Just Cause 4 – Un calcio alla Ragione per far Spazio all’impossibile

Il mondo dell’intrattenimento è ormai suddiviso in così tante categorie che non basterebbe questa recensione per elencarle tutte. Se il mondo del cinema pullula di film che riescono a intrattenere e divertire senza pretese particolari, il campo videoludico – paradossalmente – soffre la mancanza di titoli di questo tipo e, eccezion fatta per gli sportivi, se ne trovano meno di quanti dovrebbero forse essercene: il “divertiti e basta” a volte viene accantonato in favore di una ricercatezza narrativa che però risulta, la maggior parte delle volte, difficile da gestire, andando quindi verso una direzione molto lontana rispetto quella prevista dagli autori. Ben vengano dunque i titoli à la Michael Bay di cui la serie Just Cause è fiero portavoce. Perché avere una trama e una caratterizzazione degna di nota quando si possono usare liberamente dei razzi per far volare una mucca nell’iperspazio? Just Cause 4 porta tutti i principi della saga su nuovi livelli, in un un mondo di gioco cui ignoranza fa rima con benessere psicofisico.
Per noi italiani, poi, questo titolo ha anche un sapore particolare: Francesco Antolini, game director di Avalanche Studios, dimostra come un designer nostrano, immerso in un contesto che funziona, può far grandi cose.

Stessa storia, stesso posto, stesso bang

L’intera Isola di Solìs può essere considerata il nostro hub, nel quale si svolgono vicende vicine al lungometraggio con protagonista Gerard Butler – tra l’altro perfetto come  protagonista per un eventuale adattamento cinematografico della saga Avalanche – Geostorm: per Rico Rodriguez è tempo di capire chi è, esplorando il proprio passato, alla ricerca di risposte ad ataviche domande. Peccato che la Mano Nera, nome altisonante per la classica organizzazione malvagia di turno, metta i bastoni tra le ruote insieme a tornado e tempeste di vario tipo. Tutto ruota infatti sul controllo del clima, vista come arma vera e propria, che diventa mezzo e oggetto di sequenze davvero spettacolari capaci di far dimenticare la piattezza di una trama che fatica a decollare è che diventa – come ovvio in questi casi – un pretesto per permettere ai giocatori, attraverso Rico, di sbizzarirsi nel favoloso parco divertimenti di nome “Just Cause Land”. Inutile dunque soffermarci su caratterizzazione di personaggi e qualità dello script: tutto è funzionale, come un film di Michael Bay ben riuscito – so che è difficile immaginarlo, ma fate uno sforzo.

Spara che ti passa

Just Cause 4 non è che l’ennesima evoluzione di un gameplay riuscito sotto diversi aspetti, aperto alle più diverse fantasie dei videogiocatori. Tutto rimane sostanzialmente invariato, con Rico capace di effettuare qualunque tipo d’azione à la Steven Seagal che vi venga in mente: paracadutarsi sparando all’impazzata? Si può; lanciarsi da 10000 metri in picchiata verso il vostro obiettivo, aprendo la tuta alare all’ultimo secondo mentre lanciate una granata a un serbatoio di carburante sfruttando la spinta ascensionale dell’esplosione per riprendere quota? Anche. Utilizzare un pallone aerostatico su una mucca per poi farla precipitare sui vostri nemici? Ma ovviamente sì.
Paragonato ad alcune produzioni attuali come Red Dead Redemption 2, Just Cause 4 è una soddisfacente sveltina: semplice, diretto e perfetto per tutte le occasioni. Le novità introdotte nel nostro arsenale prevedono Sollevatore (mutuato direttamente da Metal Gear Solid V: The Phantom Pain), Riavvolgitore e Booster. Questi potenziamenti per il nostro rampino aumentano a dismisura la libertà d’approccio permessa al giocatore, trasformando tutto in un’orgia  di “roba” senza precedenti: se come già citato, il primo produce palloni aerostatici per sollevare qualsiasi cosa, il riavvolgitore consente di attrarre qualsiasi oggetto verso un altro, con il booster, fiore all’occhiello del titolo, a far da lanciatore universale e che Elon Musk approverebbe seduta stante. Questi dispositivi possono essere utilizzati in contemporanea, con tre diversi gradi di potenza: senza giri di parole, se confrontato al titolo Avalanche, Sharknado è un film di Sorrentino.
Le varie personalizzazioni dei gadget vengono sbloccate attraverso decine di missioni secondarie abbastanza ripetitive, sparse per la vasta isola di Solìs, che spazia tra villaggi, città ultra moderne e immense distese di natura incontaminata, dalle calde spiagge alle vette innevate, che purtroppo non portano ad alcuna variazione in termini di gameplay, ma una varietà d’ambienti invidiabile. Se tutto vi sembra “rose e fiori”, correggiamo subito il tiro: il problema principale di Just Cause 4 è infatti la reale mancanza di progressione in quanto tutto ciò che possiamo fare sul finire dei gioco è possibile già sin dalle prime battute. Se non fosse per una manciata di quest principali dalle quali bisogna obbligatoriamente “passare”, nulla ci vieterebbe di andare al quartier generale nemico per farlo saltare in aria senza troppe domande; se poi aggiungiamo che attraverso mirate missioni secondarie potremmo avere a disposizione quasi sin da subito carri armati, elicotteri armati di tutto punto e F-22 come se non ci fosse un domani, capite bene che l’equilibrio di gioco non è dei migliori, volendo essere diplomatici. Il “carico da novanta” arriva però quando da uno dei menu presenti, possiamo scegliere quale equipaggiamento possiamo farci recapitare, grazie allo sblocco di piloti, che lanceranno da aeri cargo qualunque cosa di cui abbiamo bisogno e che, al 95%, coincide con la lista di poco sopra.
Dunque cosa abbiamo? Un gioco in cui ci si diverte tanto ma che alla lunga, in mancanza di una reale sfida, tende spegnersi come un fiammifero in una bufera di neve.

