Sony dice sì al cross-platform su Fortnite

Negli ultimi mesi, Sony, è stata al centro di numerose polemiche sulla decisione di non fornire un servizio di cross-platform per giochi come Minecraft, Rocket Legue e il più famoso Fortnite, per i giocatori PS4. Oggi, la stessa Sony, ha deciso di permettere a tutti i possessori di PlayStation 4 di giocare insieme agli utenti PC, Mac, Switch, Xbox One, iOS e Android a Fortnite, proprio a partire da oggi, grazie a una open beta che permetterà a Sony di valutare il da farsi per eventuali altri titoli che si avvarranno del cross-platform.
Sicuramente una notizia che aspettavano in molti e che permetterà la creazione di una community ancora più vasta.




Immortal: Unchained – La Sindrome di Stoccolma

Quando sei un piccolo team di sviluppo, appena nato, con poca esperienza ma con grande voglia di fare, non è facile varcare il confine che porta al successo. Questo vale per tutti gli ambiti, incluso ovviamente quello videoludico, nel quale Toadman Interactive si è lanciata nello sviluppo di un titolo ambizioso e che sembra fare tanto il verso ai capisaldi di molti generi. Non è la prima volta che abbiamo a che fare con un souls in salsa fantascientifica (non ultimo The Surge di Deck13), ma Immortal: Unchained è diverso, e pare già essersi fatto conoscere come il “Dark Souls con i mitra“. Effettivamente, unire meccaniche da TPS a un souls like sembra un’operazione folle e un po’ fuori dal mondo, eppure, seppur con qualche scivolone, sembra funzionare.

Da cosa nasce cosa

Approcciarsi alle vicende scritte da Anna Tole (The Witcher) e Adrian Vershinin (Crysis 3, Battlefield 1), come in ogni buon souls like che si rispetti, non è operazione delle più semplici. Salvo qualche eccezione (vedi Nioh), in più titoli del genere l’insieme si presenta in maniera frammentata, raccogliendo manufatti, sbloccando armi o attivando dei “dispensatori di lore“. Eppure, nonostante qualche palese citazione, tutto funziona, fregiandosi della tanto in voga “profezia da compiersi” ma in salsa del tutto nuova.
Tutto, ma proprio tutto, ha inizio da un Monolite misterioso, che con la sua energia dà vita all’Universo e ai nove mondi protagonisti delle vicende. Come da prassi, si scatenano guerre per il controllo di un simile potere, e da questi conflitti sono i Prime a trarne vantaggio, avviando così un’era prospera. Una volta creato il nostro personaggio attraverso un menù avaro di elementi di personalizzazione, saremo chiamati a risvegliare il potere del Monolite per scongiurare l’apocalisse in arrivo, anche se si avranno un po’ di sorprese lungo il cammino, sino a un finale interessante e per certi versi coraggioso.
All’interno del titolo avremmo a che fare con NPC, pochi a dir la verità, ma ben scritti e preziosi per scoprire lati della storia più intimi ed emotivi, ma anche per instillare qualche piccolo dubbio al giocatore sul proprio percorso e sulle proprie azioni.
Molto dunque viene raccontato attraverso dialoghi e descrizioni, ma non mancano alcune cutscene, narrate attraverso artwork interessanti stilisticamente ma che rischiano di distanziare un po’ il giocatore dal racconto; solo l’ultima cutscene è generata con il motore di gioco, fortunatamente. Non è presente un “new game+”, né multiplayer o altri elementi online, ma Toadman ha precisato che molte feature verranno introdotte in futuro, già a partire dai prossimi mesi.
Per la cronaca, il titolo è stato completando in circa 25 ore di gioco, con qualche portale residuo ancora da aprire e qualche boss opzionale da affrontare.

Tra Chuck Norris e Carla Fracci

Tutto ha inizio nel Nucleo, il nostro hub centrale che somiglia vagamente al Nexus di Demon’s Souls. Da qui potremo interagire con gli NPC, personalizzare il nostro equipaggiamento e livellare. Ma, cosa ancor più importante, potremo teletrasportarci verso i tre mondi che è possibile visitare: Arden, Veridian e Apexion. La parte succosa del titolo è il gameplay, un po’ schizofrenico, capace di passare da buone idee e ottimi spunti a scivoloni grossolani. La caratteristica principale di Immortal è di essere un TPS (Third Person Shooter) abbinato alle classiche meccaniche da souls, comportando un approccio completamente nuovo in entrambi i sensi: in primis, la possibilità di colpire i nemici, ed esser colpiti dalla distanza è alquanto straniante al primo approccio, dovendo schivare i colpi in arrivo a più riprese e al contempo – se possibile – aggirare l’avversario per colpirlo alle spalle o destabilizzarlo, situazione simile a Nioh o probabilmente al futuro Sekiro.
Altra meccanica interessante, ma mitigata rispetto alla versione di prova, è il danno localizzato: possiamo colpire arbitrariamente gli arti, smembrando così i corpi dei nostri poveri nemici. Una volta colpito l’arto dove è impugnata l’arma, si attiveranno anche animazioni uniche dove l’avversario cercherà di colpirci come può. Inoltre, bisognerà fare molta attenzione a risparmiare proiettili in quanto, una volta terminati, saremo in balia dei nemici, che come noi dovranno fermarsi a ricaricare. Fortunatamente, attraverso consumabili – se in nostro possesso – e una volta sbloccati i restanti slot per le armi, questo problema viene molto mitigato.  Il nostro arsenale si compone di diverse tipologie di armi, tutte con caratteristiche proprie: passiamo da carabine a fucili a pompa, per andare da pistole a SMG, fucili di precisione e lanciagranate. Queste armi si suddividono anche per il tipo danno inflitto, cosa che si sposa benissimo con le diverse resistenze dei vari nemici. Sono presenti anche armi corpo a corpo, consistenti in una coppia di lame, asce o martelli utili soprattutto per infliggere il colpo di grazia agli avversari e risparmiare così qualche proiettile. Queste armi purtroppo risaltano il primo dei grossi limiti del titolo: difatti, non possiedono moveset apposito, non vi è possibilità di effettuare combo o di incatenare colpi in maniera bizzarra tra uno sparo e un colpo melee. In fin dei conti è come se non ci fossero, limitando anche la costruzione di specifiche build o anche diversi approcci al combattimento. Le armi bianche, come quelle da fuoco comunque, sono potenziabili attraverso materiali recuperati e i Bit (la valuta del gioco), ma anche smantellabili, recuperando così oggetti per il crafting. Questo sistema, benché semplice, aumenta a dismisura la voglia di sperimentare l’utilizzo di armi diverse, grazie anche a un costo in Bit molto accessibile. A questo, si accostano anche dei perk (simil anelli di Dark Souls), suddivisi tra attacco, difesa e supporto: il loro utilizzo permette di variare leggermente build durante il gioco e, quando la situazione lo richiede, aumentare magari la salute, la stamina oppure la velocità di ricarica delle armi o il recupero di elementi per il crafting. La loro varietà è sicuramente un punto di forza, così come lo è del resto tutta la struttura su cui si poggia il gioco. Però… c’è un però: è possibile configurare tutto questo soltanto una volta attivato e utilizzato un Obelisco (Falò). Questo significa che, una volta trovata un’arma di nostro interesse, potremmo cambiarla soltanto riposandoci, limitando pesantemente il gameplay. Un altro limite è l’assenza di diverse corazze a disposizione, avendone soltanto una che, trovando gli appositi terminali di potenziamento, andrà via via assemblandosi sino al suo completamento; almeno abbiamo la possibilità di personalizzarla, scegliendo il colore e la livrea da applicare, una volta trovati i componenti necessari. Ma qui finora non abbiamo nemmeno scalfito la schizofrenia dei ragazzi di Toadman.

Pad alla mano le sensazioni sono abbastanza positive, con un impostazione simil-Bloodborne abbastanza intuitiva: nessun tipo di parata o di parry, tutto è riservato alle schivate che possono essere migliorate nei frame delle animazioni attraverso il level-up. Inutile dire quanto siano fondamentali. Il tutto, in generale, funziona: sfruttare l’intelligenza artificiale per dividere i nemici e poi colpirli singolarmente può essere una buona soluzione, anche se non sempre praticabile, vista la presenza di avversari capaci di teletrasportarsi che diventano un vero incubo. I nemici che affronteremo sono discretamente vari e suddivisi per tipologia. Il loro limite di aggro è variabile, per cui potrebbe capitare di essere seguiti fino alla fine dei tempi.
Ma il problema principale è l’equilibrio di gioco, il più grande peccato di Immortal, che consta di situazioni al di fuori delle comprensione umana ma anche di sezioni ben strutturate (Apexion su tutte) capaci di far venire il dubbio se un simile sviluppo sia stato portato avanti dalle stesse persone. Capiterà infatti di assistere a veri errori da principianti, come il posizionamento di Obelischi nel ben mezzo di un’orda di avversari che comporta lo spreco di risorse preziose mettendo semplicemente piede fuori da una zona che, da prassi, dovrebbe essere invece sicura. Questi errori si verificano anche nel level design, costruito ad hoc per far provare il brivido della scomunica a qualunque giocatore, creando una difficoltà accessoria dove magari vi sono già dei problemi da gestire. Eppure, anche qui, il level design riesce a volte a sorprendere, con ambienti molto grandi e ben collegati tra loro, ricordando – con la giusta cautela – i fasti di From Software. Anche il ritmo soffre dei medesimi problemi, con sezioni al cardiopalmo una dietro l’altra e momenti di vuoto assoluto, soprattutto verso il finale.
Ma veniamo alle boss fight, tutte abbastanza differenti fra loro, ma che in qualche modo non riescono a risultare memorabili. Se a volte il loro approccio deve essere “studiato”, facendo attenzione ai movimenti e ai tipi d’attacco, altre volte risultano un po’ troppo semplici, in quanto basta appostarsi alle spalle del nemico per finirlo senza alcuna difficoltà. Alcune di esse sono configurate come opzionali, oppure “segrete” sbloccando alcuni portali (tipo Stargate), in grado di trasferirci da un pianeta all’altro. Tutti questi problemi sono figli probabilmente della poca esperienza del team, ma forse anche frutto di una cattiva interpretazione dell’opera di Miyazaki in certi frangenti. C’è da dire però – per correttezza – che alcuni di questi problemi, anche se in misura molto più limitata, esistono anche nei capolavori di genere. Si sbaglia solo con le dosi, quindi.

