Cambiamenti in vista per Rainbow: Six Siege

Ubisoft si prepara a rilasciare sul territorio asiatico Rainbow: Six Siege e, ovviamente, i nuovi territori comportano nuove regole da rispettare. L’azienda ha annunciato cambiamenti estetici al prodotto, pur mantenendo una propria identità visiva, per non impegnare un solo team su due giochi “diversi”; quindi nessuna modifica al gameplay di base ma soltanto la rimozione di teschi, riferimenti sessualmente espliciti o al gioco d’azzardo e la rimozione del sangue dagli ambienti di gioco, in conformità con i regolamenti di alcuni paesi. Alcune icone verranno infine sostituite, come ad esempio quella della mischia, che passa dal pugnale al pugno.




Intellivision Amico: impressioni a caldo

In questa rubrica abbiamo già visto il Polymega, una console di prossima uscita dedicata esclusivamente al retrogaming e al recupero dei vecchi giochi, sia tramite cartucce e dischi (la cui macchina estrarrà le immagini) sia tramite uno store online da lanciare nel tardo 2019. A percorrere quasi gli stessi binari della nostalgia, Tommy Tallarico, famoso compositore che per ha lavorato nell’industria videoludica per titoli come Aladdin per Sega Genesis, Terminator per Sega CD, Cool Spot e Metroid Prime, ha comprato nel Maggio 2018 gli asset di Intellivision Production di Keith Robinson, precedente detentore venuto a mancare l’anno scorso, fondando la nuova Intellivision Entertainment e, giusto qualche giorno fa (22 Ottobre) è stato lanciato un trailer per l’Intellivision Amico, una console, a detta del suo nuovo CEO, rivolta a tutta la famiglia, una macchina che propone giochi per ogni tipo di giocatore e non solo gli hardcore gamer. Sul nuovo sito di Intellivision Entertainment è possibile vedere tutti i dettagli della macchina (che a breve discuteremo); ma prima di buttarci a capofitto sulle novità, diamo prima uno sguardo alla precedente console di seconda generazione, giusto per ripercorrere la storia di questo marchio spesso dimenticato ma molto importante.

Meravigliosa creatura

L’originale Intellivision, prodotto da Mattel Electronics, fu lanciato nel 1980, previo test market a Fresno, in California nel 1979, introducendo sul mercato una marea di innovazioni all’avanguardia (forse anche troppo) per i suoi tempi, feature e capacità che avremmo visto anni o addirittura decenni, più tardi: per prima cosa, Intellivision è stata la prima console con processore 16bit in grado di dare alla macchina, sul piano grafico e sull’azione, un vantaggio decisivo contro la concorrenza, sottolineato tramite un’aggressiva campagna marketing, che poteva permettere l’inserimento dell’Intellivoice Voice Synthesis Module, un add-on esterno in grado di poter dare ad alcuni giochi delle vere e proprie tracce vocali digitali da ascoltare durante il gameplay; Intellivision è stata la prima macchina a puntare direttamente agli appassionati sportivi, proponendo all’interno della sua ottima libreria, che offriva titoli innovativi come Utopia e Advanced Dungeon and Dragons: Cloudy Mountain che gettarono le basi, rispettivamente, per i generi god simulator e avventura, i primi giochi su licenza delle varie federazioni sportive americane, come MLB, NFL, NBA, NHL, ect.; inoltre (e questo è veramente una feature più volte ripresa nel tempo ma decollata soltanto negli anni 2000) è stata la prima macchina a fornire una distribuzione digitale, tramite cavo televisivo, con il suo add-on Playcable, una qualità, ad oggi, immancabile nelle console moderne. Unico suo punto a sfavore era forse il poco intuitivo controller, direttamente saldato all’interno della console e dunque non sostituibile, che presentava un dischetto metallico, simile ma non uguale a una croce direzionale, che si sostituiva al joystick e che dava al giocatore ben 16 (eccessive) direzioni, quattro tasti principali sui lati e una tastiera numerica, simile a quella di un telefono, sulla quale era possibile attaccare degli overlay di cartone sulla quale erano spiegate le funzionalità di ogni singolo tasto per un determinato giochi; dunque, tenendo anche conto del fatto che il dischetto direzionale funziona anche come tasto se premuto al centro, ci sono ben 17 tasti, veramente troppi per una console di questa generazione. Fra pregi e difetti, possiamo senza dubbio dire che è stata una console veramente all’avanguardia, sia sul piano tecnico che sul piano marketing, ma fra Colecovision, Magnavox Odyssey2, Atari 5200 (che si dava battaglia da sola per rimpiazzare l’obsoleta Atari 2600 che, paradossalmente, era ancora la console che vendeva di più) e i nuovi PC casalinghi, l’Intellivision era una goccia d’acqua nell’oceano della competizione.
Successivamente, nel 1984, per limitare le perdite, Mattel fondò Intellivision Inc., tramutata in seguito in INTV Corporation, che continuò la distribuzione della console, adesso chiamata appunto INTV e la produzione di giochi e console, il tutto distribuito esclusivamente via posta ed esente dal marchio Mattel, fino al 1990, anno in cui Nintendo e Sega approcciarono i loro uffici per fermarne la produzione. Anche se meritava molto di più, Intellivision se ne uscì con oltre 3 milioni di console vendute in tutto il mondo e più in là, a testimonianza dell’amore e dell’innovazione portata da questa macchina, sotto la nuova Intellivision Production fondata da Keith Robinson nel 1997 furono licenziate diverse collection, fra PC Windows e console e addirittura l’Intellivision Flashback di AtGames, una retro-console plug and play per poter riscoprire una buona manciata di giochi. Intellivision è stata senza dubbio una console che ha saputo farsi spazio nei cuori della community.

Un nuovo Amico

Il marchio e il prestigio di Intellivision è sopravvissuto fino a oggi, anno in cui Tommy Tallarico ha comprato le possessioni di Keith Robinson e ha rilanciato l’intera azienda sotto il nome di Intellivision Entertainment mettendosi al capo. Ed è così, come un fulmine a ciel sereno, appare Amico, la nuova console Intellivision che verrà lanciata il 10 Ottobre 2020 (fate caso a 1010 2020! Piccoli stratagemmi per ricordare certe date, un po’ come Sega Dreamcast fece per il suo 09/09/1999) per un prezzo di lancio fra i 149 ai 179$. Vediamo un po’ cosa offre questa nuova console che propone caratteristiche veramente fuori dal comune.
Innanzitutto la macchina detta una regola tanto interessante quanto rigida, ovvero “2D only”: ebbene sì, la macchina conterrà un avanzatissimo chip in grado di offrire la migliore grafica 2D sul mercato. La macchina sarà ovviamente in grado di connettersi a internet via wi-fi, dove potremo accedere allo store online per acquistare i software aggiuntivi, che saranno esclusivamente digitali, giocare online, vedere le classifiche all’interno dei singoli giochi e partecipare a tornei. Per il resto, nella console, ci saranno delle porte USB, uscita HDMI, delle luci al led che cambieranno colore con le interazioni con i giochi e il sito Intellivision Entertainment parla anche di un “System Expansion Interface”, forse un qualche futuro add-on, chissà. I controller wireless presentati ricalcano la forma di quelli originali, dunque ci sarà un dischetto (che però stavolta sembra funzionare di più come un d-pad), i quattro tasti sui lati del controller e verranno aggiunti inoltre microfono, speaker, vibrazione, sensori giroscopici e sarà possibile ricaricarli sulla base della console; la più grande innovazione, però, è senza dubbio il touchscreen integrato che sostituirà il tastierino numerico, e magari riuscirà a restituire, forse, quel concetto pensato originariamente per l’Intellivision che ai tempi non funzionò benissimo per via della tecnologia poco avanzata. Sarà possibile inoltre collegare alla console i propri smartphone via app dedicata in assenza di controller originali Amico (fino a otto giocatori). Per ciò che riguarda i software, che non andranno oltre la classificazione ESRB 10+, non solo saranno esclusivamente in 2D ma saranno tutti esclusive Amico, sottolineando anche che la console non ospiterà porting, DLC o microtransazioni e che i prezzi varieranno da un minimo di 2,99$ a un massimo di 8,99$. Momentaneamente, sempre sul lato software, si parla di classici re-immaginati, dunque vecchi titoli che vedranno un upgrade grafico, sonoro, nuovi livelli, modalità multiplayer locale, online e molto più: questi verranno presi dalla libreria Intellivision, Atari, iMagic, famoso third party dei tempi e altri titoli arcade come Super Burger Time, Moon Patrol, R-Type, Toejam & Earl e molti altri. La console, al momento dell’acquisto, avrà alcuni classici inclusi ma sono stati promessi oltre 20 nuovi titoli per il lancio.

Amico o Nemico?

Il team di Intellivision Amico è composto da gente veramente competente: come abbiamo già detto, Tommy Tallarico sarà il CEO di Intellivision Entertainment, mentre al suo fianco troveremo i produttore Jason Enos, veterano dell’industria che ha lavorato in ben oltre 100 progetti fra Sega, Konami, E.A. e Namco, Phil Adam, Mike Mika, Perrin Kaplan, altra veterana che si occupò dei lanci di Super Nintendo, Nintendo DS, Wii, Gamecube e N64 (e che ovviamente si occuperà del lancio di Amico), Beth Llewelyn alle pubbliche relazioni, altra veterana Nintendo con ben 12 anni di carriera alle spalle, David Perry e Scott Tsumura come special advisor, il co-fondatore di Intellivision Steve Roney, Bill Fisher, altro programmatore dipendente dell’originale Intellivision, André Lamothe, specialista hardware che ha persino avuto esperienza alla NASA, Emily Rosenthal per ciò che riguarderà le comunicazioni e gli eventi e Paul Nurminen, attualmente l’host del Intellivisionaries podcast.
Come possiamo ben vedere, la nuova Intellivision Entertainment sta tracciando delle chiarissime linee direttive, a ben due anni di distanza dal lancio, con chiarissime idee su ciò che saranno i loro giochi, come verranno giocati, che aspetto avranno e persino quanto dovranno costare. Tommy Tallarico ha espressamente detto:

«Vogliamo creare una console che i genitori vorranno comprare, che non gli venga indicata dai figli».