Com’è? Simpatico

Dal punto di vista puramente tecnico, a un primo colpo d’occhio Just Cause 4 si presenta abbastanza bene, con scorci mozzafiato, quasi da cartolina. Purtroppo però lo sguardo sullo schermo si posa molto più che il tempo di una fugace occhiata e basta poco per accorgersi che qualcosa non quadra, come un’ottimizzazione tutt’altro che perfetta ma soprattutto l’utilizzo di texture, shader e filtri che suonano forse un po’ superati. Fortunatamente – e a ben donde – l’effettistica svolge un egregio lavoro e tra esplosioni, fulmini e tempeste ci si sente tra tanti green screen cinematografici. Ovviamente, ma in certi casi si può anche chiudere un occhio, sono presenti alcuni problemi legati alla fisica, come oggetti che passano tra pavimento e la Luna in un istante, senza apparente motivo e compenetrazioni tra le più suggestive mai viste. Ma in un titolo come questo, dove anche i fili d’erba possono saltare in aria, è un miracolo che tutto funzioni senza particolari incidenti di percorso.
Se il comparto tecnico non brilla dunque per qualità, al contrario l’audio mostra i muscoli, con un ottimo doppiaggio italiano capace di comprendere la natura scanzonata del titolo ma che a volte fa a pugni con una scarsa sincronia col labiale. Effettistica molto nella norma (un peccato) ma musiche in grado di spaziare tra diversi generi, decisamente orecchiabili.

In conclusione

Just Cause 4 è forse l’ultimo della saga ad avere queste caratteristiche: benché diverta, intrattenga, permettendoci di utilizzare un’arma per richiamare fulmini dal cielo – roba che Gael in Dark Souls III levate proprio – a conti fatti rappresenta un “more of the same” dei lavori Avalanche Studios. Ma Francesco Antolini può andarne fiero, diventando (si spera) un apripista per molti talenti italiani presenti sul territorio, quelli che il nostro Bel Paese spreca, e che speriamo trovino la voce che meritano.

 

Nota: nessuna mucca reale è stata lanciata nella stratosfera per la realizzazione di questa recensione.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Sapphire Radeon RX 580 8GB NITRO+ Special Edition
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10




GAMECOMPASS FB

Un anno all’insegna di Gamecompass

Caro lettore, il nuovo anno è cominciato da qualche mese, ma per noi di GameCompass comincia un po’ oggi. Riprendiamo le pubblicazioni dopo una breve (e utile) pausa per ripensare le nostre attività, e ricominciamo più energici che mai. Ci stiamo avvicinando sempre più al primo quarto di secolo del nuovo millennio, e io oggi ho deciso di tornare con una piccola lettera di buoni propositi per il nuovo anno: perché per noi, sì, si ricomincia oggi.

Il nuovo anno mi si prospetta come un arco di tempo travolgente, un po’ perché compio è l’anno della mia maggiore età, un po’ perché saranno due anni che faccio parte di questa redazione di pazzi, appassionati e inguaribili gamer, ci supportiamo e sopportiamo da un biennio (soprattutto loro, mi sopportano tanto…),  ed è a loro che voglio dedicare un bel brindisi, come fosse il primo dell’anno; in fin dei conti, nonostante qualche diverbio su quale sia il miglior shampoo per l’auto o su quale sia la miglior console di sempre, siamo davvero una gran bella squadra, ognuno specializzato nella propria sfera di competenza editoriale.

Dal nuovo anno, faccio un po’ di analisi e un po’ di blande “premonizioni” (e Paolo Fox può accompagnare solo): sarà un anno importante in campo videoludico, alla GDC si compirà la rivoluzione verso i giochi in streaming (Google, ti aspettiamo al varco), avremo passi avanti nella tecnologia grafica (sempre più orientata al fotorealismo), contenuti nuovi, un’ascesa delle tecnologie VR AR, che finora hanno avuto un ruolo da “contorno”, salvo ovviamente qualche bel titolone.
Nel corso del 2019 abbiamo già avuto titoli di grido come Anthem (grido di dolore, ma pur sempre “grido), Metro Exodus e si attendono ancora titoli a mio avviso fantastici, come Days Gone, Crash Team Racing Nitro-FueledWorld War Z, e per la gioia del nostro Gabriele Sciarratta,  Tropico 6. Per quanto riguarda i propositi “redazionali”, se avete seguito i nostri Gamecompass Awards 2018, saprete sicuramente che stiamo ristrutturando un po’ tutto, dal format televisivo, al calendario streaming di Twitch, alle sezioni del sito stesso. Insomma abbiamo avviato una bella operazione di lifting editoriale per snellire, senza pero’ intaccare la qualità e quantità dei contenuti che puntualmente vi forniremo giorno dopo giorno.

