Un’estate al nerd

La spiaggia, strade assolate, vento che sferza in faccia durante un giro in motorino, arrivare al mare, distendersi e dimenticare ogni cosa: la scuola, il lavoro, inverni e autunni di pensieri, responsabilità e preoccupazioni. L’estate è questo, ed è serate nei chioschi, chitarre davanti a un falò, baciarsi distesi sulla battigia e andare a dormire soltanto al palesarsi dell’alba. Per alcuni è i giochi all’aperto quando si è piccoli,  per altri le passeggiate in bicicletta, per altri le birre, le prime limonate… ha il sapore di ogni età, l’estate, e c’è sempre spazio per ogni cosa, e c’è il tempo per farla, quella cosa, nella calma placida di ogni ora libera e vacanziera.
In questo abbondare di tempo libero, volete non si trovi spazio per i videogiochi? Perché fra una pausa e l’altra del dolce far niente, tra una partita a pallone e una gara di tuffi, il tempo per una partitina in formato handheld o per un giro di joypad nella propria stanza si è sempre trovato. O, se si era in giro, non si lesinava una visita alla sala giochi, per chi abbia vissuto quell’epoca d’oro di luccicanti coin-op.

Per l’estate vogliamo regalarvi uno spazio amarcord, un momento dedicato ai ricordi estivi, piccoli racconti che testimoniano un altro frammento della nostra passione per i videogiochi. Passione che non ha tempo, né stagioni deputate, che se ne infischia del caldo boia e delle ore che passano fino a che si è fatta notte fonda, istanza del cuore che ti dice: gioca, tanto tornerà un altro inverno, gioca e non pensare ai mille petali di rose.

E quei giorni noi siamo qui a ricordarli, noi che abbiamo una redazione che spazia dai 17 ai 40 anni. Vogliamo raccontarveli tutti, questi decenni di differenza, queste estati che, pur segnando un arco lungo quasi un quarto di secolo, ci hanno riunito qui, sotto l’emblema di una bussola, uniti da un’unica passione. Dunque sedetevi con noi in riva al mare, prendete una bevanda gassata, mettete le cuffie e lasciatevi trascinare indietro nel tempo questi brevi racconti fatti di pixel e parole, righe che raccontano di estati al sapore di nerd.




C’è un luogo e un momento per ogni cosa

Dell’estate 2003 ricordo relativamente poco: una delle stagioni più calde di sempre, La canzone del Capitano di DJ Francesco, i miei primi approcci al calcio, le ginocchia sbucciate, le giornate passate a giocare con quelli che sarebbero stati i miei primi amici; un’estate qualsiasi di una bambina di 5 anni qualsiasi. Ma tra queste ormai polverose memorie c’è un evento a suo modo speciale, che avrebbe segnato la mia vita come pochi altri. I bimbi non sono consapevoli del peso delle loro esperienze, quello c’è tempo per capirlo più avanti. I bambini provano e basta.
In un caldo pomeriggio di luglio trovai un vecchio Game Boy appartenente a mio fratello sul mobile della mia stanzetta, tra le maschere e i costumi da bagno.
Lo notai, lo osservai, lo presi. Era visibilmente vecchio, polveroso, pesante; un pezzo di plastica e di storia tra le mani.
Lo accesi, e per la prima volta vidi quella ormai famosa schermata iniziale che si chiudeva con un effetto sonoro cristallino. Comparvero poi delle scritte, per me ancora incomprensibili, e infine un’insegna luminosa: era appena partito un video, o quello che all’epoca mi pareva tale. Ogni suono era unico, qualcosa di mai sentito prima: c’era un fondale marino, degli esserini che mi ricordavano vagamente delle cozze, poi dei pesci, sulla superficie galleggiava un animale che non riuscivo a riconoscere, transizioni fra le quali si intermezzavano altri esseri, tutti diversi, tutti rigorosamente in bianco e nero. Apparve un drago che sputava fuoco e poi la sagoma di una creatura, più grande e maestosa delle altre, che nuotava velocissima sul fondo dell’oceano. Con gli occhi pieni di stupore e la bocca semi aperta, mentre il mondo stava già esplorando la terza generazione, io avevo appena scoperto l’universo dei mostri tascabili: avevo tra le mani una copia di Pokémon Argento.