Ha anche rivendicato come l’industria, oggi, si concentri solo sugli hardcore gamer, tenendo fuori tutta quella fetta di pubblico che non gioca regolarmente coi videogiochi o, semplicemente, non ne sono attratti; Intellivision Amico dovrà essere una console rivolta a tutti, uno di quei dispositivi da accendere durante le feste a casa con amici e parenti per passare delle sane ore di gaming accessibile a tutti, un po’ come avvenne per Nintendo Wii – se è per questo, riflettendo, il nome di questa console rimanda proprio al suo significato italiano, amico, una console simpatica che può entrare nel cuore di tutti –. Sebbene ci sia un solidissimo team esperiente alle spalle dell’Intellivision Amico, ci sono alcune qualità che non ci entusiasmano, anzi, ci sembrano dei veri e propri diktat: per quanto interessante e audace possa sembrare una console che proporrà esclusivamente giochi in 2D ciò escluderà a priori tutti quei produttori che potrebbero realizzare titoli in 3D, anche con un forte richiamo nostalgico; in poche parole, non vediamo il motivo per cui il 3D, moderno o retrò che sia, debba essere bandito dalla libreria a priori; avere una console che si distingua nel mercato, esattamente come succedeva fra Super Nintendo e Sega Mega Drive nella quarta generazione di console, è sicuramente un fattore positivo ma bisogna anche trovare delle vie di mezzo, dei compromessi vitali per una buona immissione nel mercato. La scelta di creare giochi esclusivi per Intellivision è certamente interessante ma può comunque essere una lama a doppio taglio. L’industria vive di porting e di titoli multipiattaforma e, se è per questo, alcuni di questi titoli hanno contribuito a lanciare alcune console di nuova generazione. Pensiamo proprio a Shovel Knight, uno dei titoli più solidi per il lancio di Nintendo Switch (aiutato, ovviamente, al rilascio della campagna interna Specter of Torment) e che potrebbe essere assente dal parco titoli di  Intellivision Amico, una console che al meglio potrebbe valorizzare un gioco dai toni retrò come questo. Il concetto di esclusiva e ancora vivo e funzionante ma i porting e i titoli multipiattaforma sono decisamente vitali per la sopravvivenza di una console, anche in una visione di cross-play, caratteristica che a oggi diventa sempre più un must per alcuni titoli che offrono un multiplayer online. Come potranno mai approcciare le third party verso un sistema così esclusivo? Prendendo il caso di Shovel Knight: Yacht Club Games dovrà produrre da capo un nuovo titolo della saga oppure rimappare la grafica con una più moderna, per sfruttare al meglio le specifiche di questo nuovo chip 2D rendendolo esclusivo per l’Intellivision Amico senza poterlo rendere disponibile per PC o le restanti console?
Tommy Tallarico ha sottolineato che l’obiettivo della console sarà considerare ogni persona, far sì che le persone approccino ai videogiochi ma è molto difficile attuare un piano simile senza almeno far salire a bordo anche i giocatori più assidui che compongono la più grossa fetta del mercato, anche in una prospettiva di marketing in cui, gli ormai decisivi, “influencer” di YouTube o Twitch non si troveranno invogliati a  giocare con Intellivision Amico, oppure potrebbero produrre una sorta di “product placement forzato”. Neppure Nintendo, ai tempi dell’accessibilissimo Wii, ha escluso i giocatori più assidui, tanto è vero che quella console, insieme ai tantissimi party game per i giocatori più casuali, ha anche tanti altri titoli per gli hardcore gamer: basti citare i diversi titoli di Resident Evil su Wii, MadWorld, House of the Dead: Overkill, No More Heroes e molti altri poco “family friendly”.
Attrarre i giusti developer e avere una buona linea di lancio è spesso la chiave per il successo di una console ed è difficile che potranno costruire la loro fortuna su un parco titoli per console di seconda generazione; tutto si giocherà su quei 20 titoli esclusivi brand new non ancora annunciati. Non dimentichiamo poi i prezzi accessibili del software: quali saranno gli accordi dietro alla vendita di un gioco così a buon mercato? Quali saranno i vantaggi dei developer che intenderanno investire nel sistema e quali quelli di Intellivision Entertainment? Dietro al team di Amico c’è un team veramente competente e pertanto crediamo che ci sia ancora molto che non è stato ancora detto; tuttavia la politica sulle esclusive è probabilmente da rivedere e se Amico ospiterà solamente giochi esclusivi e allora bene che questi siano veramente eccellenti e che possano essere in grado di fronteggiare i modernissimi giochi proposti da Sony, Microsoft e Nintendo. Sperando che il tutto non sia un “Davide contro Golia”, speriamo che Intellivision Entertainment offrirà in futuro più dettagli riguardo ai giochi di lancio, sulla politica delle esclusive, che a noi sembra fin troppo restrittiva e sulle potenzialità di Amico. Non possiamo fare altro che seguire la pagina di Intellivision Entertainment su Facebook e iscriverci al canale YouTube. E voi farete entrare questo nuovo Amico a casa vostra?




Mega Man 11

È possibile tracciare in Mega Man 9 l’inizio dei videogiochi retro-ispirati: sebbene alcuni di questi giochi esistevano già prima su internet sotto forma di hack o giochi flash su siti come Newgrounds, Mega Man 9 aprì le porte alla retro-rivoluzione di cui oggi siamo protagonisti poiché per la prima volta un grosso developer come Capcom dava credito e peso a non solo tutti quei fan che volevano un nuovo classico titolo del blue bomber, che in quel periodo era protagonista solamente di miriadi di sub-saghe e spin-off vari, ma anche l’importanza e la bellezza dei platform più tradizionali, la cui emozione veniva trasmessa anche con una grafica datata come quella del NES. Da lì sembrava che per Mega Man si prospettasse un futuro molto florido, visto il tempestivo decimo capitolo per l’anno successivo, ma nel 2010 accadde qualcosa di terribile: Keiji Inafune, direttore creativo della saga di Mega Man, abbandonò Capcom e col suo forfait la saga subì un brutto stop. Ben tre progetti, Mega Man Universe (un gioco che avrebbe potuto anticipare il sistema di creazione di livelli in Super Mario Maker), Mega Man Legends 3 e Maverick Hunter, vennero cancellati e a quel punto il fandom del robottino blu cadde nell’abisso, quasi certo di non rivederlo più.
A sparigliare le carte ci pensò Keiji Inafune, con il lancio nel 2013 su Kickstarter il del progetto Mighty No. 9, annunciato come il sequel spirituale di Mega Man; nonostante la risposta più che positiva da parte dei fan che finanziarono il progetto nel giro di un paio di minuti, per via della mancata comunicazione e un marketing discutibile (nonché alcuni brutti bug presenti nella release finale) il gioco che doveva riportare ai fan di Mega Man una sfida che fosse pane per i loro denti si rivelò un amaro fallimento e non a tutti piacque quello a cui giocarono. Nel frattempo Capcom, visto il successo del Kickstarter del loro ex impiegato, decise di rilasciare Mega Man Legacy Collection, contenente i primi sei titoli classici, insieme a un sacco di extra, ideali per far conoscere ai giocatori più giovani di cosa è fatta la saga del robottino blu. Due anni dopo, nel 2017 arrivò Mega Man Legacy Collection 2 contenente i restanti quattro titoli della serie classica ma nella sezione extra di Mega Man 8 i fan fanno una misteriosa scoperta: negli artwork trovano un misterioso disegno che non appartiene al suddetto gioco, né a nessun altro Mega Man presente nella collezione, e perciò cominciarono le speculazioni. La risposta arrivò un pomeriggio (in Europa) del Dicembre 2017 quando in una live di Capcom su Twitch, per festeggiare il 30esimo anniversario di Mega Man, venne annunciato a sorpresa Mega Man 11, un gioco atteso per 8 anni e che finalmente, dopo richieste su richieste da parte dei fan, arrivò alla luce (e apparve anche un Mega Man sfoggiare le stesse caratteristiche dell’artwork misterioso, ovvero il power-up di Block Man).
Il passo dalla rivelazione del trailer al rilascio ufficiale non fu breve ma, durante questo lasso di tempo, Capcom si assicurò di aggiornare regolarmente i fan e dunque ottimizzare il gioco il più possibile, consegnando così un opera di classe, senza sbavature e che, soprattutto, apriva la strada al futuro della saga che, oggi più che mai, sembra luminoso e pieno di sorprese. Andiamo subito a vedere la versione per PC di questo gioco, uscito ovviamente per PlayStation 4, Xbox One e Switch.

Due colleghi

La lore della saga risiede nei lavori di Thomas Light e Albert W. Wily, due scienziati appassionati di robotica che crearono una serie di robot, fra cui i sei robot di Mega Man (il primo titolo per NES), creati per assolvere lavori comuni, i due fratelli Rock (il nome giapponese del blue bomber) e Roll, creati come assistenti di laboratorio, e Protoman (ma qui è una storia non rilevante). A un certo punto il Dr. Wily, accecato dalla più brillante abilità del suo amico Thomas Light, corrompe i sei robot da lavoro portandoli ad attaccare gli umani e li convince a dominare il mondo sotto il suo nome. Il Dr. Light convince così Mega Man, il robot originariamente concepito per funzioni diverse, a convertirsi in un robot da combattimento e così nasce il blue bomber che oggi conosciamo e amiamo. Il Dr. Wily più in là, nonostante la prima sconfitta, proverà più e più volte con altri robot a dominare il mondo senza mai ottenere nessun risultato (per ben 10 volte, pensate!).
L’opening di questo nuovo Mega Man 11 ci mostra un flashback di Dr. Light e Dr. Wily, giovani, di fronte a una commissione universitaria; si discute sul double gear system, un meccanismo creato da Wily in stato di prototipo che se installato nei robot da lavoro gli permetterà di lavorare il triplo, aumentando la loro forza fisica e rendendoli più veloci. La commissione boccia l’invenzione del Dr. Wily per mancanza di etica in quanto, se il meccanismo finisse nelle mani sbagliate, potrebbe generare un robot inarrestabile in caso di rivolta; scaraventando il meccanismo per terra, lo sconfitto dottore se ne va ma Dr. Light, che comunque credeva nel suo amico, lo raccoglie pensando che un giorno gli possa tornare utile. Nel tempo presente, nel classico anno 20XX, il Dr. Wily, svegliatosi da un sogno che rimembrava i medesimi eventi, si ricorda del double gear system e così ne implementa uno nuovo ma gli mancano i robot; durante il giorno della manutenzione di alcuni robot master del Dr. Light, ovvero di Block Man, Acid Man, Blast Man, Torch Man, Bounce Man, Impact Man, Fuse Man e Tundra Man, il Dr. Wily irrompe nel laboratorio con il suo iconico Ufo e lì ruba sotto gli occhi di Mega Man, Roll, l’assistente Auto e il buon dottore spiegando nel contempo che utilizzerà la sua invenzione che gli fu scartata dalla commissione. Il Dr. Light informa Mega Man che, così com’è, non potrà fronteggiare i robot master senza il double gear system ma, fortunatamente per lui, il Dr. Light conservò la versione di Wily sin da dai tempi dell’università; una volta installata questa nuova miglioria Mega Man è pronto per buttarsi in una nuova avventura.

Due ingranaggi

Questo nuovo Mega Man 11 si concentra dunque sul sistema double gear, una nuova meccanica che dona a questa saga, onestamente un po’ stagna, una sfumatura diversa dal solito e molto originale: col tasto “RT” (“R“, e “R1” nei joypad, rispettivamente, di PlayStation 4 e Nintendo Switch) si attiverà un ingranaggio che renderà più veloce il blue bomber, rallentando dunque l’azione circostante, l’ideale per assestare colpi di precisione o, se siamo muniti di un pollice veloce, concentrare più colpi in poco tempo; con “LT“, invece, attiveremo un altro ingranaggio che, semplicemente, aumenterà la potenza di Mega Man e, se caricheremo un colpo tenendo premuto il tasto per sparare, lanciare ben due colpi di mega buster potenziato, l’ideale per i nemici particolarmente forti e per quei giocatori che conoscono il tempismo perfetto per caricare l’arma e scaricarla al momento giusto. Quando attiveremo una di queste funzioni si riempirà una barra che, se arriverà alla saturazione, impedirà le funzioni double gear fino a quando questa energia non torna a zero, e ci vorranno circa 15 secondi affinché si possa ripristinare; è perciò tanto importante usare queste nuove funzioni quanto saperle economizzarle il più possibile per poi evitare di non ritrovarsele pronte nel futuro immediato. I veterani dei giochi à la Mega Man potranno trovare nel double gear delle similitudini col sistema di corrente elettrica già visto in Azure Striker Gunvolt, senza però la possibilità di ricaricare immediatamente la barra premendo due volte giù, e anche della velocizzazione del tempo in Sine Mora, particolarissimo shooter della Digital Reality e Grasshopper Manufacture. Infine, questo nuovo sistema ha un ultima e potente funzione ma questa si attiverà esclusivamente quando avremo poca energia: premendo entrambi i tasti insieme, “RT” e “LT“, verranno attivate entrambe le funzioni, dunque rendendo Mega Man super potente e super veloce, ma si disattiveranno solamente alla saturazione della barra alla fine della quale ci ritroveremo con un personaggio altamente depotenziato che non potrà sparare più di un proiettile alla volta e non potrà caricare il suo mega buster e perciò sarà molto difficile sopravvivere in queste condizione (ma se ci riusciremo potremo utilizzare questa particolare funzione una seconda volta). Capite le meccaniche del double gear, grazie a un breve tutorial e molto versatile, ci potremo buttare all’avventura vera e propria, ritrovandoci sin da subito nell’iconica schermata di selezione boss tipica della saga.
Al solito, come in ogni capitolo, scegliere il primo stage da affrontare è un po’ difficile sia perché non conosciamo i pattern di attacco del suo boss e sia, se è per questo, perché non conosciamo il suo livello. Una volta trovato “l’anello debole della catena”, ovvero il boss più debole degli 8, otterremo la sua arma speciale che, a differenza del mega buster, consumerà una barra speciale al termine della quale non funzionerà più; il buon giocatore di Mega Man, una volta ottenuta la prima arma speciale, andrà a caccia del boss la cui debolezza è proprio l’abilità appena ottenuta dal precedente e, uno dopo l’altro, debolezza dopo debolezza, sconfiggeremo tutti gli otto robot master fino ad arrivare, come di consuetudine, alla fortezza del Dr. Wily dove ci saranno gli stage finali, di cui uno dei quali sarà un boss rush (in cui dovremmo affrontare tutti gli otto robot master con le solite due vite standard).
La struttura di questo Mega Man 11 è la più classica che ci si poteva aspettare e il blue bomber, a differenza del nono e decimo capitolo, torna a pieni poteri in quanto negli ultimi due giochi era stato privato del colpo caricato; uno dei primi elementi per cui questo nuovo gioco si proietta in avanti e non indietro. Il level design offre esattamente la sfida per la quale la saga è famosa e i nuovi stage riflettono molto bene la personalità del boss che andremo ad affrontare: il livello di Impact Man, che è una sorta di robot che sostituisce le macchine pesanti dei cantieri, è una sorta di area di lavoro/galleria in costruzione, quello di Torch Man è un campeggio in una foresta tendente spesso a prendere fuoco, quello di Block Man ricorda, a larghe linee, le piramidi egiziane e maya, etc. I programmatori hanno veramente voluto trarre il massimo della sfida offrendo dei livelli notevolmente lunghi e irti di nemici, anche se c’è poca varietà all’interno di essi, ma ci hanno dato il minimo per ciò che riguarda i checkpoint, giusto due intermedi e uno finale che, come tipico della saga, è posto nella stanza che precede quella del boss; Mega Man 11 non è di certo un gioco facile, e certamente questo è uno di quei elementi che ne accentuano la piccante difficoltà, ma non sarebbe stato un male se avessero aggiunto giusto almeno un altro checkpoint a metà dei due. Nella schermata di selezione livello è possibile accedere, premendo “LT“, al negozio in-game dove i nostri alleati, il Dr. Light, Roll e Auto, ci riforniranno di oggetti istantanei, come vite, E-tank, i richiami Beat per non perdere una vita quando cadiamo in un fosso e le super armature, e altri permanenti, come chip speciali, anti-indietreggiamento o che aumentano la possibilità di trovare più viti in un livello (che sono la valuta del gioco). Nessun oggetto nel negozio è superfluo o inutile e danno un potenziamento equilibrato che non permette dunque di rendere il gioco nettamente più facile; tuttavia non tutti gli oggetti saranno disponibili sin dall’inizio e dunque si andranno a sbloccare man mano, però non è chiaro qual è il criterio o l’algoritmo (diciamo) per rendere un oggetto disponibile all’acquisto nel negozio. Anche una volta terminata la nostra avventura alcuni oggetti erano ancora bloccati all’interno del negozio e noi non abbiamo ancora capito il perché. Una volta finita l’avventura, però, è possibile ancora spremere ancora delle sane ore di gioco tramite le sfide extra, come sconfiggere i boss nel minor tempo possibile, le corse negli stage facendo scoppiare, sempre più velocemente possibile, dei palloncini blu e evitando quelli rossi, oppure con la bellissima prova del Dr. Light, ovvero 30 stanze in cui adempiere a un obiettivo come distruggere un determinato numero di nemici o semplicemente arrivare al successivo warp per entrare nella successiva.