Disincanto

Nel nostro vagabondare tra i pianeti, purtroppo, raramente troveremo scorci mozzafiato. Forse questo è uno dei limiti più grandi di Immortal: Unchained: sa fin troppo di già visto, tra il design delle costruzioni e persino dei nemici che, in qualche modo, richiamano personaggi di altri brand. Nonostante questa mancanza di idee e un certo piattume generale, ogni tanto il titolo sembra destarsi, regalando momenti di grande impatto visivo e in qualche modo memorabili, ma avviene così di rado che quasi a un occhio meno attento potrebbe sfuggire. Se il comparto artistico dunque non fa gridare al miracolo, figuriamoci quello tecnico in senso stretto, povero di dettagli e con qualche problema di troppo tra glitch, bug, qualche piccolo errore nelle collisioni, nei geo data, pop-up delle texture e nell’intelligenza artificiale. Quest’ultima, a dire il vero, riesce a sorprendere in molti frangenti, accerchiandoci o stanandoci con granate. Insomma, è un titolo che ha sicuramente bisogno di un’ulteriore rifinitura, con molti problemi risolvibili tramite semplici patch riparatorie.
Sul fronte audio, il titolo può vantare un buon doppiaggio inglese, espressivo al punto giusto e capace di caratterizzare adeguatamente gli NPC. Anche le musiche che accompagnano quasi sempre l’azione sono abbastanza azzeccate, dal tono epico ma soprattutto risultano funzionali. Effetti sonori nella media anche se alcuni in certi frangenti, sembrano quasi una tortura.

In conclusione

Una volta concluso Immortal: Unchained sarete chiamati a un’importante decisione: ricominciare, riscoprendo piccoli risvolti di trama a vostro rischio e pericolo o attendere l’uscita di alcune patch, permettendo un NG+ più equilibrato e tecnicamente più curato? Qualunque sia l’esito, la prima fatica di Toadman Interactive, seppur con tanti difetti, risulta un titolo interessante che, con piccoli accorgimenti, può diventare un ottimo spunto per un eventuale sequel. Sa essere molto cattivo, ma volete mettere la soddisfazione di superare tutte le avversità del fato digitale?

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




Ikaruga: la potenza proveniente da due energie

Boom! Kaboom! Spepepepeum! Quanto è bello provocare il caos a bordo di una navicella spaziale che svolazza a tutta birra nel cielo! Il genere shoot ‘em up è un vero e proprio pilastro del gaming moderno, basti pensare a titoli come Space Invaders, Galaga, Xevious, Gradius o R-Type per capire il peso di questa categoria nella storia del gaming. Col tempo, nonostante le uscite continue di ottimi shooter come Thunder Force V, Einhänder o Darius Gaiden, il genere è stato messo in disparte per giochi meno arcade e più focalizzati sulle storyline, ma oggi, grazie ai diversi Shmup indipendenti su Steam e Nintendo Switch, si sta assistendo a un vero e proprio revival di questo genere. Insieme ai nuovi titoli, come Super Hydorah, Crimzon Clover WORLD IGNITION e i bullet hell di Cave, ci sono da tenere in considerazione tutti i classici riscoperti in questo periodo, primi fra tutti gli shooter di Treasure, considerati dagli appassionati i più raffinati del genere. Oggi su Dusty Rooms, per il suo 26esimo anniversario dalla sua importante uscita su Sega Dreamcast, vi parleremo di Ikaruga, uno shooter unico nel suo genere, considerato un must per coloro che vogliono esplorare questo genere videoludico e della sua importanza nella scena videoludica generale.

Radici e meccaniche

In pochi sanno che Ikaruga è in realtà un sequel spirituale di Radiant Silvergun, altro fantastico shooter di Treasure uscito prima per arcade e poi per Sega Saturn (ove diventò un cult classic fra i suoi collezionisti). Il suo titolo in fase di progettazione era proprio Radiant Silvergun 2 ma, con l’evolversi dello sviluppo, il gioco assunse sembianze quasi totalmente diverse nonostante mantenne alcune delle sue caratteristiche chiave: il mantenuto design generale, un rimando alla storia del suo prequel spirituale (che vedrete alla fine del gioco), l’assenza totale di power up e il suo sistema di combo basato sul distruggere i nemici di uno stesso colore. Quest’ultimo elemento fu la base per costruire l’intero sistema delle polarità di Ikaruga (ispirato in parte dal platform di Treasure, Silhouette Mirage), caratteristica che lo fa spiccare all’interno del suo genere: a differenza di un qualsiasi Shmup, in cui un qualsiasi proiettile o laser è da evitare, qui ci è concesso assorbire i proiettili del colore della nostra nave, che possiamo cambiare con un tasto. I proiettili possono essere bianchi o neri e, quando li assorbiremo, la loro energia si immagazzinerà in una barra di energia (indipendentemente dal colore); quando vogliamo, possibilmente con la barra caricata al massimo, possiamo liberare questa energia per abbattere più nemici possibili con un colpo solo. Il titolo offre al giocatore due strategie per approcciare il suo unico gameplay: si può far fuoco ai nemici di polarità inversa per arrecare più danno, e dunque liberare le schermate più velocemente possibile, oppure possiamo far fuoco ai nemici della nostra stessa polarità per poi far sì che le navi, esplodendo, rilascino dei proiettili del loro colore per poi assorbirli e immagazzinarli nella nostra barra (e questo è il metodo preferito dai giocatori più ambiziosi). Capito tutto questo possiamo gettarci nella mischia e provare ad arrivare a fine gioco con… meno gettoni possibili!
La storia si cela fra il manuale e qualche frase durante il gameplay, esattamente superata la fase di dogfight iniziale (un termine per gli appassionati del genere che sta a indicare una sorta di pre-stage). Un tale Tenro Horai, dell’impero degli Horai, scopre un potere magico vicino a quello degli dei; consegnatolo alle genti della sua nazione, questi cominciano a razziare il mondo con quest’arma micidiale. Un gruppo di ribelli, noti come i Tenkaku, si oppongono all’impero cadendo però in rovina; un loro pilota chiamato Shinra, dopo aver provato, un’ultima offensiva solo contro l’impero viene purtroppo abbattuto e si schianta sull’isola di Ikaruga. Il luogo rimane fuori dal radar dell’Impero e la gente che l’abitava viene esiliati dall’impero Horai. Shinra spiega così agli isolani che, pur essendo rimasto solo, era determinato a distruggere l’Impero e così gli abitanti dell’isola, credendo all’ardore delle sue parole (che probabilmente sono quelle che appaiono prima di partire per il primo stage, ovvero «I will not die until I achieve something. Even though the ideal is high, I never give in. Therefore, I never die with regrets»), gli mostrano la navicella in grado di sfruttare le debolezze delle armi dell’Impero, la Ikaruga (lo so, non avevano molta fantasia); Shinra parte così con la sua nuova arma, intento a ristabilire la pace una volta e per tutte. Se gli stage di questo gioco ci sembreranno troppo difficili da affrontare in solitaria, è possibile fare entrare un secondo giocatore che potrà pilotare un altro mezzo volante, simile all’Ikaruga, guidato da una pilota donna di nome Kagari.

Agire o non agire?

Per prima cosa, Ikaruga è uno dei giochi più importanti mai usciti per Sega Dreamcast: arrivato originariamente per arcade, il titolo di Treasure arrivò sulla  console il 5 Settembre del 2002, anno in cui la sua produzione era già stata fermata. È vero che dopo Ikaruga molti altri titoli su licenza Sega arrivarono su Dreamcast in Giappone, fino al 2007, anno dell’uscita del suo ultimo gioco Karous, ma questo evento fu molto importante e segnante; nonostante le scarse vendite della console Sega e la sua annunciata interruzione di produzione, Ikaruga ricordò al mondo che Dreamcast aveva ancora molto da dire, e non con semplici giochini homebrew ma con capolavori degni di PlayStation 2 e Xbox che, nel frattempo, l’avevano eclissata. Il titolo di Treasure, seppur prodotto in copie molto limitate per quei pochi utenti che non abbandonarono il sistema, iniettò nuova vita al Dreamcast e poco dopo si assistette all’uscita di altri titoli come Border Down, Chaos Field e Under Defeat che, come Ikaruga, erano stati programmati originariamente per il sistema arcade Sega NAOMI e che potevano trovare ancora il miglior riscontro casalingo sull’ormai defunta console. Il suo art-style, la sua particolarissima grafica, i suoi strani messaggi e la sua fantastica musica erano solamente esche per attrarre il giocatore e, una volta lì, si veniva assorbiti da Ikaruga come un proiettile di polarità uguale sul gioco.
I prezzi per la versione Dreamcast e quella Nintendo Gamecube, che permise il suo primo rilascio internazionale, sono oggi abbastanza alti e, a meno che non si ami particolarmente il gioco, è meglio starne alla larga. Tuttavia, a oggi, ci sono diversi metodi per godersi Ikaruga senza spendere un capitale: tutte le versioni digitali, ovvero Steam, Nintendo Switch, PlayStation 4 e persino Xbox 360, offrono una splendida grafica HD, dashboard online con i migliori punteggi e la possibilità di giocare con lo schermo in verticale, il vero modo per godersi questo shooter. Anche se è un titolo non adatto ai principianti, Ikaruga è una vera e propria pietra miliare del gaming moderno e degli shooter in generale, un titolo dalle semplici meccaniche in grado di mettere in difficoltà anche il più abile dei giocatori.




