Justice League

Ci siamo. Il progetto Justice League è completo. O almeno è così che dovrebbe essere. Finalmente abbiamo l’opportunità di vedere la Lega della Giustizia in tutto il suo splendore e, – diciamocela tutta – non vedevamo l’ora. Come accaduto per Avengers, anche qui, sin da piccoli, non abbiamo fatto altro che immaginare come sarebbe stato un lungometraggio con protagonisti gli eroi DC, immaginando quale delle tante storie sarebbe stata scelta, chi il villain e così via. Purtroppo negli ultimi anni questo hype ha cominciato a venir meno, vuoi per un discreto Men of Steel, o un imbarazzante Batman Vs. Superman, un mediocre Suicide Squad e un’accettabile Wonder Woman, finendo con l’arrivare di un Justice League che si presenta come un cinecomic dalle fragili basi e con due facce della stessa medaglia.

Il progetto Justice League ha incontrato una serie di difficoltà, la principale delle quali fu l’abbandono di Zack Snyder nel bel mezzo delle riprese per un grave lutto. La palla è dunque passata a Joss Whedon, regista dei due Avengers di casa Marvel. Non c’è bisogno che vi dica come le visioni dei due registi siano praticamente in antitesi: se Snyder predilige una fotografia desaturata e toni cupi e drammatici, Whedon si lancia in pellicole che per certi aspetti tendono alla commedia, preferendo colori sgargianti. In un modo o nell’altro, entrambi sanno fare il loro mestiere, sanno certo tenere in mano una cinepresa e hanno idee chiare sul progetto. Ma i problemi di Justice League partono proprio da qui: visioni, così diverse, di intendere in cinefumetto, rendono questo film letteralmente “lunatico”, passando a fasi alterne da momenti puramente drammatici a momenti goliardici in cui nessuno sembra prendersi sul serio. Il risultato è una concreta difficoltà a entrare nel mood del film, rimasto in un limbo che, invece di portare a una profondità di trama e personaggi, finisce per essere dimenticabile. Questa dualità si percepisce anche nella caratterizzazione dei personaggi, con scene completamente riscritte da zero, e adattate per l’occasione, e per le soundtrack composte da Junkie XL, dopo che Hans Zimmer decise – forse saggiamente – di lasciare il progetto. Proprio con l’ingresso di Whedon, anche Junkie venne sostituito con  Danny Elfman, storico compositore che, nel 1989, si occupò di realizzare la colonna sonora del Batman di Tim Burton. Questo triplo passaggio di consegne non ha fatto altro che gettare altra confusione sul comparto sonoro, con musiche che a volte, seguendo i toni diversi del film, vanno in contrasto tra loro. Non stiamo certo parlando di pessime musiche, ma è l’amalgama che proprio non funziona.
Non manca nemmeno l’infatuazione amorosa di turno: se state pensando qualcosa legata a Wonder Woman e qualche eroe del gruppo vi sbagliate di grosso. Bruce Wayne e Clark Kent divengono veri rivali di Ennis Del Mar e Jack Twist ne I segreti di Brokeback Mountain.
Ovviamente l’ormai famosa dualità si può intravedere anche per la regia, buona in generale nei diversi frangenti, tranne per alcune scene d’azione, in cui si fatica davvero a capire cosa stia succedendo. Non mancano scene di forte impatto e alcune buone idee ma è troppo poco per avvicinare questo film alla sufficienza, anche perché, i problemi (gravi) sono altri.

