Dove finisce Activision e comincia From Software

È passato ormai un po’ di tempo dall’uscita di Sekiro: Shadows Die Twice, del quale avete già potuto leggere tra le nostre pagine. Come già accennato nella recensione, Sekiro è un prodotto creato tra l’unione di una software house (From Software) e un publisher (Activision) molto diversi nel modo di approcciarsi al pubblico, tanto da preoccupare i fan di Miyazaki sin dal primo trailer di presentazione. L’influenza di Activision si sente, dando ai conoscitori dei souls la sensazione che Sekiro sia frutto di uno scontro di “giochi di potere” e di compromessi: acquisire maggior pubblico a discapito della libertà progettuale o portare avanti le proprie idee con il rischio di allontanare i giocatori? Come per il duo Salvini-Di Maio, i diversi approcci sono chiaramente visibili, cercando in qualche modo di accontentare tutti, con risultati più o meno buoni.

Fiori nei cannoni

L’impatto con l’ultima fatica della casa di Tokyo può essere un po’ straniante per i conoscitori dei “soulsborne”: siamo abituati al mini tutorial iniziale, con striminzite righe di testo capaci di spiegare “alla larga” le principali meccaniche del titolo, ma in Sekiro tutto questo prende una piega particolare. È già qui che l’influenza di Activision si nota, spiegando per filo e per segno ogni meccanica presente e, nel caso in cui la nostra memoria facesse brutti scherzi, è possibile trovare tutte le spiegazioni nel menu di pausa. Come se non bastasse, è presente anche una sezione allenamento dove il non-morto Hanbei presterà il suo corpo immortale per provare nuove abilità in tutta sicurezza. Nei souls l‘unico modo per far pratica è rischiare la vita. Si capisce già da questi frangenti come la visione dell’autore e l’apertura delle sue idee al mondo sia un reale frutto del compromesso, invogliando i giocatori a proseguire nei meandri di Ashina. Ma per Hidetaka Miyazaki lo “smarrimento” del videogiocatore – così come la difficoltà – ha un ruolo chiave all’interno del gioco, in cui ognuno di noi deve essere pronto a gettare il cuore oltre l’ostacolo per superare i momenti critici. Queste idee sono enfatizzate ovviamente dalla ricercatezza artistica e da alcuni elementi ripresi direttamente dalla cultura giapponese come una statura fisica più elevata rispetto al nostro Lupo, in grado di far avvertire il rango sociale ma, soprattutto, l’idea di essere sempre di fronte a qualcosa di più grande rispetto a noi. Fortunatamente tutto questo non viene scalfito dall’intervento di Activision, anche se in certi frangenti la sua ingerenza è così palese da far sorridere.
Le variazioni possono già percepirsi in elementi come la narrazione, da sempre un aspetto molto criptico dei prodotti From Software, costituita da centinaia di frammenti sparsi nel gioco e che bisogna mettere assieme di volta in volta per riuscire ad avere un quadro completo. Sebbene in Sekiro: Shadows Die Twice questa componente risulti sicuramente ben più diretta rispetto ai souls e a Bloodborne, a volte si ha la sensazione che sia fin troppo chiara. Già la descrizione degli oggetti, presenta informazioni più esplicite che in passato, nonostante la mole sia la medesima; il risultato è che invece di avere un puzzle di solo cielo composto da mille pezzi, se ne ha uno più accessibile, capace di invogliare anche il “giocatore della Domenica” ad approfondire le tematiche del titolo. Ma questa accessibilità si palesa in maniera “violenta” con gli NPC, non solo abbastanza loquaci ma anche molto espliciti sul da farsi. Ogni oggetto − o quasi − ha la sua funzione, descritta a chiare lettere così come le indicazione su dove e come proseguire. Il giocatore dunque è decisamente accompagnato per mano e lontani sono i ricordi in cui una volta arrivati ad Anor Londo in Dark Souls, bisognava affidarsi all’istinto per poter proseguire. Purtroppo (o per fortuna) questo elemento è stato quasi completamente estirpato: siamo sì immersi in un mondo di cui sappiamo ben poco, ma l’essere guidati da una mano ben visibile spezza in qualche modo la magia e possiamo facilmente presumere che Miyazaki avesse ben altri piani.

Una dura verità o una dolce bugia?

Chi ama e chi ha amato i souls in questo decennio è ben conscio del fatto che la difficoltà ha un valore particolare, quasi religioso, in questa tipologia di videogame. I combattimenti, l’orientamento per le intricate mappe, il portare avanti le quest dei vari personaggi secondari, sono sfide che il videogiocatore appassionato ama e che sono capaci di regalare un forte senso di gratificazione una volta arrivati al finale. Sekiro tutto questo lo fa egregiamente (o quasi) ma, come ormai si evince, in maniera diversa: in qualche modo tutto risulta meno criptico, accompagnando il giocatore in “segreti” che effettivamente non sono tali. L’accessibilità dettata da Activision in questi casi è forse un punto dolente, capace di togliere quella magia e senso della scoperta a cui normalmente From Software ci ha abituati: come dimenticare il Grande Vuoto di Dark Souls o le Tombe Dimenticate del terzo capitolo, come non pensare a Lautrec o al destino di Anri. From Software ha sempre gettato l’utenza in un mondo descritto da qualche riga, senza appigli particolari per sopravvivere; insomma, bisogna essere audaci, scaltri e intuitivi per andare avanti. È questo il vero fascino dei lavori di Miyazaki, ma che in quest’ultima opera, in qualche modo, lo si percepisce meno: abbiamo fin troppe informazioni e indicazioni, non solo su come proseguire ma persino di gameplay.
Molte di queste parole hanno valore puramente soggettivo: diventa chiaro come per alcuni questo nuovo approccio sia molto più fruibile e sicuramente più orientato alle masse; eppure qualcosa non quadra. Il gioco – come descritto in fase di recensione – è punibilità allo stato puro, malvagio sotto quasi tutti i punti di vista. Allora perché stendere un “tappeto rosso” per l’Inferno? Forse infatti, “eticamente” parlando, Sekiro: Shadows Die Twice è disonesto: tutti felici, tutto comprensibile ma basta poco per tornare a casa dalla mamma, piangendo. Nei souls duri e puri, subito un boss quasi insormontabile, senza capire i perché di ogni cosa e via; si soffriva certo, ma almeno il contesto era schietto.
L’ormai definibile genere souls, col tempo, si è diramato in più segmenti, arrivando anche a ibridi particolari come Immortal: Unchained – ingiustamente maltrattato da parte della stampa e che difenderò fino alla morte. Il filo conduttore è sempre lo stesso, un approccio duro sin da subito, un tacito accordo tra videogiocatore e programmatori che non può essere scalfito. In Sekiro questo accordo vale solo certi frangenti, separati nettamente: From Software ha creato un combat system geniale e immediatamente iconico, cattivo ma in grado di esaltare chiunque e un impianto artistico magniloquente. Activision ha messo il proprio zampino sulle scelte narrative in senso stretto: i dialoghi, le descrizioni degli oggetti, nonché i tutorial, sono aperti al pubblico, comprensibile anche al videogiocatore occasionale. E qui arriva il plot-twist: questa partnership è stata capace di aprire gli occhi a From Software, escogitando nuovi modi di approcciarsi al pubblico? Il netto contrasto tra il pubblisher e la software house col tempo potrebbe sparire, in favore di un’amalgama perfetta nel futuro secondo capitolo (ops, spoiler). Ma di tutto questo, ne parleremo successivamente, di come Sekiro II possa diventare la pietra miliare di From Software, grazie a un migliore compromesso tra le parti.




Sekiro: Shadows Die Twice – La Strana Cultura del Masochismo

Sono passati ormai poco più di dieci anni da quando Hidetaka Miyazaki ha definito un nuovo genere con Demons’ Souls, esclusiva PlayStation 3 che ha riscritto il concetto di sfida per i videogiocatori, con il protagonista (il giocatore stesso), immerso in un mondo a lui quasi sconosciuto, scoprendo il proprio destino tra mille difficoltà e ostacoli quasi insormontabili. Questo setting diede modo all’autore di portare avanti il proprio progetto con la trilogia di Dark Souls prima e Bloodborne poi.
Sekiro: Shadows Die Twice è però tutt’altro: l’iniziale strana partnership con Activision ha creato un prodotto sicuramente più accessibile ma anche dannatamente malvagio, in grado di far selezione già a partire dalle prime ore di gioco. Ma una volta superati tutti gli ostacoli, Sekiro è senza dubbio una delle migliori produzioni del 2019.