La trasmissione riprende regolarmente, ma con cadenza più dilatata: perché le cose vanno fatte per bene, e non vogliamo forzare la mano.

Detto questo voglio augurare a tutti ma proprio tutti “uno spettabile anno nuovo”, come direbbe uno dei più grandi “dramma-comici” mai esistiti, un bacio a tutti dalla redazione di Gamecompass!




La creazione di un Open World

Con l’avanzare delle tecnologie, la creazione di nuovi interi mondi digitali in ambito videoludico è divenuta realtà. Dai primi esponenti del genere Open World a oggi l’evoluzione è stata enorme, sino ad arrivare ai recenti Assassin’s Creed: Odyssey, Red Dead Redemption II e Cyberpunk 2077. L’immersione del videogiocatore in un contesto credibile non è solo l’obbiettivo principale: intrattenere, prolungare la durata del titolo e sopratutto restituire un senso di crescita e libero arbitrio, sono tra le componenti più difficili da bilanciare anche perché, questi titoli, possono viaggiare su un limbo molto sottile, dividendosi tra il divertimento e la noia. Come nasce dunque un Open Word e come si sviluppa sino alla sua pubblicazione non è noto a tutti, e oggi cercheremo di raccontarlo. Si tratta di uno dei generi di più complessa elaborazione in assoluto, in poche parole, una “bomba alla legge di Murphy” pronta a esplodere.

Il Mondo in uno Schermo

Sembra incredibile ma gli open world conoscono un proprio Medioevo: più di dieci anni fa infatti, titoli come Beyond Good & Evil, Gran Theft Auto III e Far Cry, si attestavano già su buoni livelli se paragonati alle macchine su cui dovevano girare. Ma a un certo punto, gli open world cominciarono a sparire, in favore di avventure più lineari e, di conseguenza, più “semplici” da produrre. Chiedete al pubblico il perché di questa scelta: fatto sta che l’evoluzione di questa tipologia di videogame subì un drastico rallentamento e per questo l’avvento di saghe come Assassin’s Creed, dopo anni di “buio”, fu una vera e propria rivoluzione, che contribuì a rendere la categoria così come la conosciamo ora. Con l’avvento delle console di attuale e precedente generazione le cose cominciarono a farsi interessanti, arrivando a quel The Witcher III divenuto pietra miliare e nuovo metro di paragone del genere, almeno fino a oggi.
La creazione di un Open World varia a seconda dell’obiettivo finale, racchiudendosi in due macro universi: quelli basati sul mondo reale e quelli fittizi. Entrambi sono uniti dalla gigantesca mole di lavoro necessaria a produrli, che non si limita alla creazione del mondo in sé ma, sopratutto, al bilanciamento generale, al fine di restituire il giusto senso di progressione.
I primi si basano su rilevamenti sul campo, al fine di ricreare nella maniera più dettagliata possibile strade, palazzi, piazze che potremmo vedere dal vivo; ovviamente tutto in scala. Esempi di questo tipo ne abbiamo a bizzeffe come ad esempio il dimenticato The Gateway (2002) in grado di riprodurre una piccola Londra su Playstation 2, passando ovviamente per gli Assassin’s Creed fino ai giorni nostri, dove i rilievi effettuati, soprattutto nella planimetria delle città e dei luoghi storici raggiunge livelli sopraffini. Ma c’è chi ha fatto di più e sempre in casa Ubisoft: The Crew, racing arcade immerso negli interi Stati Uniti. Era possibile letteralmente viaggiare da New York a Los Angeles, (impiegando circa tre ore; niente male) e visitare non solo le maggiori città americane ma anche i piccoli centri e luoghi più famosi dei coloni di tutto il mondo. Creare degli ambienti reali ha la propria dose di responsabilità e, essendo il videogioco un’opera globale, è possibile incappare in qualche imprevisto, come la scelta di censurare statue patrimonio dell’umanità, per evitare di urtare la sensibilità di qualcuno (vedi Assassin’s Creed: Origins). E per chi crea un mondo da zero? La difficoltà viene decuplicata, non tanto per la realizzazione tecnica quantoper quella artistica: anche se fittizio, un mondo possiede delle sue regole, e far sì che l’ambiente di gioco sia coerente con se stesso è la prima regola da rispettare. Del resto abbiamo visto come in The Elder Scrolls V: Skyrim e Fallout 3 tutto questo è estremamente rilevante in quanto, il contesto visivo è la chiave di volta per far sì che la narrazione possa attecchire su solide basi. Questo perché alle volte, un open world può essere anche un pretesto, “mascherando” la poca qualità della trama con la frammentazione della stessa in varie quest, principali e non o, ancora peggio, non sfruttando l’ambiente e il contesto creato. Assassin’s Creed è sempre un franchise da cui è possibile trarre numerosi spunti e anche in questo caso ci accontenta: Unity è stato un disastro per tanti motivi, ma sopratutto perché il suo svolgimento sembra del tutto slegato dalla Parigi rivoluzionaria di fine 1700. Immergere un videogiocatore in un contesto visivo credibile è la base su cui si poggia un open world in tutte le sue declinazioni, una sorta di regola scrittore-lettore che, una volta infranta, riduce di molto l’appeal verso il titolo interessato.

