissimi giochi. Due mesi dopo viene annunciato un price drop di 149,99$ e Atari dedide di non sviluppare molti dei suoi prodotti: la produzione di XEGS, ST e Falcon si fermano sin da subito mentre il Lynx verrà abbandonato alla fine del 1995. Era chiaro, a quel punto, che Atari era pronta a tutto pur di vendere il Jaguar. Sam Tramiel, figlio di Jack che prese le redini di Atari alla fine degli anni ’80, per fronteggiare l’imminente uscita di Sega Saturn e Sony PlayStation, si rese disponibile per molte interviste al fine di promuovere la loro console casalinga ma a molti sembrava che si stesse arrampicando sugli specchi: ad Aprile, su Next Generation Magazine, disse che Saturn e PlayStation erano destinate a fallire per il loro prezzo (che a lui sembrava esorbitante), mentre a Luglio, nella medesima rivista, dichiarò che il Jaguar aveva venduto 150.000 unità, che il 50% degli utenti Jaguar avrebbe comprato il Jaguar CD, che “l’interno del Saturn era un casino”, ignorando il proprio complicato sistema Tom & Jerry e che il Jaguar presentava le stesse caratteristiche, se non più potente, del Saturn e poco più debole di PlayStation (mentre in reltà la console Sega era, su carta, più potente di della console Sony!).
Le affermazioni di Sam Tramiel gli si rivoltarono contro quando prima Sega Saturn e poi Sony PlayStation superarono di molto, già nel periodo di lancio, le vendite complessive di Jaguar di un anno di attività; persino 3DO, rimasta inizialmente indietro, superò la console Atari con 500.000 unità vendute. In tutto questo, i giochi promessi al CES 1995 tardavano ad arrivare e l’accordo con Sega, per la perdita di quel caso giudiziario, non uscirono mai. Nell’Ottobre del ’95, un mese dopo l’uscita del Jaguar CD, Atari decise di destinare meno risorse al Jaguar, tentando di reinvestire ciò che è rimasto nella produzione hardware e software PC; successivamente, a Novembre, venne chiuso lo studio Atari che produceva i giochi first party e nel natale del 1995 il Jaguar fu venduto per 99,99$, l’ultimo e definitivo price drop. Come se non bastasse, Sam Tramiel subì un lieve attacco di cuore che costrinse il padre Jack di nuovo alla direzione dell’azienda che aveva comprato dalla Warner Communication.

Dalla chiusura alla seconda vita di Jaguar

Nel Gennaio 1996 furono riportati i disastrosi dati di vendita di Atari Corporation: l’azienda fatturò solamente 14.6 milioni di dollari, significativamente meno dei 38.7 milioni del 1994, mentre nell’anno trascorso furono venduti solamente 125.000 unità, decisamente meno rispetto a quanto dichiarato da Sam Tramiel su Next Generation Magazine; a tutto questo si aggiungevano 100.000 unità invendute e solo 3.000 unità vendute in Giappone, dove fu distribuito in pochissimi negozi. Sebbene nel 1996 alcuni giochi continuavano a uscire, la produzione di Atari Jaguar terminò di lì a poco. Atari Corporation, in Aprile, si fuse con JT Storage e più tardi, nel 1998, vendettero il nome ad Hasbro.
Contrariamente a ogni aspettativa, la sfortunata console riemerse dal dimenticatoio: nel Maggio 1999 Hasbro non rinnovò la licenza sull’Atari Jaguar, facendo ricadere i diritti sul dominio pubblico; da quel momento in poi, qualsiasi sviluppatore, grande o piccolo, è libero di produrre e vendere un gioco per Jaguar senza il permesso di Hasbro. Furono rilasciati subito tre giochi precedentemente cancellati, uno dei quali della Midway e ancora oggi, l’Atari Jaguar è casa di una scena homebrew veramente vasta; l’ultimo titolo uscito per la console è stato Fast Food 64, rilasciato il 23 Giugno del 2017. Dal 2001 al 2007 i rimanenti Jaguar sono stati venduti dalla catena di negozi inglese Game per 30£, fino al price drop finale di 9,99£. E ancora, come se non bastasse, lo stampo industriale per creare la console esterna è stato usato dalla compagnia Imagin per creare un utensile per dentisti e riutilizzata di nuovo per il gaming nel fornire il design esterno della console cancellata Retro VGS/Coleco Chameleon. Che dire? È una bestia che proprio non ne vuole sapere di morire!

(Un video dell’utente bframe che ci mostra tutti i giochi dell’Atari Jaguar)

Mamma, possiamo tenerlo?

Come abbiamo accennato, Atari Jaguar è di dominio pubblico e perciò abbiamo tutto il diritto di emulare la console e i giochi. Tuttavia, al di là dei recenti sviluppi sull’emulazione, stando a molti utenti l’emulazione di Jaguar è ancora un po’ carente e spesso e volentieri molti giochi presentano bug o si bloccano improvvisamente (e non è un problema relativo ai PC). Dunque l’alternativa, visto che ancora nessuno ha prodotto un sistema clone (e Polymega non ha annunciato un modulo dedicato), è proprio quella di comprare un Atari Jaguar originale. Anche se i prezzi sono un po’ più alti del loro prezzo originale, bisogna dire che per una console che ha venduto meno di 300.000 unità è un prezzo equo; andare a caccia dei videogiochi, dunque delle orrende cartucce (in senso buono) con la maniglia in alto, è un discorso a parte in quanto dipende sempre dalla reputazione di un gioco e dalla tiratura e come abbiamo visto, contrariamente a ciò che si possa pensare, ce ne sono tanti. Assicuratevi che la console vi arrivi con il suo cablaggio proprietario per montarlo alla TV via RCA. Discorso a parte va fatto per il Jaguar CD: questo particolare add-on, a differenza dei più comuni Sega CD o PC-Engine CD, è famoso per essere particolarmente fragile ed è facile incappare in uno dei tanti Jaguar CD non funzionanti e, se lo collegherete alla TV, ve lo farà sapere con la famosa “red screen of death” che indica un problema di comunicazione fra la base e l’add-on; come se non bastasse, l’add-on è ancora più raro della console in sé e perciò rischiate di sprecare oltre 200€ per un Jaguar CD morto. È un acquisto che va fatto molto attentamente, anche per la base, ma se state attenti e siete interessati alla sua particolare libreria di giochi potrete portare a casa una gran bella console che ha detto molto e, sorprendentemente, ha ancora molto da dire!