Videogiochi e cinema: il lento dialogo tra industrie

Il mondo dei videogiochi e quello cinematografico hanno linguaggi comuni e, pur serbando i due mondi non poche differenze, entrambi vanno avvicinandosi sempre più in termini di linguaggio e anche di rilevanza sul piano sociale e culturale.
I dati parlano chiaro, e le testimonianze di questo avvicinamento sono sempre maggiori. Fra queste, è interessante leggere quella di Gina Ramirez, agente all’APA (Agency for the Performing Arts), che in un’intervista rilasciata a GamesIndustry.biz, spiega i vari aspetti per cui i videogiochi e il cinema venivano considerati universi differenti, per quanto riguarda il marketing e la scelta degli attori e la loro evoluzione nel tempo.
L’APA si occupa di rappresentare attori, scrittori, produttori, registi, ma negli ultimi anni l’agenzia si è interessata anche al mondo dei videogiochi, che nell’ultimo decennio ha avuto una crescita esponenziale.
L’agenzia per cui lavora Ramirez, oltre a rappresentare colossi come Capcom per la realizzazione di film e nuove iniziative o Activision, è riuscita a far collaborare piccoli produttori con i grandi marchi del mondo dei videogame, come la stessa Activision, che ha permesso a un giovane scrittore di lavorare a un DLC per Call Of Duty. Ma non si occupano solamente di grandi aziende: hanno infatti anche rappresentato DJ2 e alcuni sviluppatori indie e le loro relative pubblicazioni, come We Happy Few, Little Nightmares e Ruiner.
Secondo la Ramirez, i videogiochi devono ancora affermarsi del tutto nel mondo del business, ma la strada pare essere quella giusta. La stessa Ramirez ha lavorato per varie agenzie fino ad arrivare, nel 2013, ad Activision; proprio lavorando lì si è resa conto che il mercato videoludico è ancora troppo “giovane” per poter essere uno standard di business per le aziende.
Durante la sua esperienza in Activision, Gina Ramirez ha notato l’evoluzione dell’atteggiamento delle celebrità verso il mondo dei videogiochi: anni fa lavorare con i videogiochi era visto alla stregua del fare da testimonial a merendine o bibite, ma lei è riuscita a sensibilizzare la maggior parte dei VIP ed è riuscita a coinvolgerli personalmente ed emotivamente, ottenendo così prezzi più economici per la loro partecipazione.
Molte aziende, però, non riescono a comprendere l’importanza del coinvolgimento dell’attore nella creazione del videogame e si intestardiscono nell’ingaggiare un attore, magari perché famoso o perché lo credono perfetto, ignorando la sua voglia di partecipare e il suo reale coinvolgimento.
Gina Ramirez nel 2015 lascia Activision con la convinzione che il dialogo tra Hollywood e il mondo videoludico sia impossibile ma, quando firmò con l’APA, l’agenzia disse di credere che un incontro tra le due forze era possibile. Nonostante le perplessità, la Ramirez volle ritentarci e stavolta con buoni risultati.
A lungo andare, oltre agli attori/doppiatori, anche l’intero mondo cinematografico è diventato molto più economico per gli sviluppatori: prima gli studi cinematografici, per utilizzare una loro IP, pretendevano per l’acquisto di una licenza una quota molto alta, invece adesso lavorare con i videogiochi viene visto come una pubblicità, una mossa marketing intelligente e di conseguenza il costo delle licenze per l’utilizzo di IP già registrate è sceso.
Ancora oggi quello tra il mondo dei videogiochi e quello cinematografico non è un dialogo semplice, dovuto a molte – troppe – rigidità da un lato e dall’altro, Ramirez, i due mondi si avvicinano sempre di più, a testimonianza di come il videogame rivesta un valore sempre più importante anche sul piano artistico.




Dark Souls e la cultura del contesto

Se avete giocato almeno una volta a Dark Souls, fiore all’occhiello della nipponica From Software, sarete sicuramente scesi a patti (come del resto accade con le Fazioni all’interno del gioco) con la sua controversa e dibattuta “non narrazione” o lore (della quale trovate una disamina in questo corposo speciale) che di fatto costituisce una grossa fetta di quella fortuna che lo ha reso capostipite di un vero e proprio sottogenere di giochi di ruolo, quello dei soulslike.
Oltre che a reinterpretare la difficoltà dei tempi passati con un gameplay tanto punitivo quanto gratificante, Dark Souls fa della libera interpretazione il più grande punto di forza, perché è proprio attraverso le speculazioni che la community arricchisce l’esperienza di gioco, donandogli una linfa vitale che si rinnova a ogni discussione.
È però il gioco stesso a richiedere cooperazione da parte del suo interlocutore (inteso come “giocatore”) e su questa impernia il suo significato più profondo. Tutto ciò, in maniera consapevole o meno, può essere relazionato alla cultura d’origine dell’opera ed è quello su cui ci concentreremo qui di seguito.