Abbiamo dunque detto che il film soffre di parecchi problemi, ma non sono nemmeno paragonabili a quello della caratterizzazione dei personaggi. Al contrario per quanto avvenuto con il primo Avengers, in cui ogni protagonista ha avuto il suo film stand alone (per Iron Man addirittura due), in Justice League troviamo un gruppo in cui solo Wonder Woman e Superman hanno avuto il loro momento di gloria. La bellissima Gal Gadot, pur non vantando grandi doti recitative, riesce a fare il suo, portando un personaggio con cui è facile interfacciarsi, rimanendo ancorata alla caratterizzazione figlia del suo lungometraggio. Il kryptoniano (Henry Cavill) invece è il superman che abbiamo desiderato subito dopo l’adattamento di Snyder: un personaggio solare, così come abbiamo imparato a conoscerlo in questi anni. Le note positive sui personaggi ci concludono con Cyborg (Ray Fisher), qui nella sua prima apparizione, e che riesce a ritagliarsi il suo spazio, con un discreto background narrativo ed elemento centrale della narrazione. Le perplessità scaturite dai primi trailer sulla realizzazione grafica del suo corpo cibernetico fortunatamente vengono cancellate, presentandosi come un personaggio con una buona presenza scenica e incuriosendo il pubblico per un eventuale film a lui dedicato.
Tutto il contrario invece per Steppenwolf, il villain del film. Forse era più lecito aspettarsi Darkseid, uno dei cattivi principali delle serie DC ma evidentemente gli sceneggiatori hanno optato per un nemico meno ingombrante dal punto di vista narrativo. Il risultato è un antagonista assolutamente privo di carisma e non aiuta di certo la sua realizzazione completamente in CGI: veramente brutto a vedersi, lasciando perplessi sul perché di questa scelta. Steppenwolf (Ciarán Hinds) è di natura umanoide per cui utilizzare un attore reale, con la sua bella armatura e un po’ di make-up, non vedo personalmente come avrebbe potuto essere peggio di un personaggio digitale.
Ma nemmeno lui riesce a toccare le vette della mal caratterizzazione. Partiamo da Barry Allen, in arte Flash. Anche per lui è la prima apparizione e il suo ruolo è chiaro fin da subito: il comic relief. Traendo probabilmente ispirazione dal Peter Parker di Spider-Man Homecoming,  Ezra Miller ne diventa parodia, un ragazzino con battute fuori luogo e a tratti fastidioso. Poi c’è anche la questione grafica: sappiamo tutti – tranne chi ha realizzato il film evidentemente – che il simbolo del corridore più veloce al mondo è un lampo giallo. Qui i suoi lampi sono blu.
Anche Aquaman fa la stessa fine.  Jason Momoa interpreta un misto tra Jason Momoa e Khal Drogo de Il Trono di Spade, con in mano un forchettone. Pur essendo la sua prima apparizione non sappiamo nulla di più rispetto a quanto già sapevamo sulle sue origini, anche se, la sua presenza scenica e sicuramente d’impatto. Del resto è Khal Drogo.
Dulcis in fundo, Batman. Probabilmente la peggior trasposizione cinematografica del Cavaliere Oscuro finora, il personaggio di Ben Affleck è letteralmente inutile. Un uomo che, a detta sua, ha come unico potere quello della ricchezza, finisce col diventare un Tony Stark mal riuscito, trovandosi in continua difficoltà per tutta la durata del film. Conosciamo tutti Batman, il più grande detective al mondo, dotato di grande intelligenza e tra i migliori combattenti dell’universo DC. Qui non c’è nulla di tutto questo. Bruce Wayne è semplicemente qualcuno che, in mancanza di armi (provate voi ad associare Batman e armi), è preso in contropiede, lasciandosi in balia degli eventi. E questo porta a un’altro problema del film. La Justice League dovrebbe essere un’amalgama perfetta, in cui ognuno può sfruttare le sue doti uniche per risolvere diverse situazioni e vincendo battaglie con il gioco di squadra. La Justice League cinematografica è “Supermancentrica”: tutto ruota attorno al kryptoniano, l’unico in grado di far realmente qualcosa, assieme a Cyborg, ovviamente.
La mazzata finale la danno il montaggio, realizzato in maniera discutibile e che lascia intravedere le difficoltà di un progetto partito male e finito peggio, e la CGi, davvero pessima per la maggior parte del film, col la chicca dei baffi di Henry Cavill (nel frattempo impegnato a girare un’altra pellicola) coperti digitalmente.

Cosa resta quindi? Poco, davvero poco. Justice League paga per tutte le scelte sbagliate intraprese finora e per una gestione difficoltosa. Tralasciando qualche buona idea e un paio di scene davvero niente male, il resto è solo un’accozzaglia di scene prive di amalgama e riempite da personaggi che faticano ad uscire dallo schermo, almeno per i giusti motivi. Probabilmente l’unico modo di salvare il progetto è fare un reset totale, così come avvenne nel 1985 per mettere ordine tra le infinite storie parallele dell’universo DC. Una Crisi delle Terre Infinite in salsa cinematografica, per dare un colpo di spugna, e far finta di aver visto delle storie di un mondo parallelo che non ci appartiene.
Nel frattempo, potrete rifarvi gli occhi grazie al mondo videoludico: la serie Arkham dedicata a Batman e gli Injustice, firmati NetherRealm Studios, vi faranno scoprire come una buona scrittura possa valorizzare le già ottime storie del DC Universe.