Questo cross-play non s’ha da fare

«Questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai», era la minaccia proferita dai Bravi manzoniani al Don Abbondio de I Promessi Sposi. Il mondo videoludico odierno non poteva farsi mancare il suo Don Rodrigo, che oggi veste i panni di una Sony che mette il veto su un altro matrimonio, quello che sarebbe celebrato dal cross-play tra PC e consoleLe ultime dichiarazioni del CEO della compagnia giapponese, Kenichiro Yoshida, le avete lette in molti, e vale ricordarle per rinfrescarsi la memoria:

«Il nostro pensiero sul cross-platform è sempre che Playstation 4 sia il miglior posto in cui giocare. Credo che Fortnite abbia scelto noi perché la nostra console offre la miglior esperienza possibile agli utenti. Abbiamo comunque altri giochi che sfruttano il cross-play con il PC e altri sistemi, e decidiamo in base a quale sistema offre la miglior esperienza per gli utenti: questo è il nostro modo di intendere il cross-platform.»

In sostanza, le parole di Yoshida suonano un po’ come “guardateci: siamo i migliori e non abbiamo bisogno di nessuno”. Dichiarazioni che vanno in netto contrasto, nei fatti, con tutto ciò che succede nel mondo videoludico odierno, e che sanno anche di leggera paraculata. Soprattutto considerando le lamentele di alcuni sviluppatori, come quelle di Todd Howard, direttore e produttore di alcune delle serie più famose di Bethesda, come The Elder Scrolls e Fallout: a proposito dell’imminente Fallout 76, Howard ha dichiarato:

«Fallout 76 non avrà il supporto del cross-play. Ci piacerebbe, ma semplicemente non possiamo. Sony non è così disponibile come le altre»

Dichiarazioni simili a quelle rilasciate da Andrew Wilson, CEO di Electronic Arts a proposito di Battlefield V:

«Stiamo osservando il comportamento di alcuni giochi di successo, riguardo al gioco cross-platform, per esempio, Fortnite: riteniamo che un’interfaccia unica che permette ai giocatori PC di incontrarsi con gli utenti mobile, e quest’ultimi di poter giocare con gli utenti console sia una parte importantissima del nostro sviluppo per il futuro.»

Sono dello stesso avviso anche Microsoft e Nintendo: ha sorpreso in positivo il video pubblicato qualche mese fa, nel quale si vede un utente Xbox One giocare a Minecraft con un utente Switch. A tal proposito riportiamo le parole di Reggie Fils-Aime, COO di Nintendo of America:

«Ci sono compagnie, come la mia, che incoraggiano e permettono il cross-play. Ci sono degli sviluppatori che vogliono e richiedono il cross-play. Poi ci sono le altre compagnie: e quello che fanno riguarda solamente i possessori di quelle piattaforme. Noi non siamo così, ma è una nostra decisione. Noi siamo a favore del cross-play, altri no.»

In sintesi, al momento la situazione è questa: c’è Sony, barricata tra le sue stesse mura e che rilascia dichiarazioni alquanto discutibili, e poi c’è un intero mondo videoludico che spinge verso un cross-play totale tra tutte le piattaforme.
Secondo un ex sviluppatore della casa giapponese, John Smedley, la ragione della testardaggine di Sony a riguardo del cross-play è tutta da legare al fattore economico. Quasi come se negli uffici di Minato temessero un calo di popolarità e di vendite. Eppure, sotto questo punto di vista, non corrono nessun rischio: Xbox One è lontana, mentre Switch, nonostante un ottimo risultato di vendite, raggiungerebbe la base di PlayStation 4 installate solamente nel 2020.

Personalmente, da utente pienamente a favore del cross-play, spero che Sony riveda il prima possibile le sue posizioni. Penso che si sia incaponita su delle posizioni anacronistiche, visto che tutto il mondo verte verso un futuro dove il cross-play e il cloud gaming saranno la normalità. Quanto sarebbe bello vivere il videogioco senza limitazioni di sorta? E senza mura a dividere le diverse utenze tra console e PC? La console war, con tutta la sua puerilità, verrebbe spazzata via e si aprirebbe, finalmente, un mondo dove tutti i sistemi siano interconnessi tra di loro.
Inoltre, a dirla tutta, se in termini numerici oggi Sony può aver ragione, e avvantaggiarsi di un profitto che a oggi si ridurrebbe (anche se in misura probabilmente marginale), c’è la solita miopia nel non vedere questa come un’opportunità: essere i più forti sul mercato significa anche non avvantaggiarsi totalmente della propria posizione dominante in vista di futuri vantaggi. A concedere il cross-play senza limiti, PlayStation oggi ne guadagnerebbe in immagine, ritornando a essere “For the players“, in linea col motto di PlayStation 4.

Mi piace pensare alle parole di Imagine di John Lennon: «Imagine all the people sharing all the world». D’altronde, il videogioco è questo: condividere una passione e dei bei momenti in compagnia. Quindi, cara Sony, spero che un giorno ti unirai a noi in questo splendido girotondo di gamer che desiderano giocare in ogni luogo, in ogni momento e con qualunque piattaforma possiedano.
Del resto, se non sarai tu, sarà il mercato a volerlo. Per cui, scendi già adesso a giocare con noi!




We Happy Few – E La Pillola Va Giù

Come tutti sappiamo, We Happy Few, è un titolo dalla storia travagliata, presentato ormai nel lontano 2015 e arrivato in questi giorni, ben diverso da quanto prospettato. La campagna Kickstarter atta a finanziare il progetto è stata una manna per Compulsion Games ma anche una spada di Damocle, in quanto, dopo vari rinvii, l’uscita del titolo non poteva più esser posticipata. Terminato il lungo periodo di early access, Wellington Wells è pronta per essere esplorata, un’isola avvolta dal mistero ma anche da tanti elementi da rifinire.

Sembra talco, ma non è…

Inghilterra, 1960, ma non quello che pensate: la Seconda Guerra Mondiale è stata vinta dalla Germania e, come in altre ucronie, questo ha portato molti cambiamenti nella società. Ma c’è una città particolare, un luogo isolato, che ha deciso  di dimenticare il passato vivendo in allegria e spensieratezza: Wellington Wells è la vera protagonista del titolo, proprio come Rapture per Bioshock, anche se con le dovute proporzioni. Tra gli abitanti circola una speciale “medicina”, la Joy, capace di regalare subito benessere, rendendo luminosa anche una lugubre giornata; ed ecco quindi che la città pullula di vita, lontana dalle tragedie vissute durante il conflitto, cui nessuno sembra ricordarsene. A dir la verità, questo espediente non è nuovo: si pensa subito al Soma di Brave New World di Aldous Huxley, ma anche a Naruto e al suo Tsukuyomi Infinito o persino a Code Geass: Lelouch of the Rebellion e alla droga Refrain. Come rendere dunque originale un espediente narrativo già abusato in numerose opere? Ci pensa il comparto artistico a mettere una pezza, ma anche la caratterizzazione dei protagonisti con i loro dialoghi a renderci quasi alieni di fronte alle bizzarie che ci troveremo davanti.
Ma – come dicevamo – Wellington Wells è il fulcro, una radiosa prigione in cui la perfezione la fa da padrona, tanto che ogni minimo gesto ritenuto “non conforme” (come correre) verrà immediatamente preso di mira dagli abitanti e dalla polizia, una sorta di Gestapo, pronta a sedare qualunque tipo di ribellione. Basta infatti mancare una sola dose di Joy – come avviene nel prologo – per far cessare la meravigliosa fiaba indotta dalla droga, attanagliando con sensi colpa, rimorsi e traumi che solo una guerra e i suoi postumi è in grado di produrre. We Happy Few è tutto questo, un costante contrasto di emozioni che riesce a colpire nel segno lo spettatore, con dialoghi ben scritti e originali, con una sceneggiatura che riesce a estrapolare tematiche importanti da ogni anfratto della cittadina. Purtroppo, non di solo narrativa si vive.

Perché sei così serio?

We Happy Few nasce come immersive sim con una forte componente survival mitigata in questa versione finale. La fame, la sete e la stanchezza non sono più letali come nella concezione originaria del gioco, divenendo meri malus per la nostra stamina. Gli sviluppatori, probabilmente ascoltando i pareri del pubblico durante l’early access, hanno addolcito alcune componenti che, in qualche modo, risultano però mal amalgamate tra loro. Andare a ricercare varie componenti per il crafting come i buoni Bioshock o Fallout insegnano, è fondamentale: bidoni della spazzatura, cassette della posta, bauli possono diventare delle vere e proprie miniere e, ottenuti i componenti necessari, sarà possibile dilettarsi nella costruzione di vari oggetti che variano tra quelli base e quelli avanzati. Non solo armi e oggetti utili, ma anche il vestiario ha la sua importanza: una caratteristica che non è andata persa è lo stealth, essenziale, ma fino a un certo punto. Indossare il vestito giusto in certi frangenti può fare la differenza, eppure, tutto si perde in un bicchiere d’acqua, naufragando in un’intelligenza artificiale lacunosa sotto molti punti di vista: basterà un piccolo errore per ritrovarsi accerchiati da gente che nemmeno si trovava nelle vicinanze, e si potrà far tornare tutto alla normalità con la stessa facilità, semplicemente svoltando l’angolo, come dopo un’istantanea dose di Joy. Questo difetto fa pendant anche con la morte, che non ha alcuna conseguenza, anzi, a volte sarà più comodo tirare le cuoia piuttosto che proseguire. Tutto ciò rende il titolo poco appagante ed, escludendo l’efficace narrativa, nel complesso il risultato rischia di essere disastroso. Anche il venire alle mani con i nemici del momento non regala alcuna soddisfazione a causa di hit box imprecise, mancanza di feedback reale e animazioni non proprio eleganti. Sembra quasi di colpire il vuoto, sarebbe bastato davvero poco per mettere una pezza a questo problema.
Anche la differenziazione esteriore dei tre protagonisti viene meno: la loro fisicità così diversa non risulta fondamentale e solo aumentando il nostro livello con alcuni upgrade, potremmo sentire lievi differenze.
Gli unici elementi discretamente riusciti sono le sezioni notturne, in cui il coprifuoco è attivo ed esser visti può scatenare un putiferio ma, soprattutto, la meccanica dedicata alla pillola Joy e ai suoi effetti. Ogni compressa ingerita comporta alcuni cambiamenti – anche visivi – dato che potremmo passare inosservati per le vie della città e superare senza problemi i detector per i “Musoni”, coloro che rifiutano le gioie della medicina. Ma assumerne troppa ha delle controindicazioni, come perdita della memoria e crisi d’astinenza più marcate, in grado di far imbestialire la popolazione. È quindi un bene assumerla solo in casi specifici; anche qui, spingere su questa meccanica avrebbe garantito maggiore originalità e spessore a un titolo che vede nell’amalgama degli elementi il principale problema.
Durante le avventure avremo modo di sbloccare piccoli rifugi, degli hub dove poter riposare o spostarsi rapidamente, cosa abbastanza utile quando si ha a che fare con molte quest secondarie aperte ma purtroppo fin troppo simili tra loro.