Faccio cose, vedo gente

Dopo aver modellato un nuovo mondo come novelle divinità, arriva la parte più complicata, riassunta nella domanda “e mo’ che ci metto?”. È chiaro che questo processo arriva dopo centinaia di ore di brainstormig, storyboard, idee azzeccate e sbagliate fino a quando si arriva alle decisioni finali. In questo frangente molto dipende dal tipo di videogioco creato che può andare da FPS, TPS, Racing, RPG e persino spaziale. In un racing game, ad esempio, come l’eccellente Forza Horizon 4, il focus, oltre ad andare alla realizzazione dei modelli delle auto, è indirizzato a rendere l’intero ambiente di gioco abbastanza vario da poterne definire diverse regioni, enfatizzandone magari differenze di flora, fauna e clima, oltre a cercare di restituire il giusto colpo d’occhio nelle grandi città. In questo caso, il numero di NPC presenti ad esempio ha una limitata rilevanza così come, elementi di contorno che poco hanno a che fare con le corse sfrenate a bordo di bolidi.  Tutt’altra storia con open world con componente narrativa ed esplorativa come Assassin’s Creed: Odyssey e Red Dead Redemption II, anche se con approcci diametralmente opposti. Entrambi però sembrano aver risolto un problema intrinseco presente in mappe molto vaste: il vuoto. È capitato, in diversi frangenti, che vastità non fa rima con divertimento, presentando zone senza elementi particolari tra altre che esplodevano di vita. Questo equilibrio spezzato, visibile anche nell’acclamato The Legend of Zelda: Breath to the Wild (ma non preoccupatevi, verrà elogiato successivamente), è stato il tallone d’Achille di quasi tutti gli open world ma fortunatamente, grazie forse a macchine più performanti (o magari una maggiore attenzione), questo problema sembra essere risolto: quest, zone intere da esplorare, segreti o semplici scorci mozzafiato, sono la cura di questo male, ma che Rockstar al contrario di Ubisoft, è riuscita a plasmare nella maniera più naturale possibile.
Ma esistono titoli che fanno degli ambienti ricreati il loro punto di forza: Dark Souls vanta una direzione artistica che difficilmente è riscontrabile in altri titoli, con una cura maniacale necessaria, perché è proprio la mappa che ci parla. Questa, visibile quasi interamente da ogni dove e benché non sia un open world in senso stretto, è utile a capire quanto sia importante inserire elementi corretti, coerenti e soprattutto in grado di risaltare agli occhi del videogiocatore.
Quello che colpisce nel titolo Nintendo e Rockstar precedentemente citati è la capacità di reinventarsi, cercando di portare qualcosa di nuovo. Link è immerso in un mondo sconosciuto e libero da vincoli dettati da missioni in sequenza da svolgere per portare al termine il titolo. Siamo vicini alla pura libertà d’azione in cui, il progresso avviene in maniera del tutto naturale, un’approccio molto diverso dai rivali, probabilmente anche per limitazioni hardware; ma non basta fare di necessità virtù: bisogna saperlo fare. Il team di sviluppo è riuscito a portarci tra le mani un’avventura genuina, una scelta che è stata ben premiata durante tutto il corso del 2017. Ma con Red Dead Redemption si è andati oltre, e sicuramente piccolo anticipo di quel che vedremo nei prossimi anni: un mondo vivo, in costante evoluzione e mai uguale a sé stesso; l’evoluzione, visibile sia negli ambienti che fra i personaggi giocanti e non, è un elogio alla cura per il dettaglio, spiegando anche i circa dieci anni di sviluppo. Ed è proprio questo il punto: l’open world è qualcosa di mastodontico e serve il giusto tempo per poter portare qualcosa di innovativo e curato in ogni dettaglio; ma ne vale la pena? In un mercato frenetico come quello di oggi, con questa moda che sembra più prendere il largo, non c’è il rischio del copia-incolla? Sì, e lo vediamo in continuazione. Eppure, basta variare l’intento con cui si crea un mondo aperto: Avalanche Studios, ad esempio, è maestra in questo e il suo Just Cause è una festa per gli occhi. La libertà concessa al giocatore (ben diversa da quella di Link) è in qualche modo indirizzata verso la spettacolarizzazione, rendendo di fatto questo titolo uno dei più divertenti e intrattenti sul mercato. Inoltre, anche il futuro Rage 2 potrà contare su una vasta mappa che metterà assieme il contesto esagerato di id Software con la cura per gli ambienti di Avalanche.
Il contesto è e resterà sempre fondamentale: creare un mondo credibile in tutti i suoi aspetti la regola d’oro per chi vuole cimentarsi in questa faticosa missione. Ma poi c’è la tecnica e, come Bethesda insegna, basta poco per distruggere tutto.