Dark Souls… in Giappone

Il Giappone dell’epoca Sengoku non è nuovo per le trasposizioni videoludiche (vedi Nioh), ma quando c’è lo zampino di From Software, tutto prende un’altra piega. Ogni elemento risulta nuovo, grazie alla solita spruzzata di dark fantasy che in questo caso rende la terra natia dell’autore un luogo magico e terrificante al tempo stesso. Anche all’interno di Sekiro: Shadows Die Twice ritroviamo gli elementi classici della poetica di Miyazaki: tra sangue, draghi, predestinazione ci si sente a casa anche se, la narrativa è decisamente più diretta. In questa produzione infatti, prendiamo le vesti di un personaggio con un proprio background narrativo e una sua caratterizzazione, uno shinobi caduto in disgrazia e che si troverà invischiato in situazioni ben più grandi di lui. Tutto viene raccontato attraverso cutscene, attraverso classici dialoghi con NPC (dotati di elementari animazioni labiali), level design e ovviamente attraverso le descrizioni degli oggetti, meno criptiche rispetto ai souls e in grado di arricchire una storia che si presenta ben più complessa di quanto sembri. Il mondo mostrato da From Software è dunque pieno di sfaccettature, ricco di NPC e di scelte più o meno velate che porteranno (dopo circa una quarantina di ore) a uno dei quattro finali disponibili.
Miyazaki dunque riesce a portare avanti il proprio pensiero riuscendo a portare anche in questo frangente un puzzle di storie, sentimenti e pericoli… più di quanto pensiate.

Weregame

Iniziamo col dire che proviamo pietà per tutti coloro che si approcciano a un titolo From Software per la prima volta, partendo proprio da questo. Al contrario delle precedenti opere infatti, in cui sin da subito venivano messe le cose in chiaro, qui le cose sono un po’ diverse. Si è discusso tanto della partership con Activision e per chi ha dimestichezza con le idee di Miyazaki, si riesce a capire benissimo chi abbia influenzato cosa. Ad esempio, sin dai primi momenti, tutto viene spiegato in maniera molto chiara, fornendo indicazioni utili sulla trama e sugli scopi da perseguire. Vi è persino una sezione allenamento dedicata, sfruttando un malcapitato non-morto che per sua volontà, verrà violentato dai colpi della Sabimaru, la Katana del nostro Sekiro. L’impressione è che l’ultima produzione “From” sia in qualche modo rivolta a un pubblico ben più vasto del solito, cercando di venir incontro anche ai “casual gamer” che non vogliono star ore a rimuginare su una singola frase presente in una descrizione di un oggetto. E così, invogliati a proseguire, quasi accompagnati per mano, ci accingiamo a entrare nel magico Giappone dell’Era Sengoku sino a quando, quella stessa mano, ce la si ritrova in faccia con maestosa e violenta potenza.
Tagliamo subito la testa al “Toro Infuocato”: Sekiro: Shadows Die Twice non è un gioco per tutti. Anche chi si è dilettato con i vari souls o Bloodborne si troverà di fronte a una cattiveria e malvagità senza precedenti, in cui ogni singolo errore può essere fatale.
Sekiro è qualcosa di completamente diverso, a cominciare dallo stile di combattimento, votato più all’azione offensiva che all’attesa, sfruttando le tante novità offerte dal titolo From Software. Niente stamina prima di tutto e questa è una mancanza a cui bisogna abituarsi in fretta: il poter attaccare, schivare o correre senza sosta è qualcosa di nuovo in questi frangenti e, se all’inizio questa libertà può dare alla testa, ci si accorge immediatamente di come un approccio sbagliato porti a un solo e singolo esito: morte. Ogni errore costa caro e riconoscere al più presto le movenze del nemico è assolutamente fondamentale. Il combattimento è dunque una danza, fatta passi leggeri, salti leggiadri e deviazioni effettuate al millisecondo. È questo il segreto di Sekiro, in cui è possibile anche parare i colpi avversari, ma a vostro rischio e pericolo: anche se invisibile, nelle serie precedenti, vi era una sorta di contatore di “equilibrio” che una volta sceso a zero, dopo aver ricevuto numerosi colpi, si entrava in una fase di stordimento che rendeva inevitabile qualsiasi colpo critico. Questo concetto, qui, viene estremizzato, portando addirittura a vista suddetta barra, denominata della Postura. Ogni colpo la danneggia e più si è feriti più lentamente si ricaricherà. Per evitare di rimanere brutalmente uccisi o facilitare l’eliminazione del nemico, sarà necessario imparare la deviazione (una sorta di parry), che infligge danni alla postura altrui riducendone i nostri. Bisogna tenere alta la soglia d’attenzione di ogni singolo movimento avversario, studiarlo e trovare soluzioni ma fortunatamente, abbiamo a disposizione alcuni strumenti in grado di aiutarci, utilizzabili attraverso la cosiddetta Protesi Shinobi, un arto meccanico in grado di ospitare diversi dispositivi – curioso come nel giro di pochi giorni abbiamo avuto come protagonisti due personaggi (Nero e Sekiro) con medesime caratteristiche –.

Ogni attrezzo shinobi, da una potente ascia a uno scudo in grado di respingere i proiettili avversari, possiede un proprio albero dei potenziamenti e altrettante caratteristiche; ognuno di essi può essere ovviamente adeguato o meno per il nemico che stiamo affrontando ma fortunatamente intercambiabili in tempo reale (per un massimo di tre strumenti) oppure sostituiti attraverso il menu (il gioco va in pausa). L’utilizzo di questi strumenti ampia a dismisura il gameplay, sopperendo in qualche modo alla mancanza di altre armi da utilizzare, avendo come sola e unica arma principale la Sabimaru. Tralasciando alcuni elementi tradizionali come fiaschette curative e oggetti di potenziamento, Sekiro è nuovo anche dal punto di vista dei movimenti, contando su una mobilità senza precedenti, sfruttando un level design che fa della verticalità il suo marchio di fabbrica. Il rampino del braccio prostetico è vitale non solo per l’esplorazione ma anche per tendere agguati o fuggire come un lampo; da notare come per scelta precisa di From Software è possibile appigliarsi solo in punti strategici, decisi a priori. Questo limita sì la libertà concessa al giocatore ma ha altresì permesso uno studio più attento della posizione di nemici e del protagonista all’interno del contesto, presentando le soluzioni migliori al videogiocatore.
Essendo uno shinobi, lo stealth entra prepotentemente all’interno del design del gioco; del resto Sekiro è in qualche modo una reminiscenza di un nuovo Tenchu. Abbiamo a disposizione un comando dedicato alla “postura stealth”, elementi ambientali da sfruttare e ovviamente le alture per monitorare le zone. Queste sezioni funzionano abbastanza bene in generale, permettendo di liberare potenzialmente una zona senza essere visto oppure origliare, carpendo informazioni utili per il prosieguo. Il problema deriva però da un’intelligenza artificiale che di certo non aiuta, con personaggi in grado di non accorgersi di una violenta morte a pochi passi ma di allarmarsi in gruppo a centinaia di metri di distanza. Tutto risulta purtroppo mal calibrato e soprattutto poco approfondito, nonostante lo sblocco di abilità a essa dedicate. Proprio queste abilità, unite a quelle offensive e speciali sono il modo con cui il nostro personaggio può evolvere e migliorare, unito alla possibilità di aumentare vitalità, postura e forza d’attacco solo ed esclusivamente attraverso l’ottenimento di oggetti chiave.
Infine arriviamo all’elemento più controverso, il concetto di morte che per From Software è molto caro. Resuscitare, oltre che elemento narrativo, è qualcosa che bisogna imparare a sfruttare a livello strategico. In certi frangenti la morte può salvarvi la vita ma bisogna fare tremenda attenzione. Una morte sfrutta un nodo speciale che può essere ricaricato attraverso il riposo agli Altari dello Scultore (Falò) o attraverso i colpi critici inferti ai nemici. Ritornare in vita ha delle conseguenze, non solo su Sekiro (percentuale di monete ed esperienza persa per sempre), ma anche sul mondo di gioco che in qualche modo può ricordare la Tendenza dei mondi di Demon’s Souls.
Sekiro: Shadows Die Twice è dunque un titolo completo sotto tutti i punti di vista, nonostante sia lontano dalla varietà dei souls. Ma queste sue caratteristiche, in qualche modo, rendono l’esperienza di gioco comunque unica per ogni giocatore, che potrà comunque sfruttare ciò che ha imparato nel new game + o in qualche futura espansione che siamo sicuri, arriverà.