Chiaroscuro

Anche dal punto di vista tecnico We Happy Few non raggiunge vette d’eccellenza. Nonostante l’utilizzo dell’Unreal Engine 4 il gioco lascia adito a qualche dubbio, a cominciare da alcuni glich e bug di varia natura, come corpi spariti nel nulla o l’eccessivo pop-up delle texture. Oltre a questo, fa quasi impressione l’eccessivo riutilizzo degli asset sia per gli ambienti che per la popolazione, consistente in circa cinque-sei modelli, ripetuti all’infinito. Tutto crea anche problemi alla navigazione in quanto perdersi per le vie della cittadina sarà all’ordine del giorno. Nonostante un ciclo meteo e giorno-notte il titolo non riesce proprio a spiccare, se non per alcune trovate artistiche come il passaggio dalla triste realtà al lucente bagliore della vita dovuto all’assunzione della pillola Joy e allo stile in cel-shading che, in qualche modo, regala a We Happy Few una sua identità. Inoltre, il titolo sarà uno dei pochi a poter sfruttare la nuova tecnologia per il ray tracing e il nuovo anti-aliasing DLSS, disponibili non appena le nuove Nvidia serie 2000 muoveranno i loro primi passi sul mercato.
Fortunatamente la componente audio riesce a salvare quanto rimane, contando su un ottimo doppiaggio inglese, con uno slang appositamente elaborato. Tutto risulta a volte caricaturale ma efficace, in grado di far risaltare i momenti bui come quelli goliardici.  Purtroppo la traduzione non sembra essere andata a buon fine, con sottotitoli a volte incompleti e soprattutto invasivi, mostrando dialoghi non direttamente interessati a noi, anche nel bel mezzo di un’altra conversazione. Il risultato è una caotica bulimia di frasi su schermo che rendono il tutto di difficile comprensione.

In conclusione

We Happy Few paga il suo contorto sviluppo e l’improvviso cambio di direzione che ne hanno mozzato, a ogni livello, il gameplay. L’ossatura buona del titolo resta nella componente narrativa e nel doppiaggio, in grado di restituire una storia forse non originale ma capace di emozionare, esplorando le mille sfaccettature della società umana. Dipende dunque da quanto peso decidiate di dare alla trama e al suo evolversi rispetto al resto: valutando gli elementi nel loro insieme, si arriva giusto alla sufficienza. È dunque una grossa occasione sprecata ma un buon punto di svolta per Compulsion Games, che dopo questa esperienza potrà ripensare ai propri errori e portare in futuro qualcosa di più completo e meglio curato in tutti i suoi aspetti.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




Red Faction: Guerrilla Re-Mars-tered Edition – Comunisti su Marte

Sin dal 2001, la serie Red Faction non si è mai distinta particolarmente nel panorama videoludico, non solo a livello qualitativo ma soprattutto di vendite. Per ben quattro capitoli, i lavoratori di Marte hanno lottato per i propri diritti, portando in salsa fantascientifica la Rivoluzione d’Ottobre al suo compimento ultimo, anche se probabilmente Karl Marx, avrebbe sperato in esiti meno roboanti. Ha quindi incuriosito questa remastered, non dei primi capitoli ma del terzo, quel Red Faction: Guerrilla (2009) che nonostante qualche buona idea non riuscì a far breccia tra i videogiocatori. Che THQ Nordic stia tastando il terreno per un eventuale nuovo capitolo? Non c’è dato saperlo, ma il suo arrivo potrebbe segnare la svolta.

Zone of the Enders

Marte. Questo pianeta probabilmente è il nostro prossimo passo, ma già qualche scrittore si è portato avanti col lavoro, immaginando la nuova colonia umana come fonte di futuri problemi. L’indipendenza di Marte dalla Terra è stata trattata in così tante salse che non basterebbe questa recensione per elencarle tutte, eppure in questa terza versione di Red Faction possiamo trovare delle particolarità: nel 2075 parte la colonizzazione del Pianeta Rosso grazie alla Ultor Corporation che, vedendo le risorse della Terra pian piano sparire, decide di sfruttare fino al midollo la nuova colonia. Dopo un processo di terraformazione, migliaia di coloni si trasferiscono, pentendosene ben presto. I lavoratori infatti, vengono sfruttati così tanto da richiedere l’intervento dell’EDF (Earth Defense Federation) per ripristinare l’ordine. I salvatori diventano così però i nuovi tiranni, e per i lavoratori di Marte l’unica speranza risiede in Alec Mason.
Questo è l’incipit di Guerrilla, la cui narrazione è affidata a cutscene (semplicemente “ripulite”) e molti dialoghi, alcuni di questi interessanti e presenti solo in incarichi secondari. Purtroppo sia la scrittura che la caratterizzazione dei protagonisti non eccelle, non si ha mai la sensazione di fare qualcosa d’importante, nonostante si operi per cambiare le sorti di un intero pianeta. Ma la particolarità – dicevamo – risiede nella simbologia, che sta tutta appunto nella riproposizione di quanto avvenuto il secolo scorso in Russia, quanto nei simboli, addirittura con le musiche di sottofondo, come vedremo in seguito. Questa è la vera nota dolente, perché sarebbe bastato davvero poco a rendere il tutto un po’ più intrigante e memorabile. A questa campagna se ne aggiunge una “mini”, un prequel che racconta la storia dei Marauder, popolo che ha deciso di rendersi indipendente dalla comunità marziana e che risulta interessante solo per il diverso equipaggiamento a disposizione.
A completare l’offerta interviene la massiccia dose di multiplayer, con sette modalità diverse e tutte all’insegna della distruzione. A dir la verità trovare una partita a disposizione non è facile, forse a dimostrazione del fatto che le vendite non stiano andando poi così bene.

Wolverine!

L’ambiente di gioco, suddiviso in sei settori, è teatro delle nostre battaglie e distruzioni. Tutto il gameplay fa perno sull’essere “caciaroni” e il passaggio alla terza persona (avvenuto appunto con Guerrilla) non fa altro che esaltare il tutto. Diversi sono gli incarichi che, una volta completati e raggiunto l’azzeramento delle forze EDF, permetteranno di conquistare l’intera zona e liberare quindi il popolo marziano dalla tirannia. Questo è in sostanza il da farsi, suddiviso tra incarichi primari e secondari abbastanza vari per natura ma tutti tendenti alla ripetitività: ogni settore, infatti, verrà liberato con quasi le stesse modalità e, salvo la parte finale, in cui accade qualcosa di realmente nuovo, tutto è all’insegna della “imperfezione di Matrix” (déja vù). Un minimo di varietà è regalato solo dagli incarichi principali, anche se inficiati da una cattiva e imprecisa gestione dei checkpoint che, a volte, vi costringerà a rifare un’intera missione da zero nonostante cambino alcune modalità d’azione. Gli incarichi secondari invece si suddividono in una manciata di missioni che vanno dalla guerriglia per conquistare determinati avamposti alla distruzione caotica senza fare domande. Capiterà inoltre di trovarci di fronte a incarichi random come la difesa dei rifugi o catturare dei traditori. Insomma, siamo di fronte a un titolo che propone tante ore di gioco ma anche divertimento se approcciato col giusto spirito. Ovviamente non poteva mancare il gunplay, arricchito da numerose bocche da fuoco e diversificate per natura e potenza. Rimanere a corto di munizioni non è difficile, per cui sarà importante raccogliere armi e proiettili dai nemici sconfitti. L’intelligenza artificiale è su livelli standard e fa specie pensare che dal 2009 sia cambiato poco su questo fronte: i nemici cercheranno di aggirarvi per mettervi in difficoltà mentre, i vostri compagni, non saranno che carne da macello. Mal che vada c’è sempre il nostro martello ad accompagnarci: come dei novelli Thor, potremmo colpire con brutalità i nostri avversari ma soprattutto distruggere interi edifici. La distruzione è dunque un punto cardine e può avvenire in diversi modi, sfruttando appunto il martello ma anche esplosivi, disgregatori e, perché no, auto.
Red Faction: Guerrilla è anche un open world e spostarsi da un luogo all’altro può divenire tedioso senza un mezzo a disposizione, tutti con un modello di guida basilare ma abbastanza diversificato. È possibile prendere possesso anche di mezzi EDF come enormi carri armati o Exo-Suit militari o da lavoro. Questi mezzi regalano forse i momenti migliori, scatenando un putiferio GTA-style in grado di regalare grosse soddisfazioni.
Per essere un titolo del 2009 dunque riesce a intrattenere, ma dal punto di vista strettamente ludico sente il peso degli anni, un po’ come nel comparto tecnico.