L’abito fa il monaco

Il bello della tecnologia è che ogni anno c’è sempre qualcosa di nuovo. Quello che un tempo era impensabile a un certo punto diventa possibile ma l’insidia è sempre dietro l’angolo. I moderni open world sono molto complessi anche dal punto di vista tecnico, dove si cerca di mettere assieme diverse simulazioni nella maniera più omogenea possibile. Una delle più grandi innovazioni l’ha introdotta Ubisoft con il suo Sea Engine, apparso in Assassin’s Creed III e ulteriormente potenziato in Assassin’s Creed IV: Black Flag: l’utilizzo di diverse equazioni sulla fisica dell’acqua, ha permesso un’attenta simulazione delle onde, cosa essenziale quando oltre al suolo, è possibile esplorare anche gli oceani. Da questo punto di vista le ultime produzioni dedicate agli Assassini, sono davvero eccellenti, mostrando mondi così diversi come quello acqueo e terrestre in tutta la loro complessità. Negli ultimi anni ha fatto anche capolino la simulazione del clima, passando da caldo afoso a intense nevicate, in grado tra l’altro di influenzare il gameplay. Anche questo processo è estremamente delicato: gestire centinaia di elementi diversi nello stesso momento può risultare davvero arduo e solo con le recenti macchine si è riusciti a raggiungere ottimi risultati. Questo perché è tutto l’ambiente a risentire del cambiamento: prendiamo ad esempio la pioggia; ogni goccia è indipendente l’una dall’altra e, ognuna di esse, viene influenzata dall’ambiente circostante dunque, già di per sé, molto complesso. Se aggiungiamo anche la simulazione dei venti o la gestione di elementi volumetrici come nebbia o fumo, il rischio del patatrac è dietro l’angolo. Per non parlare di come le superfici, una volta bagnate, debbano riflettere ancora più luce e di conseguenza ambiente circostante, appesantendo ancor di più il tutto. Ma per rendere veramente reale l’ambiente in cui ci muoviamo, devono intervenire le luci, che stanno pian piano passando da un’illuminazione globale al ray tracing. L’illuminazione globale è stata croce e delizia per ogni sviluppatore, che ha permesso sì una buona approssimazione nella simulazione dei fasci di luce ma molto distante dalla realtà. Funzionando in stretta relazione con gli shader, questo sistema riproduce centinaia di fasci di luce multi-direzionali, influenzando anche le ombre e le rifrazioni. Niente male, ma il ray tracing? Non abbiamo ancora visto la sua applicazione su larga scala ma le potenzialità sono sotto gli occhi di tutti. I prossimi open world potrebbero contare su un rivoluzionario sistema di illuminazione, trasformando gli odierni Odyssey o Marvel’s Spider-Man, in oggetti da antiquariato. Ma tutto questo ben di dio richiederà macchine ancor più performanti delle attuali GPU, visto la fatica con cui la GTX 2080 riesce a gestire tutto ciò, solo con anti aliasing DLSS.
A meno che non si tratti di post apocalittici come Fallout o Rage, anche la vegetazione ha il suo bel da fare, a dimostrazione di come un’innovazione tecnica possa influire sul gameplay. Il caso eclatante arriva sempre da Assassin’s Creed, che con un maggior dettaglio del fogliame 3D dinamico è riuscita ad aggiungere alcune meccaniche stealth anche in mancanza di architetture. E non dimentichiamo le animazioni: ci vorrebbe un articolo a parte per parlare di quanto sia difficile gestire animazioni uniche in base al contesto, non solo per il personaggio che controlliamo ma per tutti gli NPC presenti su schermo. Non siamo ancora al punto di avere personaggi non giocanti unici, avendo a che fare molte volte con la ripetizione esasperata dei diversi modelli (vedi We Happy Few). Proprio le animazioni, unite alla gestione della fisica, sono le vere gatte da pelare e serve un ottimo lavoro di pulizia dei vari codici affinché non avvenga il disastro. Come dicevamo, Bethesda è ormai habitué in questi termini, contando su un motore di gioco (Creation Engine) targato 2011 e già imperfetto alla sua nascita. La buona norma, sarebbe quella di creare un nuovo motore di zecca a ogni passaggio di generazione piuttosto che aggiornare il precedente perché, a ogni riscrittura, possono generarsi conflitti che se presi sottogamba, possono rovinare l’intera esperienza.

In sostanza, questi sono i parametri da tener d’occhio nella creazione di un open world: tutto deve funzionare in perfetta armonia affinché il giocatore possa sentirsi integrato all’interno di nuovo mondo. La creazione della mappa è solo la punta dell’iceberg di un immenso lavoro e magari, ora che state giocando uno di questi titoli, soffermatevi davanti a una roccia o un cespuglio, chiedetevi perché si trovi lì e il tempo necessario alla sua modellazione. Poi alzate lo sguardo verso l’orizzonte: vi accorgerete di quanto ogni programmatore e artista abbia faticato per permettervi di godervi sane ore di svago.




Top 5: Novembre 2018

La fine di questo 2018 videoludico è ormai vicina e il mese di Novembre ci ha regalato alcuni dei titoli più importanti di tutta l’annata. Andiamo a vedere quali.

