Ace Combat 7: Skies Unknown – Rombi di Tuono e Cieli di Fuoco

Sono passati molti anni dall’ultimo volo di Ace Combat, il “simulatore” aeronautico più famoso al mondo. La sua è una storia lunga, così come la trama dei vari capitoli, via via intrecciata per formare una narrazione intrisa di personalità. Poi gli aerei, da quelli più iconici a quelli ultra moderni e, come da tradizione, prototipi dalle più disparate forme e capacità belliche. Ace Combat mancava tanto a un certo segmento di pubblico e l’arrivo del settimo capitolo ufficiale non è che una gioia per tutti i sensi di cui l’uomo dispone (tranne olfatto e gusto perché la tecnologia è pur sempre questa).

La guerra non cambia mai

Nel corso degli anni anni Ace Combat ci ha abituati a numerosi intrecci di trama che via via si son fatti ancor più intensi. Nonostante questo però, il settimo capitolo ufficiale viene in contro alle esigenze di tutti, riuscendo a essere comprensibile per i neofiti ma in grado di rispolverare vecchi ricordi e chicche per i fan. Entrano in scena dunque le battaglie aeree più intense del franchise sul pianeta Strangereal, il mondo alternativo protagonista di tutte le vicende narrate finora, in cui i vari stati si danno battaglia a suon di missili di vario tipo. Pur avendo avuto capitoli ambientati nel futuro, questa volta le vicende si svolgono nel presente, un 2019 che vede Erusea e Osea darsi battaglia per il controllo dell’Ascensore Spaziale, ormai unico modo per colonizzare lo spazio. La sua costruzione è proprio la causa del conflitto: dopo l’impatto con un asteroide, uno dei continenti, Usea, era sul lastrico, aiutato successivamente da tutti i paesi del pianeta tranne il regno di Erusea che adesso, non vede di buon occhio l’influenza di Osea in questo territorio. Inizia dunque la cosiddetta Lighthouse War, una guerra che mette in campo nuove tecnologie in grado di soppiantare i piloti umani.
Proprio l’utilizzo di droni e la ricerca scientifica atta al loro perfezionamento è uno dei temi trattati all’interno della trama di questo capito, composto da 20 missioni. L’argomento è di stretta attualità: si parla spesso di come l’uso più intenso di droni da battaglia e armi intelligenti stia pian piano stravolgendo l’operato e il significato stesso di guerra. I cosiddetti Assi, i piloti migliori dei cieli di tutto il mondo, rischiano di aver ben presto tarpate le ali, trasformando l’eliminazione dell’obbiettivo in una serie di codici binari. Benché non sia il fulcro delle vicende, questo argomento è trattato come solo i giapponesi riescono a fare, un concentrato di teatralità e suggestioni. La Lighthouse War è in grado di richiamare numerosi ricordi come Farbanti, la capitale di Erusea o la struttura Stonhenge, in un mosaico di vecchio e nuovo ben strutturato e raccontato anche grazie a ottime cutscene in CGI.
La narrazione procede dunque spedita, ricca di colpi di scena e dal buon ritmo generale, accompagnata da una regia a dir poco perfetta.
Unico, possibile piccolo neo, è riscontrabile nei sottotitoli a volte difficile da leggere in mezzo al trambusto generale. Ricordiamo che il doppiaggio è solo disponibile in giapponese o inglese.
Ma l’offerta ludica di Ace Combat 7 non si ferma alla sola campagna single player, permettendo un multiplayer che vede tra le sue fila anche una battle royale (un tempo semplicemente deathmatch). Inoltre, suggestiva è anche la possibilità di poter utilizzare visore VR, in cui, all’interno dell’abitacolo, possiamo immedesimarci in qualunque Top Gun del mondo.

E Maverick muto

Anche per chi non è avvezzo con questo tipo titoli, come da tradizione, Ace Combat permette l’approccio adeguato a ogni tipo di videogiocatore. Di fatti, potremmo scegliere due modalità di gameplay che ne modificano comandi e semplicità di utilizzo: ma scegliere tra principiante ed esperto non è così scontato. Se la prima consente un utilizzo semplificato, con l’andare del tempo finisce per esserlo troppo e limitante, in quanto in fasi avanzate, la maggior possibilità di movimento offerti dalla modalità esperto consente approcci più aggressivi ma anche più divertenti, sfruttando soprattutto lo stallo. Nonostante dunque il gameplay abbia spiccate virate verso l’arcade, il titolo riesce a essere godibilissimo, ma solo se non ci si lascia “spaventare” dall’utilizzo immediato della modalità esperto che in fin dei conti, è la modalità “normale”.
Ma ben prima di solcare i cieli di Strangereal, bisogna prepararsi: il briefing pre-missione è fondamentale, non solo a livello narrativo ma segna anche la strategia che il videogiocatore avrà di lì a poco. Grazie alla tecnologia radar infatti, è possibile sapere in anticipo la posizione e la tipologia dei nemici e, questa conoscenza, influisce sulla scelta dell’aereo da utilizzare e gli armamenti. E qui arriva il bello: gli aerei, i veri protagonisti e suddivisi per tipologia, hanno caratteristiche e possibilità belliche differenziate ma ulteriormente potenziabili una volta sbloccati vari perk. È qui che il punteggio ottenuto in missione ha la sua rilevanza: la progressione da mezzi basilari ai caccia più evoluti, avviene tramite un complesso albero di sblocco di potenziamenti e aerei, con percorsi diversi: ad esempio, se il nostro obiettivo finale è pilotare F-22 Raptor, dovremo seguire un determinato percorso che porta il giocatore a ignorare tutto il resto. Ovviamente questo avvantaggia la rigiocabilità.
Il parco aerei vanta numerose chicche come il discusso (in Italia) F-35, o il russo Sukhoi Su-47, unico aereo (esistente) del lotto ad avere ali a freccia negativa. Un peccato non aver a disposizione caccia come quelli cinesi (come il J-20) o aerei iconici come l’F-117 Nighthawk. Un peccato è anche la poca possibilità di personalizzazione offerta, tralasciando una manciata di stemmi e skin.
Una volta scelto l’armamento a disposizione, siamo pronti a partire. Ace Combat 7 è uno dei pochi titoli a emozionare già dall’inizio della missione, con un insieme di regia, colonna sonora e gameplay che si mischiano, divenendo un unico mezzo in cui il giocatore può immergersi. Le battaglie sono vere e proprie coreografie con nemici che possono contare su una discreta intelligenza artificiale a livello di difficoltà normale. Ma anche qui, la massima difficoltà, unita al controllo esperto, è una delle esperienze più eccitanti offerte dal panorama videoludico, raggiungendo il picco durante le boss fight (poche a dir la verità). Tutti gli armamenti a disposizione hanno un range e un numero fisso di utilizzi (tranne la mitragliatrice in modalità principiante) per cui, dosare con cura ogni missile è fondamentale se non si vuole rimanere a secco proprio sul finale.
A rendere le cose ulteriormente interessanti è la simulazione degli effetti atmosferici, tra temporali, fulmini e raffiche di vento, in grado di avere un forte impatto sulla manovrabilità del mezzo o sui sistemi elettronici. Se non si sta particolarmente attenti in certi frangenti, schiantarsi al suolo o contro una montagna è un ottimo modo per ricominciare dal checkpoint. Questo sistema meteo dunque, non è solo di facciata: tutti gli elementi atmosferici sono in grado di influire attivamente rendendo alcuni scorci di missioni ancor più complessi. Senza contare inoltre, che i nemici sfrutteranno molto spesso i banchi nuvolosi per sfuggire all’agganciamento dei missili, sparendo dal nostro campo visivo.

Ma il cielo è sempre più blu

Skies Unknown è un titolo basato sul compromesso, per quanto concerne il comparto tecnico; il focus è incentrato sulla stabilità dei frame per secondo che, in un titolo come questo, è assolutamente fondamentale. Ciò non vuol dire però che ci troviamo di fronte a qualcosa di scadente: spicca tra tutto, la costruzione dello skybox grazie alla tecnologia TrueSKY, talmente ben realizzato da sembrar vero, con annessi effetti atmosferici in grado di arricchire quanto vediamo a schermo. Volare tra i cieli è qualcosa di suggestivo a prescindere, una peculiarità non di poco conto considerando che in fin dei conti, si tratta nuvole e atmosfera. Le debolezze del titolo si riscontrano una volta che il nostro mezzo si avvicina al terreno, con città, villaggi, strutture di vario tipo e vegetazione molto spesso di bassa qualità anche se, in certi frangenti si può anche chiudere un occhio. Questo perché a rendere il tutto estremamente godibile è la ricercatezza stilistica di alcune scene (anche in game), capace di mostrare una regia e una fotografia in grado di esaltare momenti che altrimenti passerebbero inosservati ai più. Ma veniamo alla realizzazione degli aerei, i veri protagonisti. La loro realizzazione può contare su un adeguato numero di dettagli, ancor più evidente al loro interno con ogni cockpit realizzato ad hoc. Grazie ad Ace Combat possiamo ammirare ogni singolo aereo sino ai particolari, rendendoci conto di come la tecnologia della costruzione di questi mezzi, sia cresciuta a livelli esponenziali. Ma ahinoi, l’esplorazione visiva degli aeroplani, mostra i compromessi citati poc’anzi: taxture e shader di bassa qualità, qualche imprecisione nella modellazione lasciano l’amaro in bocca, senza contare l‘eccessivo aliasing presente sopratutto durante i replay.
Dove invece si punta all’eccellenza, come da tradizione del resto, è sulla realizzazione della colonna sonora, che svolge un ruolo primario nell’accompagnare l’azione entrando di prepotenza nello script della regia. Le musiche composte da Keiki Kobayashi, ormai storico musicista della serie per conto di Bandai Namco, regala una delle migliori colonne sonore dell’anno – riascoltata durante questa scrittura –, costruendo brani ritmati conditi dalla classica dose di orchestrale ed elettronica. Musica e Regia divengono un tutt’uno consentendo al settimo capitolo di entrare nel novero dei migliori titoli della serie anche da questo punto di vista. Memorabile.

In conclusione

Ace Combat 7: Skies Unknow è prima di tutto un omaggio ai fan, una piccola perla per gli amanti del genere in grado di suscitare meraviglia infantile dinanzi all’eleganza mortale dei mezzi a disposizione. Quasi tutto funziona alla perfezione, dalla narrazione alla splendida colonna sonora che, in qualche modo, riesce a far dimenticare alcune magagne tecniche. Ace Combat 7 riesce nell’impresa di riportare in auge un brand storico, avvicinando magari i nuovi gamer a una saga che ha fatto della spettacolarità il suo marchio di fabbrica.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Sapphire Radeon RX 580 8GB NITRO+ Special Edition
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10




This War of Mine: Complete Edition – La guerra di chi non spara

Capita spesso al telegiornale di sentir parlare di guerra, di studiarla a scuola o addirittura lodare le vicende di chi vi ha combattuto. Nei videogiochi la guerra è un tema più che ricorrente: che sia una riproposizione storica, una battaglia più contemporanea o addirittura futuristica, ci ritroviamo solitamente dietro il fucile per compiere gesta più o meno eroiche senza alcuna conseguenza (tematiche che abbiamo anche affrontato in un precedente articolo). Delle guerre vediamo sempre l’aspetto più adrenalinico, in cui un soldato combatte un nemico: non di rado i protagonisti che impersoniamo li consideriamo eroi, dimenticandoci di chi c’è nel fuoco incrociato, i civili, persone non in divisa che si trovano loro malgrado in mezzo a conflitti sanguinosi. Ed è così che 11 Bit Studios decide di farci vedere quest’aspetto poco considerato, quello di coloro che, inermi e indifesi davanti agli uomini con fucile, non vogliono perdere la speranza e fanno di tutto per sopravvivere di fronte al conflitto che tenta di distruggerli nel corpo e nello spirito; arriva anche su Nintendo Switch l’acclamatissimo This War of Mine, in una Complete Edition, in cui per la prima volta tutti i precedenti DLC (arrivati gradualmente per le versioni PC, PlayStaition 4 e Xbox One) sono presenti sin dall’inizio. Questo titolo ci metterà di fronte a decisioni difficili da prendere, compiere azioni al limite del giusto e dello sbagliato la cui moralità è dettata solamente dal vivere un altro giorno oppure no: le idee dietro alla realizzazione del gioco sono veramente molte e vederemo di fare ordine al meglio che possiamo.