Non ricordo perché, probabilmente guidata dall’istinto come è sacrosanto a quell’età, iniziai a premere ripetutamente il tasto A, e mi ritrovai catapultata all’interno della partita. Davanti a me un mondo tutto da scoprire, e così avrei riempito tutti quei caldissimi e noiosi pomeriggi, quando nessuno dei bambini della mia zona era libero per giocare con me. C’era solo un problema: non sapevo leggere. E cosa fa un bambino quando non è capace di fare qualcosa? Chiede a qualcuno più grande di farla al suo posto. Mi precipitai da mio fratello, ai tempi appena dodicenne, gli chiesi di spiegarmi cosa fare.
Non ricordo cosa mi disse, né come finì quella giornata; so solo che da quel momento, nel tempo libero che passavo in casa, magari dopo un pomeriggio in bici o una mattinata passata al mare, che fossi sudata o con i capelli pieni di sale, afferravo il Game Boy e iniziavo a giocare. Muovi il personaggio, incontra avversari, sconfiggili, vai avanti per la tua strada. Qual era il modo migliore per vincere? Non ne avevo idea. Quale posto dovevo raggiungere? Volevo solo camminare e scoprire tutti quei luoghi che il gioco offriva, che aveva in serbo per me. E sapete cosa? Mi divertivo davvero tantissimo. La mia prima, grande iniezione di serotonina videoludica. Era tutto molto bello, e al divertimento si affiancava di pari passo il senso della sfida.
Imparai gradualmente le basi del gioco e capii finalmente il suo vero scopo: dovevo sì scoprire Johto e Kanto, ma per completare il Pokédex: ovviamente dovevo battere gli altri allenatori, ma per il preciso scopo di raccogliere le medaglie e accedere alla Lega per diventare infine Campione. E quando mi decisi ad arrivare sulla cima dell’Altopiano Blu per sconfiggere quelli che erano gli allenatori più forti della regione, e quando buttai giù l’ultimo Dragonite di Lance, sentii addosso tutte quelle emozioni che si provano quando si riesce a fare qualcosa di straordinario dopo essere partiti da zero. Il potenziale emotivo dei videogame si era per la prima volta dispiegato davanti a me, e io lo lasciavo esplodere come fuochi d’artificio nel cielo notturno: era bellissimo e liberatorio.
A quella estate ne seguirono altre, molte portano con sé ricordi legati a vari videogame, e fra questi non mancava mai un gioco della serie Pokémon. Introdussi i miei amici al brand nel 2004, iniziai e completai la mia prima personalissima avventura nel 2005 su Rosso fuoco, subito dopo aver ricevuto un Game Boy Advance SP; nel 2006 feci un piccolo passo indietro recuperando Rubino, dove per ogni leggendario che trovavo dovevo chiamare a raccolta tutti i bambini del quartiere per farmi aiutare, quando eravamo tutti convinti che per catturare un Pokémon fosse necessario premere dei tasti: c’è chi premeva ripetutamente A, chi B, chi si accaniva sulla croce direzionale, chi si lanciava in combinazioni di questi tasti, chi L+R, chi tutto a casaccio. Si provava ogni cosa e si perdevano ore finché quella dannata pokéball non si fosse chiusa.
Ora la saga ha sicuramente preso una piega diversa e c’è chi dice che sia diretta verso un inesorabile declino, e per certi versi sono costretta ad essere d’accordo. Sono piuttosto scettica riguardo i remake di Kanto in arrivo su Switch, ma è sulla prossima generazione che ripongo tutte le mie speranze. Ma poco importa, il meglio è già nella memoria: nessuno mi toglierà mai dal cuore quei giochi che per lungo tempo sono stati i miei migliori compagni d’avventura, soprattutto estivi, che a modo loro mi hanno aiutata a diventare ciò che sono adesso.
Ancora oggi, di tanto in tanto, ascolto la colonna sonora della seconda generazione, e mi piace pensare che quella bimba che giocava con quel vecchio Game Boy americano, con i suoni a 8 bit accompagnati dal rumore delle onde, sia ancora dentro di me, e che non smetta mai di giocare.




To The Moon

Che valore hanno i sogni? Che valore hanno i nostri ricordi? Scambiereste un ricordo autentico con il ricordo con un sogno mai realizzato? Probabilmente alcuni oggi accetterebbero lo scambio; di certo non pochi lo fanno nell’universo di To the Moon, nel quale la Sigmund Corporation è riuscita nell’intento di manipolare i ricordi a piacimento e offre questo genere di servizi a clienti in punto di morte (per non causare dissonanze cognitive ai sottoposti), aiutandoli a esaudire i propri desideri irrealizzati. Nel caso in questione, tocca agli scienziati Neil Watts ed Eva Rosalene rendere reale – quantomeno sul piano mnemonico – il desiderio dell’anziano John: andare sulla Luna.Velleità infantile, atavica, anche banale a primo acchito. Vien da pensare al desiderio istintivo del bambino che guarda il mondo con occhio disincantato e dichiara di voler fare l’astronauta, da grande.
Ma non sta ai due esperti giudicare il proprio cliente: entrambi devono limitarsi a connettersi alla memoria di John per risalire alla motivazione primigenia da cui è scaturito il desiderio, e far leva su quella per far sì che diventi reale – almeno sotto forma di ricordo – nella convinzione che non ci sia nulla che non si possa ottenere se animati da una forte motivazione. Ma già dal primo ricordo emerge ben poco, così Neil ed Eva si trovano a dover andare sempre più a ritroso – con non poche difficoltà – fino all’infanzia di John nella speranza di trovare la chiave del problema.

