Dove finisce Activision e comincia From Software

È passato ormai un po’ di tempo dall’uscita di Sekiro: Shadows Die Twice, del quale avete già potuto leggere tra le nostre pagine. Come già accennato nella recensione, Sekiro è un prodotto creato tra l’unione di una software house (From Software) e un publisher (Activision) molto diversi nel modo di approcciarsi al pubblico, tanto da preoccupare i fan di Miyazaki sin dal primo trailer di presentazione. L’influenza di Activision si sente, dando ai conoscitori dei souls la sensazione che Sekiro sia frutto di uno scontro di “giochi di potere” e di compromessi: acquisire maggior pubblico a discapito della libertà progettuale o portare avanti le proprie idee con il rischio di allontanare i giocatori? Come per il duo Salvini-Di Maio, i diversi approcci sono chiaramente visibili, cercando in qualche modo di accontentare tutti, con risultati più o meno buoni.

Fiori nei cannoni

L’impatto con l’ultima fatica della casa di Tokyo può essere un po’ straniante per i conoscitori dei “soulsborne”: siamo abituati al mini tutorial iniziale, con striminzite righe di testo capaci di spiegare “alla larga” le principali meccaniche del titolo, ma in Sekiro tutto questo prende una piega particolare. È già qui che l’influenza di Activision si nota, spiegando per filo e per segno ogni meccanica presente e, nel caso in cui la nostra memoria facesse brutti scherzi, è possibile trovare tutte le spiegazioni nel menu di pausa. Come se non bastasse, è presente anche una sezione allenamento dove il non-morto Hanbei presterà il suo corpo immortale per provare nuove abilità in tutta sicurezza. Nei souls l‘unico modo per far pratica è rischiare la vita. Si capisce già da questi frangenti come la visione dell’autore e l’apertura delle sue idee al mondo sia un reale frutto del compromesso, invogliando i giocatori a proseguire nei meandri di Ashina. Ma per Hidetaka Miyazaki lo “smarrimento” del videogiocatore – così come la difficoltà – ha un ruolo chiave all’interno del gioco, in cui ognuno di noi deve essere pronto a gettare il cuore oltre l’ostacolo per superare i momenti critici. Queste idee sono enfatizzate ovviamente dalla ricercatezza artistica e da alcuni elementi ripresi direttamente dalla cultura giapponese come una statura fisica più elevata rispetto al nostro Lupo, in grado di far avvertire il rango sociale ma, soprattutto, l’idea di essere sempre di fronte a qualcosa di più grande rispetto a noi. Fortunatamente tutto questo non viene scalfito dall’intervento di Activision, anche se in certi frangenti la sua ingerenza è così palese da far sorridere.
Le variazioni possono già percepirsi in elementi come la narrazione, da sempre un aspetto molto criptico dei prodotti From Software, costituita da centinaia di frammenti sparsi nel gioco e che bisogna mettere assieme di volta in volta per riuscire ad avere un quadro completo. Sebbene in Sekiro: Shadows Die Twice questa componente risulti sicuramente ben più diretta rispetto ai souls e a Bloodborne, a volte si ha la sensazione che sia fin troppo chiara. Già la descrizione degli oggetti, presenta informazioni più esplicite che in passato, nonostante la mole sia la medesima; il risultato è che invece di avere un puzzle di solo cielo composto da mille pezzi, se ne ha uno più accessibile, capace di invogliare anche il “giocatore della Domenica” ad approfondire le tematiche del titolo. Ma questa accessibilità si palesa in maniera “violenta” con gli NPC, non solo abbastanza loquaci ma anche molto espliciti sul da farsi. Ogni oggetto − o quasi − ha la sua funzione, descritta a chiare lettere così come le indicazione su dove e come proseguire. Il giocatore dunque è decisamente accompagnato per mano e lontani sono i ricordi in cui una volta arrivati ad Anor Londo in Dark Souls, bisognava affidarsi all’istinto per poter proseguire. Purtroppo (o per fortuna) questo elemento è stato quasi completamente estirpato: siamo sì immersi in un mondo di cui sappiamo ben poco, ma l’essere guidati da una mano ben visibile spezza in qualche modo la magia e possiamo facilmente presumere che Miyazaki avesse ben altri piani.