Analizzandone il linguaggio, possiamo considerare quella nipponica come una High Context Culture (HCC), ovvero quel tipo di cultura basata più sul senso complessivo di una frase che sul significato della singola parola che la compone. Nella lingua giapponese non esiste differenziazione tra maschile e femminile, singolare e plurale; inoltre, i verbi sono coniugati in maniera uguale per tutte le persone ed esistono soltanto due tempi verbali: il “passato” e il “non passato”, il quale racchiude in sé presente e futuro. Tutto ciò evidenzia come il sistema linguistico valorizzi il contesto come chiave di lettura per la comprensione. Tornando a Dark Souls, riuscite a immaginare quanto la lingua di partenza possa creare un allontanamento dalla nostra attuale capacità di interpretazione? Se avete provato un forte senso di alienazione giocando, sì; e se ne siete stati affascinati al punto da sentire il bisogno fisiologico di approfondire, be’, gioite, siete i giocatori perfetti per Dark Souls.
L’appartenenza a una HCC coinvolge in maniera incisiva, oltre che la lingua, anche la sfera personale, influenzando le tradizioni, il linguaggio non verbale e la stessa percezione del tempo. Generalmente, infatti, gli occidentali tendono a vedere il tempo proiettato verso il futuro, in maniera lineare, mentre nella cultura orientale la ciclicità sta alla base di tutto. Chiusa una stagione se ne aprirà una nuova, come in cerchio, esattamente come avviene per le varie ere che compongono la (apparentemente) distorta linea temporale dei vari Souls.
Tornando al linguaggio in relazione alla HCC, i gesti rappresentano, nel gioco di Miyazaki, l’unico strumento di comunicazione tra i giocatori, che interfacciandosi sono riusciti in senso lato a coniare parole nuove e locuzioni, riutilizzate usualmente all’interno della community («Loda il Sole» vi dice qualcosa?); inoltre, si è venuta a creare una forma autentica di galateo (inchinarsi dinnanzi a un nuovo giocatore, soprattutto se ostile, rappresenta sempre il primo passo per ottenere un “leale scambio di opinioni”). Tutto ciò rispecchia in pieno l’idea di tradizione di origine, pur rappresentando di fatto un’innovazione all’interno del mondo del gaming.

Ma Dark Souls è unico nel suo genere?
Solo in parte, perché sono tantissimi i giochi che richiedono una cooperazione simile da parte dell’interlocutore-giocatore. Basti pensare ai giochi del Team Ico, come The Last Guardian e Shadow Of The Colossus (tornato da poco sugli scaffali in veste rimodernata) o più semplicemente all’idraulico più famoso di tutti i tempi: Super Mario.
Quindi tutti i giochi provenienti da una HCC necessitano di interpretazione?
Come in ogni opera (dal cinema alla musica), pensare al contesto sociopolitico e culturale di partenza aiuta a comprendere più a fondo i significati più o meno espliciti, ma la risposta, anche in questo caso, è un parzialissimo “no”. Le eccezioni sono tante in numero proporzionale a quanti sono i giochi appartenenti alla regola. La saga di Resident Evil, ad esempio, meriterebbe un’analisi approfondita, ma in linea di massima riesce bene nell’intento di raccontarsi, probabilmente perché nel tempo ha subito una più profonda influenza da parte del mondo occidentale.

Viviamo in un melting pot di culture, e in questa sede è impossibile non citare giochi non narrati e ad alto contesto di provenienza europea, come lo struggente quanto nostrano Last Day of June, sviluppato da Ovosonico; Inside dei danesi Playdead (dei quali si potrebbe citare anche Limbo); infine anche Little Nightmares degli svedesi Tarsier Studios, come gli stessi Souls distribuiti da Bandai Namco.
Va da sé che questa è solo la punta dell’iceberg: a ragion veduta si potrebbero analizzare miriadi di realtà differenti, soprattutto in un momento così florido per il mercato degli indie game, che spesso fanno del linguaggio visivo una forma d’arte. Puntualizzato che questo articolo voleva soltanto fornire degli spunti di riflessione, rimaniamo al vostro fianco in attesa dell’uscita di Dark Souls Remastered, il 25 maggio su PC, Playstation 4, Xbox One e Switch.