Temi (im)portanti

In questo viaggio al termine dei ricordi, Neil ed Eva si addentreranno nel vissuto più profondo di John, in un intrecciarsi di relazioni umane che va dall’amico più fidato al suo unico, vero amore, River, passando per quelle familiari, relazioni che imprimono il primo marchio nel percorso dell’esistenza. Temi comuni a ogni essere umano, ed è proprio dietro la maschera dell’ordinarietà che si annidano le storie speciali. Tramite una storia di vita senza alcun tratto apparentemente straordinario, Kan Gao riesce a trattare temi profondi e delicati: dicevamo del rapporto tra desiderio e memoria, e su entrambi gli argomenti emergono importanti interrogativi (abbiamo il diritto di non assecondare desideri altrui perché ci paiono ingiusti nei nostri confronti? Il valore dei nostri desideri è superiore a quello dei nostri ricordi?). Proprio sul tema della memoria, il racconto sembra oscillare tra il Gondry di Eternal Sunshine of the Spotless Mind – in cui è al centro il tema della rimozione dei ricordi dolorosi – e il Nolan di Memento e Inception – rispettivamente per il meccanismo del viaggio mnemonico à rebours e per il sistema a livelli in cui si struttura il percorso a ritroso nei ricordi – tralasciandone però la componente filosofica e per calcare la mano su quella emozionale. Certo non è un terreno semplice: John desidera aver innestato un nuovo ricordo per esaudire il proprio desiderio, ma la memoria non è una stanza illuminata a giorno, è anzi zeppa di zone d’ombra, è un terreno scosceso disseminato di crateri, non diversamente dalla Luna, la cui parte oscura è perfetta allegoria di quel subconscio in cui si nascondono i ricordi rimossi. E così è anche per John, come scopriranno i nostri scienziati.
Il tema si intreccia senza forzature a un altro ancor più spinoso e certamente meno noto, quello della Sindrome di Asperger. È una delle scelte più meritevoli di To The Moon, probabilmente il primo videogame a mettere in primo piano una simile patologia, e a ciò si aggiunge il merito di averla trattata con delicatezza inaspettata e rifuggendo ogni banalità, non facendo dei soggetti affetti da simili caratteristiche dei freak ma, al contempo, non puntando su un facile binomio autismo-genialità che, nel caso in questione, avrebbe costituito una comoda scappatoia. Tratti dell’Asperger sono stati del resto rintracciati in uomini di genio del calibro Darwin, Newton, Lewis Carrol, van Gogh, Tesla, Einstein, Syd Barrett ed è curioso trovare una simile patologia – parente stretta dell’autismo, e che comporta difficoltà sul piano sociale e comunicativo – in un videogame, essendo quelli dell’informatica e della produzione videoludica settori che vedono un discreto numero di soggetti interessati.