Il mio spirito è ancora vivo

Il gioco è ispirato principalmente agli accadimenti del terribile assedio di Sarajevo (1992-1996), e ci cala nella condizione (con tutti i limiti della simulazione) di chi apra la porta di casa e trova la guerra di fronte a sé. Ci verranno proposti diversi scenari con svariati personaggi, ma le dinamiche di base li accomuneranno tutti: di notte bisognerà raccattare più oggetti possibili in diversi luoghi della città, come materiali per costruire elementi essenziali per la casa e per la nostra stessa sopravvivenza (come un tavolo da lavoro, un letto, un cucinino e così via), utensili, cibo, medicine, armi e, visto che questa versione include anche il DLC The Little Ones, anche giocattoli e libri per tenere alto il morale dei più piccoli che abitano con noi nella stessa casa; di giorno, visto che la città pullula di soldati e cecchini, è importante rimanere a casa per potersi rifocillare, riposare ma soprattutto sfruttare al meglio le risorse che ci siamo procurati durante la notte costruendo nuovi oggetti, rinforzare le mura di casa, utilizzare gli oggetti già costruiti come raccoglitori di acqua piovana, distillatori per produrre alcolici o presse per creare sigarette fatte in casa (entrambi ottima merce di scambio durante la guerra). Sarà dunque fondamentale procurarsi gli oggetti giusti sia per garantire la sopravvivenza fisica e psichica dei nostri personaggi, sia per poter costruire oggetti utili per la casa. Per quanto il raccogliere i materiali fuori casa sia essenziale (soprattutto quelle tante cose che non possiamo produrre come “materiali”, legno, transistor e altro), è bene che la casa funzioni come una sorta di “fabbrica”, in quanto le stazioni di lavoro potranno creare tanti oggetti non solo utili per noi stessi ma anche come merce di scambio: non è raro trovare in mattinata (o in alcuni luoghi di notte) persone intenzionate a scambiare uno o più oggetti con altri. Per tale motivo è importante controllare spesso la radio in quanto ci può dire quali sono gli oggetti più preziosi in fase di scambio in un determinato momento e anche dove poterli andare a trovare durante la notte. Qualsiasi mezzo è lecito per sopravvivere in una situazione del genere… oppure no?
Al calare della notte potremo andare a caccia di preziosissimi oggetti fuori casa. Prima di andar via, è bene “dare un compito” agli eventuali coinquilini che rimarranno a casa, come sorvegliare la casa durante la notte o semplicemente dormire per poi, il giorno dopo, essere produttivi sin da subito (i bambini potranno solamente dormire). È importante, per questi motivi, sfruttare al meglio le capacità delle persone che abitano in casa nostra: potremmo ritrovarci, per esempio, con un ex atleta la cui velocità è superiore a tutti gli altri (e sarà dunque perfetto per i saccheggi), un tuttofare che potrà costruire oggetti con meno materiali necessari, cuochi in grado di cucinare pietanze con meno ingredienti, altri senza delle vere abilità ma con un inventario più grande, etc…

Ovviamente più inquilini in casa significa anche più bocche da sfamare perciò, se qualcuno dovesse bussare alla vostra porta per aggiungersi al vostro “team”, valutate bene le sue qualità, anche se il rifiuto potrà far salire in noi un senso di colpa. Ad ogni modo, il “saccheggiatore” avrà la possibilità di portarsi qualche oggetto da casa, come un piede di porco, una pala o una merce di scambio, anche se ciò significherà sacrificare preziosi slot del nostro inventario personale. Nei luoghi del saccheggio – abitazioni semi-abbandonate, supermercati, scuole, ospedali fatiscenti e molto altro – si concentra il cuore del gameplay (di cui discuteremo in dettaglio dopo), che ci vedrà cercare oggetti nei cumuli delle macerie. Alcune volte capiteremo in luoghi senza occupanti al loro interno, ma il più delle vi troveremo delle persone disposte a tutto pur di proteggere i loro oggetti, oppure troveremo altri saccheggiatori, esattamente come noi. I cumuli non saranno più semplice spazzatura in cui troveremo oggetti poco utili (principalmente materiali per costruzioni) ma saranno le risorse di altre persone che, proprio come noi, stanno sopravvivendo alla guerra con tutte le loro forze. This War of Mine vuole mettere in discussione il codice etico morale del singolo giocatore mettendolo di fronte a come la guerra distrugga ogni residuo di umanità, anche dei civili che rimangono ai margini di essa: dobbiamo rubare? È davvero necessario? E se sì, quanto? E se lasceremo quelle persone senza niente e le abbandoneremo al loro destino? Sopravvivere, in momenti come questi, è realmente una questione di vita o di morte e talvolta può significare soprattutto la vita di uno e la morte di un altro. I personaggi che controlleremo, che ricordiamo sono normalissime persone, verranno influenzati da ogni azione, soprattutto di fronte a decisioni drastiche come queste e perciò “il riempirsi la pancia” non è sempre la giusta cosa da fare: i nostri personaggi cadranno in depressione e ciò si tradurrà in produttività ridotta e morale basso, fattore molto negativo in situazioni come quella che ci viene presentata. Ancora più influenti saranno gli omicidi: in situazioni del genere le persone che saccheggeremo potrebbero essere armate e ucciderle significherà convivere col senso di colpa. Capiteremo anche in luoghi popolati da bande e persone senza scrupoli, ma noi saremo sempre dei normalissimi civili col pad in mano, è dura gestire ciò che si prova togliendo la vita a un’altra persona, anche in un mondo virtuale. Si tratta di un titolo forte ma al contempo edificante, che trasmette quanto la vita sia importante e preziosa e quanto la guerra possa cambiare un essere umano in condizioni estreme, al punto da portarlo a rubare il pane di altri o addirittura arrivare a strappare una vita per la propria sopravvivenza; il vero messaggio di This War of Mine è che in guerra non esistono seconde possibilità per nessuno, il confine fra la vita e la morte diventa incredibilmente sottile e talvolta si dovranno compiere delle scelte così difficili che il nostro codice morale personale verrà messo in discussione accrescendo insoliti sensi di colpa con la quale non abbiamo mai avuto a che fare. La guerra cambia sempre le persone in peggio ma sta a noi resistere e far vivere il nostro spirito.

La più reale guerra in un videogioco

In This War of Mine troveremo principalmente due stili grafici: quello delle fasi di gioco, costituito per lo più in vera grafica 3D, semplice, sterile, quasi monocromatica e che ricorda a tratti dei bozzetti a matita, e foto di persone reali nelle schede dei personaggi. Prima di analizzare la grafica delle fasi di gioco bisogna in realtà apprezzare le fotografie dei personaggi rese con dei corrispettivi nel mondo reale: questa è una scelta di design molto importante perché ognuno di questi non è solo un personaggio fittizio, è una vita, un essere che respira, ha sogni e ambizioni a cui la guerra ha negato tutto in nome della sopravvivenza. I personaggi in questo gioco muoiono “per davvero”, il vuoto che lasciano all’interno della casa è reale, si sente e non verrà mai colmato nel giro di pochi giorni. Anche noi, un po’ come accade certe volte in Undertale, ci sentiremo in lutto per un personaggio che viene ucciso come un cane mentre stava pensando alla sua sopravvivenza, per quella vita strappata dalla legge non scritta del “vivere o morire”. Anche se non c’è un vero abbattimento della quarta parete, questo avviene in qualche modo, le fotografie sono il ponte fra noi – la nostra empatia – e il videogioco.
L’essenziale grafica 3D, che ripropone una Pogoren (città fittizia) distrutta dalla guerra, riesce a restituire quel senso di sporcizia e disordine provocato dai bombardamenti in parte ancora in corso ma soprattutto di perdizione dovuto allo sconvolgimento della normale vita quotidiana della gente comune. In casa, nelle fasi diurne, noteremo soprattutto che l’umore generale dei personaggi influirà sulla grafica: un umore felice, nonché una buona salute e una buona temperatura interna, produrrà una visualizzazione più limpida, al contrario di quando si affronteranno eventi devastanti, in cui la grafica avrà un più evidente effetto bozza a matita, giusto per indicare un cambio dell’umore dei personaggi.
La musica è per lo più un suono struggente che fa da sfondo ai colpi di arma da fuoco che si sentono in lontananza, un lontano eco che descrive perfettamente lo strazio dell’assedio ma che accende, nonostante tutto, una lieve nota di speranza alimentata da ricordi passati di una vita la cui guerra non aveva ancora distrutto la normalità. La scelta di una simile colonna sonora può non piacere a tutti, specialmente a coloro abituati ad ascoltare musica con ritmi calzanti o vere melodie portanti, ma gli amanti di band come i Godspeed You! Black Emperor o gli Ulver di Shadows of the Sun potranno apprezzare i toni decadenti e il minimalismo che bene si adattano ai temi qui proposti. Le chitarre spente e i pad eterei descrivono perfettamente quei giorni bui in cui non si sa se il giorno dopo si è ancora vivi; decisamente un ottima scelta e una colonna sonora degna di un secondo ascolto in sede differente dalla postazione di gioco.