Gaetano Cappello

Carmen Santaniello




Little Nightmares

Mostri d’infanzia

Gli incubi dell’infanzia prendono forma. Questo accade in Little Nightmares, platform-puzzle distribuito da Bandai Namco Entertainment per PlayStation 4, Xbox One e Pc, rilasciato il 28 Aprile 2017 e sviluppato da Tarsier Studio, studio svedese conosciuto per aver collaborato a giochi come Little Big Planet e Tearaway Unfolded. Gli sviluppatori hanno sfruttato come elemento principale proprio temi interessanti come le paure infantili e i mostri in cui queste prendono forma (il mostro che mangia i bambini, il babau, gli archetipi spaventosi di ciò che si nasconde nell’oscurità che qui diventano boss dai quali fuggire, per mettersi in salvo e sfuggire alla dimensione dell’incubo).

Tra le Fauci

Il titolo ha una trama enigmatica, simile a quella di Inside, pluripremiato titolo di Playdead, così enigmatica che il gioco stesso in effetti tende a non esplicitare nulla del suo racconto. Little Nightmares è ambientato in un luogo immaginario chiamato “Le Fauci“, un insieme di antri oscuri e pieni di insidie dove trovano asilo mostri famelici dall’aspetto truce. Nelle Fauci vengono portati i bimbi rapiti, come la nostra piccola protagonista, Six, la quale al contrario degli altri bambini è però intenzionata a fuggire da quel posto infernale. Affamata, armata di un solo accendino, coperta dal suo bellissimo, esile impermeabile giallo, la nostra protagonista dovrà scappare passando da un livello all’altro delle Fauci risolvendo i vari enigmi e puzzle che le si pareranno davanti.
Il titolo sfrutta molto bene il gioco di chiaroscuri, i contrasti tra i vari colori risaltano e contribuiscono in maniera decisiva a rendere l’ambiente crepuscolare, adatto a una dimensione da “piccolo incubo”, non orrorifica in senso stretto: da incubo d’infanzia, appunto. Anche un comparto sonoro ben strutturato fa la sua parte, armonizzando le musiche con suoni ambientali vividi, che arrivano letteralmente a circondare la piccola protagonista e permettono di sentire nettamente i pericoli in arrivo.
Non sono presenti dialoghi o scene di narrazione, scelta che, se da un lato lascia molti dubbi su come la nostra protagonista sia finita nelle Fauci, d’altro canto rende ancora più forte l’impatto di un gioco affidato interamente a immagini, suoni, colori e chiaroscuri, che non sembra soffrire mai l’assenza di linee di testo.

Piccoli Incubi

Il titolo consta di 5 capitoli nei quali si dovrà trovare la via che porta all’area successiva, non senza aver superato i numerosi enigmi di cui accennavamo. Six può camminare, correre, accucciarsi, saltare, aggrapparsi a sporgenze e afferrare oggetti utili per proseguire come leve, chiavi e molto altro (meccaniche non molto lontane dal luminoso e gioioso Little Big Planet, certamente agli antipodi per ambientazione). Potremo utilizzare giocattoli rumorosi per distrarre i mostri, e ovviamente dovremo spesso far ricorso al nostro accendino, oggetto fondamentale per farsi strada nelle zone più buie. Anche l’utilizzo della telecamera – mossa dalle solite levette – risulta importante per ottenere una visuale estesa e anticipare possibili pericoli o intuire le giuste soluzioni ai puzzle.
Un difetto da ravvisare è piuttosto legato alla percezione della profondità, la quale non è proprio perfetta e molto spesso risulta così imprecisa da farci mancare oggetti da afferrare e piattaforme su cui atterrare.
Anche in Little Nightmares sarà possibile trovare vari collezionabili, a dir il vero molto particolari, dividendosi questi fra alcuni animaletti chiamati “nomes“, che la nostra piccola Six dovrà abbracciare, e alcune statuette dalla forma femminile che invece bisognerà distruggere. In termini di longevità, il gioco si attesta sulle 4-5 ore, mantenendo un buon equilibrio tra una storia di cui si ha solo una traccia, puzzle interessanti e alternamente impegnativi e un comparto grafico-sonoro che fa la differenza, regalando al giocatore dei quadri unici, con un risultato tra il sottilmente orrorifico e il cartoonesco che ricorda il Tim Burton dei tempi d’oro.