Spider-Man: Homecoming

Ammetto di non avere un gran rapporto con i reboot: li vedo spesso come un elemento di confusione nell’universo di una serie, una diversione dalla linea principale che aggiunge elementi di cui non sento quasi mai la necessità riguardo a storie che ho già apprezzato a loro tempo. Nel caso di marchi storici, longevi e consolidati come Spider-Man un reboot diventa un rischio ancora maggiore, dovendo “tradire” una mitologia ormai consolidata da decenni e sulla quale il cinema si è già più volte preso svariate libertà. Homecoming è infatti il secondo reboot cinematografico della saga che vede per protagonista l’Uomo Ragno, un lungometraggio nel quale il regista e sceneggiatore Jon Watts (e con lui Jonathan Goldstein, John Francis Daley, Christopher Ford, Chris McKenna ed Erik Sommers, che lo hanno affiancato in fase di scrittura) opera svariate rivoluzioni – com’è anche giusto che sia – alla storia del fumetto.
Peter Parker è sempre il quindicenne che tutti conosciamo, e il film non affronta la parte ormai nota dell’acquisizione dei superpoteri, ma ci introduce alla storia prendendoli come dati di fatto. Peter abita con una “zia May” enormemente ringiovanita nella sempreverde Marisa Tomei e sta svolgendo uno “stage” presso la Stark Industries, di fatto un apprendistato da supereroe sotto l’egida di Happy Hogan (un adattissimo Jon Favreau) che nella sua trasposizione cinematografica è ormai il braccio destro di Iron Man (ormai inscindibile dalla figura di Robert Downey Jr). Tom Holland si dimostra quello che è potenzialmente il più calzante degli Spider-Man già dal punto di vista fisico: più atletico di Tobey Maguire, più adolescente di Andrew Garfield, il giovanissimo attore britannico (che vedremo anche nei panni del giovane Nathan Drake nel film di Uncharted) è probabilmente la miglior sintesi tra i due predecessori, e lo dimostra anche sul piano recitativo, offrendo una prova rispettosa del personaggio originario che ben si innesta in tutti gli elementi innovativi derivati dalla contestualizzazione contemporanea.
In parallelo si sviluppa la storia di Adrian Toomes, capo di una ditta di smaltimento di rifiuti che vede interrotti i propri lavori dall’U.S. Department of Damage Control, causando un danno alla sua attività. Dalla rabbia per l’ingiustizia subita a diventare un cattivissimo villain il passo è breve; il mite imprenditore Toomes si trasformerà nel supercriminale che il giovane Spider-Man dovrà affrontare, lo storico Vulture, l’Avvoltoio, interpretato qui dall’immenso Michael Keaton, (e chi meglio di Birdman?), il quale, poco tempo dopo, avvierà una nuova attività imprenditoriale dandosi alla compravendita di armi aliene (Chitauri, nella fattispecie) sul mercato nero. E in qualche modo bisogna pur campare, però se arriva Spider-Man a romperti le uova nel paniere…

Il film è interamente gestito su un’equilibrata alternanza di toni fra serio e faceto, momenti di grande azione e scambi di battute efficaci (con un paio di picchi verso il basso sulla linea comica).
Quello in cui si colloca la storia è un mondo diverso da quello in cui un tempo nascevano i supereroi: se ogni fumetto dell’epoca vedeva spesso il proprio protagonista totalmente isolato e reietto, in un mondo spesso afflitto dal crimine e privo di possibilità di salvezza che rendeva necessario l’intervento del “supergod“, qui siamo in un universo totalmente ribaltato, dove i supereroi sono una realtà consolidata
– con la squadra degli Avengers in primo piano – non meno di quanto lo siano pericolosi alieni e i continui attacchi alla civiltà da parte di esseri potentissimi e cattivissimi. È la nuova weltanschauung Marvel, ed è chiaro che si parta da un totale ribaltamento di prospettiva rispetto al mondo fumettistico: ciò comporta che le storie e i personaggi debbano inevitabilmente svilupparsi su una base culturale e sociale totalmente diversa, nella quale Capitan America gira video educativi destinati alle scuole e la Damage Control è una realtà consolidata. Non è dunque strano che la variazione del contesto attorno a Peter Parker cambi anche il modo di vivere del giovane Spider-Man, il quale soffre, sì, di poca fama nel contesto scolastico e del conseguente bullismo da parte di Flash Thompson (Tony Revolori, che qualcuno avrà già visto lavorare con Wes Anderson) ma rispetto ai comics è meno isolato, ha un migliore amico, Ned (Jacob Batalon), e un gruppetto di compagni nerd con cui gareggiare a un decathlon scientifico, nonché gli stessi Tony Stark e il buon vecchio Happy a supportarlo, a formarlo, ma soprattutto a bacchettarlo.