Dalla parte del giocatore

Come abbiamo più volte accennato in questo articolo, lo scopo di ogni scenario è principalmente sopravvivere all’assedio (composto principalmente da tre fasi, non sempre con durate regolari: preparazione alla guerra, fase di attacco/aumento della criminalità e cessate il fuoco), dunque rimanendo vivi a ogni costo, sia fisicamente che spiritualmente. Cominciamo col dire che, un po’ come nella vita reale, non sono presenti veri tutorial che introducano al gioco, e tutto ciò che avremo, all’inizio di uno scenario, è una overview completa dei comandi di gioco e qualche finestrella informativa che si apre di tanto in tanto; una scelta sensata, visto che molti giochi moderni includono dei tutorial fin troppo esplicativi e qui calza anche con il fatto che “in situazioni del genere non esistono tutorial”, ma nemmeno la migliore in quanto, non avendo vere seconde possibilità, non saremo spesso preparati alle difficoltà che incontreremo nelle fasi di saccheggio, ben diverse dalle situazioni in casa dalla quale iniziamo. Ci viene spiegato l’essenziale, ma ciò non basta per godersi il gioco al 100%: spesso e volentieri, visto che rimediare a un nostro errore sarà molto difficile, l’unica cosa da fare sarà far morire tutti i nostri personaggi solo per riavviare lo scenario scelto senza sbagliare una seconda volta.
La nostra schermata di gioco in This War of Mine comprenderà un ambiente con delle icone sparse per eseguire delle determinate azioni. Nella versione PC il giocatore può sfruttare il mouse per cliccare direttamente alle icone senza doversi spostare direttamente sul punto dove sta l’icona; in questa versione per Nintendo Switch le icone nelle immediate vicinanze possono essere selezionate con la croce direzionale ma non tutte possono essere raggiunte con questo sistema, e perciò ci toccherà dunque spostarci verso le icone e attivare l’azione. Nonostante la levetta destra permetta di vedere cosa c’è nelle immediate vicinanze, non sarà possibile selezionare quelle icone per un immediato avvio di quella determinata azione. Di giorno è importantissimo sfruttare al meglio le ore a disposizione prima del saccheggio notturno e perciò un simile sistema di controllo non fa che nuocere alla dinamicità delle azioni da compiere durante il giorno; non è stato neppure implementato un controllo tramite touchsceen, come invece avviene per le versioni iOS e Android, per simulare in parte il mouse in modalità portatile, e ciò non è che un ostacolo per la fruizione del gioco che rimane bloccato ai soli controlli base. Essere veloci al mattino è fondamentale, soprattutto quando la casa è abitata da un bambino a cui, tramite un adulto, si possono insegnare cose come cucinare, accendere la stufa, prendere farmaci in caso di emergenza, cambiare il filtro per l’acqua piovana, sistemare le trappole per gli animaletti e molto altro: entrambi si devono posizionare sulla medesima icona e per farlo dobbiamo prima portare un personaggio all’icona e poi l’altro, sprecando tempo prezioso (vi consigliamo, in questi casi, di portare prima l’adulto in quanto i bambini, soprattutto se di buon umore, tenderanno a non stare fermi sullo stesso punto). Se la casa è popolata da più persone è bene impostare più compiti contemporaneamente a più personaggi ma con questi controlli, chiamiamoli diretti, verrà sprecato troppo tempo solo per portare i personaggi verso le icone. Purtroppo il problema con i controlli non finisce alla sola selezione delle icone ma anche al movimento dei personaggi in quanto ci sono problemi fastidiosi per ciò che riguarda le animazioni legate al fare le scale, sia in salita che in discesa: istintivamente, quando il personaggio controllato finirà di salire o scendere e girerà sul piolo finiremo col muovere la levetta in direzione dei suoi movimenti ma l’animazione legata al salire le scale non è ancora finita e perciò finiremo col riscendere, o risalire, le scale rimanendo “incastrati nell’animazione”. Bisognerà imparare a far concludere l’animazione automaticamente o altrimenti rimarremo in questo limbo proprio quando non potremo permettercelo (ovvero durante le fasi di saccheggio); purtroppo non pensiamo sarà un difetto risolvibile con una semplice patch perché altrimenti ci sarebbe da cambiare l’intero di controllo.

Altro problema legato alle animazioni è quello della mancanza di elemento stealth, componente assente e che avrebbe arricchito il gameplay di questo gioco ancora di più. Sarà forse per la sua natura da gestionale per PC, ma a nulla servirà il piegare di poco la levetta direzionale: i personaggi si sposteranno sempre alla velocità massima e, per quanto nei luoghi esistano dei punti in cui nascondersi, sarà impossibile non far rumore e suscitare i sospetti degli occupanti dei luoghi che saccheggeremo. This War of Mine chiede inoltre una certa reattività nelle fasi di combattimento (come del resto un qualsiasi gioco che implichi armi da fuoco o oggetti contundenti) ma qui i controlli per queste azioni risultano legnosi e poco reattivi: fuggire dalle lotte, anche per un discorso legato all’integrità dei personaggi, sarà spesso la cosa giusta da fare ma il più delle volte il vero motivo per cui si evita di entrare in conflitto con altre persone è perché non si vuole avere nulla a che fare con quei controlli poco reattivi e che potrebbero farci perdere un conflitto, cosa che non possiamo permetterci assolutamente visto che non abbiamo mai seconde chance. La verità di tutti questi piccoli difetti è che, con buona probabilità, il tutto non si traduce bene in un setup da console e tutto ciò che rende immediato il gameplay su PC qui invece e risulta lento e legnoso.
Ad ogni modo, far fronte ai problemi di This War of Mine non è impossibile e può risultare comunque un buon acquisto anche per Nintendo Switch; il suo punto di forza è senza dubbio la sua ottima longevità dovuta non solo ai tanti scenari inclusi, da completare raggiungendo il cessate il fuoco, ma anche all’inclusione di tutti i DLC rilasciati precedentemente. Nella modalità This War of Mine Stories, selezionabile nella prima schermata, ci verranno proposti nuovi scenari, con degli esclusivi obiettivi da raggiungere tramite condizioni diverse, e l’editor delle storie in cui possiamo creare degli scenari da zero scegliendo quali personaggi ne prenderanno parte, la durata del conflitto, la durata e la durezza dell’inverno, quali luoghi saranno disponibili per i saccheggi e molto altro. This War of Mine non è certamente un gioco che manca in longevità, anche se il suo godimento su Nintendo Switch non è la modalità ottimale per scoprire questo titolo, nonostante la completezza della versione.

War is not fiction

This War of Mine è un gioco di rara profondità, è spaventosamente reale e intenso per essere un frutto dell’immaginazione umana, e ogni aspetto della guerra – o dovremmo forse dire “assedio” – è stato riprodotto con cura quasi maniacale. Una recensione non basta per descrivere i tantissimi aspetti che compongono i diversi aspetti del gameplay, dai saccheggi agli umori dei personaggi, dal mantenere la casa a una temperatura ottimale al difenderla dai ladri e molto altro. Oseremmo dire che questo è un gioco che, nonostante il PEGI 18, potrebbe essere preso in considerazione addirittura come parte integrante nei programmi di storia nei licei, in quanto ci fornisce una dura lezione di come sia in realtà una guerra, cosa si vive, cosa significhi avere una sola scatoletta di tonno e due bocche da sfamare ma soprattutto come essa trasforma persino le persone che non la combattono. Il concept dietro a questo titolo 11 Bit Studios è veramente sensazionale e ciò è stato anche dimostrato dal fatto che i costi di sviluppo sono stati recuperati in soli due giorni. Sfortunatamente è evidente come questo comunque splendido This War of Mine: Complete Edition sia un porting da PC non riuscitissimo, con tanti piccoli problemi che nel complesso non permettono una fruizione realmente ottimale. Il prezzo di lancio di 40€ sul Nintendo E-Shop potrebbe risultare un po’ eccessivo solo per questi aspetti, anche se bisogna ammettere che l’inclusione dei DLC può in qualche modo giustificarlo; se non volete aspettare qualche periodo di saldi sullo store Nintendo potrete comunque investire questi soldi nell’esclusiva versione fisica europea. Ricordiamo che oltre alle versioni PC, Xbox One e PlayStation 4 esiste anche un gioco da tavolo di This War of Mine, un altro particolarissimo modo per vivere questa sensazionale esperienza.
Un grande titolo, anche se il suo potenziale non è espresso benissimo.




VR in the Box: la realtà virtuale di Nintendo

Seppur lenta, l’ascesa della realtà virtuale non pare arrestarsi, e anche Nintendo si butta nella mischia con il Toy-con 04 VR Kit, nuovo prodotto della linea Nintendo Labo.
Sulla falsariga dei precedenti kit, un’oretta piena verrà dedicata all’assemblaggio degli stravagantissimi controller “Do It Yourself”, poi basterà inserire la cartuccia e godersi la realtà virtuale in salsa Nintendo.

La grande N sfrutta qui la versatilità di Labo per fornire esperienze che i competitor rendono possibili solo acquistando periferiche esterne: se per avere un fucile in mano giocando con il PSVR è necessario l’acquisto di un AIM controller, qui è possibile costruire da sé un’arma con cui sparare, senza dover ricorrere ai controller classici. La risoluzione di Switch in dock può essere un ostacolo a chi ha già provato altri visori di sicuro più avanzati, ma questo non sembra spaventare la casa di Kyoto, che punta sulla creatività offrendo toy-con di ogni sorta come quello del cigno, le cui ali genereranno addirittura un po’ di vento (regalando agli utenti un ulteriore layer di realismo), quello dell’elefante, che sarà il tool per creare dei disegni in 3D, quello della fotocamera e quello della girandola.

La grande N ha aspettato tanto prima di gettarsi nella mischia del VR, e questo era di certo dettato da ragioni di studio di una tecnologia ancora delicata: il prezzo di lancio di 70€ è di certo il più competitivo a fronte di una VR ancora costosa sul mercato, anche se, come già criticato per i precedenti kit Labo in passato, al momento si tratta di investire di fatto su una sorta di super-demo di 60€ con dei controller DIY venduti per 10€.

Nintendo pare voler mandare un messaggio chiaro: un software, un kit DIY. L’unicità di questa esperienza, legata soprattutto al tenere con mano oggetti simili a quelli utilizzati nei giochi, spinge a credere che Nintendo difficilmente lancerà nei negozi un visore VR dai prezzi simili al Google Cardboard, senza software o controller DIY da accostarvi, non almeno in tempi brevi. Per quanto interessante sia il modellare un controller di cartone attorno al Joycon questo potrebbe costarci una fortuna ogni volta che un titolo debba accostare un’esperienza VR, senza considerare poi lo spazio da dedicare in casa per i controller già costruiti, specialmente se abbiamo collezionato anche i kit precedenti! In questi giorni sono stati rilasciati gli aggiornamenti per The Legend of Zelda: Breath of the Wild e Super Mario Odyssey e in molti non sono rimasti soddisfatti per il fatto che le esperienze VR non aggiungono quasi nulla all’esperienza di base. Tuttavia la scelta di inserire queste nuove opzioni per due capisaldi dello Switch è secondo noi una scelta dettata dalla fretta di rendere il parco titoli per il VR immediatamente vario ma non necessariamente divertente o funzionale: nessuno dei due titoli è stato progettato con un esperienza VR in mente e perciò era comunque difficile aspettarsi un miracolo. Almeno i possessori avranno adesso tre titoli da sperimentare col visore ma per un esperienza VR pensata a 360° bisognerà aspettare ancora un po’. Sappiamo inoltre che lo sviluppo di Metroid Prime 4 è partito da capo: che includerà, visto che il mondo viene letteralmente visualizzato tramite il casco di Samus Aran, un esperienza VR incredibile?

Una domanda sorge comunque spontanea: le compagnie 3rd party potranno offrire in futuro alternative al Kit VR con dei controller più versatili per ogni titolo e senza includere software extra? Se così fosse vedremo molti più visori 3rd Party sugli scaffali, possibilmente costruiti con materiali migliori del cartone, e che potrebbero eclissare l’invenzione originaria Nintendo. Il lancio di questo Kit VR ha senza dubbio ottime premesse, ma adesso Nintendo, se non vorrà che altre compagnie ci pensino al posto suo, dovrà puntare a tutta quella fascia di pubblico che non ha intenzione di possedere il Toy-con Kit 04 di Nintendo Labo, né possedere miriadi di controller di cartone sparsi per casa, e potrebbe farlo con la semplice mossa di offrire un visore VR della qualità e del prezzo del Google Cardboard, con tutto quel che comporta (prima fra tutti l’assenza di ulteriori controller o software, o l’inclusione di accessori più versatili): una strategia semplice, che potrebbe portare ottimi frutti.