Questo titolo fa per me?

Al di là di tutto, Mega Man 11, sia in termini di gameplay che in termini di storyline, è un titolo abbastanza semplice: la sfida proposta è, sì, buona, e sicuramente perfetta per i nuovi arrivati, ma particolarmente facile per i veterani che troveranno il tutto un po’ basilare e per loro, se vogliono trovare pane per i loro denti, non rimarrà altro che riavviare una run a difficoltà supereroe che propone dei nemici che si abbattono con più colpi, dei pattern d’attacco da parte dei boss più complessi e difficili da evitare e nessun modo di ricaricare i punti vita e le armi speciali al di fuori delle taniche speciali. La storia proposta non è affatto complessa e pertanto include giusto i personaggi essenziali della saga, dunque niente Bass, Protoman (anche se nulla toglie che li potremo vedere in futuro come DLC, la stessa cosa che è successa a Mega Man 9 e 10) o sgherro parallelo di Dr. Wily; per quanto riduttivo possa sembrare, in fondo questo titolo vuole anche attrarre nuovi fan e, anche se come per The Legend of Zelda questo non è mai stato il caso di questa saga, in questo modo i fan possono tranquillamente giocare a questo nuovo capitolo senza necessariamente aver giocato ai titoli precedenti. Possiamo dunque dire di Mega Man 11 che è un gioco classico che più classico non si può, ma in senso più che positivo in quanto offre sia una vera e propria evoluzione della saga, e dunque porsi come nuovo caposaldo per i capitoli a venire, che un ottimo biglietto da visita a coloro che non hanno mai giocato a un’avventura del blue bomber; vedete quel Mega Man 11 come un Mega Man 1.1, un nuovo luminoso inizio dalla quale poter partire e portare la saga verso nuovi orizzonti.

Il nuovo contesto di Mega Man

Il richiamo nostalgico è indubbiamente presente in questo titolo ma, fortunatamente, non è il fulcro della costruzione del gioco e pertanto, a differenza del suo ritorno nel 2009, Mega Man 11 offre una bellissima nuova grafica 2.5D; il Blue Bomber, i nemici, le piattaforme e i background sono interamente resi in 3D ma il tutto è inserito in un contesto 2D perfettamente funzionale, funzionante e che offre l’azione tipica di cui la saga è famosa, senza alcuni bug o errori di programmazione di alcun tipo. Lo stile dei personaggi e dei nemici è esattamente quello proposto nella serie classica (che differenzia, dunque, da sub-saghe come Mega Man X o Battle Network), dunque con colori molto accesi, nemici robot stravaganti e una “leggerezza” generale. Sfortunatamente per noi, abbiamo ricevuto una chiave per PC scoprendo in corso d’opera che Mega Man 11 richiede, come spesso accade per molti videogiochi per PC provenienti dal sol levante, degli ottimi requisiti minimi. Nonostante siamo riusciti a soddisfarli, il gioco girava molto lentamente e le opzioni per ridurre la qualità della grafica e ottimizzazione del gameplay nel menù opzioni sono veramente pochissime: risoluzione, modalità (di visualizzazione), anti-aliasing e v-sync. Inutile a dirlo, non bastano per ottimizzare il gioco in un pc poco potente e, nonostante lo abbiamo giocato con un i5 e una scheda Radeon AMD, siamo stati costretti a togliere l’anti-aliasing e il v-sync, ridurre la risoluzione a dei meri 800×600 e visualizzare il tutto in modalità windowed per recuperare più dettagli possibili e un framerate più vicino possibile ai 60FPS, il che è tutto abbastanza assurdo visto che stiamo parlando di un gioco la cui grafica girerebbe perfettamente persino in una console di precedente generazione, Wii U o PS Vita; nonostante tutte queste nostre limitazioni, il gioco non andava alla velocità massima (anche se era molto vicino) e ciò lo si poteva evincere nella schermata della selezione dello stage, durante l’animazione della selezione in cui la musica andava avanti rispetto alle animazioni del boss, dunque anticipando effetti sonori inclusi nella traccia audio e entrare in un imbarazzante silenzio prima del tempo; abbiamo avuto modo di mettere a paragone questa schermata con quella del Nintendo Switch, grazie alla demo gratuita sull’E-shop, confermando tutte le nostre preoccupazioni. Se vi considerate dei pc gamer, e pertanto avete un’ottima postazione, allora Mega Man 11 girerà senza problemi ma se non avete un computer potente e, possibilmente, vi ritrovate una delle tre console principali a casa allora vi converrà considerare questo acquisto al di fuori di Steam.
La musica, composta da Marika Suzuki, ricalca lo stile compositivo tipico della serie classica, una sorta di musica elettronica, vicina al J-pop, ma con sfumature anche dance e a tratti anche rock. Al di là dell’alta qualità delle composizione, anche qui non c’è alcun passo indietro e si è optato dunque per uno stile moderno e fresco, con sintetizzatori e drum machine d’avanguardia, senza alcun richiamo nostalgico chiptune con chip sonori del Nintendo Entertainment System o altre retro-console (l’unica cosa presa direttamente dai vecchi giochi è il rumore della navicella del Dr. Wily); da sottolineare, appunto, è l’assenza di temi classici, ancora una volta sottolineando l’importanza di portare questa serie verso nuovi orizzonti e lasciare che il passato diventi semplicemente parte di una nuova forma espressiva. L’unico difetto di queste nuove composizioni è che sono giusto un po’ blande e i temi portanti delle melodie sono un po’ deboli; diciamo che non c’è quel motivetto che ti resta in testa una volta che smetti di giocare. Le voci inglesi e giapponesi, selezionabili nel menù opzioni (ma solo alla schermata del titolo), sono ben curate anche se l’unico lato negativo è il pacing dei dialoghi doppiati; sebbene le scenette rappresentino un ottimo intermezzo, sviluppate correttamente e sempre sottotitolate in italiano (come tutto il gioco del resto), i dialoghi si fermano ogni due righe, fortunatamente completando un periodo, e nonostante la buona qualità dei dialoghi sembrano comunque un po’ finti. Per il resto la voce in-game di Mega Man, quando annuncia l’attivazione di uno dei due meccanismi del double gear o quando cade in un fosso, è niente male anche se verso la fine del gioco ne avrete le orecchie piene; variare la lingua di tanto in tanto può alleviare questi fastidi.

Il pezzo mancante

Prima di chiudere questa discussione vorremo solo parlare di un ultimissimo punto: non abbiamo fatto altro che elogiare questo nuovo capitolo della saga e Mighty No. 9, a paragone, non regge il confronto in quanto a classe e qualità del prodotto consegnato. L’unica cosa che manca realmente a questo capitolo è appunto la mano di Keiji Inafune, il suo level design e le sfide proposte che solo lui sapeva consegnare, cosa che invece è riuscita alla sua creazione inpendente, secondo noi. Per quanto è stata introdotta una nuova bella meccanica bisogna dire che è anche abbastanza scontata, un gol a colpo sicuro, e dunque manca quel po’ di azzardo tipico di Inafune. La storia in fondo, e anche il finale, si concentra sulla separazione fra il Dr. Light e il Dr. Wily, magari simboleggiando proprio la dipartita di Inafune e dunque, forse, questo titolo potrebbe rappresentare un invito da parte di Capcom a tornare a bordo e dare a Mega Man infinite possibilità nel futuro prossimo, sottolineando il fatto che la compagnia e il suo ex dipendente e persino i due universi fittizi hanno entrambi lo stesso obiettivo. Chissà quali saranno i risvolti futuri fra Keiji Inafune e Capcom ma intanto non possiamo fare altro che goderci questo nuovo Mega Man 11 e sperare che il prossimo anno vedremo un Mega Man 12 o, visto il recente rilascio di Mega Man X Legacy Collection 1 & 2, magari un nuovo Mega Man X9… stiamo delirando, è vero, ma siamo semplicemente troppo contenti della riuscita di questo titolo!
Vi raccomandiamo particolarmente questo nuovo titolo Capcom in quanto propone un gameplay vecchio stile con elementi e grafica moderni, una sfida nuova per i più giovani e un capitolo essenziale per i veterani. Solamente, considerate bene i requisiti del vostro PC prima di spendere questi 29,99€ su Steam per Mega Man 11, altrimenti se avete Nintendo Switch, PlayStation 4 o Xbox One acquistatelo lì. Senza dubbio, uno dei giochi più belli di questo 2018!




Firewall Zero Hour

Firewall Zero Hour

Firewall Zero Hour, il nuovo titolo per Playstation VR sviluppato dalla software house First Contact Entertainment, si candida ad essere il primo vero FPS tattico in realtà virtuale. Il gioco, completamente in italiano sia nei testi che nel parlato, è destinato soltanto a un pubblico che abbia già compiuto 16 anni.
È indispensabile la presenza di un visore PSVR per utilizzarlo, mentre è opzionale l’utilizzo dell’AIM Controller che, a scapito del realismo e dell’efficienza di tracciamento dei movimenti, può essere sostituito dal classico Dualshock controller della Playstation, a differenza del  Playstation Move che non è supportato.
Il titolo che abbiamo per le mani è immediatamente entusiasmante, si viene subito colpiti dalla perfezione grafica, dalla ricchezza di dettagli e dal realismo immersivo. Sfortunatamente, un paio di dettagli non da poco fanno scendere la valutazione globale e, se non fosse per queste piccole pecche, il gioco avrebbe tranquillamente potuto ambire ad un 10 pieno.

