Genitori consapevoli per un’esperienza di gioco migliore

Per molti genitori, i videogiochi online, o il videogioco in generale, possono rappresentare un mondo sconosciuto e/o pericoloso per il proprio figlio, che potrebbe addirittura danneggiarlo mentalmente. A volte il gioco è solo una parte di un problema ben più grande, altre volte il problema si trova all’interno del gioco stesso e, quando accade qualcosa di effettivamente spiacevole, non c’è scusa che tenga, la soluzione universale sembra essere quella di allontanare il ragazzo dalla “fonte”, in modo che il fatto non si possa più ripetere e invitare gli altri a fare altrettanto.
Qualcosa di analogo è accaduta recentemente all’interno di Roblox, un multiplayer online creato ad hoc per bambini o ragazzi molto giovani, che conta 64 milioni di giocatori e dove la fantasia degli utenti fa da padrona indiscussa. Il problema arriva quando si fa uso improprio della libertà data per creare situazioni totalmente contrastanti con l’ambiente di gioco, in questo caso un ambiente volto a far socializzare e divertirsi: l’avatar di una bambina di sette anni è stato “stuprato” da altri tre giocatori che avevano creato degli strumenti a forma di pene. Chiaramente la scena non era esplicita, ma sfruttando e usando impropriamente determinate azioni che è possibile fare è stato possibile arrivare a una rappresentazione fortemente allusiva, che ha comunque cambiato in negativo l’esperienza di gioco della vittima. La madre è venuta a conoscenza dell’accaduto e ha raccontato tutto su un post su Facebook, dicendo di essersi sentita traumatizzata e violata, invogliando altri genitori a disinstallare il gioco dai device dei loro figli, per impedire che potesse accadere lo stesso anche a loro. Ovviamente i colpevoli sono stati segnalati agli sviluppatori e bannati in modo permanente.
Per molti la reazione della madre potrà risultare naturale ma, pur risultando comprensibilissima l’istintiva reazione di un genitore, quella di invogliare i giocatori ad abbandonare la piattaforma è la soluzione migliore?

Voler allontanare un pubblico sensibile da ambienti dove avvengono fatti del genere è un atto di difesa istintiva, ma mette in atto un’ulteriore, piccola ingiustizia nei confronti di chi ne ha già subita una. Di certo a subirne le conseguenze dovrebbe essere chi causa il problema, senza negare il divertimento videoludico a chi segue le regole e la netiquette.
Gli sviluppatori di Roblox hanno allora creato una guida per i genitori, in modo che entrambe le parti possano collaborare per dare agli utenti finali, cioè i ragazzi, quello che tutti vogliono: un’esperienza di gioco divertente e priva di pericoli.
Le soluzioni prospettabili sono due: la prima è di difficile attuazione, e consiste nel controllare qualsiasi cosa venga creata dagli utenti e assicurarsi che sia qualcosa di innocente e che non possa essere usata in modo improprio; ma i moderatori non potrebbero mai gestire agevolmente 64 milioni di utenti, né rilevarne violazioni come quella sopra raccontata. La seconda opzione è quella del dialogo, cioè creare un rapporto di collaborazione e sicurezza tra giocatori, genitori e moderatori per allontanare il prima possibile tutti quegli elementi che rovinano l’esperienza di gioco: se il ragazzo trova qualcuno del genere deve parlarne subito con la famiglia o, meglio ancora, direttamente con lo staff del gioco, il tutto in modo genuino e senza vergogna.
La nostra è un’epoca dove questi aspetti sono difficili da gestire, ci si sta affacciando adesso al medium videoludico in maniera più approfondita e non è facile interpretare i problemi e individuare le forme di protezione più efficace. Un’etica del giocatore è ancora in divenire, le regole si costruiscono giorno per giorno, i pericoli non sono pochi, soprattutto per i minori. Ma il gioco ha anche fini formativi, i vantaggi apportati dal videogame sono stati anche studiati dalla scienza: scappare non è la soluzione.
Quindi, cari genitori, se mai dovesse succedere ai vostri figli qualcosa come quanto raccontato sopra, non disinstallate, non sequestrate: informatevi sul da farsi, cercate delle guide, contattate gli sviluppatori e collaborate affinché si possano approntare rimedi e vi sia il minor impatto possibile sulla futura esperienza da giocatori dei vostri ragazzi, che hanno diritto di continuare a vivere esperienze virtuali. Se li indirizzerete anche verso le migliori esperienze videoludiche, se passerete loro un messaggio di equilibrio riguardo quanto e come fruire del mezzo, contribuirete alla loro crescita, e creerete allo stesso tempo un ambiante di gioco migliore per tutti.
Giocare dovrebbe essere anche un momento di edificazione umana, atto a farci dimenticare tutto il male intorno a noi: quel di cui potremmo essere vittime nel mondo virtuale, è grave, ma, sfruttando una safe-zone che è quella davanti al monitor, può insegnarci a essere più guardinghi nella realtà di tutti i giorni. E queste esperienze, questi insegnamenti, sono quelli che più di ogni altra cosa dobbiamo imparare a difendere.