Kintsugi

From Software non ci ha abituato a titoli “spacca-mascella”, cosa che si riconferma anche in questo frangente. Nonostante però non vanti qualità visive di altri titoli, in qualche modo, non se ne sente ne la mancanza, ne il bisogno. La capacità della casa di Tokyo di rendere memorabile qualunque anfratto degli ambienti di gioco e dei personaggi, nonostante texture, shader e luci poco a passo coi tempi, è sorprendente, con l’impressione abbastanza concreta che tutto sia costruito mettendo in cima alla lista la direzione artistica prima di qualunque altra cosa. Tutte le sezioni presenti hanno una loro personalità, dai valichi innevati a lugubri villaggi, dove noi, assieme a Sekiro, possiamo immergerci alla stessa maniera con cui in Dark/Demon’s Souls affrontavamo una nuova zona. Il level design, benché colleghi meno tutto l’ambiente di gioco, è come da tradizione su altissimi livelli, ricchi di scorciatoie, segreti, tutto studiato per essere affrontato nella migliore maniera possibile. Ma vi è un’altra tradizione, anche se di stampa negativa: i difetti classici delle serie precedenti permangono, come compenetrazioni letali e la gestione della telecamera, senza dubbio migliorata ma ancora non perfetta, rendendo alcuni scontri ancor più difficili di quanto siano.
Sul fronte audio, ritorna il doppiaggio italiano, che svolge un buon lavoro cercando di replicare in qualche modo la solennità di certi dialoghi e la psicologia di Sekiro, un uomo distrutto, che dopo aver perso qualunque stimolo, ritrova un proprio scopo. In qualche modo però, la lingua originale (giapponese) riesce a restituire qualcosa in più, probabilmente grazie al contesto generale e a doppiatori forse un po’ più in parte. Menzionando il suono di deviazione della Sabimaru che presto diventerà iconico, le musiche svolgono un ruolo chiave, presenti anche come accompagnamento ambientale. Ovviamente è durante le boss fight che questa componente da il meglio, comunicando sempre qualcosa su chi stiamo affrontando, tra musiche auliche, malinconiche ed evocative.

In conclusione

Sekiro: Shadows Die Twice è semplicemente il titolo più malvagio prodotto da From Software. Nonostante un’accessibilità facilitata, probabilmente su direttive Activision, Sekiro è qualcosa che raramente si vede all’interno del mercato videoludico, qualcosa che se ne infischia della massa e capace di far selezione già dalle prime ore. Ma se si è perseveranti, pazienti e abbastanza abili, vi ritroverete tra le mani una perla, un gioco maestoso sporcato soltanto dai difetti tipici delle produzioni From Software, alla quale probabilmente non vuole (o sa) porvi rimedio. Nonostante questo, Sekiro: Shadows Die Twice rimane senza dubbio nella top tre del 2019, nonostante l’anno, sia appena iniziato.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Sapphire Radeon RX 580 8GB NITRO+ Special Edition
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10




Bloodborne: l’incubo di H.P. Lovecraft

Di Hidetaka Miyazaki abbiamo parlato tanto, un uomo che ha aperto la strada ai souls-like grazie a Demon’s Souls, prima, e la trilogia di Dark Souls dopo. Ma c’è un’opera in particolare che l’ha consacrato come uno dei migliori autori videoludici contemporanei, creando una delle maggiori esclusive PlayStation 4 di successo: Bloodborne.
Sin dai suoi primi trailer, il titolo colpì sin da subito per ambientazioni intrise di un misto fra gotico, vittoriano e la classica spruzzata di dark fantasy che qui trova il suo picco. Eppure fu altro ad attirare l’attenzione, dei legami forse all’inizio flebili ma che man mano sarebbero risultati palesi: l’influenza di uno dei più grandi scrittori horror e di fantascienza del ‘900, ben presto saldarono un legame inaspettato tra Miyazaki e H.P. Lovecraft, un’unione perfetta che oggi sviscereremo.

Attento a ciò che desideri

Nato nel 1890 a Providence (Stati Uniti), Howard Philips Lovecraft è uno scrittore che, come in molti casi, ebbe maggior fortuna e successo solo dopo la sua morte (1937), divenendo vero e proprio autore cult dei nostri tempi per tutti gli amanti dell’horror, dark fantasy e fantascienza. Tra i temi principali delle sue narrazioni spicca la ricerca della conoscenza definita dall’autore “proibita”, in quanto, una volta ottenuta, il destino non è dei più auspicabili. Ne Il Richiamo di Cthulhu (1926), infatti, è proprio l’ignoranza la vera salvezza dell’uomo, intesa come l’incapacità di mettere assieme i vari pezzi del puzzle cosmico, un fattore misericordioso, capace di tenerci lontano dalle oscure verità che si celano al di là dei neri mari dell’infinito. Fondamentale è anche il tema del sogno e la struttura onirica derivante, protagonista in molte opere dello scrittore statunitense e, soprattutto, la filosofia del Cosmicismo, un pensiero tangente al nichilismo, che converte la mancanza di significato in insignificanza, della quale l’uomo è all’oscuro. Secondo Lovecraft, infatti, l’essere umano non è altro che una particella dell’infinito, tanto che se la nostra specie dovesse un giorno scomparire nessuno lo noterebbe. Nessuna scienza, fede o conoscenza porterà l’uomo ad avere un posto di rilievo nel Cosmo.  Questi temi dunque, sono quelli che si legano maggiormente l’autore di Providence a Bloodborne e Miyazaki, che ne ha mescolato il pensiero con le opere di  Heidegger ed Ernst Jünger, è riuscito a trasporre in maniera coerente l’ideologia e il simbolismo dell’intera struttura narrativa “lovecraftiana”.
Punti intuizione, conoscere l’inconoscibile, i Grandi Esseri, le mutazioni, l’Incubo, non sono altro che la realizzazione di un pensiero preciso e forse condiviso tra i due autori.

«La più antica e potente emozione dell’uomo è la paura e, la più antica e potente paura, è la paura dell’ignoto.»
«Temi ciò che non comprendi. Temi il sangue Antico.»

Con queste due frasi, appartenute a Lovecraft e a Maestro Willem, fondatore dell’Accademia di Byrgenwerth in Bloodborne, apriamo la nostra analisi di un’opera che non solo trae ispirazione dagli scritti di H.P. ma riesce anche ad andare oltre.

The call of the Moon Presence

L'”andare oltre” è stato possibile grazie a un’opera interattiva come il videogioco. Si è discusso a lungo di come “l’ottava arte” possa intersecarsi con opere di natura diversa, approfondendone diversi aspetti, esaltandone qualità o elaborandone il potenziale in nuce. Questo è ciò che è avvenuto con Bloodborne, un’opera che, come da tradizione From Software, è indicata a chi sa ascoltare e leggere attraverso i simboli, traendone conclusioni una volta terminato il gioco più volte.
Tutto ciò che troviamo a Yharnam lo si deve ai Pthumeriani, esseri capaci di raggiungere una conoscenza superiore, grazie alle tracce di entità “aliene”, potenti e capaci di interagire su piani diversi dell’esistenza. L’ascensione verso i Grandi Esseri fu un evento fondamentale ma uno di essi in qualche modo rimase indietro, generando gli eventi iniziali di Bloodborne. La scoperta di questo Grande Essere (Ebrietas) avviò uno scontro di idee tra Maestro Willem e il suo allievo prediletto, Laurence, in una dialettica che è metafora di uno scontro tra scienza e fede. Entrambi infatti, capirono l’enorme possibilità che si era appena aperta ai loro occhi: elevare la specie umana, al fine di scoprire i significati più reconditi dell’esistenza. Ma mentre Willem attuò tale idea attraverso lo studio dei Grandi Esseri, cercando di “allineare” occhi e mente per svelare il nascosto, Laurence intraprese un’altra via, seguente a un’incredibile scoperta avvenuta nei sotterranei della città di Yharnam. Una volta trovato il Sangue Antico, Laurence comprese che l’unico modo per raggiungere i Grandi Esseri era quello di utilizzare questa sostanza dalle proprietà incredibili, capace di curare qualsiasi male. Nacque così la potente Chiesa della Cura, che la distribuì come fosse una benedizione concessa dagli dèi (avvenimento simile nel ciclo dei Miti di Cthulhu). Inutile dire che il Sangue Antico rivelò conseguenze inaspettate. Ma in realtà la questione è un’altra: il Sangue Antico è qualcosa che deve essere temuto, l’umanità non è pronta ad aprire gli occhi, e questa è una cosa che Willem e Laurence sanno molto bene. Ma quest’ultimo, decide comunque di andare oltre. Possiamo affermare che l’elevazione dell’uomo non avviene tramite l’utilizzo della “benedizione” divina ma attraverso il superamento delle proprie paure nei confronti delle divinità che, ben presto, divenne pura e semplice arroganza. Non a caso, il rapporto con le divinità in Lovecraft è una delle chiavi per la comprensione della sua poesia, che si evolverà al punto da divenire vero e proprio Misoteismo, la visione negativa e malvagia degli dei.
Al nostro primo ingresso tra le vie di Yharnam tutto questo ha già trovato una connotazione ben precisa: gli uomini curati si trasformarono in bestie e qualcosa di potente ma inconoscibile sta per arrivare (o è già arrivato). Proseguendo, scopriamo che Maestro Willem è riuscito nel suo intento, riuscendo a svelare la natura dei Grandi Esseri e forse, i loro piani: la riproduzione. Forse è dovuto a questa scoperta la creazione di Rom, unica barriera dimensionale capace di fermare l’ingresso dei Grandi Esseri nel nostro piano esistenziale. Infatti, proprio dopo la sua eliminazione, l’inganno viene svelato, entrando nella dimensione della Presenza della Luna, probabilmente architetto di tali incubi. È qui che la visione onirica degli scritti di Lovecraft raggiunge il suo picco in Bloodborne: quello che viviamo all’interno del gioco è sempre una realtà (sogno o incubo) generata da qualcun’altro e, via via, riusciremo a infrangere le varie barriere in cui si intersecano le varie dimensioni. Questo è possibile anche grazie all’utilizzo delle Rune, descritte come la trascrizione in simbolo della voce dei Grandi Esseri e palese collegamento alle iscrizione su pietra ne Il Richiamo di Cthulhu.