Firewall Zero Hour

La storia

La First Contact Entertainment ha fatto davvero pochi sforzi nel creare una storia completa e coinvolgente, puntando invece tutto su qualità grafica ed efficienza tecnica del gioco. Infatti è proprio la storia a essere uno degli unici due punti dolenti, di questo titolo. Impersoneremo un mercenario, che sceglieremo tra una selezione di 12 soldati provenienti da altrettanti Stati, che avrà come unico obiettivo quello di completare il contratto che gli è stato assegnato in cambio di una remunerazione in criptovaluta.
I contratti, che si svolgeranno in nove diverse ambientazioni equamente distribuite in tre Stati, si distinguono in soltanto due categorie, quelli da attaccante e quelli da difensore.
Nella prima tipologia di contratti, dovremo raggiungere uno dei firewall presenti disattivarlo, quindi localizzare e raggiungere un computer portatile. A questo punto saremo costretti a restare nel raggio di un paio di metri dal computer per proteggere la connessione stabilita, fintanto che il nostro centro di comando e controllo, non riuscirà ad hackerare il laptop e completerà la sottrazione dei dati presenti. Terminato il download dei dati, verremo immediatamente pagati in Crypto e si concluderà così la missione. Tralasciando completamente la classica fase di “estrazione in gergo militare, in altre parole quando cerchiamo di uscire vivi dal campo di battaglia.
Nella seconda tipologia di contratto, cioè quella da difensore, dovremo invece impedire agli attaccanti, a suon di proiettili e di mine di prossimità, di raggiungere il laptop e quindi di sottrarre i dati contenuti, per un periodo di tempo limitato.
Alla fine di ogni contratto riceveremo una valutazione e delle ricompense, che saranno più sostanziose se completeremo la missione con successo, e con esse potremo poi acquistare upgrade per le armi e nuove dotazioni.

Tecnicamente, quasi perfetto

La First Contact Entertainment con Firewall Zero Hour fa scuola e mostra come, con un oculato lavoro di programmazione, si possano raggiungere livelli graficamente eccellenti anche con il Playstation VR, smentendo in tal senso i detrattori del device Sony.
La prima vera emozione si prova già nel tutorial, che non sarebbe niente di eccezionale se non fosse per la grafica che ci stupisce e coinvolge immediatamente. Prima ancora di iniziare a seguire le istruzioni, ci guardiamo in giro e, appena volgiamo lo sguardo al nostro abbigliamento, quasi sobbalziamo per la meraviglia, data la ricchezza di dettagli della nostra mimetica e dei vari accessori equipaggiati. Le texture sono belle da far paura, le luci, i riflessi e le ombre sono estremamente realistiche, anche qui un lavoro assolutamente degno di lode. Le animazioni fluide e armoniose ci coinvolgono sempre più in un mondo che stentiamo a non credere reale.
La fisica del gioco è ben studiata e assolutamente testata a dovere. Tutto funziona egregiamente, non mostrando alcuna pecca anche nei classici punti deboli, come le varie collisioni con muri, porte e oggetti, tutto calcolato alla perfezione.
Risulta evidente come un gran lavoro di beta testing sia stato fatto per portare il titolo ad un livello tecnico al top.
L’audio tridimensionale è assolutamente realistico, coinvolgente e persino indispensabile per giocare in maniera efficace. Infatti grazie al rumore dei passi dei soldati nemici potremo identificare un pericolo in arrivo o all’udire di spari in una certa direzione potremo sviluppare la nostra strategia d’attacco.
Il doppiaggio (in italiano) è naturale e ben realizzato, si alternano voci femminili a voci maschili che ci daranno le poche istruzioni necessarie allo svolgimento del contratto.
Il sistema di controllo, sfrutta l’ormai brevettata tecnica della rotazione a scatti, che riesce a eliminare completamente i pericoli legati al motion sickness sempre in agguato sui titoli VR. Tutti i movimenti del nostro mercenario sono fluidi e naturali, anche i comandi sono posizionati alla perfezione sia sul Dual Shock che sull’AIM Controller, rendendo estremamente immediato e naturale il controllo del personaggio. L’unico piccolo appunto relativo ai movimenti è la velocità della corsa, che rassomiglia piuttosto ad una camminata sostenuta e nelle situazioni più concitate, come ad esempio in un imboscata dovrebbe assolutamente essere ad un livello più elevato.

Il dispositivo di controllo per godere a pieno di Firewall Zero Hour è certamente l’AIM Controller che durante il gioco viene tracciato alla perfezione, senza la necessità di dover mai fare quelle manovre di scuotimento per riallinearlo, a cui altri titoli per PS VR ci avevano abituato. Il Dual Shock, seppur comportandosi bene come device di movimento del personaggio, non sempre viene tracciato altrettanto bene, costringendoci quindi a un riallineamento ogni tanto e sopratutto facendo perdere quella sensazione realistica di tenere una vera arma in mano.

Firewall Zero Hour

Le modalità di gioco sono estremamente limitate, escludendo la modalità di Addestramento, l’unica opzione rimanente è quella chiamata Contratti.
Nella fase di addestramento potremo far pratica con le varie armi, gli scenari e i tipi di missione, iniziando in single player, contro dei bot dalla limitata intelligenza artificiale che ben presto riusciremo a sottomettere, individuandone i punti deboli e la prevedibilità. Infatti tenderanno a farci agguati in gruppetti di tre o quattro provenendo da più direzioni, restando per lo più privi di copertura, puntando tutto sull’effetto sorpresa. Il radar da polso ci mostrerà i movimenti dei soldati nemici quando saranno a pochi metri da noi, semplificandoci così il nostro sporco lavoro da spietato mercenario. Qualche proiettile ben piazzato grazie alla perfetta mira del nostro fucile ci libererà velocemente degli incursori. I caricatori a disposizione sono limitati,  vanno quindi utilizzati con dovizia e parsimonia e, sebbene sia possibile trovare delle valigette contenenti dei colpi extra, questa ricerca ci costringerà a deviare dal nostro piano d’attacco e ci esporrà ad imboscate nemiche.
Il vero cuore del gioco è la modalità Contratti, che ci catapulterà in realistici scontri a fuoco, mixando tattiche d’aggressione, coordinamento tra i compagni dello sparuto plotone, espedienti d’astuzia e momenti di pura azione, come nemmeno nei migliori film hollywoodiani si sia mai visto. La presenza, quindi, di un buon impianto di cuffie e microfono è fondamentale per comunicare con i compagni e coordinare gli attacchi, sebbene sia anche possibile giocare utilizzando il microfono della Playstation Camera e l’audio proveniente dalla TV.
L’approccio strategico di questo FPS si respira sin dalla fase di preparazione alla missione, scegliendo i mercenari più adatti e i giusti armamenti avremo un sicuro vantaggio tattico.

Firewall Zero Hour

Non è tutto piombo quel che luccica

Il più grosso difetto di questo titolo è legato alle interminabili attese nella fase di formazione delle squadre delle partite multi-player, i Contratti. Ci si trova nella stanza ad attendere per decine di minuti che si formino entrambe le squadre vedendo apparire i nostri potenziali compagni, che dopo qualche minuto di infruttuosa attesa abbandonano, rendendo così ancor più difficile raggiungere l’inizio di un match. A rendere ancora più frustrante il difetto è il fatto che una volta raggiunto il numero di 8 giocatori, 4 per squadra, la partita si concluda con un unica missione, che spesso dura anche pochi secondi o nel migliore dei casi qualche minuto.
Per ovviare a questo problema, sarebbero stati sufficienti due piccolissimi accorgimenti rendendo l’attesa molto meno noiosa e frustrante. Sarebbe bastato aggiungere un semplice poligono di tiro nelle stanza d’attesa e fare delle partite da 3 o meglio 5 round.




Crossing Souls

«Si può essere amici per sempre, anche quando le vite ci cambiano, ci separano e ci oppongono», cantavano i Pooh.
Sembrano questi i valori che Crossing Souls, gioco dello studio spagnolo Fourattic e pubblicato da Devolver Digital, ci vuole proporre, e lo fa inserendoci in un bel sobborgo americano nel ormai lontano 1986, anni più semplici in cui Michael Jackson era un istituzione, le buie arcade, illuminate da qualche luce al neon colorato, erano colme di videogiochi e non c’era internet. Questo magico gioco, che tenta un operazione simile a quella di Stranger Things o It per quel che riguarda il cinema e le serie tv, può essere giocato su PlayStation 4 e Steam ma di recente è uscito anche su Nintendo Switch, ed è la versione che prenderemo in considerazione.

Un sogno al neon

Tutto cominciò con un temporale che mando l’intera città di Tujunga in blackout. Il giorno dopo, in alcune zone della città cominciarono a presentarsi strani eventi sovrannaturali alla quale nessuno sapeva dare una spiegazione, come tazze di caffè volanti, strani omini che apparivano nelle bande statiche della tv, etc… Chris Williams, un semplice ragazzino di una tranquilla famiglia americana, riceve una chiamata al walkie talkie da suo fratello Kevin e lo invita a venire subito alla casa sull’albero, luogo in cui la loro cricca è solita a riunirsi. Una volta passati i primi guai nel tentativo di chiamare i restanti 3 amici, cioè Matt Bauer, “Big” Joe Carter e Charlene Baker, Kevin li porta alla sua “scoperta”, ovvero un cadavere in putrefazione ma, una volta trovatisi lì, fanno una scoperta ancora più impressionante: il defunto tiene in mano una pietra viola a forma piramidale che questa ha dei poteri sovrannaturali che sembrano consumare chiunque la tenga in mano, come se avesse delle proprietà radioattive. Matt, il cervellone del gruppo, decide così di inserire la duat stone in una sorta di walkman e stabilizzare il dispositivo con un fusibile gamma in grado di fornire al registratore gli 1,21 gigawatt  (inutile esplicitarvi la citazione, vero?) necessari per contenere il suo potere all’interno – già – e sfruttarlo in tutta sicurezza; in quel momento i cinque ragazzi scoprono che la pietra è in grado di mostrare l’aldilà a chiunque tenga il dispositivo in mano e perciò i ragazzi potranno vedere genti di altre epoche interagire col mondo che li circonda e altri elementi non visibili a occhio nudo. Tuttavia la duat stone è un oggetto molto ambito, sia dalla gang rivale del quartiere, i Purple Skulls capitanati dall’estroverso Quincy Queen, sia dal più temibile Maggiore Oh Rus, ex veterano del Vietnam creduto morto che vuole la pietra per i suoi malvagi piani. La banda si caccerà in diversi guai e sarà costretta, talvolta, ad affrontare problemi molto seri per ragazzi della loro età, ma lo spirito che lega i compagni sarà ciò che permetterà loro di affrontare le dure prove a cui si sottoporranno.
Crossing Souls, sul piano narrativo, si pone come un bel film anni ’80 che vede un bel gruppetto di amici alle prese con un problema più grande di loro, una trama tanto classica quanto instancabile e già vista in opere come E.T. l’extraterrestre, Goonies, It, i recenti Super 8, il già citato Stranger Things ma soprattutto il successo Stand by me – Ricordo di un’estate, tratto dal romanzo Il Corpo di Steven King, dalla quale prende più spunti di trama. Il gioco, chiaramente, non vuole porsi come un’opera innovativa o qualcosa per cui rimanere a bocca aperta ma semplicemente essere una sorta di sguardo a “vecchie fotografie da un album”, mostrandosi umile ma allo stesso tempo elegante e ricco di significato. Le tematiche sono per la maggior parte scherzose, oseremo dire avventurose, ma non mancheranno parti più serie e twist di trama più neri di quanto si possa immaginare; un po’ come nei film per ragazzi citati pocanzi, il gioco tenta anche di insegnare qualcosa ai più giovani, evidenziare quei valori fondamentali di amicizia e amore per imparare a crescere, affrontare le difficoltà che la vita ci pone davanti, essere uniti nonostante tutto e superare i momenti difficili. C’è probabilmente anche un lato spirituale che gli sviluppatori hanno probabilmente voluto comunicare in quanto tematica e meccanica fondamentale di questo titolo è proprio la vita dopo la morte; dopo che il corpo cessa di funzionare, lo spirito continua a esistere nel mondo in cui viviamo, le anime dei nostri cari ci accompagnano per le strade che percorriamo giornalmente e pertanto non siamo mai soli, anche quando ci sembra così. Il tutto ci arriva con una semplice ma squisita pixel art resa col motore grafico Unity, dettagliata e colorata quanto basta per rendere riconoscibili tutti quei mille riferimenti alla cultura pop di quegli anni, e delle cutscene animate (con tanto di sfarfallio tipico da VHS) fra un capitolo e l’altro che si ispirano ai migliori cartoni animati degli anni ’80 come le Tartarughe Ninja, He-Man, i Thundercats, i Transformers o i film animati di Don Bluth, autore per altro dei grandi giochi arcade in laserdisc Dragon’s Lair e Space Ace. Per riportarci indietro nel passato, questo gioco si avvale di un’eccellente colonna sonora letteralmente divisa in due: una parte, composta dall’artista timecop1983, ha un animo synthpop, che sfrutta anche in parte le sonorità e il low-fi tipico dell’attuale vaporwave, reminiscente di band come Blondie, Go West, Prince, Michael Jackson, Frankie Goes to Hollywood, Rick Astley e molti altri, e questi brani saranno per lo più presenti nelle fasi esplorative del gioco, le parti in cui bisogna sentire quei lontani echi di questi tempi ormai andati; per il resto, in molte altre fasi del gioco, ci sono proposti dei brani orchestrali, composti da Chris Köbke, che si rifanno allo stile compositivo pomposo di John Williams, in grossa parte, ma anche ad altri come Alan Silvestri o Bill Conti. Tutti i brani accompagnano perfettamente ogni situazione, sia nelle cutscene animate sia durante l’azione o i dialoghi, e ciò che è stato fatto per questo titolo è realmente sensazionale; si può perfettamente confermare che l’alchimia fra grafica e sonoro è veramente di altissimi livelli.