#5 Fallout 76

Il titolo Bethesda era uno dei più attesi dell’anno: dopo la pubblicazione di The Elder Scrolls Online gli sviluppatori americani si lanciano nel loro primo MMORPG, un prequel narrativo ambientato nel 2102, venticinque anni dopo la guerra nucleare che ha devastato il mondo. Noi impersoneremo un abitante del Vault 76 atto a riconolonizzare il territorio. Attualmente il titolo soffre di qualche problema con i server e probabilmente ingranerà dopo qualche patch correttiva e un po’ di mesi di rodaggio, quindi è da considerare come un investimento a lungo termine.

#4 Football Manager 2019

Nuova interazione per l’amata saga manageriale calcistica di Sports Interactive: quest’anno il team ha voluto cambiare faccia, con una nuova interfaccia grafica e una rinnovata attenzione sul lato tecnico-tattico. Mai come quest’anno sarà fondamentale trovare il giusto assetto e progettare bene la sessione di allenamenti, facendo attenzione a non strafare ed evitare di esser falcidiati dagli infortuni, esattamente come nella realtà. Probabilmente uno dei migliori capitoli della serie, ottimo anche per chi non ne ha mai giocato uno e vorrebbe iniziare ad emulare le gesta di Allegri, Guardiola o Mourinho.

#3 Battlefield V

Il nuovo capitolo del popolare sparatutto di casa DICE fa buon uso delle critiche arrivate nel periodo della beta, regalandoci uno dei migliori titoli della saga: abbandonato il periodo della Prima Guerra Mondiale di Battlefield 1 si ritorna sui campi da battaglia della Seconda Guerra Mondiale, prendendo i punti di forza del predecessore e ampliandoli in un gameplay frenetico e fluido. Battlefield V è anche uno dei primi titoli che sfrutta appieno le potenzialità della serie di schede grafiche RTX di Nvidia con la tecnologia ray tracing, capace di avvicinarci sempre di più al fotorealismo. Manca ancora l’attesa modalità battle royale in arrivo a breve, ma al momento il titolo pubblicato da Electronic Arts ha fatto centro.

#2 Darksiders III

Terzo attesissimo capitolo della saga di Darksiders, il primo dopo il fallimento di THQ e il passaggio a THQ Nordic: questa volta vestiremo i panni di Furia, uno dei quattro cavalieri dell’Apocalisse, atta a distruggere le impersonificazioni dei sette vizi capitali.
Pur mantenendo l’aspetto action-adventure con elementi RPG dei predecessori, Darksiders III aggiunge degli elementi hack and slash e soulslike al mix, rendendo il titolo sviluppato da Gunfire Games un gradito ritorno.

#1 Red Dead Redemption II

Il titolo di Rockstar Games era uno dei più attesi dell’anno e non ha deluso le aspettative: Red Dead Redemption II ci riporta negli impolverati sentieri del Far West, dove impersoneremo Arthur Morgan, leader di una banda di fuorilegge che dovremo gestire e dirigere come ogni buon capo che si rispetti. Ogni nostra mossa avrà un impatto sulle cittadine e sugli NPC che incontreremo lungo l’avventura, siano essi nella storia principale che durante le fasi di free roaming, e sotto questo punto di vista il lavoro di Rockstar è enorme: la già grande base del precedente capitolo viene ampliata a dismisura, restituendo al giocatore un titolo open world vivo e capace di evolversi come poche volte si è visto nella storia dei videogiochi, rendendo Red Dead Redemption II non solo uno dei migliori titoli del 2018, ma probabilmente uno dei migliori degli ultimi anni.




L’importanza della strategia nel gioco

Tutti gli appassionati dei giochi, che siano giochi di carte, giochi da tavolo o videogame sono ben consapevoli del fatto che “giocare” sia una cosa seria. Qualsiasi giocatore che voglia ottenere dei risultati nel proprio campo non può permettersi improvvisazione o rimettersi all’intuito ma, anzi, deve necessariamente avere una strategia ben consolidata che lo guiderà durante tutto il corso della propria esperienza di gioco. Sta proprio in questo la bellezza del gioco: pensare ad una strategia, modellarla in base alle mosse del proprio avversario, studiare tutte le possibili azioni e scegliere quella che, a nostro avviso, sarà in grado di rendere al meglio. La pianificazione è tutto, che si tratti del gioco degli scacchi, di una partita a blackjack o di una partita ad un videogioco, di avventura o sportivo che sia.

Blackjack

Il blackjack, noto in Italia anche come Ventuno, è uno dei giochi di carte più famosi al mondo e viene svolto tra il banco ed il giocatore. L’obiettivo del gioco è di mettere a segno un punteggio superiore rispetto a quello del banco ma, comunque, inferiore a 21. Nonostante, dai meno esperti, il blackjack possa essere considerato un gioco di mera fortuna, in realtà, i grandi giocatori seguono delle regole strategiche ben precise: le norme regolatrici del gioco sono delle regole matematiche ed il giocatore esperto, al momento della puntata, dello split o del raddoppio blackjack basa la propria giocata seguendo rigorosamente il calcolo delle probabilità. Nulla è lasciato al caso e la strategia e la conoscenza delle regole statistiche sono fondamentali per il successo.