Rosso ruggine

Questa remastered ha apportato diversi miglioramenti ma, nonostante ciò, gli anni passati dall’uscita del titolo originale si sentono, eccome. Il gioco adesso supporta il 4K ma già a 1080p si notano tutti gli upgrade, a cominciare da un framerate molto stabile con texture più definite e un aumento dei poligoni su diversi elementi. Se a un primo colpo d’occhio le differenze posso risultare minori, basta guardare i dettagli per capire come l’impianto luci sia stato potenziato, restituendo ambienti più credibili e ombre più realistiche in tutte le condizioni, essendo presente anche un ciclo giorno-notte. È un peccato che dal punto di vista artistico non si sia fatto di più: nonostante la maggiore distanza dal Sole e due piccole lune (Phobos e Deimos), Marte sembra fin troppo simile alla Terra, ma rossa. Stessa questione si può aprire per la gravità (0,4 rispetto quella terrestre), elemento non considerato e forse troppo complesso da replicare. Va bene la terraformazione, ma la massa del pianeta rimane comunque invariata…
Tutto è comunque incorniciato da filtri migliori e soprattutto da un’occlusione ambientale più precisa che cambia visibilmente la visione degli interni. Ma la particolarità tecnica di Guerrilla risiede nel suo motore fisico, innovativo e capace di restituire ottimi feedback. Il GeoMod 2.0 garantisce la massima distruttibilità ambientale, non solo dei vari edifici ma anche di vetture, piccole strutture e oggetti.
Come si comprende, dunque, si tratta di una “rimasterizzazione”, e quindi di un miglioramento di tutti gli aspetti tecnici del titolo. Fa specie dunque poter osservare alcuni glitch e bug dovuti essenzialmente alla fisica ma anche all’intelligenza artificiale, per non parlare dell’eccessivo pop-up degli elementi in lontananza. Sono difetti che in questo processo pesano molto di più.
Concludiamo con il comparto sonoro, abbastanza nella media e purtroppo non implementato in questa versione. Il doppiaggio, completamente in italiano tranne l’episodio sui Marauder, risulta di buon livello, anche se si nota un certo riciclo di voci dei vari NPC. Le musiche invece spaziano dall’anonimo all’interessante, e in questo range c’è spazio anche per alcune chicche precedentemente accennate come temi epici che richiamano la grande Rivoluzione d’Ottobre, ma purtroppo l’audio rimane un aspetto poco sfruttato. Come detto, il paragone con la Rivoluzione Russa poteva elevare questo titolo rispetto alla mediocrità generale ma forse questo va rinviato a un futuro capitolo.

In conclusione

Riprendere dopo quasi dieci anni Red Faction: Guerrilla nella sua versione rimasterizzata è stata una buona occasione per accorgerci di quanto sia cambiato il mondo videoludico, non solo nell’aspetto tecnico ma anche nella gestione di alcune meccaniche o incarichi secondari e non. Nonostante questo però, Guerrilla rimane un titolo interessante per chi ama passare le ore a distruggere qualunque cosa venga in mente in attesa, forse, di un futuro capitolo alla quale THQ starà probabilmente pensando.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




Gamescom 2018: Biomutant si mostra in una demo

Biomutant, un particolare action/RPG multipiattaforma, è stato mostrato con un primo gameplay nella versione dimostrativa. Di proprietà di THQ Nordic e sviluppato da Experiment 101, Biomutant ci catapulterà in un mondo distopico, in chiave post-apocalittica, popolato da bizarre creature, una delle quali, sarà proprio il nostro personaggio. Il gioco offre uno stupendo motore di editing del nostro alter ego che sarà in grado di offrire una vastissima quantità di personalizzazioni, grazie ai parametri per poterne variare la genetica a piacimento.

In questo universo immaginario di gioco, ci ritroveremo molto spesso a combattere contro numerosi nemici e il fighting system mostrato in demo sembra molto scorrevole e vario.

La data precisa dell’ uscita del gioco è ancora un’incognita, ma salvo ulteriori ritardi, dovrebbe attestarsi intorno l’estate 2019.




Ni, oh!

L’estate è quel periodo normalmente associato a ferie, relax, gioia di vivere e divertimento. Non è il mio caso. Questa estate – come ogni altra del resto –, visto il maggior tempo libero, è dedicata al recupero di alcuni titoli che non si ha avuto modo di giocare e uno di questi è senza dubbio Nioh, RPG del Team Ninja che ha riscosso un buon successo e che avrà un sequel, da poco annunciato all’E3 di giugno. Dopo essere stata per un certo periodo un’esclusiva PlayStation 4, Nioh è arrivato su PC, sotto l’insegna, un po’ particolare, di souls-like, anche se grande è stato il disappunto nello scoprire che souls-like non è.
Il genere sdoganato da Hidetaka Miyazaki e dal suo Dark Souls, ha visto numerosi tentativi di emulazione in salse più o meno simili, anche se con risultati altalenanti: basti pensare a Lords of the Fallen o, perché no, quel Code Vein che riesce a essere promettente e scoraggiante contemporaneamente, e forse per questo nuovamente posticipato. In attesa del futuro lavoro di From Software, Sekiro, Nioh è il giusto ponte di collegamento e, come tanti, anch’io sono stato rapito dalle atmosfere e dagli elementi così vicini alla cultura giapponese, della quale sono un estimatore. Per chi sia abituato ai souls, approcciarsi al lavoro Team Ninja è alquanto singolare: sembra tutto così complicato, con pose diverse da assumere e relativi effetti, mille oggetti e tante cose a cui fare attenzione (mal spiegate); eppure, in qualche modo, il titolo completa e approfondisce il concept di Miyazaki. Ma non per questo può parlarsi di souls-like.
Partiamo dalla narrazione: diretta, senza fronzoli e con un protagonista fisso, quel William che sembra un incrocio tra Chris Hemsworth e un qualunque modello di intimo farloccamente perfetto ma, in ogni caso, sempre meglio dei costrutti medi derivanti dai vari editor From Software: perché il tempo libero estivo spesso non basta neanche a quello, non importa quante ore impiegheremo a realizzare il nostro alter ego, avrà comunque la stessa espressione di un bimbo di cinque anni durante il primo assaggio di un limone. Giocare Nioh fa anche sorgere una domanda spontanea: dove sta la difficoltà nel realizzare delle animazioni facciali? Miyazaki, prendi nota.
Eppure Nioh non è un souls like, e il gameplay trasmette immediatamente questo messaggio. Hey, hai finalmente quell’armatura potente, con bonus perfetti per te e, perché no, anche bella esteticamente? Shottato. Ma guarda quanti Amrita, potrei salire di livello per essere più resistente… shottato! Ah, ma forse… shottato!

Ovviamente si tratta di un’estremizzazione ma proprio per questo Nioh risulta tanto bello quanto frustrante, un gioco in cui il senso di progressione, capace di regalare enorme appagamento, viene messo da parte in favore di una difficoltà costruita ad hoc solo per «essere più difficile di Dark Souls». Ma qui casca l’asino: Dark Souls non è veramente difficile; certo, non consente un approccio agevole e, a volte, sa essere abbastanza punitivo. Eppure è chiaro, limpido e ogni cosa è costruita avendo dall’altro lato il suo perfetto contrario. Dark Souls è apprendimento, duro e puro: credevate che l’estate significhi la fine della scuola e quindi una pausa a ogni forma di studio? Se giocatori dei titoli From Software, scordatevelo. Eppure basta “studiare” quel che serve per essere sempre all’altezza della situazione ma soprattutto, il vostro equipaggiamento e level-up, servono effettivamente a qualcosa. Non troverete mai un nemico base in grado di scalfirvi, una volta progrediti; noi siamo i futuri Lord of Cinder, i soldati semplici li mangiamo a colazione.
Nioh non è un souls like perché è punitivo per motivi sbagliati, essendo essenzialmente una lunga e perenne sfida contro il Drago Antico di Dark Souls II. Se da un lato la sfida, spinge a migliorare, dall’altro, diviene frustrante, in virtù del fatto che i vostri progressi, valgono quasi zero. Cos’è dunque Nioh? Un trial & error, senza se e senza ma. È un male? Assolutamente no.
Sin dall’alba dei tempi, l’essere umano cerca di imparare dai propri errori, in quel trial & error che è la vita reale che col passare dei secoli ci ha portati dove siamo. Per esempio, dopo un agosto passato ustionati dalla nostra stella, l’estate successiva ci penserete due volte prima a non spalmare una crema solare. Trial & Error appunto. In un videogioco – un’avventura compressa in una manciata di ore – anche la frustrazione derivante dagli sbagli (o dalla sfortuna) si condensa, arrivando alla tanto e bella imprecazione tanta cara ai “soulsiani”. Ma ci si fa forza e, mentre vi scrivo, mi avvio all’ultima parte del titolo che, potrebbe non sembrare, ma mi sta piacendo moltissimo.
Nonostante tutto infatti, la struttura del gioco è azzeccata, con missioni secondarie più o meno interessanti e alcune trovate da RPG vecchio stile, capace di farvi prendere appunti su un foglio di carta (o almeno, io faccio così).
Per cui, anche io attenderò con ansia Nioh 2, sperando che tutto trovi un senso compiuto e che, soprattutto, non debba giocarlo in estate. Perché in estate, ci rilassa, possibilmente senza rischiare la scomunica.




Moonlighter

Da giocatori, o più precisamente da avventurieri, siamo stati in una marea di negozi, fra venditori più o meno tirchi per comprare o vendere oggetti. Ma vi siete mai chiesti cosa si prova a stare al posto del venditore? Come fa questi ad avere tanti begli oggettini da vendere? Per la prima volta potremo scoprirlo in Moonlighter, il piccolo miracolo indie della Digital Sun Games pubblicato da 11 Bit che incorpora parti action à la The Legend of Zelda, e dungeon per raccogliere tesori, e parti da business simulator in cui dovremmo vendere, in base alla domanda e al valore, tutto ciò che abbiamo saccheggiato (o parte di esso) e gestire il nostro negozio e il piccolo villaggio dove risiede il nostro Will. Il titolo è disponibile per Playstation 4, Xbox One e PC, e quest’ultima è la versione che prenderemo in considerazione.