Top 5: i Migliori Giochi di Aprile 2019

Ad aprile il tempo migliora e le giornate si fanno più lunghe, ma non sono mancati i giorni di pioggia: in entrambi i casi, ogni clima è adatto per dedicarci al nostro hobby preferito! Vediamo quindi quali sono i migliori giochi usciti questo mese.

#5 Cuphead

Cominciamo con un porting, ma di qualità: l’apprezzato run n’ gun di Studio MDHR, con grafica ispirata ai cartoni degli anni ’30, arriva anche sull’ibrida Nintendo: Cuphead, dopo aver ammaliato i giocatori di Xbox One e PC, convince anche su Switch, in quella che è probabilmente, la versione migliore del titolo.
Impersoneremo Cuphead (e Mugman in caso di campagna cooperativa) nella lunga battaglia contro il Diavolo, che ha vinto al tavolo da gioco le loro anime. Sarà un lungo viaggio, tra livelli lineari classici dei platform 2D e boss variopinti e unici per design e comportamento. Un titolo originale nel panorama videoludico odierno, capace di regalare emozioni a raffica anche in portabilità.

Cuphead

#4 Anno 1800

Dopo i non esaltanti Anno 2070 e Anno 2205, torna la serie gestionale di BlueByte con quello che è il suo miglior episodio dai tempi di Anno 1404, ma non solo: infatti Anno 1800 si dimostra essere anche uno dei migliori gestionali degli ultimi anni.
Il titolo è ambientato durante la rivoluzione industriale, diviso tra una campagna narrativa, dove cercheremo di scoprire l’assassino di nostro padre oltre a sviluppare la nostra isola abbandonata, e una modalità sandbox, come da prassi per il genere. Anno 1800 convince soprattutto per l’interfaccia, non più colma di menù e schede, ma più snella e intuitiva, dove spicca la pianificazione per la futura costruzione di edifici, vero e proprio toccasana per il genere. Un ritorno che convince, per una serie che aveva il disperato bisogno di tornare ai gloriosi fasti di un tempo.

#3 Katana Zero

Opera prima dello studio Askiisoft e distribuito dalla solita Devolver Digital, sempre molto attenta verso questo tipo di produzioni, Katana Zero si presenta a noi come un action bidimensionale frenetico e molto violento.
Guai a definirlo un clone di Hotline Miami: il titolo creato da Justin Stander, è un concentrato di estetica fatta di neon e colori accesi, ispirata dalla moda synthwave e del revival anni ’80, oltre che di serratissimo gameplay senza pause. Ma ciò che sorprende è la cura per la narrazione, fatto di scelte multiple con possibilità di interrompere i dialoghi degli NPC, che rappresenta più che un mero intermezzo tra uno stage e l’altro. Devolver Digital si conferma faro della scena indie e Katana Zero, è la prima sorpresa videoludica di questo 2019 per i possessori di PC e Nintendo Switch.

#2 Days Gone

Un’epidemia zombie scoppia nel bel mezzo dell’Oregon, e il biker Deacon St. John, si ritrova catapultato in un vero e proprio inferno: questo è l’incipit di Days Gone, titolo Bend Studio uscito in esclusiva per PlayStation 4 dopo uno sviluppo travagliato.
Il gioco prende ispirazioni da serie quali The Walking Dead e Sons of Anarchy e pone le sue basi su uno sviluppo narrativo tipico di titoli Sony come The Last of Us, ma occhio a considerarlo un esercizio di stile: si tratta di un viaggio di crescita, tra orde di furiosi mostri da contrastare e vari gruppi come la setta religiosa dei Ripugnanti o i soldati della NERO, capaci di rendere complicata la nostra vita.
Days Gone è un titolo che centra il punto, nonostante la sua genesi non proprio tranquilla, e che potrebbe risultare un piacevole divertissement in attesa di titoli più blasonati.

#1 Mortal Kombat 11

Il picchiaduro più violento di sempre torna nella sua undicesima iterazione, probabilmente la migliore finora: infatti NetherRealm ha alzato l’asticella per questo Mortal Kombat 11, puntando tutto sul sistema di combattimento che, a suon di novità come i Krushing Blow e i Fatal Blow, restituiscono al giocatore un feeling impareggiabile non solo per la saga, ma anche rispetto ai precedenti giochi della casa di Ed Boon, come Injustice.
I match sono divertenti e tattici come non mai, e se le modalità offline non deludono, l’online presenta una doppia faccia: nonostante un netcode pulito e completo come raramente si è visto nel genere, delude la modalità Krypta, ridotta a un mero grinding, che spinge i giocatori verso le microtransazioni. Nonostante questo difetto, che si spera venga limato in futuro grazie al supporto della community, Mortal Kombat 11 si presenta a noi come una Fatality brutale e spettacolare, esattamente come il suo gameplay, meritando il primo posto del mese di aprile.




Google Stadia vs. The World

L’avvento di Google Stadia ha accelerato i tempi verso un futuro atteso da tutti. Del resto il digital delivery è sempre più una realtà prossima, con anche Sony e Microsoft che cominciano attivamente a sondare il terreno, cercando di capire quanto l’utenza sia ancora legata alla copia fisica o se cominci già a strizzare l’occhio al digitale. Gli approcci sono diversi, ma c’è un dato impossibile da ignorare: le console fisiche esistono ancora e l’avvento di PlayStation 5 e Microsoft Scarlett pare procedere costante.
Google, dunque, è stata fin troppo ambiziosa o Sony e Microsoft sono state troppo conservatrici? Analizziamo in dettaglio la situazione.

Forzare il cambiamento

Da quando il servizio Stadia è stato presentato, la domanda è stata una soltanto: riuscirà Google a gestire centinaia di migliaia di videogiocatori contemporanei sui diversi dispositivi? È una domanda importante, fare il passo più lungo della gamba è un rischio che il colosso di Mountain View non può certo permettersi.
Dal canto suo, la presentazione ha avuto successo, lasciando sbalorditi gli addetti ai lavori e meravigliando i videogiocatori che, improvvisamente, hanno visto cadere le catene che li vincolavano a un singolo hardware. L’importante è giocare, poco importa su quale supporto. Del servizio streaming ancora mancano alcuni dettagli, come la modalità di pagamento o se serva o meno il possesso di un gioco, ma di certo le luci della ribalta al prossimo E3 saranno sicuramente puntate verso questo nuovo inizio. LE caratteristiche tecniche ve le abbiamo già raccontate, sono sicuramente molto allettanti e capaci di portare il gaming su nuovi livelli, non solo per chi gioca ma soprattutto per chi sviluppa e produce, cambiando per sempre la faccia del mercato: l’aver disponibile tutto, subito e ovunque eliminerà all’istante aggiornamenti e add-on scaricabili e patch, il rilascio di demo e beta, nonché la distribuzione in generale con i publisher che dovranno cambiare strategia comunicativa, forse più diretta e personalizzata.
Il futuro sembra proprio roseo, un futuro arrivato molto presto e capace di prendere tutti alla sprovvista. Tra questi Sony, Microsoft e Nintendo, con lo sviluppo di nuove console in dirittura d’arrivo, in qualche modo già obsolete.
In questo periodo però, si sta sondando il terreno, con strategie diametralmente opposte: PlayStation Now è realtà e sembra funzionare abbastanza bene anche nel nostro paese, anche se ancora non vanta una libreria da capogiro. Il servizio Sony ha permesso a molti utenti PC di saggiare finalmente alcuni dei suoi titoli più importati (Bloodborne su tutti), completamente in streaming, un evento totalmente inedito e fino a poco tempo di fa inimmaginabile. PlayStation 5 è una console fisica, di cui sappiamo già le caratteristiche tecniche, che porta il gaming verso una reale next-gen; a questo punto però, next-gen non è riferito solo alla componente tecnica. Purtroppo Mark Cerny non si è sbottonato su streaming e servizi tangenti, ma le peculiarità della nuova console lasciano ben sperare, pur mantenendo un supporto ottico vista anche la retrocompatibilità con PlayStation 4.
E Microsoft? Proprio in questi giorni, la presentazione della nuova Xbox One S All-Digital, console interamente dedicata al digital delivery. Questa mossa, visto anche il prezzo di 229,99€, ha lasciato interdetti i più, visto che la stessa console con supporto fisico ha lo stesso prezzo se non addirittura minore. La via della casa di Redmond è dunque diversa, ibrida, presentando ancora la “classica scatola”, quasi per non disorientare l’utenza; una scelta senza dubbio interessante, e tutto questo lascia presupporre come anche Microsoft stia sondando il terreno, in preparazione della sua nuova console.

Il futuro degli altri

Alle 22:00 del 9 Giugno, Microsoft sarà chiamata a rispondere sul campo alla proposta allettante di Google e alle caratteristiche estreme di Sony. È chiaro come la divisione gaming del colosso di Bill Gates abbia imparato dai propri errori, puntando su una maggiore attenzione alla comunicazione e sui feedback della community. Proprio per questo la nuova Scarlett (nome ancora in codice delle nuova console) è un passo cruciale per il futuro del mercato, facendo saggiare probabilmente le caratteristiche del Project xCloud, definito come il “Netflix dei videogame”. Della nuova console si sa poco o nulla: è ovvio che sarà estremamente performante ma non è quello che interessa. Quello che conta adesso è la visione del futuro e l’approccio che Microsoft (come Sony del resto) avrà in questi mesi. Da giugno in poi, infatti, contando che Stadia uscirà a fine anno, potremmo avere un nuovo catalogo di scelta che non si baserà più sulle caratteristiche tecniche o sui titoli esclusivi ma sul tipo e sulla convenienza del servizio offerto. Questo apre un ventaglio immenso di possibilità, fatta di eventuali abbonamenti e fruibilità su diversi dispositivi. A questo proposito Apple non è rimasta a guardare: Apple Arcade non è ancora stato accostato allo streaming, certo, ma la presenza di un abbonamento per poter usufruire di titoli esclusivi è quasi certo. Questo aprirebbe il mercato a una concorrenza spietata e, nonostante l’approccio sembra essere ben diverso rispetto a Google, la casa di Cupertino sembra voler entrare a gamba tesa, sfruttando nomi altisonanti come Devolver Digital, Sega e Konami, facendosi via via strada nell’intricato mondo del gaming.
Nintendo rimane perora in disparte: se è vero che in Giappone è possibile giocare a Resident Evil VII e Assassin’s Creed: Odyssey in streaming su Switch, non si hanno ulteriori notizie sulle prossime mosse del colosso di Kyoto. Il suo approccio è cambiato radicalmente dopo la mala sorte toccata a Game Cube, cercando via traverse (per lo più di successo) per conquistare il pubblico. Ma adesso il mercato sta cambiando nuovamente e i giocatori, come si evince, sembrano attirati dal nuovo Eden offerto dalle nuove tecnologie.
L’avvento di Google Stadia dunque, sembra aver messo tutti sull’attenti, e fare un passo falso adesso decreterebbe un avvio difficoltoso e un gap difficilmente colmabile negli anni a venire. Microsoft, Sony, Apple e Nintendo, sono pronte a darsi battaglia portando la loro visione del futuro in un mercato che aveva disperatamente bisogno di una reale novità. La novità è arrivata, e non vediamo l’ora di entrare in un mondo che fino a pochi mesi fa sembrava fantascienza.