All’avventura

Crossing Souls si presenta come un titolo dalla prospettiva bird eye reminiscente dei Legend of Zelda più classici ma l’aspetto generale ricorda forse, più concretamente, uno di quei shooter alla Zombies ate my Neighbors (e dunque anche un più recente Milanoir o Tower 57); con una prospettiva del genere ci si aspetta che il gioco offra molte possibilità per quel che riguarda l’esplorazione e il backtracking eppure questo titolo è molto straightforward, molto diretto, non dando neppure la possibilità di rivisitare nessun luogo, a meno che la sua struttura in capitoli non lo permetta. Nessun problema contro questa scelta ma in Crossing Souls è molto bello esplorare, anche andare in giro senza una meta solo per andare a caccia di easter egg, senza contare che ci sono dei collectable secondari molto divertenti da trovare e da analizzare sul menù, ovvero documenti classificati che aiutano a capire la backstory della trama, VHS di film, musicassette e videogiochi con titoli storpiati e descrizioni assurde; il fatto di non poter tornare indietro per raccogliere questi oggetti, anche a storia inoltrata, è decisamente un fattore negativo. Nonostante tutto, il gameplay proposto è molto variegato e profondo per rendere questo titolo un esperienza memorabile: le fasi di esplorazione si alternano con fasi beat ‘em up, probabilmente anche un po’ hack ‘n slash, ed entrambi gli elementi si fondono insieme molto bene. Nessuna delle due fasi risulterà mai noiosa o tediosa, perciò si può dire che il flow del titolo è davvero piacevole, anche se in certe sezioni le prime risultano un po’ vuote e le seconde un po’ sature di nemici. Tuttavia, per via della dettagliatissima storyline proposta, il gioco alterna fasi di azione e fasi di dialoghi molto di frequenti e ciò, anche se decisamente necessario, rovina un po’ il pacing proprio quando siamo molto presi a scazzottarci coi bulli di quartiere o con gli spiriti usando la duat stone. Parlando di questa specifica meccanica, quando saremo in possesso di questa pietra, non ci sarà mai un vero motivo per cui non usarla; tendenzialmente, alternando i due mondi con “ZR”, non c’è ragione di visualizzare il “mondo dei vivi” dal momento che se abbiamo “la visione dell’aldilà” riusciamo a vedere tutto quello che vedremo normalmente insieme agli elementi sovrannaturali. È vero anche che più in là le due visioni dovranno alternarsi più frequentemente per rendere effettivo l’ausilio di uno dei personaggi che, scusate lo spoiler, ci lascerà, ma il punto è che non c’è motivo di tenere la duat stone disattivata se non per resettare la posizione di questo specifico membro. In poche parole, ci sono più NPC e interazioni con la prospettiva dell’aldilà e pertanto l’attivazione o la disattivazione della duat stone è superficiale.
I cinque personaggi del team presentano tutti caratteristiche e abilità diverse e pertanto si compensano a vicenda perfettamente. È normale che, da giocatori, preferiremo utilizzare uno dei ragazzi più di qualcun altro ma l’ambiente ci costringerà a cambiare i personaggi di continuo e dunque mai nessuno sarà superficiale o messo in disparte; c’è molta collaborazione fra i personaggi, selezionabili in sequenza premendo il tasto “L”, e perciò il team funzionerà perfettamente in quanto le singole abilità di qualcuno sono cruciali per andare procedere nei capitoli. Alcuni sono più bravi nelle fasi lotta, alcuni più resistenti, altri più veloci, agili e dunque più utili nell’esplorazione; le possibilità sono molteplici e ciò è segno di un gameplay ben bilanciato e vario allo stesso tempo. Più avanti l’azione varierà ulteriormente offrendo al giocatore fasi di guida, come l’inseguimento in bicicletta che è un chiaro tributo alla famosa scena di E.T. l’Extraterrestre, puzzle e persino in volo dalle sembianze di uno shooter tradizionale; un buon elemento per mantenere il gameplay fresco e il giocatore incollato allo schermo.

Let’s do the time warp!

Crossing Souls è decisamente un titolo al quale è stato riversato tanto amore e passione e ciò lo si può evincere dalla toccante storia (e il suo bellissimo finale), i diversi easter egg sparsi per l’ambiente, le descrizioni dei collectable e degli abitanti della città di Tujunga nel menù e dal suo gameplay, nonostante qualche intoppo, bilanciato e vario. Gli unici peccati di questo titolo sono un pacing spesso interrotto e l’averlo concepito in maniera così diretta e dunque dare al giocatore lo stretto indispensabile per ciò che riguarda l’esplorazione e un eventuale backtracking per collezionare gli oggetti secondari che avrebbero potuto incentivare una longevità già buona di suo (e questi sono, sì, inutili ma molto divertenti da trovare per poi leggere le assurde descrizioni); ciò che dobbiamo fare per avere un file completo al 100% (per così dire) sarà avviare un nuovo file di salvataggio e ricontrollare ogni angolo degli ambenti, magari aiutandoci con un walkthrough. Ci siamo inoltre imbattuti in alcuni brutti bug che avvengono col contatto con certi angoli degli ambienti; alcune volte il nostro personaggio passerà attraverso certi muri e non sarà più possibile tornare indietro (alcune volte questi ci catapultano, senza un apparente motivo, in altre parti dell’area) perciò l’unica cosa che possiamo fare è uscire dalla nostra sessione di gioco e ricominciare dall’ultimo salvataggio evitando il contatto con quel particolare punto (ma fortunatamente nessuno di questi comporta un errore di sistema).
In definitiva però non possiamo fare altro che applaudire Fourattic e al suo splendido titolo per il suo gameplay tanto tradizionale quanto divertente e per il suo messaggio di puro amore universale, trasmessoci da semplici ragazzi di quartiere pronti a qualsiasi cosa per il prossimo. Il prezzo di 14,99€ sul Nintendo eShop è un buon compromesso e perciò potrete avere un ottimo titolo in grado di intrattenervi  per molto tempo in un mondo al neon ormai andato. Davvero spettacolare!




Record anche su iOS per Fortnite

Fortnite continua a macinare risultati su risultati; ultimo arrivato è il raggiungimento dei 300 milioni di dollari guadagnati sullo store dell’azienda di Cupertino in appena 200 giorni, a partire dal 15 marzo (giorno di rilascio della Beta), superando colossi del mobile come Clash Royale. Il record per il raggiungimento del guadagno di 300 milioni più veloce resta però a Pokemon GO che raggiunse il risultato in appena 113 giorni. Ma il guadagno di Fortnite su iOS non accenna neppure a uno stallo o a una diminuzione: sembra infatti che dall’ 1.5 milioni di dollari al giorno si sia passati, grazie alla Stagione 6 a 2.5 milioni di guadagni, già  dalla scorsa settimana. Il grafico di Sensor Tower può aiutarci più delle parole, a comprendere i grandi traguardi raggiunti dal gioco.




Kingdom Hearts Final Mix

Sono passati ben 16 lunghi anni dal primo debutto di uno dei videogiochi che ha segnato una generazione intera, che ha fatto sognare bambini e adulti, che li ha fatti innamorare di un universo magico, fantasioso; stiamo parlando di Kingdom Hearts: un RPG sviluppato da Square Soft (che pochi anni dopo avrebbe preso il nome di Square Enix) in collaborazione con Disney.
Il primo capitolo della serie ha avuto un enorme successo in tutto il mondo, vendendo circa 10 milioni di copie, tra cui 2 milioni nel solo suolo europeo.
Da allora sono stati pubblicati in tutto 9 titoli dal 2002 a oggi e il 29 gennaio 2019 arriverà il 10° capitolo che concluderà questa magica e meravigliosa, ma anche intricata, saga.

La nascita di Kingdom Hearts

Chi l’avrebbe mai detto che un titolo come Kingdom Hearts sarebbe nato in un ascensore? L’idea del progetto scaturì da un singolare incontro tra Shinji Hashimoto, attuale capo della Square Enix Business Division 3, e un dirigente della Disney, che, casualmente, lavoravano nello stesso edificio a Tokyo. Hashimoto, vedendo il grande successo che ebbe Super Mario 64, decise, insieme a Hironobu Sakaguchi, creatore della saga di Final Fantasy, di sviluppare un gioco che potesse rivaleggiare il titolo Nintendo. Purtroppo i personaggi di Final Fantasy non potevano prestarsi a un compito del genere, e fu così che si pensò subito al fantastico mondo Disney, e quell’incontro fu cruciale per l’inizio dello sviluppo.
Il compito di guidare il progetto fu assegnato a un certo Tetsuya Nomura e lo sviluppo del gioco partì agli inizi del nuovo millennio: nel febbraio del 2000.
Durante i primi passi del percorso intrapreso da Square Enix, Nomura e il team si dedicarono esclusivamente allo sviluppo del gameplay ma, dopo alcuni richiami, lo stesso Nomura decise di tralasciare temporaneamente le meccaniche di gioco e focalizzarsi su quella che sarebbe stata la perla, un tratto distintivo di Kingdom Hearts: la storia.

This story is not over

Kingdom Hearts è famoso soprattutto per la sua storia, complessa, piena di intrecci e poco chiara, ma allo stesso tempo affascinante, colma di sentimenti, magia e decisamente poco banale.
La storia del primo Kingdom Hearts ha inizio su di un misterioso e sconosciuto arcipelago, chiamato Isole del Destino, in cui vivono i protagonisti: Sora, Riku e Kairi. I tre amici sono stati sempre affascinati dalla possibilità che esistano nuovi mondi oltre al loro, e questa possibilità li ha portati a desiderare fortemente di viaggiare per riuscire a scoprirli tutti; ed è per questo che decidono di costruire una zattera per realizzare il loro sogno.
Durante le giornate passate a preparare il necessario per la partenza accadono degli avvenimenti piuttosto strani: mentre Sora è in cerca degli occorrenti per costruire la zattera, si imbatte in un una losca figura incappucciata, apparsa come per magia sull’isola e in una porta all’interno di una caverna, mai esistita prima d’ora. L’uomo incappucciato rivelerà a Sora che «questo mondo è stato collegato» (una frase molto importante per capire bene l’intera storia di Kingdom Hearts). Proprio la sera stessa della misteriosa apparizione, l’isola viene colpita da una forte tempesta; Sora, Riku e Kairi, in pensiero per l’incolumità della zattera giungono sull’isola, ma il pericolo che li attende è più grave di una semplice tempesta: sopra le loro teste si è materializzato un gigantesco portale di oscurità che pian piano inghiotte l’intera isoletta.
I tre amici, non riuscendo a fronteggiare il nuovo pericolo soccombono alla sua forza distruttiva: Riku, attraversa un portale oscuro e Kairi viene inghiottita dall’oscurità e sparisce nel nulla; Sora, però, riesce a resistere, evocando il Keyblade, una potente arma capace di sconfiggere l’oscurità. Ma la forza del nostro protagonista non è sufficiente, si vede separato dai suoi amici e si ritrova spaesato e intontito nella Città di Mezzo, in cui, casualmente, incontra Paperino e Pippo, che, incaricati da Re Topolino, il quale è scomparso improvvisamente, devono trovare «qualcuno con una “chiave”» in grado di liberare il mondo dalle tenebre. È proprio nella Città di Mezzo che il protagonista si unisce ai due personaggi Disney per andare alla ricerca del Re e i suoi amici, viaggiando e salvando diversi mondi dalla distruzione.
Per riuscire a trovare Re Topolino, Riku, Kairi e i tre amici dovranno sconfiggere tutti i cattivi dell’universo Disney, che intralceranno la nostra missione, capitanati da Malefica, che, grazie all’oscurità, riesce a controllare gli Heartless.
Gli Heartless sono degli esseri composti da pura oscurità; ogni uomo ha, all’interno del proprio cuore, dell’oscurità e, se questa se riesce a consumare completamente la luce, trasforma il malcapitato in un Heartless, un essere senza cuore che si nutre di oscurità.
La trama dell’intera saga è parecchio complessa, ma rispetto a tutti gli altri capitoli, Kingdom Hearts è il più semplice, riuscendo a raccontare una storia in maniera lineare e quasi mai confusionaria.