Noi siamo i Grandi Esseri

Lo scopo del Sogno del Cacciatore è quello di eliminare un Grande Essere o, se volete, una divinità. Siamo ben lontani dalle azioni di Kratos in quanto, non cerchiamo vendetta, non cerchiamo comprensione verso noi stessi e ben che meno sollievo. La morte della divinità non rappresenta nemmeno la decadenza di Yharnam, come poteva essere nel caso della morte di Dio in Nietzsche. La fine del Grande Essere segna la libertà, il potere di decidere il proprio destino, elevandoci però, a un Grande Essere noi stessi una volta consumati tutti i cordoni ombelicali. Se il nostro alter ego evoluto sarà una presenza benevola o malevola non ci è dato saperlo, ma è interessante notare come l’unica scappatoia alla comprensione totale del mondo sia diventare ciò che non vorremmo essere, quasi seguendo la filosofia degli “oppressi oppressori”.  Negli altri finali avremo l’opportunità di risvegliarci dall’incubo grazie e solo alla nostra morte per mano di Gehrman, il Primo Cacciatore, ma potremo divenire anche i nuovi burattini della Presenza della Luna, alla ricerca di qualcuno che elimini altri Grandi Esseri.
Ma c’è molto di più.
All’interno del titolo, due sono i consumabili più importanti: le Fiale di Sangue per ripristinare punti vita e i Punti Intuizione, necessari per comprendere il mondo intorno a noi e svelare l’inimmaginabile (ma portandoci alla Follia). Abbiamo bisogno di entrambi e, come abbiamo detto, entrambi gli oggetti vengono da idee contrapposte. In poche parole l’elevazione dell’umanità, è possibile solo attraverso l’unione di scienza e fede, capaci di completarsi a vicenda, svelando i punti nascosti dell’una o dell’altra. Ma, come Lovecraft insegna, tutto ciò non fa altro che portare alla follia o alla morte, vista anche come una sorta di liberazione, cosa che effettivamente avviene – come detto – in uno dei finali.
L’opera di Miyazaki va oltre Lovecraft. Bloodborne è un esperimento metaludico in cui le nostre azioni sono ben più significative rispetto al mero uccidere mostri per le vie di Yharnam. Ma con “le nostre azioni” non ci riferiamo alle azioni del nostro alter ego bensì alle nostre, quelle che compiamo da videogiocatori.
Il nostro alter ego agisce da protagonista delle vicende, alla ricerca di quel libero arbitrio reso insignificante dai Grandi Esseri. Ma così come il nostro personaggio è all’oscuro di essere una marionetta nelle mani di qualche divinità, così come per Lovecraft potrebbe essere l’essere umano, il personaggio è all’oscuro della nostra esistenza come videogiocatori e guida diretta delle sue azioni. Questo perché, essenzialmente, i Grandi Esseri siamo noi.
E se non c’è paura più grande dell’ignoto, questo potrebbe rivelarsi come atroce una volta compreso forse che Lovecraft c’era andato vicino e che Miyazaki non ha fatto altro che portare avanti il suo pensiero, forse trovando il coraggio di chiudere la frase dopo una virgola. Tutto quel che di spaventoso e inimmaginabile troviamo nelle opere lovecraftiane e in Bloodborne forse racchiude la risposta all’ignoto: ovvero che i mostri siamo noi.
E cosa c’è di peggio dello scoprire che tutto ciò che odiamo, disprezziamo, che ci terrorizza, è lì, davanti lo specchio?




Ni, oh!

L’estate è quel periodo normalmente associato a ferie, relax, gioia di vivere e divertimento. Non è il mio caso. Questa estate – come ogni altra del resto –, visto il maggior tempo libero, è dedicata al recupero di alcuni titoli che non si ha avuto modo di giocare e uno di questi è senza dubbio Nioh, RPG del Team Ninja che ha riscosso un buon successo e che avrà un sequel, da poco annunciato all’E3 di giugno. Dopo essere stata per un certo periodo un’esclusiva PlayStation 4, Nioh è arrivato su PC, sotto l’insegna, un po’ particolare, di souls-like, anche se grande è stato il disappunto nello scoprire che souls-like non è.
Il genere sdoganato da Hidetaka Miyazaki e dal suo Dark Souls, ha visto numerosi tentativi di emulazione in salse più o meno simili, anche se con risultati altalenanti: basti pensare a Lords of the Fallen o, perché no, quel Code Vein che riesce a essere promettente e scoraggiante contemporaneamente, e forse per questo nuovamente posticipato. In attesa del futuro lavoro di From Software, Sekiro, Nioh è il giusto ponte di collegamento e, come tanti, anch’io sono stato rapito dalle atmosfere e dagli elementi così vicini alla cultura giapponese, della quale sono un estimatore. Per chi sia abituato ai souls, approcciarsi al lavoro Team Ninja è alquanto singolare: sembra tutto così complicato, con pose diverse da assumere e relativi effetti, mille oggetti e tante cose a cui fare attenzione (mal spiegate); eppure, in qualche modo, il titolo completa e approfondisce il concept di Miyazaki. Ma non per questo può parlarsi di souls-like.
Partiamo dalla narrazione: diretta, senza fronzoli e con un protagonista fisso, quel William che sembra un incrocio tra Chris Hemsworth e un qualunque modello di intimo farloccamente perfetto ma, in ogni caso, sempre meglio dei costrutti medi derivanti dai vari editor From Software: perché il tempo libero estivo spesso non basta neanche a quello, non importa quante ore impiegheremo a realizzare il nostro alter ego, avrà comunque la stessa espressione di un bimbo di cinque anni durante il primo assaggio di un limone. Giocare Nioh fa anche sorgere una domanda spontanea: dove sta la difficoltà nel realizzare delle animazioni facciali? Miyazaki, prendi nota.
Eppure Nioh non è un souls like, e il gameplay trasmette immediatamente questo messaggio. Hey, hai finalmente quell’armatura potente, con bonus perfetti per te e, perché no, anche bella esteticamente? Shottato. Ma guarda quanti Amrita, potrei salire di livello per essere più resistente… shottato! Ah, ma forse… shottato!