Guacamelee 2

Al tempo della sua uscita, Guacamelee è stato acclamato come uno dei migliori metroidvania degli ultimi decenni. Le più grandi innovazione proposte da questo titolo, uscito ormai 6 anni fa, risiedevano senza dubbio nel sistema di combo e di prese, nel continuo passaggio fra due mondi e nella possibilità di giocare l’avventura in co-op locale fino a quattro giocatori, tutte caratteristiche mai implementate insieme in un genere definito come l’action-platformer e che finirono per dare un’insolita sfumatura arcade a un gameplay tipicamente casalingo. Guacamelee rimase ragionavolmente impresso nella memoria di milioni di giocatori nel mondo grazie al suo esilarante humor intriso di riferimenti ad altri videogiochi classici, meme e allo splendido art-style che rende la già particolarissima cultura messicana, nonché il vero e proprio culto dedicato alla lucha libre e ai luchador, ancora più frizzante e colorata – insomma, diciamo che dopo averlo completato viene voglia di visitare il Messico! Oggi Guacamelee 2, disponibile per PC, PlayStation 4, Xbox One e Nintendo Switch (la versione che prenderemo in considerazione), ci fa rivivere le stesse sensazioni e la stessa gioia che il primo titolo portò quasi cinque anni fa e si pone come un incredibile sequel di uno dei metroidvania più avvincenti degli ultimi anni. Vediamo insieme cosa Juan, Tostada e compagni hanno in serbo per noi in questo nuovo titolo DrinkBox Studios.

Nelle puntate precedenti

Esattamente come in Castlevania: Symphony of the Night, la primissima schermata di gioco è una rievocazione dell’ultima battaglia avvenuta in Guacamelee, con tanto di «what is a luchador? A miserable little pile of secrets», giusto per rendere il rimando al fantastico metroidvania Konami ancora più chiaro. Juan sconfigge il temibile Calaca, libera Lupita, la figlia del sindaco, e la maschera del coraggioso lucador si sgretola permettendo così ai due di vivere una vita tranquilla nei tranquillissimi campi di agave accanto alla tranquilla cittadina di Pueblucho… forse fin troppo tranquilla! Juan subisce i terribili effetti della vita da sposato, non è più in forma e possente come un luchador ma vive una vita felice insieme la sua bella moglie e i suoi adorabili figli. Quella che sembrava essere una normale giornata, in cui Lupita aveva chiesto a Juan di andare al mercato a comprare qualche avocado per fare una buona salsa guacamole, si è rivelata invece l’inizio di un disastro senza precedenti; Uay Chivo, l’iconico sciamano dello scorso titolo in grado di trasformarsi in una capra, spiega a Juan che in un’altra timeline, in cui Juan e Lupita venivano uccisi da Calaca, un luchador corrotto di nome Salvador, responsabile invece della fine di Calaca, si era messo alla ricerca della guacamole sacra per diventare l’essere più potente del mondo, ignaro del fatto che ciò avrebbe distrutto l’intero mexiverso. La guacamole sacra fu creata con meticolosa cura da Tiempochtli, dio del tempo, e siccome tutti la desideravano decise di nascondere la sua magica salsa nel Otromundo, accessibile solamente collezionando le tre reliquie sacre a forma di nachos, solitamente disposti a piramide (dunque triangoli… Tre triangoli… Due alla base e uno in alto… Dove li abbiamo già visti?). Dopo essere finiti in due timeline sbagliate, una sorta di purgatorio e una timeline “Nes-osa”, arriviamo alla timeline più oscura (si chiama proprio così!) dove ci riuniremo con la maschera e Tostada, la luchador che rappresenta lo spirito di quest’ultima, e ciò ci farà trasformare — esattamente come Sailor Moon con lo scettro magico — nel possente luchador di sei anni fa; da qui comincerà l’avventura vera e propria e sarà anche possibile far partecipare un secondo giocatore che prenderà il comando di Tostada (fino a un totale di quattro che potranno usare, all’inizio, Uay Chivos e X’tabay). Ci si renderà subito conto, anche nelle sezioni prologo, di come i comandi siano incredibilmente reattivi e, senza mezzi termini, perfetti per il sistema di combattimento e combo che Guacamelee 2 pone; per questo motivo, per quanto sia possibile giocare questo titolo in due giocatori con un set di Joy Con, raccomandiamo di giocare in multiplayer con un set per giocatore, in quanto la mappatura dei tasti in questa modalità rappresenta la migliore scelta di gioco (al giocatore servono immediatamente alla pressione 7 degli 8 tasti del controller, in modalità Joy Con singolo uno di questi sarà “L”, dunque alla sinistra o alla destra del vostro controller, dipende da quale avete. a disposizione Una vera tortura!). Se volete giocare con questo gioco in multiplayer allora vi converrà giocarci con un amico che come voi possiede Switch, altrimenti dovrete abituarvi a questa astrusa mappatura.

(La frenetica prima parte di Guacamelee 2!)

Well! Agilità fra i non agili qui!

Prenderemo presto dimestichezza coi controlli e presto cominceremo, come tipico di questi generi, a collezionare gradualmente le abilità che permetteranno a Juan di superare ostacoli e rompere barriere per accedere a zone precedentemente inaccessibili. Il fattore backtracking, fondamentale per il genere metroidvania, è tarato alla perfezione e ciò potrà permettere al giocatore di accedere ad aree segrete o semplicemente liberare un passaggio alla volta di creare una scorciatoia. Troveremo spesso, come succedeva nel precedente titolo, delle aree che metteranno alla prova, man mano, tutte le abilità che andremo acquisendo con dei percorsi a ostacoli veramente folli e alla fine verremo ricompensati con un baule contenente soldi, porta cuori, costumi alternativi o “porta abilità”, quest’ultimi necessari per eseguire le mosse speciali eseguibili col tasto “A”: ci toccherà fare montanti in aria (dai, a chi vogliamo prendere in giro? Sono degli Shoryuken!), fare doppi salti, wall-jump, sfruttare delle “catapulte volanti” (dopo vi spiegheremo) e soprattutto cambiare la polarità dell’ambiente, altra meccanica fondamentale di questo gioco. Esattamente come in Guacamelee, Juan ha il potere di spostarsi dal mondo dei vivi al mondo dei morti e viceversa (prima trovando degli appositi portali e poi, trovata la specifica abilità, comodamente premendo il tasto “L” o “ZL”) ed entrambi i mondi presentano spesso delle caratteristiche ambientali diverse (come ad esempio la presenza/assenza di un muro o nemici, nel mondo dei morti un geyser di lava diventa un pilastro nel mondo dei vivi, e così via). Guacamelee 2, così come il suo predecessore, chiede al giocatore di padroneggiare al meglio questa abilità senza la quale non si potranno superare gli ostacoli più astrusi del gioco; spesso e volentieri si finisce bloccati nello stesso punto, soprattutto il quelle aree extra in cui la ricompensa è un baule, ma questo titolo, in fondo, non fa che incarnare lo spirito dei titoli classici degli anni ‘80, ‘90 e un po’ anche 2000 in cui il trial & error era spesso la meccanica che permetteva a un gioco, spesso senza sistema di salvataggio, di essere più longevo possibile. A ogni modo, con la giusta pazienza, superare una di queste aree è solamente una questione di pratica, e ogni giocatore riuscirà, con più o meno tentativi, sempre a ottenere l’ambito premio di queste stanze.
Juan troverà le abilità di cui ha bisogno nelle varie aree del gioco (rigorosamente all’interno delle statue ChoozoVi dice niente?) ma potrà renderle ancora più efficienti grazie all’implementazione del nuovo albero delle abilità in uno dei menù di pausa: qui, con i soldi collezionati, potrete rendere ancora più potenti i vostri colpi singoli, abilità varie di schivate e combo, prese di wrestling, mosse speciali e mosse pollo (sì, per offrire un qualcosa di simile alla morfosfera di Samus, Juan e Tostada potranno trasformarsi in polli!). Parlando di abilità, Guacamelee 2 introduce le nuove catapulte volanti, simili a quelle presenti in Castlevania: Order of Ecclesia: queste sono come dei ganci sospesi in aria dalla quale Juan e Tostada potranno aggrapparsi e catapultarsi verso la direzione opposta premendo “X” (un po’ come fa Spider-Man con le ragnatele). Tuttavia l’implementazione non può considerarsi riuscita al 100%, e i veterani che hanno giocato all’appena citato capitolo di Castlevania se ne renderanno conto facilmente: Shanoa attivava una sorta di aura che le permetteva di gravitare verso “il gancio” per poi stabilire meglio la direzione caricandosi verso la direzione opposta desiderata con la croce direzionale. In Guacamelee 2 invece sarà tutto più immediato: la direzione verrà stabilità dall’angolo del salto con la quale ci lanciamo verso questi ganci e una volta premuto “X” non sarà più possibile correggere l’angolo. Tante volte l’angolo risulterà corretto come quante volte, per via della fretta, sbaglieremo il lancio, costringendoci a riprovare il salto da capo. Fortunatamente in Guacamelee 2 non ci sono vite e i checkpoint sono abbastanza vicini fra loro, perciò nonostante le difficoltà che questi ganci possono dare si può riprovare infinite volte una stessa sezione. Tuttavia, la cosa più importante da padroneggiare in Guacamelee 2 è senza dubbio il sistema di combo; imparare a combattere per ottenere la combo più alta, il che significa assestare tanti colpi e schivare gli attacchi come un ninja. Schivando gli attacchi si conserva la combo e più è alta più saranno i soldi che otterremo alla fine del combattimento; ma come gonfiamo una combo? Da qui si capisce quanto complesso, intricato ma soprattutto divertente sia il sistema di combo in Guacamelee 2: i colpi a nostra disposizione saranno una hit combo semplice con “Y”, le 5 mosse speciali con il tasto “A” e i lanci/prese con “X” (quest’ultime da sbloccare dall’albero delle abilità). Frequentando la scuola di Faccia di fuoco (che scopriremo qui essere il cugino di Grillby, il barista dell’omonima locanda in Undertale!) impareremo man mano degli esempi di combo ma nel campo di battaglia daremo sfogo alla nostra creatività concatenando questi attacchi principali come vorremo; cosa c’è di meglio di partire con un bel uppercut semplice, poi una combo di jab con “Y” in aria, super montante con “A+ su, altra combo di Jab, poi un pugno a siluro, altra combo e per finire un bel piledriver o una frog splash se il nemico è un gigante? Una di quelle situazioni in cui Dan Peterson, iconico cronista della WWF/E negli anni ‘80 e 2000, non potrebbe fare a meno di gridare: «mamma, butta la pasta!». Nuovi campi di battaglia significano nuove possibilità di combo e perciò, sotto questo aspetto, ogni sezione di combattimento necessità di nuove strategie e nuovi metodi per far fuori più nemici velocemente conservando nel processo la combo; Guacamelee 2 in questo offre un sistema di lotta mai stancante e divertente come pochi altri giochi del suo genere.