Sogno di un commesso viaggiatore

Una notte, vicino al villaggio di Rynoka, appaiono dal nulla delle porte che conducono a dei dungeon, delle cripte in continuo mutamento piene di tesori preziosi; si formano così due squadre di esploratori contrastanti, i mercanti e gli eroi. Di questi non molti fanno ritorno e, con l’aumentare delle vittime, gli abitanti del villaggio decidono di chiuderne tutte le entrate. Senza tesori da vendere, Will, proprietario del negozio Moonlighter, vive giorni molto bui, ma un giorno, armato del suo coraggio e la sua voglia di seguire le orme del suo avventuroso padre Pete, decide di andare di entrare in un dungeon per cambiare la sorte della sua attività ed essere sia un eroe che mercante. Il gioco si alterna in sezioni diurne, nelle quali potremo aprire il negozio al pubblico e guadagnare più soldi possibili, e notturne, che sfrutteremo principalmente per andare a saccheggiare i dungeon. La loro forma richiama immediatamente quella del primo The Legend of Zelda (stanze rettangolari con quattro porte) ma la particolarità di queste cripte, così come accennato nella storia, è che a ogni nostro ingresso troveremo una struttura diversa; i dungeon si comporranno su tre livelli e, più scenderemo nel profondo, più rari saranno i tesori che troveremo (ma anche più resistenti e forti i nemici). Non troveremo mai porte da aprire con delle chiavi: è possibile infatti fiondarci direttamente all’ingresso delle sezioni successive, ma il tempo che dedicheremo all’esplorazione verrà ripagato col ritrovamento di ceste che conterranno dei tesori molto preziosi oppure oggetti che potremo usare per costruire armi, armature, migliorie per quest’ultime o creare delle pozioni. Il nostro inventario è composto da 20 blocchi (disposti a 5×4) ma il disporre i tesori all’interno di esso non è molto facile in quanto tutti gli oggetti che raccoglieremo dalle casse (che saranno sempre quelli che valgono di più o i più utili nel crafting) avranno delle maledizioni o degli incantesimi particolari: alcuni dovranno essere messi obbligatoriamente sul fondo o sulla cima della nostra borsa, altri distruggeranno un oggetto vicino quando usciremo dal dungeon oppure non appena gli troveremo una collocazione nella borsa, altri si romperanno se prenderemo troppi colpi e altri ancora rimarranno oscurati fino alla nostra uscita; a ogni modo, sempre dalle casse, avremo modo di raccogliere dei tesori intrisi da incantesimi che possono distruggere le maledizioni sopracitate (e dunque poter raggruppare un determinato numero dello stesso tesoro in un solo blocco), mandare i nostri ritrovamenti più preziosi direttamente al Moonlighter liberando la nostra borsa oppure addirittura trasformare un tesoro vicino in uno più prezioso. Se proprio non abbiamo più spazio per portare altri tesori possiamo “sacrificare” i tesori allo specchio magico che trasformerà istantaneamente i tesori in denaro; una meccanica semplice e intelligente purtroppo rovinata dall’assenza di un tasto “seleziona tutto”, che si traduce nel dover portare ogni singolo oggetto (o gruppo di oggetti) dallo slot dell’inventario, o cassa, allo slot dello specchio che si trova in basso a sinistra… per ogni singolo tesoro! La gestione dell’inventario, insieme all’azione vera e propria, è decisamente l’elemento più importante e bisogna sin da subito capire il meccanismo delle maledizioni e incantesimi per poter fare uscire dai dungeon più tesori possibili al fine di migliorare il nostro equipaggiamento sin da subito senza perdere troppo tempo; a tal proposito, non ci sono molti tutorial e, per quanto l’inglese utilizzato nel gioco non sia eccessivamente astruso, bisognerà comprendere il prima possibile questi meccanismi per non finire nel logorio di un grinding che potrebbe rivelarsi lungo, talvolta erculeo, in quanto i prezzi del fabbro che crea le armi e la strega che prepara le pozioni sono veramente tarati per un margine d’errore vicino allo zero!
Per questa ragione – dover guadagnare denaro di continuo per ottenere le migliorie necessarie – ci toccherà andare in uno stesso dungeon più volte, con il risultato di un gameplay ripetitivo, ma ciononostante piacevole, in un certo senso molto simile alla meccanica dei 3 giorni proposta in The Legend of Zelda: Majora’s Mask; capiterà spesso che, per esempio, arrivati alla terza sezione non saremo abbastanza forti o non avremo un armatura decente e perciò potremo uscire in qualunque momento offrendo dei soldi al talismano o al catalizzatore (catalyst) che, a differenza del primo, potrà farci tornare nella stessa stanza del dungeon dalla quale siamo usciti (e dunque senza doverlo ripercorrere dalla prima sezione). Gli altri due modi per uscire dai i livelli sono i più classici, ovvero uccidere il boss di fine livello, che ci farà avere accesso ai tesori più preziosi della cripta, oppure l’essere sconfitto in qualunque parte del dungeon, che comporterà la perdita di tutti gli oggetti nella borsa a eccezione dei primi cinque blocchi in alto che rappresentano le nostre tasche (è meglio dunque mettere in queste posizioni gli oggetti più importanti). Per non morire dovremo capire sin da subito che tipo di approccio vogliamo utilizzare: Will potrà portare due delle cinque armi proposte nel gioco, ovvero spada e scudo, lancia, spadone, artigli e arco e frecce, e a ciò consegue che il giocatore potrà scegliere tra stili di gioco diversi. Abbiamo un temperamento audace? Preferiamo sferrare pochi attacchi ma potenti? Contempliamo per lo più attacchi ravvicinati? L’arma di base sarà la spada e lo scudo ma ben presto, come scenderemo nel Golem Dungeon, avremo modo di prendere i primi materiali per poter costruire le restanti armi e capire velocemente quale stile di combattimento ci si addice di più, anche perché Moonlighter non è affatto un gioco facile; fino a quando, procedendo nel gioco e finendo nei dungeon successivi, non avremo un’armatura completa (e possibilmente omogenea visto che possiamo comporre delle armature di stoffa, acciaio o ferro) i nemici ci faranno sempre il cappotto e perciò avere una buona armatura fin da subito è fondamentale. Controllare Will è molto semplice: si muove e attacca esattamente come farebbe Link in titoli come A Link To The Past anche se l’esperienza è rovinata da una sorta di legnosità generale (persino all’interno dei menù); i comandi rispondono bene, ma alternare attacco e difesa risulta un po’ astruso, specialmente se si usano armi diverse dalla spada e lo scudo, che si richiama col tasto B se si usa un controller per Xbox. Con le altre armi, al posto di difenderci con lo scudo, è possibile sferrare degli attacchi speciali (caricati) e dunque mettere al tappeto i nemici in tempi più brevi; l’unica vera maniera per difenderci con le armi diverse dalla spada è il tasto RB che, in perfetto stile Link, farà allontanare Will con una capriola (che funzionerà ugualmente andando contro il nemico o tentando di superare un attacco a proiettile). Nonostante qualche piccola sbavatura, il gameplay puro risulta tuttavia molto piacevole, è molto soddisfacente uccidere i nemici per raccogliere i loro tesori e una volta abituati alla legnosità dei comandi si imparerà a sfruttare al meglio le capacità di Will; tuttavia, il gameplay all’interno dei dungeon non è che il 50% del gioco.

Che vada a lavorare!

Come abbiamo accennato prima, Will è il proprietario del negozio Moonlighter, che di giorno ci toccherà gestire accogliendo i clienti interessati alla nostra mercanzia. Ogni tesoro ha, diciamo, un valore oggettivo ma dovremo venderlo tenendo conto della domanda generale. Quando venderemo un oggetto per la prima volta, e dunque non ne conosciamo il giusto prezzo di vendita, dovremo fare attenzione alla reazione del cliente e, a seconda di questa, potremo ogni volta parametrarci. Ci sono 4 reazioni principali e saranno mostrate sul balloon al di sopra di ogni cliente intento a comprare un oggetto:

  • la prima ci mostra una faccina molto felice con degli occhi “a monetina”; questa reazione ci indica che il cliente ha trovato un oggetto a un prezzo stracciato e dunque, anche se faremo la sua felicità, la prossima volta che rivenderemo lo stesso oggetto ci converrà gonfiare un po’ il prezzo.
  • La seconda è una faccina normalmente felice; beccare questa reazione significa fondamentalmente aver trovato il prezzo perfetto e ci converrà mantenerlo a discapito della domanda.
  • La terza faccia è una faccina triste; solitamente il cliente eviterà di comprare l’oggetto ma è anche possibile che lo prenda ugualmente e lo pagherà per il prezzo stabilito. Tuttavia, se lo farà, farà abbassare la domanda generale e perciò quando vedremo un cliente reagire in questo modo e lascerà l’oggetto sullo scaffale ci converrà cambiare tempestivamente il prezzo prima che si verifichi lo stesso caso con uno che lo comprerà (ovviamente è possibile cambiare il prezzo durante le fasi di vendita).
  • L’ultima faccina è quella oltraggiata; se un cliente reagirà così di fronte a un oggetto significa che il prezzo supera di gran lunga il suo valore effettivo e perciò nessuno comprerà mai l’oggetto.

Tutti i dati che raccoglieremo sui tesori in fase di vendita, ovvero i prezzi correlati alle emozioni che vengono scaturite e il livelli della domanda, saranno segnati sul nostro quaderno del mercante e ciò ci sarà di grande aiuto sia in negozio che nei dungeon qualora ci troveremo nella situazione di dover scartare un oggetto in favore di un altro. A ogni modo, gestire un negozio (così come nella realtà) non consiste solamente nel piazzare degli oggetti sugli scaffali e nell’aspettare che i clienti vengano a comprarli; dobbiamo rendere l’ambiente piacevole e, come si solitamente si dice, avere gli occhi anche dietro la testa. È possibile anche intuire quale tipo di oggetto vogliono i clienti quando entrano (sempre da un balloon che appare sopra la loro testa), così come possiamo capire se qualcuno è intenzionato a rubare; noi non possiamo cacciare i ladri quando entrano ma dobbiamo stare attenti a non perderli di vista in mezzo alla folla e quando allungano le mani e tentano di scappare con la refurtiva dobbiamo fermarli tempestivamente con una capriola. Ai clienti, inoltre, non piace fare shopping in un ambiente scialbo e perciò dobbiamo fare in modo che si trovino a loro agio… così da far in modo che sborsino di più! Avremo modo di abbellire il negozio con oggetti da appoggiare al bancone o sui muri e ognuno di essi avrà un effetto particolare: alcuni faranno sì che i clienti lasciano una percentuale di mancia, altri fanno fanno scorrere il tempo più lentamente, altri diminuiscono i furti o fanno sì che in una giornata entrino più clienti del normale. Tuttavia nulla di tutto ciò è possibile fino a quando non apporteremo la prima modifica al negozio. All’inizio il nostro negozio sarà minuscolo e ci sarà spazio per giusto quattro oggetti per la vendita ma possiamo allargarlo utilizzando la bacheca al centro del villaggio dalla quale è possibile finanziare il proprio negozio per delle migliorie: queste includono l’allargamento del locale, l’aggiunta dei cesti per gli oggetti in offerta, casse più larghe per accumulare gli oggetti invenduti o quelli che ci servono per la creazione delle armi e pozioni, migliori letti, che ci faranno dormire meglio recuperando così della vita oltre il massimo, e migliori registratori di cassa per far sì che i clienti lascino una grossa percentuale di mancia (magari fosse così semplice nella vita vera). Un buon imprenditore però non è tale fino a quando non investe i propri soldi in altre attività; in Moonlighter avremo anche la possibilità di finanziare altre attività e queste ci daranno l’opportunità sia le fasi di vendita che la nostra esperienza nei dungeon. Dalla bacheca potremo finanziare un fabbro, che ovviamente ci costruirà le armi e le armature, un negozio di pozioni, un negozio simil Moonlighter che venderà gli stessi oggetti che troviamo nei dungeon (molto comodo se, per esempio, abbiamo bisogno di un certo materiale per costruire un arma e ci noia andare in un dungeon per un solo oggetto), un negozio per gli oggetti che servono ad abbellire il nostro locale e un banchiere che investirà un po’ del nostro capitale in altre attività e ce lo restituirà dopo sette giorni con gli interessi. L’esperienza commerciale di questo gioco è veramente curata e trasmessa con passione ma, un po’ come accade per le armi e le pozioni, il tutto è sempre collegato ai meccanismi dei tesori dei dungeon perché i prezzi, anche per i finanziamenti, sono tarati per un margine di errore pari a zero.