Una dura verità o una dolce bugia?

Chi ama e chi ha amato i souls in questo decennio è ben conscio del fatto che la difficoltà ha un valore particolare, quasi religioso, in questa tipologia di videogame. I combattimenti, l’orientamento per le intricate mappe, il portare avanti le quest dei vari personaggi secondari, sono sfide che il videogiocatore appassionato ama e che sono capaci di regalare un forte senso di gratificazione una volta arrivati al finale. Sekiro tutto questo lo fa egregiamente (o quasi) ma, come ormai si evince, in maniera diversa: in qualche modo tutto risulta meno criptico, accompagnando il giocatore in “segreti” che effettivamente non sono tali. L’accessibilità dettata da Activision in questi casi è forse un punto dolente, capace di togliere quella magia e senso della scoperta a cui normalmente From Software ci ha abituati: come dimenticare il Grande Vuoto di Dark Souls o le Tombe Dimenticate del terzo capitolo, come non pensare a Lautrec o al destino di Anri. From Software ha sempre gettato l’utenza in un mondo descritto da qualche riga, senza appigli particolari per sopravvivere; insomma, bisogna essere audaci, scaltri e intuitivi per andare avanti. È questo il vero fascino dei lavori di Miyazaki, ma che in quest’ultima opera, in qualche modo, lo si percepisce meno: abbiamo fin troppe informazioni e indicazioni, non solo su come proseguire ma persino di gameplay.
Molte di queste parole hanno valore puramente soggettivo: diventa chiaro come per alcuni questo nuovo approccio sia molto più fruibile e sicuramente più orientato alle masse; eppure qualcosa non quadra. Il gioco – come descritto in fase di recensione – è punibilità allo stato puro, malvagio sotto quasi tutti i punti di vista. Allora perché stendere un “tappeto rosso” per l’Inferno? Forse infatti, “eticamente” parlando, Sekiro: Shadows Die Twice è disonesto: tutti felici, tutto comprensibile ma basta poco per tornare a casa dalla mamma, piangendo. Nei souls duri e puri, subito un boss quasi insormontabile, senza capire i perché di ogni cosa e via; si soffriva certo, ma almeno il contesto era schietto.
L’ormai definibile genere souls, col tempo, si è diramato in più segmenti, arrivando anche a ibridi particolari come Immortal: Unchained – ingiustamente maltrattato da parte della stampa e che difenderò fino alla morte. Il filo conduttore è sempre lo stesso, un approccio duro sin da subito, un tacito accordo tra videogiocatore e programmatori che non può essere scalfito. In Sekiro questo accordo vale solo certi frangenti, separati nettamente: From Software ha creato un combat system geniale e immediatamente iconico, cattivo ma in grado di esaltare chiunque e un impianto artistico magniloquente. Activision ha messo il proprio zampino sulle scelte narrative in senso stretto: i dialoghi, le descrizioni degli oggetti, nonché i tutorial, sono aperti al pubblico, comprensibile anche al videogiocatore occasionale. E qui arriva il plot-twist: questa partnership è stata capace di aprire gli occhi a From Software, escogitando nuovi modi di approcciarsi al pubblico? Il netto contrasto tra il pubblisher e la software house col tempo potrebbe sparire, in favore di un’amalgama perfetta nel futuro secondo capitolo (ops, spoiler). Ma di tutto questo, ne parleremo successivamente, di come Sekiro II possa diventare la pietra miliare di From Software, grazie a un migliore compromesso tra le parti.