Ovviamente si tratta di un’estremizzazione ma proprio per questo Nioh risulta tanto bello quanto frustrante, un gioco in cui il senso di progressione, capace di regalare enorme appagamento, viene messo da parte in favore di una difficoltà costruita ad hoc solo per «essere più difficile di Dark Souls». Ma qui casca l’asino: Dark Souls non è veramente difficile; certo, non consente un approccio agevole e, a volte, sa essere abbastanza punitivo. Eppure è chiaro, limpido e ogni cosa è costruita avendo dall’altro lato il suo perfetto contrario. Dark Souls è apprendimento, duro e puro: credevate che l’estate significhi la fine della scuola e quindi una pausa a ogni forma di studio? Se giocatori dei titoli From Software, scordatevelo. Eppure basta “studiare” quel che serve per essere sempre all’altezza della situazione ma soprattutto, il vostro equipaggiamento e level-up, servono effettivamente a qualcosa. Non troverete mai un nemico base in grado di scalfirvi, una volta progrediti; noi siamo i futuri Lord of Cinder, i soldati semplici li mangiamo a colazione.
Nioh non è un souls like perché è punitivo per motivi sbagliati, essendo essenzialmente una lunga e perenne sfida contro il Drago Antico di Dark Souls II. Se da un lato la sfida, spinge a migliorare, dall’altro, diviene frustrante, in virtù del fatto che i vostri progressi, valgono quasi zero. Cos’è dunque Nioh? Un trial & error, senza se e senza ma. È un male? Assolutamente no.
Sin dall’alba dei tempi, l’essere umano cerca di imparare dai propri errori, in quel trial & error che è la vita reale che col passare dei secoli ci ha portati dove siamo. Per esempio, dopo un agosto passato ustionati dalla nostra stella, l’estate successiva ci penserete due volte prima a non spalmare una crema solare. Trial & Error appunto. In un videogioco – un’avventura compressa in una manciata di ore – anche la frustrazione derivante dagli sbagli (o dalla sfortuna) si condensa, arrivando alla tanto e bella imprecazione tanta cara ai “soulsiani”. Ma ci si fa forza e, mentre vi scrivo, mi avvio all’ultima parte del titolo che, potrebbe non sembrare, ma mi sta piacendo moltissimo.
Nonostante tutto infatti, la struttura del gioco è azzeccata, con missioni secondarie più o meno interessanti e alcune trovate da RPG vecchio stile, capace di farvi prendere appunti su un foglio di carta (o almeno, io faccio così).
Per cui, anche io attenderò con ansia Nioh 2, sperando che tutto trovi un senso compiuto e che, soprattutto, non debba giocarlo in estate. Perché in estate, ci rilassa, possibilmente senza rischiare la scomunica.




42: Il cut content di Dark Souls II

Abbiamo visto come Dark Souls abbia avuto uno sviluppo in parte travagliato, con numerosi tagli, cambi di idee e mancanza di tempo che fortunatamente non ne hanno intaccato la qualità. Se pensate che con il sequel le cose siano andate meglio vi sbagliate di grosso: Hidetaka Miyazaki, probabilmente molto coinvolto nello sviluppo di Bloodborne, lasciò il progetto Dark Souls II nelle mani di Tomohiro Shibuya e Yui Tanimura, che portarono numerose novità e migliorie ma anche diverse problematiche, con scelte a volte difficili da comprendere, come la rimozione di un elemento fondamentale – che avrebbe chiarito una volta per tutte – le implicazioni del finale.
Oggi tocca appunto a Dark Souls II: vedremo armi, equipaggiamento ed elementi ben più importanti rimossi dal gioco e mai apparsi, nemmeno nella Scholar of the First Sin, che ha cercato di mettere la pezza ad alcune magagne del titolo.

Un taglio col passato

Sappiamo benissimo che Dragleic, terra protagonista del nostro peregrinare, è situata in un ciclo molto in là nel futuro rispetto agli eventi di Lordran, e questo ha consentito di portare diverse novità sul piano contenutistico ma anche di gameplay, approfittando delle nuove “conoscenze” di Re Vendrick, di Aldia e del resto degli abitanti. Tante sono le nuove armi, scudi, magie e anelli, portati a quattro come numero, approfondendo di gran lunga le meccaniche GDR. E partiamo proprio da qui, da questi oggetti misteriosi e che tanto hanno da raccontare, come gli Anelli Illusori del Vendicatore e del Colpevole, strumenti speciali in grado di nascondere alla vista determinati equipaggiamenti. C’è da dire che questi anelli probabilmente avrebbero dovuto completare un set, visto la presenza in game dell’Anello Illusorio dell’Esiliato, in grado di rendere invisibile l’arma nella mano destra e ottenibile esclusivamente completando il gioco senza mai sedersi a un Falò, e dell’Anello Illusorio del Conquistatore che rende invisibile l’arma impugnata nella mano sinistra e ottenibile solo completando il gioco senza morire. Non è chiaro dunque, quali equipaggiamenti sarebbero stati influenzati da tali anelli e questo purtroppo rende difficile capirne la reale efficacia; ma speculiamo, del resto la saga From Software si basa su questo: immaginate l’effetto invisibilità applicato ad altri elementi come gli oggetti da lancio, come pugnali avvelenati o bombe. L’avversario avrebbe visto solo la corrispondente animazione, cercando di capire in una frazione di secondo la traiettoria dell’oggetto lanciato. Di conseguenza, il PvP sarebbe stato un incubo e forse proprio per questo questi anelli furono tagliati dal gioco. Però grazie ai loro nomi possiamo evincerne la provenienza: l’Anello Illusorio del Colpevole probabilmente sarebbe stato donato servendo la Fratellanza del Sangue mentre, quello del Vendicatore, attraverso il patto con le Sentinelle Blu.
Sono presenti altri anelli, purtroppo senza nome e descrizione, ma alcuni di essi probabilmente legati in qualche modo all’Anello del Sole, in grado di provocare un’esplosione una volta assorbita una certa quantità di danno. Probabilmente questi anelli avrebbero fatto lo stesso, ma generando scariche elettriche, avvelenamento o esplosioni magiche.
Non si vive di soli anelli, tra i contenuti tagliati figurano anche armi particolari o semplicemente dei re-skin di armi già esistenti. Salta all’occhio la rimozione della Spada Oscura dei Darkwraith di cui sarebbe stato interessante vedere il moveset, visto l’appiattimento avutosi in tal senso in questo secondo capitolo. Di descrizioni purtroppo nemmeno l’ombra in tutte le armi interessate, tranne che per gli Artigli delle Ombre, appartenuti a quanto pare a disertori del patto cavalleresco, accecati dall’avidità. Sembra non esserci moveset apposito, mentre un piccolo accenno vi è per una sorta di mazza che sembra riprodurre un fiore blu (ma perché no, anche la testa di Xanthous) e delle pinze di cui si fa fatica a trovarne un senso.
Ovviamente, non potevano mancare le armature dove, tra il vestiario dei Sigillatori di Dark Souls e l’armatura del cavaliere di Alonne nuova fiammante, spiccano due elementi in particolare, contornati nientemeno che da una descrizione: partiamo con il vestito di Rosabeth di Melfia, piromante che liberiamo dalla sua prigione di pietra, estremamente consumato e che effettivamente, non abbiamo mai avuto modo di ottenere. La sua descrizione ci narra di come lei tenesse tantissimo a questo vestito, nonostante non avesse alcun legame con la piromanzia. Essendo una “studentessa devota” dello stregone Carhillion del Profondo, potremmo presumere che il rapporto tra i due sia stato in origine più profondo di quanto mostrato nel gioco; magari è stato proprio lui a donarle questo vestito. Certo, visto come ella se ne liberi al più presto subito dopo averla liberata, crolla tutto il ragionamento, ma ci piace essere romantici. Incredibile ma vero, l’altra “armatura” è un barile; si, non c’è modo di girarci intorno, è un barile che avrebbe impedito quasi tutti i movimenti, “confortante” però, in quanto avrebbe avuto un’alta percentuale di rigenerazione dei punti vita. È uno dei pochi casi in cui siamo contenti che un elemento sia stato rimosso dal titolo.