Venti di cambiamento

In termini di grafica Moonlighter ci delizia con una pixel art veramente deliziosa che si esprime nelle fasi di gameplay e  nelle brevi cutscene che mostrano delle immagini statiche (sempre molto belle). La grafica, in maniera generale, si rifà per lo più a The Legend of Zelda: the Minish Cap e ai giochi Pokémon della generazione del Gameboy Advance e perciò, nonostante la palette da 16/32-bit, personaggi e ambienti risultano molto curati, e dettagliati quanto basta. Non ci sono bug grafici di rilievo, e quelli presenti sono addirittura utili per avere un vantaggio con i nemici; in poche parole, è possibile (specialmente con lo spadone) colpire i nemici dalla parte opposta di un muro e rimanere protetti da (alcuni) attacchi nemici. Il titolo non si pone certamente come un gioco altamente realistico e dunque piccolezze come queste possono essere perdonate senza grossi compromessi e, in questi casi, persino sfruttate. La colonna sonora presentata è veramente deliziosa e tranquillamente accostabile a una di quelle di The Legend of Zelda; nulla al livello di Koji Kondo, ça va sans dire, ma i pezzi sono davvero ben composti, ben caratterizzati e anche ben registrati. Ci sono in totale quattro livelli, il dungeon di pietra, della foresta, del deserto e quello tecnologico, e pertanto i pezzi proposti sono molto vari e riescono a dare la giusta personalità, e persino serietà, ai determinati ambienti; ci sono bei pezzi orchestrali, riprodotti molto fedelmente, sfumature etniche, elettroniche nel dungeon tecnologico… insomma, si riesce a adattare perfettamente a ogni situazione regalando al giocatore un ottima cornice per un’avventura veramente particolare. Ogni dungeon ha sempre il suo tema e man mano si cambia di sezione varierà anche il tema, senza perdere le melodie portanti o il mood generale del pezzo; davvero molto ambizioso per un gioco indie. Unico problema, forse, è che si sarebbe potuto fare di più sul piano delle voci; non si chiedeva certamente un gioco interamente doppiato ma sentire anche un lamento da parte del personaggio principale sarebbe stata una buona implementazione. Abbiamo pertanto un personaggio con, sì, una personalità ben definita ma senza alcuna vera profondità; Will non si dimena quando dà un colpo di spada, non si lamenta quando viene colpito e non urla quando cade. Un po’ deludente come fattore.

Diamo a Will ciò che è di Will

Moonlighter è un gioco veramente curato in ogni dettaglio, è pieno zeppo di obiettivi, personalizzazioni, crafting e tanto altro. Può certamente interessare ai fan di The Legend of Zelda, gli amanti dei dungeon crawler e persino dei gestionali. Il solo problema di questo titolo, che sorprendentemente è al contempo anche il suo punto forte, è l’esubero di contenuti, non tanto perché risulti difficile stare dietro ai tanti obiettivi che il gioco ci pone, ma tanto perché è un po’ come giocare a Jenga! È davvero snervante andare in un dungeon con l’obiettivo di cercare un determinato oggetto che ci servirà per creare o migliorare un arma per poi uscire, ad esempio, con una quantità insufficiente oppure terminare una sessione di vendita e non avere ancora abbastanza soldi per poter finanziare un’attività o comprare qualcosa dal fabbro o dalla strega pur avendo i materiali. Insomma, se si fa qualcosa di sbagliato crolla tutto il resto! È importantissimo inoltre comprendere il funzionamento del sistema di maledizioni e di incantesimi dei tesori per fare più soldi possibili e purtroppo è molto difficile comprenderlo senza un tutorial o una vera guida.
Bisogna appunto essere molto pazienti con questo titolo, sperimentare, stare attenti alle icone e, in fase di vendita, alle reazioni, alle intenzioni dei clienti, e altro. Ci sono molte cose su cui dovremo istruirci, ma in Moonlighter saremo soli contro un sistema un po’ difficile da capire. Ma nella vita non abbiamo un tutorial, e anche per gestire un’attività bisognerà far ricorso a intelligenza e intuito.
È un titolo che o si ama o si odia, Moonlighter. Noi abbiamo più motivo d’amarlo, per la sua marcata personalità, per l’originalità e per meccaniche di gioco che sembrano non aver nulla in comune fra loro ma che in realtà si amalgamano molto bene. È uno Zelda-like molto più efficace e armonico di altri recentemente usciti come World to the West, che semplicemente soffrono di un’identità non troppo marcata. Speriamo solo che Moonlighter possa annoverarsi presto fra i grandi indie come Undertale, Axiom Verge o Limbo. Davvero sorprendente!




Milanoir

Si dice che in un film noir che si rispetti non ci sono “buoni” e “cattivi” ma solamente “cattivi” e “peggiori”, personaggi che potremmo amare in un momento ma che in seguito potremmo persino arrivare a odiare. Le atmosfere dei crime drama e polizieschi noir italiani degli anni ’70, l’epoca d’oro di certi film, riprendono vita in questo nuovo top-down shooter 2D sviluppato da Italo Games; stiamo appunto parlando di Milanoir, un gioco tostissimo, dal carattere originale e dalle tematiche molto forti (tanto che in Europa ha ricevuto il PEGI 18). Tramite gli occhi del nostro protagonista, vedremo il lato oscuro della brillante Milano, nei quartieri in cui il crimine dilaga e il braccio della legge fatica ad arrivare. Il gioco è disponibile su PlayStation 4, Xbox One e da poco anche su Nintendo Switch ma noi prenderemo in esame la versione per PC.