Follow your heart, and you can’t go wrong

Kingdom Hearts nasce come un classico action RPG, con elementi hack-and-slash e visuale in terza persona. Come in ogni GDR che si rispetti, Kingdom Hearts possiede delle meccaniche comuni a tutti i giochi di ruolo, alcune di esse sono molto simili a quelle già presenti e utilizzate per la saga di Final Fantasy, come l’uso delle magie, l’acquisizione di nuove abilità, la progressione del livello etc.
Il gameplay consta di semplici attacchi fisici e magie da lanciare dalla distanza, combo ed evocazioni. Queste ultime permetteranno a Sora di richiamare degli alleati da altri mondi per combattere al suo fianco, per un tempo limitato, e aiutarlo tramite mosse speciali o abilità nominali, differenti da altri personaggi, tutti dell’universo Disney.
Il titolo, si mostra alla portata di tutti, con meccaniche non troppo complicate e con un gameplay divertente e frenetico, risultando anche in alcune situazioni risulta fin troppo semplice.
Sconfiggendo ogni nemico si riceveranno in cambio dei punti esperienza (EXP) che serviranno per avanzare di livello e sbloccare nuove capacità per Sora e i suoi amici.
L’albero delle abilità è molto schematico, presenta un singolo elenco di tutte le abilità già sbloccate ed equipaggiate; se ne possono attivare più contemporaneamente, ma bisogna fare attenzione al loro costo. Ogni abilità occuperà una determinato  quantitativo di AP (Ability Point), la nostra quantità massima di AP aumenterà ogni qual volta saliremo di livello o equipaggiando un determinato oggetto e questo ci permetterà di attivare più abilità.
Kingdom Hearts, essendo un RPG, presenta dei parametri inerenti al combattimento, come l’attacco, la difesa o la magia, che possono variare a seconda del nostro equipaggiamento. Non essendoci un’armatura da poter indossare, l’unico modo per modificarli sarà quello di dotare Sora di determinate Keyblade e oggetti indossabili (come anelli e collane). Ogni Keyblade ha delle abilità e una skin unica, con colori e dettagli che ricorderanno la sua terra d’origine. Purtroppo non esiste alcun modo per potenziare una Keyblade, aumentandone le statistiche, quindi, tutte le armi che otterremo durante il gioco saranno, quasi sempre, più potenti di quelle già equipaggiate.
Per visitare e spostarsi per i mondi si dovrà viaggiare su una piccola astronave: la Gummiship. Questa navicella spaziale ci permetterà di distruggere quasi tutti gli ostacoli che troveremo davanti, ma anche di ricoprire una lunga distanza in men che non si dica, teletrasportandoci direttamente ai piedi del mondo selezionato. La Gummiship è ampiamente personalizzabile, durante la nostra avventura si troveranno diversi pezzi che montati insieme possono dare vita a una nave spaziale imbattibile e veloce. Il gameplay sulla Gummiship è davvero elementare, si dovrà comandare la navetta in sole quattro direzioni: in basso, in alto, a destra e a sinistra; sparando con dei cannoni agli Heartless o agli ostacoli per ricevere un maggior punteggio e ottenere qualche altro oggetto per potenziare ulteriormente il nostro mezzo.
La storia è narrata utilizzando l’alternanza di filmati e scene dialogate tramite i balloon, in maniera molto lineare e precisa. Ma la trama, nella sua interezza, è difficilmente comprensibile, soprattutto per chi abbia appena cominciato la saga.
La storia del primo capitolo non riesce a fornire delle risposte esaustive a tutte le domande che il gioco ci farà porre. Per scoprire quasi tutti i misteri e tutte le vicende bisognerà proseguire con la storia, giocando tutti e 9 i titoli già disponibili e aspettare il terzo capitolo principale che concluderà la saga di Xehanort, l’essere malvagio che ha portato distruzione e rovina nel mondo. Ma anche completando tutti i capitoli si avrà un po’ di difficoltà a ricordarsi tutti i nomi, le vicende e le backstory di tutti i personaggi.

Grafica e Sonoro

Per quanto riguarda il comparto grafico, essendo un titolo sviluppato e uscito nei primi anni del nuovo millennio e in seguito remasterizzato in alta definizione per PS3 e PS4, la grafica non risulta stupefacente, ma rimane decisamente buona. Durante le cutscene in CGI (solitamente all’inizio del gioco e alla fine) il cambio di grafica si nota parecchio, con visi quasi perfettamente lisci, ambienti colorati, con una qualità quasi paragonabile alle nuove console (questa particolarità era presente anche su PS2, riuscendo a impressionare i giocatori per la qualità grafica), ma tutto ciò non crea nessun problema.
Il comparto sonoro è tutt’altra cosa, con una soundtrack che riesce in tutte le situazioni a dare maggior enfasi a combattimenti, scene con una forte componente sentimentale e, soprattutto, incutere timore durante le bossfight. L’intera soundtrack è stata curata da Yoko Shimomura, riuscendo a regalare emozioni a quasi tutti i fan della saga grazie alla sola forza delle note, una playlist di canzoni che non invecchiano mai. Una delle più famose OST di Kingdom Hearts è sicuramente Dearly Beloved, una composizione al pianoforte che è presente in tutti i menu di ogni gioco della serie. Mentre, oltre alle melodie inedite, sono presenti anche le canzoni originali dei film Disney, che accompagneranno Sora e i suoi amici durante alcuni sprazzi di gioco. Inoltre, durante i filmati di apertura e chiusura, le scene sono accompagnate da alcune canzoni della cantante giapponese Utada Hikaru, una delle più famose è Simple and clean, che ha stregato milioni di giocatori.
A differenza della soundtrack mozzafiato, gli effetti audio non eccellono, con una quasi assenza di suoni ambientali e una monotona sequenza di tracce audio per magie e attacchi fisici.

The Deep End

Kingdom Hearts è sicuramente uno dei giochi che ha fatto la storia videoludica delle ultime generazioni, riuscendo ad amalgamare in maniera eccellente personaggi provenienti dall’universo Disney con quelli provenienti dai vari Final Fantasy, due brand che sembrava difficile far dialogare.
Con un gameplay equilibrato, ma con qualche pecca (poi risolta nel secondo capitolo), e una storia unica, Kingdom Hearts è un gioco davvero ben fatto, con una narrazione ottima, una grafica molto accurata per i tempi, e una soudtrack di eccellente fattura.
Tetsuya Nomura ha veramente prodotto un capolavoro, che rimarrà nei cuori dei giocatori di ogni età, diventando, per molti, un pezzo di infanzia, regalando ore e ore (circa 35) di gioco, scatenando emozioni contrastanti.




Remothered: Tormented Fathers

Nella mia storia di gamer ho vissuto un periodo (neanche breve) in cui mi sono allontanato dai videogame. Non è stato un momento dettato da ragioni di stanchezza nei confronti del medium, né una scelta dovuto a mancanza di stimoli: senza troppi giri di parole è stata una forma di self-punishment, dovuta a una serie di circostanze che hanno caratterizzato una transizione particolare della mia vita. Il ritorno all’ovile videoludico è avvenuto in un momento ancora più critico, un frangente in cui ho capito la reale dimensione dei videogame nella mia esistenza: quella di scialuppa di salvataggio, asse di quella Pequod che, irrobustita da scrittura e letteratura, mi ha permesso negli anni di restare a galla nell’eterna lotta contro i miei capodogli umorali. In quel frangente difficile, in piena epoca PS3, mi ritrovai a rispolverare la mia vecchia PS2 come fossi ancora lo studente dei primi anni di università. Capii tempo dopo le ragioni della scelta, che risiedevano in un bisogno di ritrovamento di un “Io originario”, lasciato forzatamente per anni in un ripostiglio della coscienza. Ricordo che entrai in un negozio e, ravanando tra l’usato, trovai una copia di Haunting Ground, che si rivelò il mezzo necessario per l’apertura di quel portale temporale: è curioso che, in un momento simile, nel quale molti penserebbero come necessaria la serenità piuttosto che un concentrato di tensione e immagini cupe, siano stati i survival horror a tornare in mio soccorso. Dico “tornare” perché il lato gotico del fantastico è stato un po’ il mio portale d’accesso a tutte le arti: quello di racconti e arabeschi di Edgar Allan Poe della SugarCo è stato il primo libro che ricordo di aver amato, così come nel cinema dei quei primi anni ’90 rimanevo folgorato da IT. E non è un caso che fosse proprio Maniac Mansion a introdurmi al mio genere preferito, le avventure grafiche, col suo carico di mistero e di tensione che accompagnavano l’intento parodistico nei confronti delle storie horror. Inutile dire che il primo approccio con quello che era destinato a divenire il moderno survival horror fu con Alone in the Dark, e da lì fu solo un attendere i Silent Hill, i Forbidden SirenProject Zero, titoli dotati non soltanto di una narrazione grandemente curata, che andava dallo psicologico al folklore nero, ma che calavano il giocatore in uno stato di assoluta impotenza, rendendo necessario ricorrere a ben altro che agli scontri fisici o armati per assicurarsi la sopravvivenza. Non potevo dunque non amare Clock Tower 3, ed è chiaro come la storia di Fiona Belli, costretta a fuggire con l’aiuto di un cane per le stanze dell’immenso castello di Haunting Ground, fosse un inevitabile, dolcissimo ritorno a sensazioni perdute.
Ed è partendo da simili sensazioni che è per me necessario introdurre il primo grande pregio di Remothered: Tormented Fathers (altrimenti a cosa sarebbe servito questo lungo preambolo?), la cui esperienza di gioco è stata una madeleine proustiana che, nella sua lenta masticazione, ha avuto il merito di sprigionare sfere sensoriali sopite da un po’ di anni. Ma non è certo questo personalissimo assunto di partenza a farne l’ottimo survival horror che è.

Incubi in analessi

La narrazione di Remothered: Tormented Fathers comincia in medias res, mentre un’anziana Madame Svenska racconta a un interlocutore fuori campo gli accadimenti di cui è stata protagonista anni addietro Rosemary Reed, a seguito di un incontro con il notaio Felton ottenuto spacciandosi per una dottoressa dell’istituto nel quale era tempo stato ricoverato. Smascherata durante il colloquio da Gloria, infermiera preposta alle cure del notaio, la vedremo introdursi in casa Felton qualche ora dopo essere stata messa alla porta. Sarà l’inizio di una catabasi nell’orrore nascosto fra le mura domestiche, ma soprattutto nell’inferno della psiche umana. La sua esplorazione la porterà gradualmente nei meandri di una dark side che vedrà luce tra documenti, video, foto e altri oggetti utili a ricostruire un oscuro passato, fatto di nebulose sperimentazioni su un farmaco dell’evidente impatto sui processi mnemonici, il Phenoxyl, e di un ambiguo rapporto con la figlia del notaio, Celeste, misteriosamente scomparsa anni addietro. A “disturbare” questo percorso di scoperta ci saranno gli avversari che si avvicenderanno nel gioco, dallo stesso Felton, armato di falce e deciso a contrastare ogni intrusione, a una misteriosa suora rossa armata di uno spesso bastone a forma di colonna vertebrale. Le scoperte saranno molto interessanti, e verranno pagate al prezzo di lunghe ore di terrore e tensione costante.