Confusione e Ambizione

Prima di arrivare al piatto forte, è carino notare come From Software avesse previsto una versione fanciullesca dell’Araldo della Smeraldo, confermato non solo dal modello presente e inutilizzato e dai concept art ufficiali, ma persino dalla presenza del nome della sua doppiatrice nei titoli di coda. Non è chiaro se la bimba fosse prevista come personaggio originale, e quindi poi sostituita con la versione più adulta che incontriamo in-game, oppure se dovesse apparire in luoghi specifici (laboratorio di Aldia ad esempio, chi ha orecchie per intendere intenda) o in qualche “flashback”. Ma che effetto avrebbe fatto una pargoletta Guardiana del Fuoco? Considerato che probabilmente i dialoghi sono stati scritti e doppiati, siamo sicuri che avrebbe avuto la stessa caratterizzazione della versione adulta? Dark Souls II è un titolo profondamente diverso dal suo predecessore, anche nei toni; non ci avrebbe sorpreso una Guardiana capricciosa e magari immatura, con scopi e ragioni del tutto diversi dalla Shanalotte che abbiamo conosciuto. Eppure, in una sua rara animazione, l’araldo sembra quasi una bambina, dondolando i piedi da seduta; siamo dunque sicuri che la sua caratterizzazione sia stata modificata con il cambio d’età? Probabilmente non lo sapremo mai, ma è interessante notare come nei Souls ogni dettaglio possa aprire un mondo di speculazioni.
Ma veniamo ai tagli più dolorosi, addirittura di natura tecnica. Lo sviluppo di Dark Souls II andava “a quasi gonfie vele”, implementando un sistema di luci dinamiche che rendevano questo titolo completamente diverso dal predecessore. Se vi siete chiesti come mai si è data così importanza alle torce all’interno del gioco è presto detto: senza di esse avremo fatto veramente fatica a vedere qualcosa all’interno di edifici, grotte o zone simili e, occupando una delle nostre mani, avremmo dovuto decidere se tenere uno scudo ma non vedere nulla o la torcia ma senza difenderci. Oltre a questo, l’impatto più evidente era sul fronte artistico: in tutti i Souls, compreso il terzo capitolo, abbiamo sempre avuto una “luce artistica” oltre all’alone luminoso generato dal personaggio (anche se giustificato soltanto in Demon’s Souls con l’Augite) per cui, tranne eccezioni volute (Tomba dei Giganti), il gioco garantiva la giusta quantità di illuminazione, scegliendo accuratamente cosa mostrare e come. Paradossalmente, questo è sempre stato uno dei maggiori punti di forza dei lavori di Miyazaki e poco importa se tutto ciò risulti irrealistico. Fatto stà che da Aprile 2013, mese di presentazione alla stampa, al giorno della release ufficiale, Dark Souls II era semplicemente un altro gioco, castrato tecnicamente sotto tutti i punti di vista. Questo è avvenuto perché semplicemente le console non potevano reggere la mole di dati necessaria a far girare adeguatamente il tutto, e questo fa anche sorgere una domanda spontanea: perché implementare sistemi esosi pur sapendo dell’inadeguatezza dell’hardware? La risposta risiede molto probabilmente nello sviluppo confusionario del titolo, con variazioni di idee da un giorno all’altro. Potrebbe esser accaduto che una volta visto il sistema di illuminazione dinamica agli sviluppatori di Dark Souls II non sia piaciuto il risultato finale. Considerato troppo poco “artistico”, magari anche per questa ragione il sistema fu rivisto, in favore di un’illuminazione globale e classica per i Souls.

La goccia di fuoco

Se dopo aver visto il video qui sopra i vostri pensieri sono andati verso situazioni simili in altri giochi come Watch Dogs, Bioshock Infinite o Alien: Colonial Marines, state calmi, è stato fatto molto di peggio.
Una volta sconfitto il boss finale, le porte del Trono del Desiderio si aprono dinanzi a noi: ma cos’è esattamente questo trono e perché è così importante? Queste domande hanno avuto risposta solo dopo attente analisi, studiando la lore e le azioni di protagonisti e antagonisti. Ma bastava un semplice elemento, talmente sciocco nella sua creazione che la sua assenza risultò davvero inspiegabile. Il Trono del Desiderio non è altro che la Fornace della Prima Fiamma e il trono sul quale ci sediamo avrebbe dovuto essere circondato dal fuoco. Questo sarebbe stato un input diretto al nostro cervello, facendoci capire immediatamente che non solo noi diveniamo il nuovo regnante di Drangleic ma soprattutto un Lord of Cinder. Questo è forse il taglio più difficile da digerire in quanto parte integrante della lore di tutti i Souls. Tra l’altro, la sua conformazione è del tutto simile ai troni presenti in Dark Souls III nell’Altare del Vincolo, dove appunto i Lord of Cinder delle varie epoche sedevano. C’è anche un motivo particolare per la quale i troni hanno ugual conformazione ma sarebbe uno spoiler eccessivo per il terzo capitolo.
Completando Dark Souls II, dunque, non è possibile capire cosa stia effettivamente accadendo e neppure se si stia per vincolare la fiamma o meno. Una cosa quindi abbastanza grave, corretta in parte con l’edizione Scholar of the First Sin in cui vi è l’aggiunta del secondo finale grazie all’introduzione di Aldia.
La mancata fiamma dal Trono del Desiderio rappresenta il culmine di una produzione attanagliata da indecisioni, ripensamenti e soprattutto castrata dalla mancata direzione di Hidetaka Miyazaki, il cui tocco si è reso visibile non appena il creatore ha ripreso le redini della saga con Dark Souls III. Nonostante dunque Dark Souls II vanti alcune innovazioni importati al new game plus e al sistema delle dual, con una trama forse più curata rispetto al predecessore, il titolo non è riuscito a trovare il giusto spazio nel cuore degli appassionati, finendo per giacere nel Cumulo di Rifiuti del DLC The Ringed City. Una punizione forse ingenerosa, ma i troppi problemi hanno finito con avvolgere con l’oscurità l’anima di un Dark Souls II che avrebbe meritato uno sviluppo più brillante.




42: Il cut content di Dark Souls

Ricordate le parole di Sir Artorias durante la boss fight, in cui ci intimava di star lontano dalla corruzione dell’Abisso e le toccanti frasi alla sua morte? E Jar Eel? Il Re dei Dark Wraith difficile da battere ma unico modo per liberare Petite Londo dalle acque? No? Effettivamente sono cose mai avvenute, almeno ufficialmente. La saga di Dark Souls ha avuto una storia complessa e intricata, in cui si rispecchiano alcune scelte di game design nella seconda parte del gioco, e che ha visto, nella sua creazione, anche tanto materiale scartato tra armi, armature, magie e persino boss. Anche i sequel Dark Souls II e III, come anche Bloodborne, hanno visto rimossi o sostituiti con più o meno criterio molti elementi che li contraddistinguevano, magari un minuto prima di entrare nella tanto agognata fase gold. Oggi ci occuperemo del titolo che ha sdoganato i souls-like e di come Miyazaki e il suo team avessero progetti ben diversi per Dark Souls. Forse la Remastered avrebbe potuto far qualcosa in tal senso, come inserire i dialoghi di Artorias ma soprattutto, implementare l’idea originale della Culla del Caos, decisamente il punto più basso della produzione.
Grazie ai data miner che hanno spulciato tra i vari file del gioco, siamo venuti a conoscenza di tutti gli elementi rimossi e che dalle prossime righe, saranno disponibili a tutti.