Lo llamaban Juan

Per coloro che non lo sapessero, il wrestling in Messico, rigorosamente chiamato lucha libre, si discosta totalmente dal suo omologo americano o giapponese (per il quale si trova un ottimo rappresentante videoludico in Fire Pro Wrestling World), sia per lo stile di lotta nei match, sia per l’importanza che questi eventi hanno a livello sociale. I luchador in Messico sono dei veri e propri eroi in carne e ossa, e un’avventura come Guacamelee 2 non fa che rappresentare quello che è l’immaginario collettivo messicano quando si parla di questi eroi fuori dal comune, trasfigurato con stravaganze e leggerezze qui e là. Pensate che tempo addietro, negli anni ‘40, ci fu un wrestler chiamato El Santo che venne venerato esattamente come un dio: di lui, oltre ai suoi spettacolari match nel quadrato, venivano venduti fumetti e film in cui lui interpretava se stesso e agiva esattamente come un eroe, soltanto che lui a differenza dei vari Batman e Spider-Man esisteva veramente! A testimonianza del suo status d’eroe El Santo si toglieva la maschera per pochissime occasioni (nessuna delle quali in pubblico) e, alla sua morte, fu sepolto con la sua preziosissima maschera. L’atmosfera e l’epicità della storia prova, anche spiritosamente, a rievocare le leggendarie imprese di questi personaggi mascherati, un misto fra storia e leggenda che viene tramandato con vivacità. Guacamelee 2 ci presenta un Messico policromo, con una moltitudine di colori inebriante, un luogo frizzante e pieno di vita grazie a un 2D splendido animato ad hoc, esattamente come nel primo capitolo. Ci sono in più giusto un paio di elementi in 3D nei background che reagiscono perfettamente alla luce e donano un filo di profondità in più rispetto al primo episodio. In poche parole, la grafica risulta sempre chiara al giocatore e anche la mappa in game, abbastanza diversa dalla disposizione a blocchi di molti altri metroidvania, risulta sempre chiara e mai astrusa; talvolta permette pure di capire dove sono le aree segrete!
Altro plauso va fatto ovviamente alla colonna sonora: come il primo capitolo, anche Guacamelee 2 non presenta alcuna linea di dialogo doppiata (giusto qualche lamento, sforzi, etc…) ma in compenso abbiamo dei bellissimi brani che ci accompagneranno in questa coloratissima avventura. Torna qualche tema familiare, come quello della città di Pueblucho (in chiave minore), ma ovviamente abbiamo tante belle musiche nuove. Le melodie attingono dalle più iconiche tradizioni musicali folkloristiche messicane, soprattutto quelle dei mariachi fatte di trombe squillanti e chitarre scanzonate che definiscono il ritmo, ma attingono molto da generi moderni come la musica elettronica e, essendo un gioco abbastanza “old school”, anche e soprattutto dalla chiptune. In realtà nulla che sia davvero degno di nota, ma neppure una colonna sonora da scartare.

Uno, due, tre, Vittoria!

Guacamelee 2, così come una bella terra come il Messico, è un gioco in grado di trasmetterti il più puro buon umore e l’allegria grazie alla sua coloratissima grafica, alla sua storia un po’ strampalata e ovviamente alle migliaia di citazioni ad altri giochi, cartoni animati, meme, cultura internettiana, film e quant’altro in giro per le città delle sue lande piene di vita. Il divertimento inoltre non si ferma solo con l’avventura principale: è possibile integrare con il contenuto aggiuntivo acquistabile Terreni di Prova, dove sarà possibile competere in nuove modalità e affrontare nuove sfide. Abbiamo certamente un sequel all’altezza delle aspettative, anche se, dispiace dirlo, un po’ inferiore al primo titolo; elementi come le nuove catapulte volanti non sono il massimo, come del resto alcune sfide poste nelle stanze extra, le quali, laddove si deve prendere un baule, risultano spesso un continuo trial and error dettato in parte dal caso. Si perde molto tempo nelle sezioni extra e meno nelle sezioni principali e ciò, per quanto possa incentivare la longevità, talvolta risulta un prolungamento affatto necessario.
Tuttavia, il gameplay di base, non è per nulla cambiato e Guacamelee 2, così come il suo predecessore, è un validissimo titolo in grado di regalare ore e ore di divertimento da soli o in compagnia (diremmo anche doppio, visto che, una volta completato verrà sbloccata la modalità difficile). Non ci si può aspettare di meglio da un titolo indie di prima categoria e il suo prezzo di lancio di 19,99€ è più che giustificato.

Botte, nachos e azione caliente… una volta terminato non potrete fare a meno di gridare: «Ay, caramba!». Non potevamo aspettarci di meglio da DrinkBox Studios.




Tropico 6

La brezza marina, il tepore del sole, quel dolce sentore di dittatura sudamericana: questo è molto altro è Tropico, famosa serie di gestionali/city builder di Kalypso Games che da ben diciotto anni allieta le giornate di ogni sano dittatore dello stato libero di Bananas che alberga dentro ognuno di noi. La sesta fatica della saga, Tropico 6, vede un cambio della guardia, con Haemimont Games che lascia spazio ai tedeschi di Limbic Entertainment, autori degli ultimi episodi di un’altra serie storica, Heroes of Might & Magic.
Ma bando alle ciance: prendiamo subito il nostro biglietto della nave e imbarchiamoci verso Tropico!

Sandinista!

Tropico 6 si propone a noi forte di un’idea innovativa per la serie: si pone infatti fine all’unico isolotto e ci si lasciano alle spalle i problemi di spazio derivanti da una simile scelta e si dà il via alla multigestione di un arcipelago con flora e fauna diversi tra di essi, forse la più grande novità del titolo. Già dal tutorial il nostro fido consigliere Penultimo ci spiegherà l’importanza delle varie isolette e della loro diversificazione: potremo avere un’isola apposta da dedicare all’industria, come per esempio, un isolotto vulcanico ricco di minerali, oppure un vero e proprio paradiso tropicale, meta perfetta per il turista straniero e spendaccione, oltre, ovviamente, alla nostra isola principale, che funge da nucleo per i tropicani.
Il gioco ci offre tre modalità diverse e uguali allo stesso tempo: se il multiplayer si descrive da solo, mi soffermo brevemente sulle varie missioni, che tentano di offrire un piccolo spunto narrativo riguardo la storia di El Presidente, ma che, alla fine, rappresentano un mero diversivo rispetto alla modalità sandbox, da sempre vero centro nevralgico della serie.

Sul piano grafico, il potere dell’Unreal Engine 4 si mostra in tutta la sua bellezza, gli scorci di Tropico 6 sono i più belli che i nostri occhi da dittato…ehm, presidente abbiano visto. Peccato che la cura nei paesaggi del nostro arcipelago non venga riposta anche negli abitanti degli isolotti, davvero scialbi e privi di qualsiasi personalità se non quelle che leggiamo nelle loro schede.
Sul lato del gameplay non si registrano molte novità, Limbic è voluta andare sul sicuro, creando un greatest hits delle feature viste nei precedenti capitoli della saga: è tornata la meccanica dei discorsi al popolo, direttamente da Tropico 3, così come i raid dei pirati presi da Tropico 2, e vengono confermate le quest da completare, meccanica introdotta dal precedente capitolo e su cui si basa la gran parte delle nostre partite durante il lungo mandato che ci accompagna dall’era coloniale fino ai giorni nostri, passando per la seconda guerra mondiale e la guerra fredda. Dovremo stare attenti a ogni fazione presente sull’isola e non, come il portavoce della corona inglese durante gli inizi del nostro regime, passando per comunisti, religiosi, capitalisti, ambientalisti e chi più ne ha più ne metta. Sarà importante creare una buona economia basata sull’esportazione di beni più o meno raffinati, ottenuta sfruttando le rotte commerciali. Il tutto cercando di restare al potere con mezzi più o meno leciti, con un’enfasi su quest’ultimi, da bravi dittatori quali siamo.
A chiudere il tutto, fa capolino la sempre ottima colonna sonora, come da tradizione della serie: un tripudio di son cubano, salsa e bachata che ben si sposa con l’atmosfera isolana.

El pueblo unido jamás será vencido

Per quanto Tropico 6 cerchi di “dividere e conquistare” puntando al futuro, ma con un piede ben saldo al passato, c’è da dire che è abbastanza deludente la parte legislativa: davvero semplicistica, con pochi editti e una costituzione che ci offre poche possibilità di variare il nostro gameplay, un po’ deficitaria se si pensa alla mole di leggi ed editti che potevamo attivare in passato. Soddisfacente invece è la parte puramente dedicata al city building, essendo questo capitolo di Tropico quello con più edifici della serie. Chiaramente non si potrà ottenere la complessità di un City: Skylines, ma resta comunque un’esperienza funzionale al titolo.

A conti fatti, il ritorno di El Presidente convince, ma con delle riserve: ottima l’idea degli arcipelaghi, così la conferma di alcune delle feature del predecessore e il ritorno dei discorsi. Peccato solamente per la semplificazione della parte legislativa, dicevamo, e del micromanagement in generale, segno di un abbassamento della difficoltà che può far storcere il naso ai fan di lunga data e agli appassionati del genere.
Ad ogni modo, Tropico 6 resta un titolo che spicca grazie al suo carisma e all’atmosfera, davvero unica nel panorama videoludico.

 




Top 5: Marzo 2019

L‘inverno è giunto alla sua conclusione, lasciando il palcoscenico alla primavera e al rifiorire della natura. È anche il tempo di nuove uscite videoludiche, tra gemme inaspettate e titoli che non hanno deluso. Vediamo quali.

#5 Tropico 6

Sesta iterazione per il popolare gestionale di Kalypso Media a tema social-politico: vestiremo ancora una volta i panni di El Presidente in quello che, forse, è il compito più arduo di tutta la serie. Non gestiremo più una sola isola, bensì un arcipelago! È questa la novità più eclatante di questo Tropico 6, che aggiunge delle variazioni ben riuscite nel classico gameplay della saga. Avremo quindi più isolotti da gestire, come se fossero delle macro aree ognuna diverse dall’altra, senza dimenticare l’occhio alle varie fazioni politiche di Tropico, fattore fondamentale per una lunga presidenza, o nel peggiore dei casi, dittatura.
Dopo il mezzo passo falso del precedente capitolo, Tropico 6 torna in carreggiata, offrendoci uno dei migliori capitoli della serie da lungo tempo, capace di offrire ore e ore di puro divertimento caraibico.

#4 Baba is You

Baba is You, puzzle ideato dal finlandese Arvi “Hempuli” Teikari, ha un’idea semplice quanto complessa allo stesso tempo: per completare i livelli bisognerà “comporre” delle frasi di senso compiuto, usando degli aggettivi trovati in giro per i livelli. Per esempio, se un fiume di lava ci blocca il passaggio, basta mettere in sequenza le parole “lava is melt” per veder sparire l’ostacolo. È un titolo originale che, come l’idea del suo creatore, può sembrare semplice ma in realtà nasconde un cuore arduo e complesso, come ogni buon puzzle game che si rispetti. Uscito su PC e su Nintendo Switch, Baba is You è una gemma nascosta nel mare delle pubblicazioni indie, che consigliamo ai fan del genere e a chi vuole giocare un titolo che fa della semplicità e dell’originalità il suo punto di forza.