Padri tormentati

Pur essendo uscito lo scorso 30 gennaio (data annunciata nel corso della Milan Games Week 2017) su PC, per poi arrivare in estate su PS4 e Xbox, Remothered: Tormented Fathers ha alle spalle una lunga storia di sviluppo: l’idea di base nasce già quando il creative director Chris Darril sedeva ancora tra i banchi di scuola della sua Catania. Nel 2007 si sviluppa un primo nucleo fortemente indebitato con Clock Tower, che vide una più marcata e originale identità un paio di anni dopo, quando il progetto cominciò ad assumere una prima forma su RPG Maker XP, dove viene pensato come survival horror 2D. Chris Darril comincia però a intuire i limiti di una simile scelta e, nonostante alcuni riscontri positivi sulla rete, decide di mettere in standby lo sviluppo, rifiutando anche alcune proposte di cessione dei diritti o di partnership. È una scelta difficile, umile e intelligente, e che darà i suoi frutti anni dopo, quando il game designer tornerà sul progetto con alle spalle esperienze di rilievo maturate nel settore, proprio in campo survival horror, da Forgotten Memories: Alternate Realities al più recente Nightcry, nel quale Darril assume il ruolo di board artist e concept designer sotto la direzione del regista Takashi Shimizu (noto per la saga cinematografica di The Grudge) e di Hifumi Kono, padre della saga di Clock Tower. Chiaro come simili lavori possano arricchire l’esperienza di un game designer, e questi anni sono utilissimi per garantire a Chris Darril una maggior consapevolezza nel passaggio dal 2D al 3D e, soprattutto, per poter lavorare su Unreal Engine 4, motore sul quale è sviluppata la versione finale del gioco.
Il risultato è letteralmente da manuale: quella di Remothered: Tormented Fathers è una lezione accademica in campo survival horror. Darril dimostra di aver acquisito alle perfezione le dinamiche e le meccaniche del genere, e ne dà saggio nel videogame che vede il suo esordio alla direzione creativa. All’interno della villa, il cammino di Rosemary Reed sarà disseminato della documentazione utile a ricostruire l’intera cornice narrativa, in un procedimento “piece by piece” mantenuto lineare e che non rende mai la narrazione frammentaria. Dalla nostra visuale in terza persona ci troveremo spesso a muovere la protagonista in modalità stealth, stando attenti a evitare lo stalker di turno e a nasconderci in un armadio o sotto un divano per sfuggire all’attacco, al quale potremo non soccombere scagliando un oggetto da lancio o, in ultima istanza, reagendo con tempismo usando un’arma di difesa. Vari di questi oggetti potranno essere utilizzati anche come diversivi da piazzare in posti strategici, e in giro per la casa si potranno trovare dei potenziamenti di attacco e difesa dei singoli item.
A differenza di altri titoli del genere, qui non è presente una modalità di gestione del panico, elemento che forse avrebbe regalato un po’ di pepe al gameplay: ci troviamo con una Rosemary praticamente instancabile, e questo facilita un po’ la dinamica hide&run su cui si regge il gioco. A compensare ci pensa però un buon bilanciamento dei nascondigli, non così frequenti da rendere troppo semplice la fuga: è uno degli elementi a favore di una gestione degli ambienti e di una strutturazione dei livelli globalmente molto ben congegnate.

Fra design e regia autoriale

Il level design è infatti uno degli elementi meglio studiati di Remothered: anche qui, nessuna rivoluzione, nessuna soluzione audace o fuori dagli schemi. La meta del design è un’altra: si vede il chiaro intento di proporre scenari e livelli che rispondano perfettamente ai canoni del genere, capaci di assicurare le stesse dinamiche in termini di ostacoli e vie di fuga. È un lavoro di taratura del metronomo dei tempi di gioco, e anche in questi termini l’obiettivo è pienamente centrato: non era affatto un risultato scontato, ed è una scelta che apporta giovamento anche sul piano visivo, con environment attentamente architettati e ben giocabili in fase di gameplay, ma anche molto belli a vedersi. Le relazioni di ordine-caos tra i vari elementi ambientali creano una perfetta armonia contestuale, restituendo il senso di opulenza e decadenza, di splendore perduto e insanità gotica che danno al titolo una cifra stilistica ben marcata, con una straordinaria cura dei dettagli che si apprezza particolarmente in ambienti come lo studio di Felton o l’attico, dove l’affastellarsi di manichini e bambole penzolanti è un altro chiaro omaggio all’iconografia di genere, una scelta quasi scolastica che riesce miracolosamente a non risultare retorica, preservando la bellezza del quadro d’insieme. I tributi videoludici, a onor del vero, sono disseminati ovunque e, se le dinamiche di gioco richiamano Clock Tower e i suoi derivati, il rapporto con la memoria-psiche richiama molto da vicino la già citata saga di Silent Hill, non ultimo Shattered Memories sia per l’oscura ambivalenza che sta nella relazione tra personaggi e ricordi perduti, sia per alcune sequenze video, dalle sedute di mesmerizzazione (dove l’inquadratura richiama il mezzobusto dello psicanalista del titolo Konami) al dondolio della ragazzina sull’altalena. Il tributo di Chris Darril non si ferma al medium videoludico, l’influenza è marcatamente cinematografica, come può intuirsi dalle lunghe cinematiche del titolo e soprattutto dall’alta cura al linguaggio di regia, all’uso della prospettiva, ai movimenti di camera, ai piani sequenza: il game designer catanese ha ammesso il proprio debito nei confronti di Polanski (palesato già nel nome della protagonista), di Lynch, di Hitchcock e del Pupi Avati de La casa delle finestre che ridono e del Demme de Il silenzio degli innocenti (che la protagonista sia molto simile a Jodie Foster lo avete notato tutti, no?) ma, a guardar bene, si riesce a scorgere anche di più: l’attico non può non riportare alla mente i manichini del Maniac di Lustig, di Tourist Trap, di House of Wax, di The Basement (o quelli del Silent Hill videoludico, of course) così come le bambole al muro ci rimandano a classici come DollsPuppet Master o al più recente Dead Silence. C’è lo sguardo abissale di David Cronenberg, la morbosità del primo Tobe Hooper, e anche la raffinata artigianalità del John Carpenter degli inizi: se dovessimo guardare Remothered solo da un punto di vista eminentemente cinematografico, sarebbe già un esordio straordinario, nel quale il director mostra di aver imparato bene anche la lezione dei grandi maestri della settima arte.
I difetti di questo primo titolo si manifestano in realtà su un piano eminentemente tecnico, con un’illuminazione a volte troppo marcata, che rende personaggi e ambienti un po’ affettati, un uso non sempre felice della saturazione cromatica (visibile fin dalle prime sequenze, a partire dalla brace della sigaretta accesa di Rosemary Reed) e animazioni che portano con sé più di una sbavatura. Ma parliamo di un lavoro indipendente, dove ai team di Darril Arts e Stormind Games va riconosciuto comunque il merito di aver ottimizzato bene le risorse disponibili, ottenendo una resa che sul piano tecnico è ottima ad onta delle imperfezioni. Se l’art-style trova i più felici risultati nel quadro d’insieme, con una quantità di elementi negli ambienti che formano uno stupendo mosaico, capace di restituire un veridico sfarzo e al contempo un’inquietante entropia, i primi piani denotano certi limiti poligonali in termini di definizione dei character, così come alcuni dettagli nei personaggi godono di scarso dinamismo, ma ricordiamo che il miglioramento di alcuni elementi in tal caso non dipende dalla sola perizia tecnica, quanto dal budget.
Il peccato meno veniale di quest’opera sta forse all’interno del comparto sonoro: se negli SFX il titolo può vantare una buona gamma ben gestita, dove i rumori di sottofondo o d’impatto sono utilizzati con sapienza, un problema non da poco si riscontra giocando in cuffia. Con gli headset alle orecchie, infatti, si può sentire chiaramente come i suoni degli stalker (dal rumore dei passi a un appropriatissimo Old MacDonald had a Farm canticchiato da Felton, scelta d’efficacia, che aumenta a dismisura il senso di inquietudine) provengano soltanto da sinistra, risultando un po’ penalizzante per l’esperienza di gioco, in un titolo dove l’ascolto del nemico diventa molto importante, in quanto le scelte riguardo il cammino determinano la vita e la morte, e un audio monodirezionale non permette di intuire la posizione del nemico. Per fortuna le meccaniche sono studiate bene e questo difetto (derivante anche dai limiti di Unreal in termini di audio 3D) risulta un limite non castrante.
Dal punto di vista sonoro, del resto, il gioco si avvale di una colonna sonora straordinaria, che vede Nobuko Toda (composer che ha contribuito a soundtrack del calibro di Final Fantasy XIV e a quelle di vari Metal Gear Solid) al fianco dell’italiano Luca Balboni, giovane compositore che recentemente aveva dato un ottimo saggio delle proprie capacità musicali in Mine, italianissimo film di Fabio Guaglione e Fabio Resinaro con un buon riscontro di critica e pubblico. Il suo lavoro in Remothered non è certo da meno, anzi, l’estrazione eminentemente cinematografica dell’OST si percepisce all’istante, si sente un debito verso grandi maestri del cinema classico come Hans Zimmer e Danny Elfman ma che non si traduce in un’obbedienza mite e pedissequa al canone: si sentono a tratti le atmosfere cupe e asfissianti del Mother! di Aronofsky, richiamando quel gioco di dissonanze messo su da Jóhann Jóhannsson, ma anche influenze più “pop”, che nei brani cantati riportano alle sonorità melanconiche e cullanti dell’Elvis Costello di Imperial Bedroom. Il risultato è una pietra preziosa sul piano compositivo, che ben si incastona in un gioiello horror del mondo videoludico indie.

Nastro rosso

Senza troppi giri di parole, Remothered: Tormented Fathers è l’esordio videoludico italiano dell’anno: con una scrittura equilibratissima, sottesa fra l’orrore della memoria e l’inferno della psiche, e una forte base cinematografica che si dispiega in intense cinematiche, il titolo riesce a sostenere dall’inizio alla fine una narrazione senza inciampi, sorretta da circa 6 ore di gameplay dinamico, ricco di enigmi ben strutturati e di fughe al cardiopalmo, in un susseguirsi di colpi di scena ed evoluzioni che non spezzano mai la tensione e stimolano la continua ricerca della soluzione per andare avanti. Nel lavoro di Chris Darril, lo abbiamo già detto, non si manifesta alcun intento rivoluzionario nei confronti del canone di genere, ma la maestria con cui è strutturato e realizzato questo titolo d’esordio rende bene l’idea di quale sia la sua cassetta degli attrezzi, lasciando grosse aspettative per il futuro.
Del resto, nelle intenzioni del game designer catanese, Remothered: Tormented Fathers è solo il primo capitolo di una trilogia di cui è stata già scritta l’intera storia: il potenziale è enorme, e ci sono tutti i motivi per attendere con trepidazione il sequel, sperando che una grossa produzione sposi il progetto e fornisca un adeguato budget per un titolo che merita i fasti del tripla A.




Detroit: Become Human

Mi ci sono volute due run prima di decidermi a parlare dell’ultima opera di David Cage. Nel momento in cui scrivo questa recensione, a quattro mesi di distanza dall’uscita del titolo, mi sembrano ancora poche. Detroit: Become Human non condensa soltanto un messaggio profondo, a più livelli, in un videogame ben congegnato, ma esprime soprattutto un potenziale narrativo ben sviluppato in un articolato dell’albero delle scelte, dando vita a una narrazione che è forse la più equilibrata e densa fra quelle sfornate da Quantic Dream in tutti questi anni di development.

Gli androidi sognano (non soltanto pecore elettriche)

Come nel precedente Heavy Rain, Detroit: Become Human segue la storia di più personaggi, tre nel caso in questione: Kara (Valorie Curry), in fuga per salvare la piccola Alice (Audrey Boustani) da un padre violento, Markus (Jesse Williams) che si ritrova suo malgrado dalle ceneri della distruzione alla testa di una rivolta, e Connor (Bryan Dechart), androide progettato per supportare il tenente Hank Anderson (Clancy Brown) nelle indagini che vedono coinvolti i “devianti”. Tre storie separate che si incroceranno nella Detroit del 2038, in un futuro che non possiamo definire né distopico, né esattamente ucronico, e che David Cage e il lead writer Adam Williams tentano di raccontare nella forma della fantascienza autoriale, sulla falsariga dei grandi narratori del genere. Non staremo qui a perderci in parallelismi con Gibson, Asimov, Lem, Dick, Le Guin e in tutta la letteratura di riferimento che permea quest’opera, né analizzeremo i punti in cui Detroit: Become Human falla o regge dinanzi ai suoi omologhi letterari (a cui vanno aggiunti quelli cinematografici), sarebbe un’operazione lunga e inappropriata, a un approfondimento simile va riservata altra sede.
A favore della relativa brevità di cui una recensione si avvantaggia rispetto a un testo critico, ritorniamo al contesto di riferimento: i tre personaggi giocabili di questa storia si troveranno ad affrontare il divenire delle loro storie in un momento cruciale per la storia umana. Creati dal genio di Elijah Kamski (Neil Newborn), gli androidi sono ormai una realtà consolidata da anni: prodotti e immessi sul mercato dal colosso Cyberlife, sono diventati un elemento fondamentale nella vita di ogni cittadino americano, il quale è libero di utilizzarli a piacimento, dalle pulizie di casa al piacere sessuale. Gli androidi sono macchine senzienti ed evolute, hanno sviluppato una forma di coscienza, la loro intelligenza artificiale gli permette di prendere decisioni autonome, pur restando nei limiti comportamentali imposti dal software. Ma adesso in città si registrano sempre maggiori casi di “devianti”, androidi che sfuggono alle regole imposte dal loro codice e che adesso si rivoltano contro gli umani. Per ragioni profondamente diverse, Markus e Kara si ritrovano a “reagire”, a divergere dall’algoritmo, e per questo diventano devianti. Connor corre nella direzione opposta: stabile, ligio ai doveri del software, l’agente modello RK800 avrà il compito di indagare per riportare l’ordine sconquassato dal dilagare della devianza androide.