Altro che menù scozzese…

Cominciamo dagli oggetti. La coppia di anelli che possiamo indossare rappresenta un vero e proprio boost che, la maggior parte delle volte, può salvarci da situazioni alquanto pericolose. La sfilza di anelli a disposizione poteva essere arricchita da altri tre modelli, diversi per forma, natura ed effetti. Il primo è l’Anello del Dislocamento, in grado di assorbire i danni al posto del suo utilizzatore, fino alla rottura. Questo anello deriva dalle rovine di Petite Londo, e dalla sua fattura, così come dalla sua descrizione, si evince come la nuova città degli dèi fosse un luogo avanzato culturalmente, che purtroppo – come sappiamo – fu distrutto per cause di forza maggiore. Sempre da Petite arriva un altro anello interessante e sicuramente molto utile per l’utilizzatore che si avventura tra le rovine: l’Anello dei Fantasmi ciechi, appartenuto ai tre guardiani della città, avrebbe impedito ai tanti fantasmi di individuarci, agevolando di gran lunga il gameplay e probabilmente rimosso per questo motivo.
Il terzo anello ha una certa rilevanza in quanto legato a una covenant, anch’essa rimossa, di cui però possiamo trovare piccoli indizi lungo le vie di Lordran. L’Anello della Condanna, contornato da diamanti neri, sarebbe stato assegnato una volta entrati nel patto della dea del peccato Velka, definita come una strega eccentrica e piena di segreti. L’anello, probabilmente fin troppo potente, avrebbe permesso contrattacchi automatici (!) una volta assorbita una certa quantità di danni.
Arrivare a Petite Londo  sappiamo che è un gioco da ragazzi, essendo disponibile fin da subito, al di sotto del Santuario del Fuoco. Ma inizialmente non doveva essere così: vista la sua pericolosità, per entrare nella città sommersa avremmo avuto bisogno di una specifica chiave, in grado di aprire l’ascensore che, come ben sappiamo, è da subito accessibile. La chiave avrebbe introdotto anche la storia della città, maledetta e fonte di una forte oscurità, e per questo sigillata. L’aggiunta di questa chiave, avrebbe cambiato un po’ le carte in tavola per il titolo From Software: sin da subito infatti, siamo liberi di recarci in zone avanzate e, grazie a quell’ascensore, arrivare ad esempio alla Città Infame. Di conseguenza – se sufficientemente bravi, o fortunati – possiamo avere un equipaggiamento ben più potente rispetto alle zone iniziali del gioco. Questa chiave, avrebbe precluso tutto, avvicinando paradossalmente Dark Souls ai suoi successori, più lineari come ambienti e progressione.
Ma che Dark Souls sarebbe senza le nostre fedeli armi? Anche qui sono intervenuti dei tagli, eseguiti pure su quella di un boss. Cominciamo proprio da uno spadone, appartenuto niente meno che a uno dei Quattro Re di Petite Londo. Di quest’arma si sa molto poco e probabilmente fu uno dei primi elementi a esser scartati. Sarebbe stato interessante brandirla, sfruttarne la probabile oscurità e scoprire qualcosa in più sui Re a cui Lord Gwyn diede parte della propria anima, anche se esteticamente risultava molto discutibile. Altra arma che però è più una citazione che altro, è la Man Catch, solitamente usata nel medioevo per catturare e trasportare i prigionieri. Come dicevamo, probabilmente venne inserita per citare un lavoro precedente di From Software, Shadow Tower: Abyss e poi rimossa forse per mancanza di reale utilità.
Ma l’elemento più interessante è un talismano: con il – probabile – nome di Talismano di Gwynevere possiamo intuirne l’ovvia appartenenza ma dall’immagine si intuisce qualcosa di ancor più avvincente. Sembra una scaglia di Drago avvolta da una corda e questo, non può che aprire la mente ai legami tra Seath il Senzascaglie, con i suoi studi disumani, e la dea del Sole Gwynevere. Questo talismano avrebbe potuto fare luce sul rapporto tra i due ed eventuali legami tra i Draghi e Priscilla. Purtroppo nulla di fatto.

Esistono storie che non esistono

Dark Souls è un’avventura piena di storie struggenti e simboliche, legate a personaggi rimasti iconici in tutto il medium videoludico. Anche qui sono intervenuti tagli, addirittura su intere quest come quelle di Oscar e Shiva, e personaggi mai apparsi in game. Alcuni hanno subito anche grossi cambiamenti di design come per Chester, apparso per la prima volta nel DLC Artorias of the Abyss. Il suo stile doveva essere molto diverso e lontano dal completo vittoriano che forse “annunciava” i lavori su Bloodborne. Avrebbe dovuto brandire un’altra arma, anch’essa rimossa, simile a una Zweihander, ma con la lama nera. Anche la Strega Beatrice che ci aiuta a eliminare la Farfalla della Luna, avrebbe dovuto avere una versione diversa e probabilmente inserita in un diverso contesto, forse per le vie di Oolacile. La sua versione giovanile, molto vicina esteticamente a Shilke, giovane strega in Berserk, da cui Dark Souls trae alcuni spunti stilistici. Anche il Drago Nero Kalameet avrebbe dovuto esser diverso per dimensione e colori ma probabilmente sempre difficile da abbattere.
Arriviamo dunque ai tagli più difficili da digerire. Partiamo da Oscar di Astora e dalla sua quest, ben più complessa e piena di significati rispetto al “semplice” liberarci dalla Prigione dei Non Morti e donarci le Estus. Lo incontriamo nuovamente da essere vuoto, incapace di riconoscerci, che finisce miseramente la sua esistenza per nostra mano. Ma la sua storia doveva mostrarci un uomo ben diverso, un fedele credente alla profezia dettata dal Serpente Primordiale Frampt, con scelte opposte alle nostre. In base alla scelta, se seguire Frampt o Kaathe, Oscar, una volta raggiunto la Fornace della Prima Fiamma, ci avrebbe dato battaglia con il solo scopo di ucciderci. Egli avrebbe fatto una scelta del tutto opposta alla nostra cercando di fermare l’Abisso, qualora avessimo seguito le direttive di Kaathe, o per diventare il nuovo Signore Oscuro se avessimo ascoltato le ragioni di Frampt. Il suo sarebbe stato un personaggio estremamente orgoglioso, alla ricerca di uno scopo degno di lui. Non a caso sarebbe stato l’unico NPC a spingersi sino alla fine, e il suo bisogno di far parte della leggenda lo avrebbe portato alla rovina. Oscar l’avremmo incontrato molte volte, “spoilerandoci” anche il percorso da intraprendere, eppure, pur compiendo il nostro stesso percorso, sarebbe arrivato sempre troppo tardi, lasciando il nostro personaggio come punto focale della profezia. Una profonda ferita nel suo orgoglio, che sfocerà nel vero combattimento finale, affrontando il nostro salvatore.
La rimozione di tale quest può essere spiegata probabilmente con le eccessive informazioni donateci dal non-morto e per mancanza di tempo, anche se è un vero peccato che la storia di Oscar di Astora, sia stata fatta fuori, senza la possibilità d’esser vissuta. Una particolarità degli NPC di Dark Souls è quella di rappresentare un sentimento: in questo caso Oscar rappresenta l’orgoglio. Ma un altro NPC avrebbe avuto una storia ben diversa se la mannaia creativa non fosse intervenuta, per il rappresentante della codardia e l’avidità.
Parliamo di Shiva dell’Est, che incontriamo nella Foresta di Radice Oscura, tra i diversi NPC Cacciatori della Foresta. Shiva ne diventa capitano, ma è ossessionato da un’arma, la Lama del Caos, Katana leggendaria forgiata durante l’esplosione del Caos da Makoto, un fabbro ormai mitologico e piccolo riferimento a Demon’s Souls (anche questa descrizione ha subito grosse modifiche). La sua è una storia unica, ben diversa da quelle degli altri NPC. Ognuno di essi infatti, piano piano perde il senno, segno dell’incombenza dello stadio finale della maledizione, esacerbata da una propria mancanza, una perdita, qualunque sia la sua natura. Shiva, al contrario degli altri, ottiene ciò che vuole ma, nonostante ciò, impazzisce, non potendo controllare la potentissima arma, in grado di assorbire energia vitale dal suo utilizzatore. Come per la quest di Lautrec, anche per Shiva avremmo avuto a disposizione un Globo dell’Occhio Nero e avremmo potuto invaderlo, all’interno del Dipinto di Ariamis. Anche questa quest venne rimossa per mancanza di tempo e, come avvenuto per Oscar, si tratta di una grossa perdita per un titolo comunque di elevato livello come Dark Souls.

Occasioni mancate

Concludiamo con due boss, ma prima è giusto citare qualche altro elemento rimosso, anche se di minor importanza. Avete presente le creature umanoidi controllate dai ragni a Tseldora in Dark Souls II? Bene, questo nemico era stato studiato per il primo capitolo, ma poi è stato scartato e riutilizzato nel sequel. Anche alcune armature sono state rimosse come quelle Elite da Chierico, le vesti dello stregone di Vinheim, Smith, il fabbro di armi magiche di Petite Londo e una strana veste da orso, facente anche parte dei primi artwork del gioco.
Da segnalare anche alcuni dialoghi rimossi come quelli di Quelaag nella cutscene di presentazione della boss fight, di Lautrec e del Crestfallen Menchant, in preda a deliri dovuti alla paura di trasformarsi in un essere vuoto.
Partiamo dalla Culla del Caos, la quale doveva essere molto diversa da come – purtroppo – ci è stata mostrata. La culla infatti si sarebbe dovuta muovere anche se lentamente, divenendo sicuramente una boss fight molto più interessante.
E infine Jar Eel e la sua sfavillante armatura. L’ultimo dei Dark Wraith sopravvissuto e Re di quest’ultimi, è un personaggio rimosso pur essendo ormai quasi completo, avendo a disposizione arma e vesti uniche, dialoghi, scopi e mooveset. Per poter arrivare a sfidare i Quattro Re abbiamo bisogno della Chiave del Sigillo, che ci permetterà di aprire il bacino idrico ed entrare così nelle profondità di Petite Londo; questa chiave, nel gioco originale, ce la dà Ingward, forse in maniera fin troppo semplice e sbrigativa, vista la sua importanza. In questo caso, avremmo ottenuto tale oggetto solo eliminando Jar Eel, di cui sarebbe stato possibile anche ottenerne l’armatura.