Mamme e videogiochi possono andare d’accordo

Sin da piccolissima, casa mia è stata letteralmente piena di strumenti “tecnologici”: computer, telefoni fax, i primi cellulari, stampanti, tutti oggetti che avrei imparato a usare crescendo; ma da quando ho ricordi, erano quattro gli apparecchi che sapevo più o meno usare: la tv, il videoregistratore (sfruttato prevalentemente per guardare e riguardare i VHS dei film Disney), la prima PlayStation e il Game Boy, questi ultimi appartenenti a mio fratello. Non era raro che mentre uno di noi due giocava, sopratutto alla console di casa Sony, nostra madre ci guardasse, un po’ per capire per cosa avesse speso quelle 50 mila lire, un po’ per aspettare il suo turno.
Ebbene sì, sono tra i pochi fortunati cresciuti tra la fine degli anni ’90 e i primi del 2000 ad avere una mamma “gamer”,o che almeno, lo è stata un po’ da giovane. Avendo vissuto a pieno il periodo della nascita delle console, aveva in casa un’Amiga 600 e un Commodore 64 con giochi come Impossible MissionArkanoidPac-ManTetris Donkey Kong, che usava insieme ai fratelli più piccoli. Forse per sentirsi di nuovo ragazza, o forse per vedere personalmente come fossero cambiati i videogiochi nell’arco di 10-20 anni, ogni tanto accorreva in nostro aiuto quando non riuscivamo a superare un determinato livello in Crash Bandicoot, e la cosa la faceva divertire molto, tanto da aver trovato in quella serie i suoi videogiochi preferiti.

Passano gli anni, in casa arrivano una PlayStation 2  e un Game Boy Advance SP, la prima console che ho chiesto personalmente, che potevo considerare mia e che fu una delle ragioni che mi portò ad amare Nintendo. Trascorrevo intere giornate a giocare a Pokémon Smeraldo e Rosso Fuoco, che però non suscitarono interesse in mia madre,  troppo occupata a capire giochi come GTA Vice City e San AndreasNon era certo la prima volta che vedeva giochi violenti, avendo comprato in precedenza Tekken 3 Mortal Kombat 4, sempre a mio fratello, sempre sotto la sua supervisione, ma la vastità di cose che era possibile fare, il linguaggio scurrile e la grafica (ai tempi) fotorealistica sono sicuramente fattori che possono sì intrigare un bambino (personalmente li vedevo come qualcosa di totalmente nuovo e fu per questo che mi avvicinai a titoli del genere), ma anche allertare una mamma, specie se li associa all’influenza che questi possono avere sui figli di 6 e 11 anni. Insomma, non era proprio contentissima di quegli acquisti, nonostante le fosse chiaro che ci divertivamo come matti e mai avremmo voluto fare quelle cose nella vita reale. Non arrivò mai a sequestrarceli completamente, ma temeva che giocarci troppo potesse influenzarci in modo negativo, sopratutto me, che ero la piccola di casa e sopratutto femmina.
Ammetto di essere sempre stata un po’ maschiaccio dentro, nonostante mamma avesse provato di tutto per farmi essere più femminile (e tutt’ora ci prova), e quando ero piccola, la distinzione tra “cose da uomini” e “cose da donne” era sicuramente molto più marcata di adesso; e giocare ai videogiochi, secondo il pensiero comune, non sarebbe dovuto rientrare nei miei canoni, figurarsi farne una vera e propria passione. Forse è stato proprio questo che per un po’ ha messo mamma in allerta non facendole accettare totalmente la cosa, poiché per lei giocare era solo un passatempo come un altro, ma per me era molto di più. Ogni tanto mi chiedeva se non preferissi fare qualcos’altro, mi esortava a giocare di meno, mi diceva, un po’ per spaventarmi, che rischiavo di rimanere incollata alla tv senza capire più niente (cosa che ho scoperto essere possibile, ma impiegando il triplo delle ore che trascorrevo davanti allo schermo) o addirittura di poter diventare violenta. Ma tutt’altro, sono sempre stata tra le persone più miti sia a scuola che con gruppi di amici.
Lentamente ho ottenuto la mia “vittoria”: ora ho 20 anni, ormai da tempo non ho più bisogno di chiedere a mia madre se le sta bene che io compri un determinato videogioco (a meno che non abbia bisogno di soldi) e ho iniziato a portare questa passione su un altro livello, ricevendo anche supporto da parte sua. Sono stata arbitro di videogiochi Pokémon per circa un paio d’anni e dovevo recarmi molto lontana da casa per andare ai tornei, trascorrendo l’intera giornata fuori, ma non mi è mai stato impedito di andarci. Inoltre, scrivo da più di un anno per questa testata e vedere i miei contenuti pubblicati non può che riempirla d’orgoglio, a prescindere da quale sia il tema che tratto.
Grazie mamma, per darmi sempre la possibilità di fare ciò che amo di più.