Novel, Visual & Sound

Seppur robuste e importanti, le tematiche da sole non potrebbero mai bastare; ragion per cui è il caso adesso di soffermarsi su quello che è un aspetto cruciale di opere atte a raccontare una storia attentamente pensata, dagli intenti autoriali, ovvero il meccanismo narrativo. Come nel caso di molti titoli di non facile inquadramento, si dibatte infatti su dove incasellarla fra chi la inserirebbe nel largo calderone delle avventure grafiche punta e clicca e chi la definirebbe una mera visual novel. Al di là di ogni definizione, possiamo certamente osservare che To The Moon consta di meccanismi propri dei punta e clicca sul piano tecnico ma di un dipanarsi del gameplay che lo avvicina più a quello delle visual novel: gli enigmi sono infatti quasi inesistenti mentre l’interazione con l’ambiente circostante è massima e finalizzata a ottenere ulteriori dettagli sulla trama. Le uniche, piccole sfide di gioco presenti consistono in piccoli puzzle da ricomporre tra un ricordo e l’altro e in una sfida di Whack-a-mole al Luna Park, ma si tratta di divertissment che non hanno rilevanza alcuna ai fini del completamento del gioco, il quale finisce col basarsi sostanzialmente sulla pura narrazione. Ed è proprio su questo piano che il titolo trova la sua forza, nella trattazione sapiente di tematiche importanti, rifuggendo la banalità e mettendo in sequenza eventi con un attento lavoro di regia videoludica che ben scandisce i tempi del racconto, utilizzando una scrittura elegante che riesce a equilibrare la profondità dei dialoghi con vari momenti di leggerezza (fondamentale, in tal senso, è la carica di sarcasmo e ostentato cinismo fornita dal Dr. Watts, a cui è affidata una piccola linea comica). Alcuni limiti del titolo sono però al contempo però rintracciabili proprio in fase di scrittura perché, se da un lato Kan Gao riesce a offrire un racconto raffinato e bilanciato, dall’altro canto questo manca in parte di quello spessore che ci aspetteremmo una volta alzata l’asticella dell’autorialità, non raggiungendo altissime vette di scrittura né offrendo dialoghi o monologhi memorabili.
La parte testuale rimane comunque un punto forte del titolo, che si arricchisce di richiami alla contemporaneità (dal Lorenzo von Matterhorn di How I Met Your Mother a Twilight fino ai vari “Hadouken”, “Kamehameha” e “Hulk Smash” citati da Neil Watts nei momenti di apertura di un varco tra un ricordo e l’altro) e che viene assolutamente completata da una colonna sonora straordinariamente intensa, basata su composizioni di pianoforte capaci di caricare emotivamente testi comunque già solidi e di regalare atmosfere sognanti e trasognate: il leitmotiv del titolo – composto dallo stesso Kan Gao, autore dell’intera soundtrack – vi resterà impresso a lungo, come del resto la dolcezza di Everything’s alright, l’unico brano cantato dalla voce carezzevole di Laura Shigihara.
La grafica 16-bit, che ricorda da vicino vecchi titoli come Secret of ManaFinal Fantasy o Chrono Trigger, essendo il titolo sviluppato con RPG maker, si armonizza perfettamente in quest’impianto, contribuendo all’unicità di un titolo che, nonostante una grafica affatto originale, risulta ormai facilmente riconoscibile dopo pochi secondi di gioco.

Un Mobile poco mobile

Sviluppato nel 2011, il gioco è stato oggi riproposto in versione mobile, e per l’occasione è stato risviluppato con motore Unity, con un leggero lavoro sulle grafiche e l’aggiunta di alcuni piccoli sistemi in-game come work log, qualche implementazione nei ricordi e poco altro. A parte queste implementazioni – nessuna di vero rilievo, in verità –  emergono alcuni difetti di questa versione nel sistema di movimento, più lento e farraginoso rispetto a quello del pc, certamente ancora ottimizzabile, così come lo sono i dialoghi, per i quali non è possibile accelerare la velocità di lettura, difetto che spezza non poco il ritmo di gioco e che potrebbe penalizzare non poco un titolo che richiede predisposizione alla lettura e pazienza (specie in relazione agli standard odierni). Nulla che una buona patch non possa migliorare, e già gli sviluppatori hanno annunciato aggiornamenti, soprattutto perché la versione in italiano era stata lanciata sullo store con qualche problema tecnico che gli utenti non hanno mancato di ravvisare.

Dalla Terra alla Luna

Il viaggio dalla Terra alla Luna narrato da Jules Verne è certamente agli antipodi rispetto a quello narrato in To The Moon, tutt’altro che legato alla narrativa avventurosa o alla fantascienza dei primordi, ma certamente ha in comune un tratto concettuale, quello della sfida esistenziale, della battaglia quotidiana per la realizzazione dei sogni che vede al centro la forza di volontà, motore immobile per l’esaudimento di ogni desiderio.
I momenti di riflessione davanti agli interrogativi posti dalla storia si alternano agilmente a quelli in cui sono le emozioni a farla da padrona, in un climax che porterà anche i cuori più duri ad avvicinarsi alla storia d’amore tra John e River non meno che ai grandi messaggi che il titolo vuole veicolare e ricordare, per utilizzare un verbo appropriato, sulla falsariga di quanto sosteneva Edward Morgan Foster quando affermava che “unless we remember, we cannot understand”. 
To The Moon è un titolo certamente raro nel panorama videoludico mondiale: a Kan Gao va il grande merito di aver creato un’opera videoludica che unisce profondità tematica e abilità di scrittura in un quadro di grande armonia, sostenuto da una colonna sonora raffinata, con composizioni che si imprimono nel cuore del giocatore e lo accompagnano con levità fino alla fine della storia. Un piccolo astro luminoso che non si può far a meno di ammirare e che continuerà a lungo a splendere nel firmamento degli indie games.