Immortal: Unchained – La Sindrome di Stoccolma

Quando sei un piccolo team di sviluppo, appena nato, con poca esperienza ma con grande voglia di fare, non è facile varcare il confine che porta al successo. Questo vale per tutti gli ambiti, incluso ovviamente quello videoludico, nel quale Toadman Interactive si è lanciata nello sviluppo di un titolo ambizioso e che sembra fare tanto il verso ai capisaldi di molti generi. Non è la prima volta che abbiamo a che fare con un souls in salsa fantascientifica (non ultimo The Surge di Deck13), ma Immortal: Unchained è diverso, e pare già essersi fatto conoscere come il “Dark Souls con i mitra“. Effettivamente, unire meccaniche da TPS a un souls like sembra un’operazione folle e un po’ fuori dal mondo, eppure, seppur con qualche scivolone, sembra funzionare.

Da cosa nasce cosa

Approcciarsi alle vicende scritte da Anna Tole (The Witcher) e Adrian Vershinin (Crysis 3, Battlefield 1), come in ogni buon souls like che si rispetti, non è operazione delle più semplici. Salvo qualche eccezione (vedi Nioh), in più titoli del genere l’insieme si presenta in maniera frammentata, raccogliendo manufatti, sbloccando armi o attivando dei “dispensatori di lore“. Eppure, nonostante qualche palese citazione, tutto funziona, fregiandosi della tanto in voga “profezia da compiersi” ma in salsa del tutto nuova.
Tutto, ma proprio tutto, ha inizio da un Monolite misterioso, che con la sua energia dà vita all’Universo e ai nove mondi protagonisti delle vicende. Come da prassi, si scatenano guerre per il controllo di un simile potere, e da questi conflitti sono i Prime a trarne vantaggio, avviando così un’era prospera. Una volta creato il nostro personaggio attraverso un menù avaro di elementi di personalizzazione, saremo chiamati a risvegliare il potere del Monolite per scongiurare l’apocalisse in arrivo, anche se si avranno un po’ di sorprese lungo il cammino, sino a un finale interessante e per certi versi coraggioso.
All’interno del titolo avremmo a che fare con NPC, pochi a dir la verità, ma ben scritti e preziosi per scoprire lati della storia più intimi ed emotivi, ma anche per instillare qualche piccolo dubbio al giocatore sul proprio percorso e sulle proprie azioni.
Molto dunque viene raccontato attraverso dialoghi e descrizioni, ma non mancano alcune cutscene, narrate attraverso artwork interessanti stilisticamente ma che rischiano di distanziare un po’ il giocatore dal racconto; solo l’ultima cutscene è generata con il motore di gioco, fortunatamente. Non è presente un “new game+”, né multiplayer o altri elementi online, ma Toadman ha precisato che molte feature verranno introdotte in futuro, già a partire dai prossimi mesi.
Per la cronaca, il titolo è stato completando in circa 25 ore di gioco, con qualche portale residuo ancora da aprire e qualche boss opzionale da affrontare.