Da queste basi prende le mosse la ripartenza della saga di Spider-Man, in un contesto in cui non è necessario uno zio Ben a sacrificarsi per la sua formazione morale, dove il protagonista è meno eroe epico e più personaggio a tutto tondo, al punto da rimettere in discussione gli stessi desideri che lo animano durante l’intera storia, anche quelli legati al suo essere supereroe. C’è un punto focale infatti, nel film, un momento di intersezione tra i desideri (incarnati da Liz, la ragazza di cui Peter è innamorato, interpretata da Laura Harrier) e i doveri del supereroe: il momento di intersezione si traduce in uno scontro che non a caso ha luogo durante il tradizionale ballo scolastico che segna il ritorno a scuola degli studenti, l’“homecoming” appunto, che diviene una sequenza cruciale della storia. Probabilmente Watts gioca con questa ambiguità, perché fin dall’inizio si intuisce come il titolo faccia riferimento al ritorno a casa dopo il grande combattimento all’aeroporto di Berlino in Civil War, quello che sancisce il vero e proprio inizio del rapporto tra Peter Parker e la Stark Industries; ma l’homecoming scolastico diventa occasione per rivelazioni e decisioni importanti per il giovane Spider-Man e, pur essendo la sequenza forse gestita in maniera un po’ spicciola e sbrigativa, si rivela uno dei punti chiave del film. È a Tom Holland che dobbiamo riconoscere il merito di restituire un personaggio roso dal proprio dilemma, non gravato dalle responsabilità derivanti dal grande potere né dai sensi di colpa familiari, ma ineluttabilmente diviso dalla frattura fra il Peter Parker adolescente e lo Spider-Man in divenire che animano la dialettica di questo “romanzo di formazione”. Anche questo aspetto avrebbe forse meritato un maggiore approfondimento, ma non era l’obiettivo del film (e dobbiamo pur sempre ricordare che il mondo Marvel, come quello di Star Wars, hanno preso una piega diversa da quando sono stati inglobati nell’universo Disney, la quale ha comunque il merito non da poco di aver mantenuto una buona qualità in entrambi i brand).

Il livello di scrittura però rimane globalmente molto buono, mantenendo bene l’equilibrio tra un aspetto action, supereroistico e spettacolare ben gestito e quello comico che, al di là di qualche scivolone, mantiene il film sempre su un piano “brillante”; buona anche la prova registica di Jon Watts, il quale manifesta alcuni propri limiti nelle sequenze più difficili come quella del traghetto di Staten Island, nella quale si sente il peso di una certa inesperienza e il fatto di essere alle prese con il proprio primo lavoro ad ampio budget.
Le musiche di Michael Giacchino (The Incredibles, ma anche compositore in vari lavori J. J. Abrams, una garanzia in qualunque film arrivi a musicare) e la fotografia dell’italo-americano Salvatore Totino (The Da Vinci Code, Frost/Nixon, Angels & demons), completano un quadro molto ben strutturato, nel quale gli attori possono dare del loro meglio; a tal proposito, se possiamo rimanere colpiti dell’ottima prova del ventunenne Tom Holland alle prese con un ruolo difficile dentro un costume pesante da portare, quello che continua a impressionare nonostante la lunghissima carriera è sempre Michael Keaton, che impersona in maniera magistrale un cattivo dotato di uno spessore degno dei grandi film del genere (i Batman di Nolan su tutti) e che non si rivela un semplice contraltare atto a valorizzare il supereroe, come spesso accade nel film Marvel; al contrario, Toomes/Vulture è un personaggio problematico, animato da una rabbia con cui potremmo facilmente empatizzare, scaturendo da un senso di un’ingiustizia subita, da un lavoro sottratto a un uomo  che arriva ad affermare pure che “questi uomini hanno delle famiglie”, riferendosi ai propri operai, un capo d’azienda che possiamo immaginare amministri la propria attività da “buon padre di famiglia” e che diventa un villain per reazione, un cattivo che non gode della morte altrui o della distruzione fine a se stessa ma che è disposto a far qualunque cosa per difendere la propria famiglia e il proprio territorio, senza pentimenti e con tutto il cinismo possibile, beninteso; ed è forse l’odio verso tutti i grossi capitalisti che aggrediscono e fagocitano il mercato e verso lo stesso Tony Stark (che li rappresenta) a rendere il personaggio per certi versi vicino al nostro Spider-Man, non a caso definito da Iron Man «eroe springsteeniano della classe operaia», un working class hero proiettato più alla difesa del quartiere che alla ribalta nazionale.
La dialettica fra due personaggi così ben congegnati fa la differenza in un film che pare un ottimo inizio per un brand che non sente il peso dei suoi quasi 60 anni di vita e nel quale Spider-Man pare finalmente essere davvero ritornato a casa.