#3 Tom Clancy’s The Division 2

Abbandonata la notte perenne e innevata di New York per l’assolata e verde Washington D.C., The Division 2 ci riporta a lottare contro il virus scatenatisi nel primo episodio, portandoci nella capitale degli Stati Uniti contesa tra quattro diverse bande in guerra per la supremazia territoriale. Il titolo Ubisoft mantiene le promesse fatte durante lo sviluppo e dona ai giocatori un buon ibrido tra gioco di ruolo e shooter con coperture, migliorando i difetti del precedente capitolo. Unica pecca forse un endgame ancora non all’altezza dell’offerta, ma The Division 2 è comunque il miglior loot shooter del mercato, riuscendo dove altri titoli ancora non riescono a incidere.

#2 Devil May Cry 5

La rinascita di Capcom passa anche da qui: dopo Monster Hunter: World e Resident Evil 7, tocca a Dante e colleghi portare in alto il vessillo della software house giapponese. Devil May Cry 5 torna sui nostri schermi più bello che mai, grazie all’uso del RE Engine, e soprattutto più spettacolare che mai. Se Dante e Nero possono eseguire combo in stile picchiaduro, quest’ultimo usando anche la particolare protesi robotiche denominata Devil Breaker, particolare è il gameplay del nuovo V, un evocatore capace di chiamare in battaglia tre demoni da usare per combattere dalla distanza.
Il Re degli hack n’ slash è tornato e Devil May Cry 5 non delude le aspettative dei fan, donandoci un titolo sia bello da vedere che divertente pad alla mano.

#1 Sekiro: Shadows Die Twice

Un giovane shinobi del periodo Sengoku, alle prese con un arduo compito: vendicarsi della perdita del proprio braccio, sostituito da una particolare protesi, e salvare il proprio signore . È questo il prologo di Sekiro: Shadows Die Twice, ultima fatica di From Software e del suo mastermind Hidetaka Miyazaki. Nonostante la parentela con la serie dei Souls e del genere a essa legato, Sekiro si dimostra diverso rispetto ai titoli del recente passato, il gioco è più votato all’azione e al combattimento tra spadaccini, ed è possibile eseguire anche delle uccisioni stealth che richiamano un titolo sempre legato agli sviluppatori giapponesi: Tenchu.
Il level design è una delle peculiarità del titolo, con scenari mozzafiato come da tradizione, che ben si sposano con il setting del Giappone feudale. Sekiro centra il colpo alla perfezione e consacra il lavoro del suo creatore ai massimi livelli, donandoci non solo il miglior gioco del mese, ma anche uno dei migliori titoli del 2019.




Sekiro: Shadows Die Twice – La Strana Cultura del Masochismo

Sono passati ormai poco più di dieci anni da quando Hidetaka Miyazaki ha definito un nuovo genere con Demons’ Souls, esclusiva PlayStation 3 che ha riscritto il concetto di sfida per i videogiocatori, con il protagonista (il giocatore stesso), immerso in un mondo a lui quasi sconosciuto, scoprendo il proprio destino tra mille difficoltà e ostacoli quasi insormontabili. Questo setting diede modo all’autore di portare avanti il proprio progetto con la trilogia di Dark Souls prima e Bloodborne poi.
Sekiro: Shadows Die Twice è però tutt’altro: l’iniziale strana partnership con Activision ha creato un prodotto sicuramente più accessibile ma anche dannatamente malvagio, in grado di far selezione già a partire dalle prime ore di gioco. Ma una volta superati tutti gli ostacoli, Sekiro è senza dubbio una delle migliori produzioni del 2019.

Dark Souls… in Giappone

Il Giappone dell’epoca Sengoku non è nuovo per le trasposizioni videoludiche (vedi Nioh), ma quando c’è lo zampino di From Software, tutto prende un’altra piega. Ogni elemento risulta nuovo, grazie alla solita spruzzata di dark fantasy che in questo caso rende la terra natia dell’autore un luogo magico e terrificante al tempo stesso. Anche all’interno di Sekiro: Shadows Die Twice ritroviamo gli elementi classici della poetica di Miyazaki: tra sangue, draghi, predestinazione ci si sente a casa anche se, la narrativa è decisamente più diretta. In questa produzione infatti, prendiamo le vesti di un personaggio con un proprio background narrativo e una sua caratterizzazione, uno shinobi caduto in disgrazia e che si troverà invischiato in situazioni ben più grandi di lui. Tutto viene raccontato attraverso cutscene, attraverso classici dialoghi con NPC (dotati di elementari animazioni labiali), level design e ovviamente attraverso le descrizioni degli oggetti, meno criptiche rispetto ai souls e in grado di arricchire una storia che si presenta ben più complessa di quanto sembri. Il mondo mostrato da From Software è dunque pieno di sfaccettature, ricco di NPC e di scelte più o meno velate che porteranno (dopo circa una quarantina di ore) a uno dei quattro finali disponibili.
Miyazaki dunque riesce a portare avanti il proprio pensiero riuscendo a portare anche in questo frangente un puzzle di storie, sentimenti e pericoli… più di quanto pensiate.

Weregame

Iniziamo col dire che proviamo pietà per tutti coloro che si approcciano a un titolo From Software per la prima volta, partendo proprio da questo. Al contrario delle precedenti opere infatti, in cui sin da subito venivano messe le cose in chiaro, qui le cose sono un po’ diverse. Si è discusso tanto della partership con Activision e per chi ha dimestichezza con le idee di Miyazaki, si riesce a capire benissimo chi abbia influenzato cosa. Ad esempio, sin dai primi momenti, tutto viene spiegato in maniera molto chiara, fornendo indicazioni utili sulla trama e sugli scopi da perseguire. Vi è persino una sezione allenamento dedicata, sfruttando un malcapitato non-morto che per sua volontà, verrà violentato dai colpi della Sabimaru, la Katana del nostro Sekiro. L’impressione è che l’ultima produzione “From” sia in qualche modo rivolta a un pubblico ben più vasto del solito, cercando di venir incontro anche ai “casual gamer” che non vogliono star ore a rimuginare su una singola frase presente in una descrizione di un oggetto. E così, invogliati a proseguire, quasi accompagnati per mano, ci accingiamo a entrare nel magico Giappone dell’Era Sengoku sino a quando, quella stessa mano, ce la si ritrova in faccia con maestosa e violenta potenza.
Tagliamo subito la testa al “Toro Infuocato”: Sekiro: Shadows Die Twice non è un gioco per tutti. Anche chi si è dilettato con i vari souls o Bloodborne si troverà di fronte a una cattiveria e malvagità senza precedenti, in cui ogni singolo errore può essere fatale.
Sekiro è qualcosa di completamente diverso, a cominciare dallo stile di combattimento, votato più all’azione offensiva che all’attesa, sfruttando le tante novità offerte dal titolo From Software. Niente stamina prima di tutto e questa è una mancanza a cui bisogna abituarsi in fretta: il poter attaccare, schivare o correre senza sosta è qualcosa di nuovo in questi frangenti e, se all’inizio questa libertà può dare alla testa, ci si accorge immediatamente di come un approccio sbagliato porti a un solo e singolo esito: morte. Ogni errore costa caro e riconoscere al più presto le movenze del nemico è assolutamente fondamentale. Il combattimento è dunque una danza, fatta passi leggeri, salti leggiadri e deviazioni effettuate al millisecondo. È questo il segreto di Sekiro, in cui è possibile anche parare i colpi avversari, ma a vostro rischio e pericolo: anche se invisibile, nelle serie precedenti, vi era una sorta di contatore di “equilibrio” che una volta sceso a zero, dopo aver ricevuto numerosi colpi, si entrava in una fase di stordimento che rendeva inevitabile qualsiasi colpo critico. Questo concetto, qui, viene estremizzato, portando addirittura a vista suddetta barra, denominata della Postura. Ogni colpo la danneggia e più si è feriti più lentamente si ricaricherà. Per evitare di rimanere brutalmente uccisi o facilitare l’eliminazione del nemico, sarà necessario imparare la deviazione (una sorta di parry), che infligge danni alla postura altrui riducendone i nostri. Bisogna tenere alta la soglia d’attenzione di ogni singolo movimento avversario, studiarlo e trovare soluzioni ma fortunatamente, abbiamo a disposizione alcuni strumenti in grado di aiutarci, utilizzabili attraverso la cosiddetta Protesi Shinobi, un arto meccanico in grado di ospitare diversi dispositivi – curioso come nel giro di pochi giorni abbiamo avuto come protagonisti due personaggi (Nero e Sekiro) con medesime caratteristiche –.

Ogni attrezzo shinobi, da una potente ascia a uno scudo in grado di respingere i proiettili avversari, possiede un proprio albero dei potenziamenti e altrettante caratteristiche; ognuno di essi può essere ovviamente adeguato o meno per il nemico che stiamo affrontando ma fortunatamente intercambiabili in tempo reale (per un massimo di tre strumenti) oppure sostituiti attraverso il menu (il gioco va in pausa). L’utilizzo di questi strumenti ampia a dismisura il gameplay, sopperendo in qualche modo alla mancanza di altre armi da utilizzare, avendo come sola e unica arma principale la Sabimaru. Tralasciando alcuni elementi tradizionali come fiaschette curative e oggetti di potenziamento, Sekiro è nuovo anche dal punto di vista dei movimenti, contando su una mobilità senza precedenti, sfruttando un level design che fa della verticalità il suo marchio di fabbrica. Il rampino del braccio prostetico è vitale non solo per l’esplorazione ma anche per tendere agguati o fuggire come un lampo; da notare come per scelta precisa di From Software è possibile appigliarsi solo in punti strategici, decisi a priori. Questo limita sì la libertà concessa al giocatore ma ha altresì permesso uno studio più attento della posizione di nemici e del protagonista all’interno del contesto, presentando le soluzioni migliori al videogiocatore.
Essendo uno shinobi, lo stealth entra prepotentemente all’interno del design del gioco; del resto Sekiro è in qualche modo una reminiscenza di un nuovo Tenchu. Abbiamo a disposizione un comando dedicato alla “postura stealth”, elementi ambientali da sfruttare e ovviamente le alture per monitorare le zone. Queste sezioni funzionano abbastanza bene in generale, permettendo di liberare potenzialmente una zona senza essere visto oppure origliare, carpendo informazioni utili per il prosieguo. Il problema deriva però da un’intelligenza artificiale che di certo non aiuta, con personaggi in grado di non accorgersi di una violenta morte a pochi passi ma di allarmarsi in gruppo a centinaia di metri di distanza. Tutto risulta purtroppo mal calibrato e soprattutto poco approfondito, nonostante lo sblocco di abilità a essa dedicate. Proprio queste abilità, unite a quelle offensive e speciali sono il modo con cui il nostro personaggio può evolvere e migliorare, unito alla possibilità di aumentare vitalità, postura e forza d’attacco solo ed esclusivamente attraverso l’ottenimento di oggetti chiave.
Infine arriviamo all’elemento più controverso, il concetto di morte che per From Software è molto caro. Resuscitare, oltre che elemento narrativo, è qualcosa che bisogna imparare a sfruttare a livello strategico. In certi frangenti la morte può salvarvi la vita ma bisogna fare tremenda attenzione. Una morte sfrutta un nodo speciale che può essere ricaricato attraverso il riposo agli Altari dello Scultore (Falò) o attraverso i colpi critici inferti ai nemici. Ritornare in vita ha delle conseguenze, non solo su Sekiro (percentuale di monete ed esperienza persa per sempre), ma anche sul mondo di gioco che in qualche modo può ricordare la Tendenza dei mondi di Demon’s Souls.
Sekiro: Shadows Die Twice è dunque un titolo completo sotto tutti i punti di vista, nonostante sia lontano dalla varietà dei souls. Ma queste sue caratteristiche, in qualche modo, rendono l’esperienza di gioco comunque unica per ogni giocatore, che potrà comunque sfruttare ciò che ha imparato nel new game + o in qualche futura espansione che siamo sicuri, arriverà.