Tra Chuck Norris e Carla Fracci

Tutto ha inizio nel Nucleo, il nostro hub centrale che somiglia vagamente al Nexus di Demon’s Souls. Da qui potremo interagire con gli NPC, personalizzare il nostro equipaggiamento e livellare. Ma, cosa ancor più importante, potremo teletrasportarci verso i tre mondi che è possibile visitare: Arden, Veridian e Apexion. La parte succosa del titolo è il gameplay, un po’ schizofrenico, capace di passare da buone idee e ottimi spunti a scivoloni grossolani. La caratteristica principale di Immortal è di essere un TPS (Third Person Shooter) abbinato alle classiche meccaniche da souls, comportando un approccio completamente nuovo in entrambi i sensi: in primis, la possibilità di colpire i nemici, ed esser colpiti dalla distanza è alquanto straniante al primo approccio, dovendo schivare i colpi in arrivo a più riprese e al contempo – se possibile – aggirare l’avversario per colpirlo alle spalle o destabilizzarlo, situazione simile a Nioh o probabilmente al futuro Sekiro.
Altra meccanica interessante, ma mitigata rispetto alla versione di prova, è il danno localizzato: possiamo colpire arbitrariamente gli arti, smembrando così i corpi dei nostri poveri nemici. Una volta colpito l’arto dove è impugnata l’arma, si attiveranno anche animazioni uniche dove l’avversario cercherà di colpirci come può. Inoltre, bisognerà fare molta attenzione a risparmiare proiettili in quanto, una volta terminati, saremo in balia dei nemici, che come noi dovranno fermarsi a ricaricare. Fortunatamente, attraverso consumabili – se in nostro possesso – e una volta sbloccati i restanti slot per le armi, questo problema viene molto mitigato.  Il nostro arsenale si compone di diverse tipologie di armi, tutte con caratteristiche proprie: passiamo da carabine a fucili a pompa, per andare da pistole a SMG, fucili di precisione e lanciagranate. Queste armi si suddividono anche per il tipo danno inflitto, cosa che si sposa benissimo con le diverse resistenze dei vari nemici. Sono presenti anche armi corpo a corpo, consistenti in una coppia di lame, asce o martelli utili soprattutto per infliggere il colpo di grazia agli avversari e risparmiare così qualche proiettile. Queste armi purtroppo risaltano il primo dei grossi limiti del titolo: difatti, non possiedono moveset apposito, non vi è possibilità di effettuare combo o di incatenare colpi in maniera bizzarra tra uno sparo e un colpo melee. In fin dei conti è come se non ci fossero, limitando anche la costruzione di specifiche build o anche diversi approcci al combattimento. Le armi bianche, come quelle da fuoco comunque, sono potenziabili attraverso materiali recuperati e i Bit (la valuta del gioco), ma anche smantellabili, recuperando così oggetti per il crafting. Questo sistema, benché semplice, aumenta a dismisura la voglia di sperimentare l’utilizzo di armi diverse, grazie anche a un costo in Bit molto accessibile. A questo, si accostano anche dei perk (simil anelli di Dark Souls), suddivisi tra attacco, difesa e supporto: il loro utilizzo permette di variare leggermente build durante il gioco e, quando la situazione lo richiede, aumentare magari la salute, la stamina oppure la velocità di ricarica delle armi o il recupero di elementi per il crafting. La loro varietà è sicuramente un punto di forza, così come lo è del resto tutta la struttura su cui si poggia il gioco. Però… c’è un però: è possibile configurare tutto questo soltanto una volta attivato e utilizzato un Obelisco (Falò). Questo significa che, una volta trovata un’arma di nostro interesse, potremmo cambiarla soltanto riposandoci, limitando pesantemente il gameplay. Un altro limite è l’assenza di diverse corazze a disposizione, avendone soltanto una che, trovando gli appositi terminali di potenziamento, andrà via via assemblandosi sino al suo completamento; almeno abbiamo la possibilità di personalizzarla, scegliendo il colore e la livrea da applicare, una volta trovati i componenti necessari. Ma qui finora non abbiamo nemmeno scalfito la schizofrenia dei ragazzi di Toadman.