La guerra di Piero

Sin dai primi momenti il gioco ci porta in quella che è la Milano degli anni ’70: una città brulicante di vita ma che cela un animo oscuro nelle sue vie peggiori, strade in cui le piccole gang si contendono il territorio a colpi di pistola e dove pullulano Vespe Piaggio, ubriaconi e prostitute straniere. Il nostro Piero Sacchi, milanese di nascita, sa bene come vanno le cose nei quartieri bassi ma almeno è sicuro di frequentare le persone giuste, ovvero la banda del boss Nicola Lanzetta di cui è il killer numero uno e anche il braccio destro. La cosa lo riempie d’orgoglio e non c’è occasione in cui non sbatta in faccia la situazione al Torinese, il suo rivale giurato; tuttavia, una sera, le cose si mettono male per il nostro protagonista e ben presto si troverà in un guaio che lo macchierà a vita, generando in lui un forte desiderio di vendetta. Sin dai primi momenti verremo catapultati in una Milano malfamata e piena di problemi, per causarne ancora di più in nome del clan dei Lanzetta; col progredire della storia ci troveremo dunque a far fuori altri boss di quartiere, bracci destri e killer spietati ma avremo anche modo di conoscere altri misteriosi personaggi che daranno sempre più profondità alla più che profonda storia che ci viene proposta. I controlli sono più da FPS che da twin-stick shooter, al contrario di quanto ci si aspetterebbe da un gioco che propone una prospettiva bird eye; l’opzione che più si addice a questo tipo di gioco è quella di usare mouse e tastiera per muoverci in ogni direzione (limitate sempre alle otto direzioni concesse dai quattro tasti) e mirare con molta facilità mettendo il puntatore al di sopra del nemico. Col joypad ci si può muovere con più precisione ma mirare non è proprio semplicissimo. Come abbiamo detto prima, ci aspettavamo dei controlli più in linea con i twin-stick shooter ma invece abbiamo un sistema che semplicemente sostituisce il puntamento del mouse con la levetta destra del controller e ci duole dire che non è il massimo. Il mirino non torna in una posizione di default, né funziona come abbiamo visto in giochi come Tower 57 o nella versione per console di Hotline Miami; tuttavia, un sistema di controllo analogo a quest’ultimo lo troviamo durante le sezioni sui veicoli, e ci chiediamo come mai non sia stato implementato nel resto del gioco. Il controllo col joypad non è comunque totalmente debilitante in quanto è presente anche un sistema di mira automatica quando un bersaglio sarà sulla linea di tiro di Piero (e anche visibile); inutile dire che entrambi i metodi sono buoni ma, viste le scelte dei programmatori, è meglio utilizzare mouse e tastiera.
Il gameplay che ci viene proposto è tipicamente da top-down shooter, giusto con una punta di stealth e concentrato per lo più sullo storytelling e non totalmente sull’azione (o tanto meno sul realismo di quest’ultimo); dovremo superare intere orde di sgherri muniti di pistole, fucili, coltelli e quant’altro alternando in maniera più equilibrata possibile copertura e azione. Coprirsi dietro casse, muretti e quant’altro è importantissimo al fine di rimanere vivi poiché a ogni schermata potrebbe presentarsi un vero inferno e noi, con la nostra sola pistola (che nonostante le munizioni infinite dovremo sempre ricaricare manualmente), potremo non farcela. Di fronte a questi scenari possiamo appoggiarci alle armi secondarie ma, dal momento che non appaiono frequentemente, i nostri più grandi alleati saranno i cartelli stradali… Avete capito bene! È possibile che certi obiettivi non siano raggiungibili tramite un colpo diretto e andare in avanscoperta per stanarli potrebbe risultare molto rischioso; perciò, se nelle vicinanze c’è un cartello stradale, è possibile sparargli per far sì che il nostro proiettile colpisca automaticamente un obiettivo con un rimbalzo. È una meccanica che si ripete molto spesso nei livelli, è ben implementata e risulta persino varia: quelli rotondi permettono di centrare un obiettivo, quelli rettangolari due e il segnale dello stop arriva fino a sei bersagli. Lo stesso non si potrebbe dire per ciò che riguarda le armi secondarie vere e proprie, ovvero il revolver, le molotov e le granate: nulla a che vedere con la loro utilità in battaglia dal momento che funzionano a dovere e sono divertenti da usare (soprattutto il primo che permette di far fuori più nemici con un solo proiettile) ma sono generalmente pochi e poco frequenti. E parlando di povertà nel comparto delle armi secondarie ci tocca anche parlare della povertà del gameplay in generale; non fraintendeteci, ci siamo divertiti moltissimo con Milanoir, ma semplicemente è un gioco tendenzialmente statico e le sue sezioni si ripetono troppo spesso. Non che i livelli si somiglino, ma alla lunga si percepisce una forma di monotonia che potrebbe farci completare parte dei livelli un po’ controvoglia, specialmente le sezioni un po’ troppo difficili (come la boss battle contro l’Africana nel Pirellone); in ogni caso, la modalità principale è giocabile per due giocatori e può restituire un po’ di divertimento in più e magari alleggerire alcune parti snervanti. Sempre in due (o da soli) è possibile fare del nostro meglio nella modalità arena: ci ritroveremo catapultati in alcune schermate in cui i nemici arriveranno a orde e a noi toccherà farne fuori il più possibile tentando di sopravvivere più a lungo. Questa modalità è ovviamente collegata con una dashboard online che raccoglie tutti i punteggi migliori e, con un po’ di fortuna, potreste risultare fra questi (noi, al momento, siamo quindicesimi a San Vittore… Mica siamo molli noi)! Comunque, anche se il gameplay non entusiasma particolarmente, ciò che in Milanoir spicca particolarmente è senza dubbio la sua storia; il titolo ha un carattere cinematografico ben distinto ma soprattutto ben implementato, e la sua grafica pixellosa o l’assenza di doppiaggio non saranno ostacoli per godere dello splendido storytelling proposto. Anche se la sua azione è buona ma statica, la sua trama sembra sia stata scritta originariamente per essere un noir italiano degli anni ’70 e ogni scena, che sia un intermezzo o un gelido omicidio, riesce a tenerci incollati allo schermo, ci entusiasma, forse a volte ci sdegna, tanto da voler conoscere a tutti i costi il risvolto della storia; vorremo sapere fin dove Piero sia disposto a spingersi per la sua reputazione (o forse per la sua sopravvivenza), chi sono i fautori dei nostri guai o semplicemente conoscere il luogo della prossima sparatoria (visto che è sempre un piacere giocare con un titolo di cui conosciamo i luoghi). Probabilmente, l’unica cosa in più che si sarebbe potuta fare a livello di storytelling sarebbe stato immettere delle scelte di dialogo e bivi decisionali per ottenere dei finali e livelli alternativi, ma in fondo è stato meglio lasciare una trama lineare; anche se certe volte quasi ci disgusterà utilizzare Piero, questo serve a mantenere intatta la sua “brutta” personalità, a restituire a noi giocatori l’esatta visione dei programmatori dietro a questo spettacolare gioco ma soprattutto a restituire quella magia dei vecchi polizieschi. Insomma, per intenderci, gli amanti di Breaking Bad hanno amato e odiato al contempo Walter White, e questo è quel che probabilmente volevano generare gli sviluppatori nei confronti di Piero.

Gli italiani lo fanno meglio

Il gioco, realizzato col motore grafico Unity, propone una pixel-art veramente deliziosa, molto colorata ma che restituisce ugualmente quel senso di buio e sporcizia di determinate zone di Milano all’epoca del banditismo. Lo stile dei personaggi ha un che di Leisure Suit Larry, magari un tributo per rendere al meglio “quella” scena di nudo all’inizio del gioco; in relazione alla scelta stilistica, i personaggi sono ben disegnati e hanno tante caratteristiche curiose (che potranno essere notate ancora meglio osservando bene gli artwork quando prendono la parola i character). Coloro che annoverano Milano Calibro 9 fra i propri film preferiti, ispirazione fondamentale per la produzione di questo titolo, non potranno fare a meno di notare il giubbotto rosso di Piero, chiaro rimando alla figura misteriosa che seguiva il protagonista Ugo Piazza, o l’innegabile somiglianza fra Tony, il compagno di crimini del nostro protagonista, e Rocco Musco; inutile sottolineare le analogie fra le figure del boss Lanzetta e Ciro con i loro corrispettivi Vito Corleone e Alberto, interpretati da rispettivamente da Marlon Brando e Mark Margolis ne Il Padrino e Scarface. Bisogna dire che Emmanuele Tornusciolo, mente dietro la storia e dietro al game design generale, ha davvero degli ottimi gusti in termini di cinema, così come, sicuramente, il resto del team composto da Gabriele Arnaboldi (codici e direzione tecnica) e Giuseppe Longo (pixel-art e animazione). Gli scenari, in termini di bellezza, spiccano un po’ di più rispetto alle caratterizzazioni dei personaggi; nulla che risulti poco armonico, ma sicuramente gli ambienti risultano più curati, molto chiari e meno limitati in quanto a colori e a dettagli. È senza dubbio un piacere seminare il panico fra molte località famose di Milano come il Viale Monza, il Pirellone, il carcere di San Vittore, le Colonne, il Parco Lambro, il Giambellino e persino i Navigli; ovviamente le strade non sono geograficamente precise, ma tutti i tratti distintivi sono stati correttamente accentuati per restituire in tutto e per tutto le atmosfere tipiche di questi luoghi. Non sarà mai un problema, inoltre, ripararci laddove pensiamo il fuoco nemico non possa arrivare; gli elementi ambientali, come le casse, i bidoni dell’immondizia, i muretti e tutto ciò che pensiamo possa offrirci riparo, funzioneranno a dovere e questo permette un gameplay molto dinamico e intuitivo. Abbiamo trovato solamente due problematiche relative alla codifica di alcuni ambienti: nella zona del mercato ci è capitato di camminare letteralmente su un muro e raggiungere punti della schermata che dovevano rimanere inaccessibili (insomma, indossiamo un giubbotto rosso ma siamo solamente Piero, mica Peter Parker!) mentre al Duomo, durante la battaglia finale, siamo riusciti a far fuoco attraverso un muro rimanendo protetti, regalandoci praticamente un incredibile vantaggio contro il boss finale e i suoi sgherri (e ovviamente non vi diremo qual è!). Speriamo che Italo Games possa riparare presto queste piccole imperfezioni con una semplice patch.
Ad accompagnare queste belle visual c’è ovviamente una solida colonna sonora; anche qui, così come per la storia e per la grafica generale, si tenta di a larghe linee di mantenere lo stile di quelle dei film noir italiani, con un pianoforte dal sound misterioso e sfumature di flauto che rimandano, chiaramente, agli Osanna (gruppo di Progressive Rock napoletano che eseguì la colonna sonora, composta da Luis Enriquez Bacalov, del leggendario film). Bisogna ammettere che molti brani sono ben composti e riescono nell’intento iniziale, quello di farci tornare in quegli anni ’70 di fuoco, ma in alcuni brani ci sembra ci siano alcuni elementi un po’ troppo moderni (o non appartenenti a quell’epoca) che risultano un po’ fuori contesto. Magari sono false sensazioni ma, probabilmente dopo aver giocato a un’altra rievocazione di pezzi d’Italia di un altro tempo come in Wheels of Aurelia, ci aspettavamo un’operazione molto simile.

Un capolavoro mancato

Nel panorama dei videogiochi indipendenti italiani Milanoir ha un carattere fortissimo, un gioco che riesce a mostrare quel marcio che affligge nostra amata penisola senza però utilizzare stereotipi o forzature che troviamo spesso in alcuni film o, ancora più spesso, nelle fiction italiane. Lo storytelling di questo titolo è senza dubbio il punto forte, l’elemento al quale sicuramente è stato dedicato più tempo. Sfortunatamente, anche se la sua azione è molto intensa e gli ambienti molto differenziati, il suo gameplay risulta statico, dicevamo, sostanziandosi in sequenze in cui si cammina, si spara e si va in copertura: oltre c’è ben poco, sul piano  della giocabilità. La meccanica dello stealth e le sezioni in movimento sono graziosamente rese ma purtroppo non riescono a dare ulteriore profondità a un gameplay che non stupisce e non rende giustizia a un’ottima trama. È vero che più avanti la nostra pistola verrà sostituita da un uzi ma ci sarebbe piaciuto poter utilizzare molte più armi, magari scegliendole da un menù, e trovare un gameplay più vario, aver magari la possibilità di interagire con NPC nel tentativo di raccogliere informazioni e oggetti, scassinare porte, poterci trovare di fronte a degli incroci e scegliere un passaggio invece di un altro; il potenziale c’era e il titolo propone meccaniche un po’ troppo semplici che, per quanto statiche, divertono comunque molto. Sarebbe però servito veramente poco per rendere il gameplay di Milanoir un po’ più vario e completare l’opera e rendere il titolo un piccolo capolavoro.
Il prezzo, sia su Steam che nel Nintendo E-Shop, non è per niente proibitivo è con poco potrete portarvi a casa un gioco che merita davvero.
Milanoir è in ogni caso un ottimo punto di partenza per Italo Games, che ci porterà certamente a tenere d’occhio i loro futuri lavori che, sfruttando il potenziale visto in questo primo titolo, potranno risultare certamente interessanti, anche al di fuori del panorama videoludico italiano.