Kintsugi

From Software non ci ha abituato a titoli “spacca-mascella”, cosa che si riconferma anche in questo frangente. Nonostante però non vanti qualità visive di altri titoli, in qualche modo, non se ne sente ne la mancanza, ne il bisogno. La capacità della casa di Tokyo di rendere memorabile qualunque anfratto degli ambienti di gioco e dei personaggi, nonostante texture, shader e luci poco a passo coi tempi, è sorprendente, con l’impressione abbastanza concreta che tutto sia costruito mettendo in cima alla lista la direzione artistica prima di qualunque altra cosa. Tutte le sezioni presenti hanno una loro personalità, dai valichi innevati a lugubri villaggi, dove noi, assieme a Sekiro, possiamo immergerci alla stessa maniera con cui in Dark/Demon’s Souls affrontavamo una nuova zona. Il level design, benché colleghi meno tutto l’ambiente di gioco, è come da tradizione su altissimi livelli, ricchi di scorciatoie, segreti, tutto studiato per essere affrontato nella migliore maniera possibile. Ma vi è un’altra tradizione, anche se di stampa negativa: i difetti classici delle serie precedenti permangono, come compenetrazioni letali e la gestione della telecamera, senza dubbio migliorata ma ancora non perfetta, rendendo alcuni scontri ancor più difficili di quanto siano.
Sul fronte audio, ritorna il doppiaggio italiano, che svolge un buon lavoro cercando di replicare in qualche modo la solennità di certi dialoghi e la psicologia di Sekiro, un uomo distrutto, che dopo aver perso qualunque stimolo, ritrova un proprio scopo. In qualche modo però, la lingua originale (giapponese) riesce a restituire qualcosa in più, probabilmente grazie al contesto generale e a doppiatori forse un po’ più in parte. Menzionando il suono di deviazione della Sabimaru che presto diventerà iconico, le musiche svolgono un ruolo chiave, presenti anche come accompagnamento ambientale. Ovviamente è durante le boss fight che questa componente da il meglio, comunicando sempre qualcosa su chi stiamo affrontando, tra musiche auliche, malinconiche ed evocative.

In conclusione

Sekiro: Shadows Die Twice è semplicemente il titolo più malvagio prodotto da From Software. Nonostante un’accessibilità facilitata, probabilmente su direttive Activision, Sekiro è qualcosa che raramente si vede all’interno del mercato videoludico, qualcosa che se ne infischia della massa e capace di far selezione già dalle prime ore. Ma se si è perseveranti, pazienti e abbastanza abili, vi ritroverete tra le mani una perla, un gioco maestoso sporcato soltanto dai difetti tipici delle produzioni From Software, alla quale probabilmente non vuole (o sa) porvi rimedio. Nonostante questo, Sekiro: Shadows Die Twice rimane senza dubbio nella top tre del 2019, nonostante l’anno, sia appena iniziato.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Sapphire Radeon RX 580 8GB NITRO+ Special Edition
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10




Tom Clancy’s The Division 2 – Vinci o Impari

La prima iterazione di Tom Clancy’s The Division ha lasciato tutti quanti un po’ interdetti: dopo una presentazione in pompa magna, tra trailer suggestivi e campagna marketing aggressiva, quello che arrivò tra gli scaffali fu un titolo “monco”, pieno sì di potenziale e di buone speranze ma che si perdeva in alcune ingenuità come alcune feature inaccessibili da subito e nemici in grado di assorbire ingenti quantità di proiettili. Ubisoft e Massive Entertainment hanno gradualmente imparato la lezione, portando grossissimi miglioramenti al pacchetto, anche se forse un po’ troppo tardi. Il secondo capitolo dunque, è frutto degli insegnamenti appresi in precedenza, presentandosi in maniera poco velata come un ottimo “more of the same”.

Una Divisione per gli Stati Uniti

Sono passati sette mesi da quando una devastante epidemia ha colpito gli Stati Uniti il giorno del Black Friday. Se, come abbiamo visto, New York non è rimasta indenne dalla caduta della società, non se la passa di certo meglio la capitale, una Washington D.C. contesa da diverse fazioni divise per ideologia, tutte alla ricerca di ascendere al potere. Anche qui La Divisione è chiamata a riportare l’ordine, cercando di ristabilire un governo che possa rimettere in qualche modo le cose a posto. Il compianto Tom Clancy ci ha regalato negli anni, storie al cardiopalmo, thriller politici e colpi scena come se piovesse, ma qui, purtroppo, nonostante dei buoni asset narrativi, tutto risulta dannatamente piatto e di certo l’eccessiva frammentazione delle quest non aiuta il giocatore a interessarsi di una trama molto debole. Tutto suona di pretesto, un contesto in cui qualsiasi giocatore possa collegare il suo agire con una qualsiasi motivazione narrativa. L’amaro in bocca rimane, soprattutto per una scrittura che di per sé non è neanche male, contando su dialoghi talvolta ispirati.
Cosa resta dunque? Molto poco, ed è un peccato perché tutto il resto funziona, e molto bene.

Sbagliando si impara

Tutto ciò che abbiamo visto nel precedente capitolo, qui viene riproposto con diverse migliorie e novità, a cominciare da una maggiore personalizzazione di armi e poteri tecnologici, in grado di rendere unico il proprio alter ego. Proprio sulle armi è stato eseguito un lavoro certosino, moltissime per numero e tipologia ed estremamente diversificate. Ogni arma ha le sue caratteristiche, un proprio rinculo, un proprio rateo e così via, rendendo l’esplorazione di queste peculiarità parte attiva del gameplay, alla ricerca dello strumento di morte adatto a noi. L’aggiunta di nuovi armamenti poi, ha ampliato a dismisura le possibilità da gioco di ruolo del titolo ma soprattutto una maggior ricercatezza tattica; questo perché anche l’intelligenza artificiale è degna del nome che porta, garantendo una sfida adeguata, già a partire dai primi frangenti di gioco: accerchiano, stanano e si coordinano, sfruttando ripari, torrette o postazioni sopraelevate. Inoltre è sparito il fastidioso effetto di “bullet sponge” dei nemici, che tanto aveva afflitto la precedente iterazione. Di fronte a tutto ciò, è qui che il giocatore deve prestare maggiore attenzione, cercando di utilizzare tutte le risorse a disposizione, tra armi e gadget. Il loro potenziamento è dunque vitale, così come lo è l’avanzamento di livello sino ad arrivare alla fatidica soglia di trenta, momento in cui le cose a Washington cambieranno drasticamente.
Nonostante si presenti come titolo da day one, l’offerta è già abbastanza completa, rendendo disponibile sin da subito anche la componente multiplayer competitiva che però mostra il fianco a diverse critiche: prima di tutto il matchmaking, capace di far competere un livello cinque contro un livello venti – non c’è partita ovviamente – e una struttura che ben funziona in singolo o in cooperativa ma che lascia qualche perplessità nel competitivo, in cui la differenza è fin troppo lasciata all’equipaggiamento in dotazione.
Tralasciando questo però, The Division 2 regala grosse soddisfazioni, con un ottimo feedback dalle armi e dei movimenti, di molto migliorati rispetto alle beta: ci troviamo sempre di fronte a un classico TPS con coperture attive, ed è qui che il level design mostra i muscoli, sia all’aperto che all’interno: l’attenzione dedicata a questo aspetto è encomiabile, con ambienti non solo ricchi di dettagli puramente estetici ma anche ricco di elementi che potremmo utilizzare come ripari adatti a tutte le situazione e sfruttabili tatticamente. La libertà d’approccio è quasi totale e conoscere gli anfratti di Washington a menadito può risultare spesso un grosso vantaggio. Nonostante la capitale degli Stati Uniti non vanti lo stesso fascino e suggestione di New York, è comunque una meraviglia, viva, variegata e che soprattutto invita all’esplorazione. Andare alla ricerca di equipaggiamento via via sempre più performante è un elemento chiave ma anche un piacere in questo caso.
Le cose da fare di certo non mancano, con un’elevata mole di missioni principali e secondarie in cui perdersi, ma in grado di fornire ricompense adeguate, che invogliano il giocatore a intraprenderle, approfondendo in senso lato anche la narrazione.
Massive Entertaiment ha già promesso importanti update gratuiti nel corso dell’anno e di fronte a una base di partenza così solida siamo curiosi di vedere come questo titolo possa migliorare, magari facendo da maestro ad altre produzioni simili ma che faticano a “tirare avanti”.

La forma segue la funzione

Vista la sua natura, il compito di lasciare a bocca aperta gli utenti attraverso il comparto tecnico, non è stato nelle priorità di Massive Entertainment; nonostante ciò, il titolo si mostra abbastanza bene, con ambienti e contorno che si discostano molto dalla New York del capitolo precedente. Una palette di colori molto accesa accompagna il giocatore attraverso una Washington sfaccettata, ricca di dettagli ed estremamente varia, segno che dal punto di vista artistico si è fatto un gran lavoro. Su PC il titolo non mostra alcuni segni di cedimento per quanto concerne il frame rate anche se vi è da segnalare un eccessivo pop-up di texture e alcuni elementi a bassa definizione. Per il resto, The Division 2 riesce a regalare scorci mozzafiato, soprattutto in zone avanzate della mappa. Sul fronte audio si segnala un buon doppiaggio italiano, che cerca in qualche modo di far risaltare quanto viene narrato, accompagnato da musiche sempre adatte al contesto: nulla di memorabile, ma in grado, in certi frangenti di esaltare alcune sezioni di gameplay. Ottimo lavoro per quanto concerne invece l’ambiente sonoro, capace di caratterizzare una città in decadenza ricordando a tratti i fragorosi silenzi di “Io Sono Leggenda”. Il buon lavoro eseguito sul mixaggio audio inoltre – apprezzabile soprattutto se dotati di headset 7.1 – aiuta tantissimo la nostra percezione dell’ambiente e soprattutto dei nemici, fondamentale in molti frangenti.

In conclusione

Tom Clancy’s The Division è dunque un titolo riuscito, capace di intrattenere come pochi nel suo genere, dimostrazione di come sia importante inciampare per poter rendere al meglio successivamente. Tutto ciò che è stato apprezzato precedentemente viene riproposto in versione migliorata e potenziata, riducendo il più possibile i difetti tanto criticati dalla community. È il miglior loot shooter sul mercato? Probabilmente sì: tutto funziona a dovere, regalando fin da subito varietà d’approccio, un gran senso di libertà al videogiocatore, che mai come adesso, si sente protagonista nella riconquista della civiltà andata perduta.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Sapphire Radeon RX 580 8GB NITRO+ Special Edition
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10