Risiko

Il Risiko è probabilmente uno dei giochi da tavolo più famosi al mondo: l’obiettivo è di portare a termine la propria missione segreta mediante il raggiungimento di determinati traguardi. Per quanto il Risiko sia un gioco per passare delle serate divertendosi in compagnia ci sono delle persone che ne hanno fatto la propria fonte di sostentamento. Ciò in quanto il Risiko è un gioco di strategia che, praticato con l’utilizzo di dadi, in numero variabile in base al numero di armate possedute dal singolo giocatore, è regolato anch’esso da norme statistiche e probabilistiche: ovviamente maggiore sarà il numero di dadi con i quali viene attaccato un nemico e maggiori saranno le probabilità che l’attacco vada a buon fine. Fondamentale sarà inoltre comprendere gli obiettivi dell’avversario e comportarsi di conseguenza, nel minor tempo possibile.

Scacchi

Gli scacchi sono il gioco di strategia per eccellenza: le variabili del gioco sono talmente tante che fino a qualche anno fa si pensava che le mosse praticabili durante un partita di scacchi fossero infinite. Tuttavia, un matematico statunitense si è occupato del problema ed ha scoperto che in realtà le mosse attuabili sono 10123, un numero superiore agli atomi potenzialmente presenti nell’universo. Ne deriva che i grandi giocatori di scacchi sono, anzitutto, degli abili strateghi, capaci di modificare il piano di gioco in base alle mosse ed al comportamento dell’avversario, senza tuttavia dimenticare il proprio piano gara e la propria strategia.

I videogame: FIFA 19 e Red Dead Redemption 2

Anche i videogiochi, ovviamente, richiedono una notevole abilità strategica per il completamento delle missioni ed il raggiungimento degli obiettivi. I videogame moderni, tuttavia, hanno raggiunto un livello di complessità tale che, le scelte compiute dal giocatore nel corso della propria esperienza di gioco sono in grado di determinare il futuro del personaggio stesso, rendendo ogni partita differente da qualsiasi altra: ne è un esempio il nuovo capolavoro della Rockstar, Red Dead Redemption 2, che si candida ad essere il gioco che verrà ricordato negli anni per aver modificato per sempre il concetto di gioco di strategia. Non esiste, infatti, una strategia di gioco, ma un numero infinito di strategie e possibili evoluzioni della storia che saranno determinate solo ed esclusivamente dal giocatore. Un discorso simile, inoltre, vale anche per FIFA 19, il gioco di calcio più venduto al mondo che, oltre alla modalità partita singola, permette agli utenti di pianificare la propria carriera da allenatore o da giocatore singolo, curando nei minimi dettagli l’allenamento dei giocatori, le operazioni di mercato, l’assunzione di membri dello staff etc. Non è un caso, pertanto, che quella dei gamer sia diventata una vera e propria professione che, tra sponsorizzazioni ed ingaggi vari, permette ai giocatori di guadagnare fior fior di quattrini.
Come abbiamo avuto modo di vedere il gioco è una cosa seria. Approcciarsi in modo professionale e serio ad un qualsiasi gioco, da tavolo, di carte o un videogame, richiede una certa preparazione ed un dettagliato piano strategico che possa permettere all’utente di cavarsela anche nei momenti di difficoltà.




Rockstar Games: tra traguardi stellari e dipendenti scontenti

È ormai un dato di fatto che Red Dead Redemption 2 sia il gioco più acclamato di quest’anno e non solo superando di netto tutti i suoi “coetanei” come Spider-Man, Assassin’s Creed Odyssey e il sempre annuale appuntamento EAFIFA 19, giusto per citare alcuni tra i più recenti. Ha persino raggiunto  il secondo posto tra i giochi più venduti di sempre durante il periodo di lancio, preceduto dal fratello maggiore GTA V, un primato tutto Rockstar Games insomma.
Si può solo lontanamente immaginare quanto lavoro ci sia dietro a titoli dove il free roaming e la cura per i dettagli sono solo alla base e sopratutto, nelle fasi finali dello sviluppo (di solito si parla dell’ultimo anno prima del rilascio), la mole di cose da fare può essere davvero massacrante per un dipendente le cui ore settimanali non sono abbastanza per terminare tutto: ecco che entrano in gioco gli straordinari. Fin qui tutto normale, se non fosse che nessun pagamento extra è stato previsto per chi non avesse un contratto a ore e avesse deciso di rimanere per più tempo in ufficio.

Questa situazione ha creato parecchie reazioni differenti tra i membri dei vari team di sviluppo, molti dei quali hanno voluto raccontare le loro esperienze, spesso discordanti, a Kotaku: chi ha detto di aver considerato l’esperienza di RDR2 ambiziosa e soddisfacente, seppur molto impegnativa; chi invece ha dovuto rinunciare a malincuore a tempo libero, amici e famiglia per portarsi avanti con il lavoro, arrivando a compromettere la propria salute mentale; chi dice di essere passato dalle normali 37 ore settimanali a 60, chi invece a 80; chi è ottimista e spera di ricevere un meritato bonus per le vendite del gioco e chi infine ha deciso di abbandonare tutto. Di contro, Rockstar ha messo in chiaro, tramite Jennifer Kolbeche nessun dipendente è obbligato a prendere parte agli straordinari, sia esso assunto da poco o da molto tempo, e chi decide di non farlo non è in alcun modo screditato o considerato meno lodevole.
Probabilmente in molti vi starete chiedendo il perché di tanto trambusto quando situazioni simili sono all’ordine del giorno in un paese come il nostro, che da altre parti sono “abituati troppo bene”, che “dovrebbero essere grati di avere un lavoro”. Ma tutto ciò non vuol forse dire che in posti come l‘Inghilterra o gli USA il lavoratore è molto più socialmente considerato e tutelato? Facciamoci due domande e chiediamoci se non siamo effettivamente noi quelli in torto, se parlare male della propria situazione lavorativa (quando non è effettivamente buona) sia più da persone deboli che non sanno adattarsi e stare al loro posto o da persone consapevoli di poter meritare di meglio.