Pad alla mano le sensazioni sono abbastanza positive, con un impostazione simil-Bloodborne abbastanza intuitiva: nessun tipo di parata o di parry, tutto è riservato alle schivate che possono essere migliorate nei frame delle animazioni attraverso il level-up. Inutile dire quanto siano fondamentali. Il tutto, in generale, funziona: sfruttare l’intelligenza artificiale per dividere i nemici e poi colpirli singolarmente può essere una buona soluzione, anche se non sempre praticabile, vista la presenza di avversari capaci di teletrasportarsi che diventano un vero incubo. I nemici che affronteremo sono discretamente vari e suddivisi per tipologia. Il loro limite di aggro è variabile, per cui potrebbe capitare di essere seguiti fino alla fine dei tempi.
Ma il problema principale è l’equilibrio di gioco, il più grande peccato di Immortal, che consta di situazioni al di fuori delle comprensione umana ma anche di sezioni ben strutturate (Apexion su tutte) capaci di far venire il dubbio se un simile sviluppo sia stato portato avanti dalle stesse persone. Capiterà infatti di assistere a veri errori da principianti, come il posizionamento di Obelischi nel ben mezzo di un’orda di avversari che comporta lo spreco di risorse preziose mettendo semplicemente piede fuori da una zona che, da prassi, dovrebbe essere invece sicura. Questi errori si verificano anche nel level design, costruito ad hoc per far provare il brivido della scomunica a qualunque giocatore, creando una difficoltà accessoria dove magari vi sono già dei problemi da gestire. Eppure, anche qui, il level design riesce a volte a sorprendere, con ambienti molto grandi e ben collegati tra loro, ricordando – con la giusta cautela – i fasti di From Software. Anche il ritmo soffre dei medesimi problemi, con sezioni al cardiopalmo una dietro l’altra e momenti di vuoto assoluto, soprattutto verso il finale.
Ma veniamo alle boss fight, tutte abbastanza differenti fra loro, ma che in qualche modo non riescono a risultare memorabili. Se a volte il loro approccio deve essere “studiato”, facendo attenzione ai movimenti e ai tipi d’attacco, altre volte risultano un po’ troppo semplici, in quanto basta appostarsi alle spalle del nemico per finirlo senza alcuna difficoltà. Alcune di esse sono configurate come opzionali, oppure “segrete” sbloccando alcuni portali (tipo Stargate), in grado di trasferirci da un pianeta all’altro. Tutti questi problemi sono figli probabilmente della poca esperienza del team, ma forse anche frutto di una cattiva interpretazione dell’opera di Miyazaki in certi frangenti. C’è da dire però – per correttezza – che alcuni di questi problemi, anche se in misura molto più limitata, esistono anche nei capolavori di genere. Si sbaglia solo con le dosi, quindi.

Disincanto

Nel nostro vagabondare tra i pianeti, purtroppo, raramente troveremo scorci mozzafiato. Forse questo è uno dei limiti più grandi di Immortal: Unchained: sa fin troppo di già visto, tra il design delle costruzioni e persino dei nemici che, in qualche modo, richiamano personaggi di altri brand. Nonostante questa mancanza di idee e un certo piattume generale, ogni tanto il titolo sembra destarsi, regalando momenti di grande impatto visivo e in qualche modo memorabili, ma avviene così di rado che quasi a un occhio meno attento potrebbe sfuggire. Se il comparto artistico dunque non fa gridare al miracolo, figuriamoci quello tecnico in senso stretto, povero di dettagli e con qualche problema di troppo tra glitch, bug, qualche piccolo errore nelle collisioni, nei geo data, pop-up delle texture e nell’intelligenza artificiale. Quest’ultima, a dire il vero, riesce a sorprendere in molti frangenti, accerchiandoci o stanandoci con granate. Insomma, è un titolo che ha sicuramente bisogno di un’ulteriore rifinitura, con molti problemi risolvibili tramite semplici patch riparatorie.
Sul fronte audio, il titolo può vantare un buon doppiaggio inglese, espressivo al punto giusto e capace di caratterizzare adeguatamente gli NPC. Anche le musiche che accompagnano quasi sempre l’azione sono abbastanza azzeccate, dal tono epico ma soprattutto risultano funzionali. Effetti sonori nella media anche se alcuni in certi frangenti, sembrano quasi una tortura.

In conclusione

Una volta concluso Immortal: Unchained sarete chiamati a un’importante decisione: ricominciare, riscoprendo piccoli risvolti di trama a vostro rischio e pericolo o attendere l’uscita di alcune patch, permettendo un NG+ più equilibrato e tecnicamente più curato? Qualunque sia l’esito, la prima fatica di Toadman Interactive, seppur con tanti difetti, risulta un titolo interessante che, con piccoli accorgimenti, può diventare un ottimo spunto per un eventuale sequel. Sa essere molto cattivo, ma volete mettere la soddisfazione di superare tutte le avversità del fato digitale?

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.