Ecce Robot

In Detroit: Become Human gli androidi ci appaiono umani in tutto e per tutto: come ne Il Cacciatore di Androidi di Dick in qualche opera (non tutte) di Isaac Asimov, sarebbero indistinguibili dai cittadini di Detroit se non fosse per un chip luminoso applicato circolarmente alla loro tempia destra. Fin dall’inizio, gli androidi ci vengono presentati come incapaci di emozioni, ma ci si rende conto ben presto (controllando i protagonisti) che non è affatto così, e cominciamo a presagirlo nelle prime scelte multiple possibili, dove si vedono barlumi di sentimento già sin dalle fasi iniziali. Quasi non stupisce che Kara e Markus rompano la barriera delle regole imposte dall’algoritmo per proteggere persone a loro care, seguendo un sentimento di giustizia che si annida probabilmente negli abissi della loro coscienza. Una coscienza che mostrano di avere in una serie di frangenti, ed è qui che si trova uno dei punti fermi dell’opera: i finali possibili sono tantissimi, e dipendono tutti da una combinazione di scelte precedenti. Il destino di un personaggio può cambiare radicalmente, si può vivere o morire, mettersi in salvo o essere catturati, ribellarsi o fuggire, ma c’è un aspetto che sembra non essere in discussione: anche gli androidi sono capaci di sentimenti. Da qui una delle domande fondamentali del gioco: è giusto ridurre in schiavitù degli esseri senzienti, capaci di soffrire e gioire? È giusto soggiogare il loro libero arbitrio ai bisogni umani? Il creatore ha diritto di proprietà, nonché di vita e di morte, sulle proprie creature? Non sembra porsi qui nemmeno il discorso della pericolosità a priori degli androidi: i robot non hanno qui manie di grandezza o di conquista del potere, né sono macchine assetate di sangue, vogliono solo la libertà, anche la loro violenza è di reazione più che d’ambizione. Markus può diventare in qualche modo uno Spartacus dei tempi futuri, è un mondo in cui fra gli androidi circola il nome di una figura messianica, Ra9, sussurrata in segreto o scritta in muri nascosti, la cui parola è passata di soppiatto come fosse un samizdat.
Il discorso va ancora più in profondità, facendosi metafora del nostro tempo quando si parla di discriminazione: gli androidi sono una minoranza, vittime del volere della razza dominante, quella umana. Fino a che punto è diverso, oggi, il discorso etnico?
Markus è un androide di colore, una minoranza nella minoranza in una società composta di umani prettamente di etnia caucasica, e non è un caso che il suo finisca per essere un ruolo chiave in prospettiva di una rivolta androide. Qualunque sia la strada verso la quale lo guideremo (che non necessariamente lo porterà sulla via della rivoluzione), certamente arriveremo a Jericho, la misteriosa destinazione verso la quale si dirige ogni androide in cerca di un luogo sicuro. Per farlo, passeremo attraverso gli indizi nascosti in vari murales, lasciati lì per indirizzare sulla giusta strada come i sassolini di Hansel e Gretel.
Non è un caso che uno dei graffiti abbia al centro Cassius Marcellus Clay, che nel 1965 cambiò il proprio nome in Muhammad Alì a seguito della propria conversione all’Islam e che anni dopo, nel 1968, si oppose alla guerra del Vietnam affermando di non aver nulla contro i Vietcong, i quali, a differenza di vari suoi concittadini americani, non lo avevano “mai chiamato nigger”. Nello stesso murale, sulla parte destra, si trova inoltre un leone, probabile riferimento a Zion, utopica terra promessa mutuata dall’ebraica Sion e opposta all’oppressiva “Babylon” del mondo moderno. Il concetto è alla base del Kebra Nagast, testo sacro del rastafarianesimo, che racconta, fra le altre cose, del passaggio dell’Arca dell’Allenza da Gerusalemme all’Etiopia, la culla dell’umanità, che non a caso aveva come simbolo il Leone di Giuda nella propria bandiera.
Markus è dunque un probabile simbolo della lotta contro la discriminazione etnica, così come la storia di Kara potrebbe esserlo contro la violenza sulle donne e sui minori: l’androide donna AX400 viene riportata a casa dal padre di Alice, Todd, che l’aveva già precedentemente distrutta e portata a riparare. Il viaggio della ragazza e della ragazzina ha un valore filiale, che vedrà la più adulta rischiare il tutto per tutto per portare in salvo la piccola, dritte fino in Canada, dove gli androidi non sono oggetti immessi sul mercato e godono degli stessi diritti degli umani, e che come in The Handmaid’s Tale diventa una meta a cui aspirare, una terra promessa di uguaglianza e libertà.

Visioni di robot

La storia di Detroit: Become Human è dunque ricca sul piano simbolico, oltre a risultare ben scritta. I dialoghi sono solidi, la narrazione dinamica e dal buon ritmo, e soprattutto mancano i plot hole che gravavano su alcuni precedenti titoli, rei di aver drasticamente allontanato storie come quella di Heavy Rain dall’eccellenza.
Il lavoro scrittoriale di Cage e Williams non gode di elementi particolarmente stupefacenti, ma la storia ha un indiscusso equilibrio e risulta di certo il punto più alto della produzione Quantic Dream, come lo è tutto il comparto tecnico. Se su PS4 l’immagine di Detroit: Become Human gode di una risoluzione di 1080p, su PS4 Pro raggiunge i 2160p tramite il checkerboard rendering, con un anti-aliasing temporale atto a eliminare effetti edge shimmer e aliasing sulle superfici. Il gioco si mantiene a 30 fps costanti, con alcuni cali negli spazi aperti dove è possibile apprezzare la maggior potenza di PS4 Pro nell’evitarli, e dove, in generale, il clustered forward rendering torna molto utile in termini di illuminazione, con uno straordinario risultato ottenuto tramite un mix di luci dinamiche che accentua il realismo. Come rilevato anche da Digital Foundry, il lavoro di Quantic Dream sui materiali e sul loro rendering basato sulla fisica è mirabile, gli oggetti sono impreziositi dalle loro stesse imperfezioni, la BRDF (Bidirectional Reflectance Distribution Function) restituisce un risultato che accentua il senso del reale nel rapporto tra luci e materia. Sempre a proposito di renderizzazione, uno dei punti più alti di questo lavoro è stato fatto sui personaggi, con modelli che risultano vividi e realistici anche nei primissimi piani, dove risaltano sguardi di grande intensità e una resa della pelle straordinaria, valorizzata da uno scattering subepidermico che valorizza il rapporto tra luce e pelle, restituendo un realismo fra i più belli mai visti.
Realismo globalmente accentuato da tutto il lavoro fatto nel comparto audio, con una gamma di suoni amplissima negli scenari più disparati, apprezzabile nel livello di dettaglio raggiunto negli spazi aperti, dove la gamma di suoni ambientali riprodotta riesce a comporre un quadro già ben ricostruito sul piano visivo, e dove anche il suono della monorotaia in centro città ha una sua personalissima voce. La soundtrack diventa così un elemento atto a impreziosire un lavoro di altissima fattura, con ben tre composer impegnati a dar la musica alle circa 10 ore di gioco del titolo: ogni musicista è stato infatti impegnato a musicare la diversa storia di un personaggio, da Philip Sheppard, che ha dato vita a un emozionante lavoro di violoncello per la storyline di Kara, all’iraniano Nima Fakhrara, che ha regalato musiche d’ispirazione altamente cinematografica per Connor, fino a John Paesano, che ha puntato sull’epicità crescente per raccontare la storia di Markus, in un climax armonico di altissimo livello in cui la musica è colonna portante della grammatica emozionale del titolo. Tutte e tre i compositori tengono conto di con influenze brass, funk e blues, quasi come dovuto omaggio a Detroit, città che ha dato i natali alla storica casa discografica Motown.

Diagrammi di flusso

Il lavoro globale di Detroit: Become Human consta di un felice mix di ricostruzione e invenzione: l’intera città di Detroit è stata ricostruita partendo dalla reale città, con un’accurata ricostruzione di luoghi come Capital Plaza, e anche la folla ha un alto livello di realismo, non essendo generata proceduralmente ma riprodotta tramite attori. Sono stati necessari circa 2 anni e mezzo per registrare le scene racchiuse in circa 3000 pagine di sceneggiatura: basta pensare che Beyond: Two Souls ha richiesto solo 9 mesi per comprendere la differenza di portata del lavoro di Cage, che con il suo team di designer ha messo su un impianto in cui il rapporto tra game e narrative design è strettissimo ed efficace, e dove la scelta dei percorsi risulta ogni volta abbastanza chiara all’interattore, che capirà ben presto come al tasto triangolo corrisponda una risposta fredda, mentre al cerchio corrisponde di solito un maggior coinvolgimento emotivo. Dalle risposte e dalle scelte dipenderà l’evolversi della storia, e quindi della storyline di ogni personaggio. L’engine proprietario sul quale è costruito il gioco, il Buildozer, ha permesso a Quantic Dream di gestire una ramificazione estremamente complessa di una narrazione basata su visual scripting e real time editing (rendendo il gioco completamente WYSIWYG). La flowchart delle scelte sia visibile al giocatore/interattore alla fine di ogni scena (permettendo anche di visionare nelle successive run le scelte prese in precedenza), ma lo scorso mese lo stesso David Cage ha offerto uno sguardo su Twitter di quella che è la struttura delle scene del gioco Quantic Dream:

Detroit: Become Human

We are the Robots

Rilasciato nel maggio 2018, il gioco ha raggiunto a 3 mesi dall’uscita 1.5 milioni di giocatori, il miglior risultato di sempre per la casa transalpina. Detroit: Become Human ha dato sostanza al timore umano che le macchine possano sostituirsi a ognuno di noi, e nel gioco c’è tutto questo: non soltanto dunque un quesito sull’intelligenza artificiale, il suo sviluppo e le sue implicazioni, ma anche il tema del global warming, del rapporto fra uomo e ambiente, e altre tematiche che emergono dai dialoghi ma soprattutto dai vari magazine (Detroit Today, Century, Gossip Weekly, Tech Addict, All Sports, Green Earth) che troveremo sparsi per i vari scenari, contenenti veri e propri articoli atti a darci un quadro completo dello zeitgeist imperante. Fra i temi caldi emerge anche quello del rapporto tra minoranza e discriminazione che abbiamo già citato, e che risulta centrale già dal titolo dell’opera, che richiama chiaramente con lo “Stay Human” coniato da Vittorio Arrigoni e messo ogni volta al termine dei suoi. C’è spessore politico e sociale, ma anche scientifico, con un’indagine non rivoluzionaria ma neanche blanda su problemi etici e gnoseologici come anche sull’evoluzione tecnologica futura, svolta con una certa assennatezza, come ha sottolineato Envisioning in una ricerca corredata di un’interessante infografica interattiva, dove vengono analizzati gli aspetti del gioco legati all’evoluzione scientifica .
Siamo insomma davanti al miglior prodotto di sempre di Quantic Dream, che unisce una narrativa pregevole a un game design ben studiato che non abbandona l’approccio cinematografico dei precedenti lavori di David Cage, impreziosito da un comparto audiovisivo di altissimo livello. I difetti si ravvisano soprattutto nella parte finale, e solo in termini di coesione narrativa, ma non ci sono più le voragini o gli inciampi dei precedenti titoli. Abbiamo davanti un ottimo lavoro di interactive storytelling. E speriamo che la parabola, da adesso, sia solo ascendente.




Nuovo record di utenti per Fortnite

L’ormai famosissimo gioco di Epic Games continua a diventare ancora più famoso e a macinare record su record. l’ultimo nella lista è di Agosto, dove 78,3 milioni di giocatori hanno avviato almeno una battle royale, tra mobile, console e PC. Ovviamente tanti giocatori garantiscono molti acquisti in-app ed è così che solo a Luglio Epic Games ha guadagnato un miliardo di dollari, ottenendo dall’uscita del gioco anche un aumento di valore dell’azienda, che da 825 milioni nel 2012 è salita a 8 miliardi di dollari.