Questo è dunque l’excursus sul cut content di Dark Souls che, come avete letto, racconta una storia ben diversa. È davvero un peccato che lo sviluppo della Remastered non abbia preso in considerazione questa mole di contenuti che avrebbe sì prodotto un titolo diverso dall’originale, ma forse più completo e vicino all’idea originale di Hidetaka Miyazaki. Come detto, anche gli altri lavori From Software “godono” di tale feature, per cui appuntamento al prossimo articolo sui cut content dei souls.




Sekiro: Shadows Die Twice

Presentato allo scorso VGA con un piccolo teaser, il nuovo titolo From software, come da tradizione, ha aperto le porte a mille speculazioni e desideri: la scritta “shadows die twice” poteva riferirsi a qualsiasi cosa, se armati di di buona fantasia. Demon Souls II, Dark Souls IV, Bloodborne II e Tenchu erano le idee più gettonate, sino a quando la possibilità che si trattasse di una nuova IP si fece strada. Sekiro: Shadows Die Twice è il nuovo titolo From, fresco fresco di presentazione alla conferenza Microsoft e che ha incuriosito non poco, non solo per la struttura da souls-like ma anche per la partership con Activision, un’associazione che probabilmente nessuno poteva immaginare.

Sembra Tenchu ma non è

Il trailer mostratoci mostra già molte delle caratteristiche del nuovo lavoro From Software, a cominciare dall’ambientazione che nei primi istanti, molti utenti, collegarono a un nuovo Tenchu appunto, ma anche a Nioh II, giusto perché non si sa mai.
Il Giappone Feudale non è certo un periodo storico poco sfruttato ma da quanto si è potuto vedere, il lavoro fatto sugli scenari e la ricercatezza dei dettagli è sempre di primo ordine, pur non vantando una potenza grafica d’eccezione. Gli ambienti sembrano decisamente più vasti e sviluppati anche in altezza, involgiando il giocatore all’esplorazione, pur facendo attenzione ai mille pericoli presenti sul suolo giapponese.
Tutto richiama, in forma più o meno voluta, le gesta intraprese nei vari souls, a cominciare dal protagonista, un anonimo guerriero (o qualunque altra cosa visto che probabilmente saranno presenti diverse classi) che dovrà compiere il proprio destino, anche se ancora del contesto narrativo non si sa praticamente nulla, se non per il fatto che saremo chiamati a salvare il nostro maestro, vendicandoci di chi ci ha mozzato il braccio a inizio trailer. Anche la resurrezione del nostro alter ego presenta caratteristiche particolari: forse, invece di ritornare al “classico falò” potremo riprendere immediatamente dal punto in cui ci abbiamo lasciato le penne, magari con qualche malus  non meglio specificato. Si tratta ovviamente di speculazione, ma nei titoli From è la norma.

Il problema del rampino

Uno degli elementi che ha colpito maggiormente è il braccio meccanico del protagonista, che sembra esser munito di numerosi gadget o che comunque potranno esser inseriti all’interno di esso. Una sorta di coltellino svizzero malefico che permette di utilizzare uno scudo (molto simile a quello di Kratos nel nuovo God of War), un’accetta e, soprattutto, un rampino. Quest’ultimo elemento è quello che lascia un po’ perplessi i puristi, abituati a procedere guardinghi lungo le vie di Lordran, Drangleic e così via. Il suo utilizzo è chiaro: velocizzare il gameplay e permette nuove strategie. È possibile utilizzarlo in aperta esplorazione, raggiungendo mete altrimenti inavvicinabili, e soprattutto in combattimento, catapultandoci verso i nemici anche da lunghe distanze. Se questo elemento si sposa bene con il genere è ancora presto per dirlo, ma potrebbe portare una ventata di aria fresca in un contesto forse fin troppo statico.
Ovviamente si tratta di scontri all’arma bianca, abbastanza spettacolari e che si avvicinano più a Nioh che ai Souls. Più dinamicità e spettacolarizzazione del tutto (… Activision) potrebbe risultare una carta vincente, soprattutto per avvicinare utenti fin troppo spaventati dal freddo approccio dei classici titoli From.
Elemento da non trascurare e che anzi ha avuto una certa enfasi nel trailer, è la componente stealth che sembra collocata direttamente nelle fasi di gioco. Appiattirsi lungo i muri o trovare vie alternative (di conseguenza maggiore complessità nel level design) sembrano tecniche utilizzabili a discrezione del giocatore, anche se il loro reale impatto resta da valutare.

In conclusione

Il nuovo lavoro di Hidetaka Miyazaki ha attirato la nostra attenzione, nonostante l’ambientazione, inevitabilmente, sa di già visto. Poco più di due minuti di trailer ci hanno dato alcune risposte ma, come da tradizione, ci ha lasciato anche con il doppio delle domande, a cominciare dal processo di resurrezione. Gameplay più spettacolare e nuove idee sono in grado di collocare Sekiro: Shadows Die Twice a metà strada tra un souls-like e un action, e potrebbero essere le giuste scelte per attirare maggior pubblico, pur non perdendo di vista gli affezionati, proponendo maggior libertà d’azione in un mondo che non aspetta altro di essere esplorato.




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Dark Souls 3: The Ringed City

Dark souls III giunge alla conclusione con questo secondo DLC, dopo un Ashes of Ariandel che non ha convinto soprattutto a causa della troppa brevità.

In questo The Ringed City le cose cambiano anche se non troppo, la sua lunghezza non può certo essere paragonata ai DLC dei precedenti capitoli a meno che non si includa anche il già citato Ashes of Ariandel, del quale rappresenta per certi versi anche un continuum.

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Un inizio non proprio esaltante

Cumulo di rifiuti: così è chiamata la prima area visitabile prendendo il nuovo falò – luoghi ben conosciuti dai fan della serie come checkpoint, punti di ristoro della salute, ma anche di teletrasporto – situato nella zona finale di Dark souls III (è anche possibile raggiungere la zona dal nuovo falò aggiunto nella stanza in cui viene sconfitto il boss finale del dlc precedente), ambientazione che assomiglia alla fornace della prima fiamma, in cui si fondono i mondi dei capitoli precedenti.

Sin dall’inizio il giocatore verrà bombardato da angeli che non ci daranno nemmeno il tempo di esplorare l’ambiente circostante – a meno che non si elimini il loro vero corpo (nascosto) – e sarà costretti quindi a ripararsi dietro rocce o mura sperando di non morire durante la corsa; ovviamente bisognerà anche affrontare vari tipi di nemici fino al raggiungimento del tanto agognato falò.

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La città ad anelli

Se siete sopravvissuti, accederete alla seconda zona, uno scenario artisticamente stupendo, caratterizzato da un level design di prim’ordine: piena zeppa di segreti, scorciatoie ,pareti illusorie, una vera boccata d’aria rispetto alla precedente, soprattutto perché finalmente ci si potrà dedicare all’esplorazione senza il timore di essere sottoposti al costante bombardamento dei nemici.

Dopo questa fase toccherà al giocatore attraversare la città e raggiungere il Letto di liquido abissale per poi salire su una torre per accedere alla zona finale del dlc, sulla quale riservo ogni sorpresa ai giocatori.

In questo DLC si ha modo di affrontare nuove tipologie di nemici, tra cui giganti che evocano arcieri spettrali, cavalieri maledetti, locuste e via dicendo.

I nuovi nemici rilasceranno nuove armi, che sono certamente tra le più spettacolari tra quelle mai apparse nella serie souls ,con movesets inediti e letali.

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I boss

I tre boss presenti nel DLC (più un quarto segreto, opzionale) offrono un buon tasso di sfida, non sono estremamente difficili per i giocatori avvezzi alla saga ma terranno impegnati per diversi minuti: unica nota dolente riguarda probabilmente il boss finale che, pur offrendo una bella sfida in termini di combattimento, manca del carisma per essere all’altezza dei suoi predecessori.

Conclusioni

Tirando le somme, The Ringed City è un dlc di buona fattura, dotato del giusto carico di alternanza tra frustrazione e stupore, ma che purtroppo non riesce a convincere a pieno a causa di una longevità non eccelsa e di molti quesiti lasciati ancora irrisolti, chiudendo il cerchio della storia lasciata aperta da Ashes of Ariandel ma lasciandone in sospeso altre.