Red Dead Redemption 2 farà aumentare i profitti di Rockstar del 38%

Il lancio di Red Dead Redemption 2 è stato un successo generale, grazie allo sviluppo che ha curato il gioco nei minimi particolari e al comparto tecnico; un titolo davvero molto atteso tanto che potrebbe far aumentare di circa il 38% i profitti di Rockstar Games, gli sviluppatori del titolo. A dichiararlo sarebbe stato l’analista Gerrick Johnson che, come riporta Bloomberg, prevede il raggiungimento di ben 538 milioni di dollari da parte di Take Two Interactive l’azienda statunitense che si occupa da anni della distribuzione dei titoli Rockstar. Lo scorso anno, il colosso che ha dato vita alla saga di GTA ha guadagnato circa 383 milioni di dollari solamente per le vendite di quest’ultimo e grazie a Red Dead Redemption 2 alla fine di quest’anno potrebbe raggiungere e superare la soglia dei 538 milioni.
Gli analisti prevedono che RDR 2 possa vendere più di 15 milioni di copie in tutto il mondo, anche se, a causa di alcune polemiche sulle condizioni di lavoro degli sviluppatori, che dovevano lavorare per più di 100 ore settimanali per poter terminare il lavoro in tempo, il lancio non è andato come previsto, ma è stato comunque un successo.
Il CEO di Take TwoStrauss Zelnick, però, ha dichiarato che il totale del ricavato dai diritti non sarà solo merito di Red Dead Redemption 2, ma sarà comunque il risultato di tutte le etichette pubblicate da Rockstar in questi anni.




Rockstar: gli straordinari non sono obbligatori

Red Dead Redemption è tornato e in poco tempo scopriremo se l’hype generato dall’utenza sarà giustificato dalla qualità del gioco. Ma che prezzo hanno pagato i dipendenti di Rockstar per rispettare le deadline? Varie polemiche si sono susseguite in merito al fatto che Rockstar obbligasse i propri dipendenti a lavorare oltre la quota di ore stabilita dal contratto tra cui quella sollevata dal The Guardian secondo la quale la media ore lavorative settimanali si fossero alzate a inizio anno da circa 46 a circa 50, ammettendo comunque che circa il 20% del suo personale lavorasse in media 60 ore a settimana. Su tale argomento è intervenuto il capo del reparto editoriale di Rockstar Jennifer Kolbe che ha rilasciato alcune dichiarazioni a GamesBeat, facendo trapelare come lo straordinario non è obbligatorio secondo contratto, mettendo un punto alle polemiche sopra citate; chiarisce inoltre che Rockstar ringrazia chi fa gli straordinari e non punisce chi non li fa, puntualizzando che all’interno del team vi sono lavoratori molto apprezzati che non svolgono gli straordinari. In Rockstar pensano che tale discussione sia stata fraintesa ma è servita come lezione: in futuro cureranno di più le loro comunicazioni con i vari team di sviluppo, prendendosi le responsabilità per i casi di poca chiarezza.




L’atteso ritorno di Bully

Proprio cosi, la grande R* potrebbe stupirci ancora. A poco più da una settimana al rilascio di Red Dead Redemption 2, si vocifera che Rockstar Games stia cercando professori di college e adolescenti per un nuovo progetto, suscitando il sospetto di una probabile uscita del sequel di Bully, titolo controverso, criticato per la caratterizzazione dei personaggi, non proprio da prendere come esempio, tanto da esserne censurato il nome originale per rimpiazzarlo con Canis Canem Edit. Si può notare in questo periodo come Rockstar Games sia molto più attiva e pronta a cavalcare l’hype che verrà sicuramente generato con RDR2, tuttavia non si spegne ancora la speranza nei fan di un attesissimo trailer del prossimo episodio Grand Theft Auto




Rockstar Games ha rilasciato un nuovo gameplay di Red Dead Redemption 2

Rockstar Games, ha da poco rilasciato un gameplay di Red Dead Redemption 2 (che trovate qui in fondo), un titolo attesissimo che uscirà il 12 ottobre di quest’anno. Il capitolo precedente si era guadagnato il titolo di una delle migliori IP della grande R*. La domanda che dunque ci poniamo è: riuscirà Red Dead Redemption 2 a riscuotere talmente tanto successo da riuscire a raggiungere le vendite di Grand Theft Auto V? Potrebbe essere possibile, in quanto il titolo conta già su una community ampia, che sicuramente attenderà con fremito l’uscita di questo nuovo sequel.