Control – La Tana del Bianconiglio

Evidentemente questo è un anno particolare, l’ultimo dedicato a questa generazione. Tutti stanno impazzendo e alcuni dei titoli proposti finora sembrano andar contro la mera razionalità tanto cara al videogiocatore. Se questo può essere definito probabilmente l’anno di Kojima e del suo Death Stranding, l’influenza del New Weird che sta spopolando ultimamente è riuscita a contagiare grandi e piccoli studio e, in qualche modo, lo troviamo un po’ dappertutto: Cyberpunk 2077, Wolfenstein Youngblood, il già citato Death Stranding e molti titoli indie ma ce n’è uno che sale dritto al vertice del podio (finora) come esperienza più “strana” degli ultimi anni. L’ultimo lavoro di Remedy è un videogioco realizzato con amore, un titolo memorabile che tutti, almeno una volta, devono giocare. Tra visioni ispirate da David Lynch, Stanley Kubrick e una spruzzata di Carl Jung, Control vale da solo il prezzo del biglietto.

Al di là del bene e del male

Il primo impatto con Control è decisamente straniante: ci troviamo di fronte a fatti in pieno svolgimento e di difficile comprensione. Jesse Faden (Courtney Hope) non è solo una semplice protagonista ma è niente meno che la nuova direttrice del Federal Bureau of Control, una sorta di FBI allestita per studiare e scoprire eventi paranormali. Ma all’interno della Oldest House, centro nevralgico delle nostre avventure, niente è come sembra e continui colpi di scena e momenti di meraviglia vi terranno incollati allo schermo per tutta la durata delle vicende. Il mondo creato da Remedy è quasi una prosecutio di quanto allestito con Alan WakeQuantum Break e Max Payne, mescolate in salsa puramente “lynchiana” e l’impatto dell’autore del Montana (benché non sia stato in alcun modo reso partecipe del progetto) è tangibile sin dai primi istanti di gioco, attraverso una ricercatezza stilistica che rende Control unico nel suo genere. La regia e l’attenzione ai dettagli è qualcosa di sublime, arricchita da quell’aria da Serie TV che lo studio ci ha ormai abituati a vedere: tra primi piani caratterizzati da una fotografia capace di generare inquietudine, piccoli “sommari” all’inizio di ogni missione principale e sopratutto il non sapere cosa aspettarsi in qualunque frangente di gioco rendono Control un interessante esperienza videoludica e meta-narrativa.

Di fatto, Jesse Faden, non è sola: come una novella J.D. – Scrubs, ovviamente – saremo diretti spettatori dei suoi pensieri, senza filtri; lei è arrivata alla Oldest House per un motivo che, come potete immaginare, aprirà la strada a qualcosa ben più grande di lei. Ma questa continua introspezione dicevamo, prende anche la forma di dialogo con un’entità astratta e fin dall’inizio tende a confondere il videogiocatore: questa entità siamo noi? È in antitesi con l’Hiss? È una presenza reale legata a Jesse per qualche motivo? Lo scoprirete solo giocando, ma è incredibile come la sceneggiatura e la messa in scena giochi continuamente con le aspettative dello spettatore. E questo, ci porta finalmente all’Hiss, l’entità manifestata all’interno della Oldest House e in grado di assumere diverse forme, capaci di corrompere chiunque. Il suo ruolo, come quello dell’edificio, è di fondamentale importanza, non solo come mero nemico da affrontare ma importante stimolo nell’approfondire l’intera lore imbastita dai ragazzi di Remedy. A tal proposito numerosi sono i documenti e video in grado di incollare le tessere del puzzle di Control e mai come in questo caso, la lettura e la visione dei vari contenuti diventa fondamentale. Certo, l’eccessiva mole di informazioni multimediali può far presupporre una carenza di sceneggiatura “diretta”, ma questo titolo è anche questo, l’essere immersi in un mondo che gioca con le sue regole in cui persino la protagonista è a conoscenza di fatti che per il giocatore resteranno ignari per molte ore. In poche parole, Control si prospetta come una delle migliori esperienze degli ultimi anni, grazie a una scrittura di livello, coerente e soprattutto magnetica.

Un po’ Sylar, un po’ Chuck Norris

Tutte le vicende a cui prenderemo parte saranno all’interno della Oldest House con i suoi oscuri segreti. A volte si ha come l’impressione che lo stesso edificio sia un personaggio, alla stregua dei vari comprimari con cui potremmo interagire grazie a dialoghi ben scritti e recitati, permettendoci di approfondire il contesto. La struttura di gioco dunque, replica quella dei “metroidvania“, stile visto in tantissime salse ma che qui sembra avere una rilevanza particolare: ogni luogo scoperto o esplorato è un piccolo mondo, anch’esso con una storia alle spalle capace di integrarsi perfettamente all’intera sceneggiatura del titolo. L’esplorazione, benché contornata da un consultazione della mappa abbastanza difficoltosa, è semplicemente un piacere, sospinti dalla curiosità, cercando di scoprire le tante sfaccettature della F.B.C.
In questo contesto, dove gameplay e trama sembrano estremamente interconnessi, le fasi shooting vivono di vita propria grazie all’arma in dotazione del Direttore in grado di assumere diverse forme, dalla classica pistola, alla mitragliatrice sino a una sorta di lanciagranate. È possibile switchare in tempo reale tra due modalità d’arma che risulta essere al contempo utile e limitante: se passare ad esempio da lunga a corta gittata crea dei vantaggi sottintesi, lascia un po’ l’amaro in bocca la sola possibilità di ulteriore cambio modalità senza l’ausilio del menu apposito, mettendo in pausa il gioco. Le cinque modalità disponibili, se intercambiate in tempo reale avrebbero portato ancor più varietà e tatticismo a un gameplay che comunque, nonostante ciò, risulta molto appagante. Jesse non è un essere umano qualunque e l’incontro con alcuni Oggetti del Potere, oggetti speciali in grado di racchiudere peculiarità particolari grazie all’influenza dell’Hiss, la renderanno una macchina paranormale micidiale; senza elencarli tutti per non rovinare la sorpresa, ci soffermeremo sul Lancio, ovvero l’uso della telecinesi per attrarre gli oggetti per poi spedirli contro i nemici. Questa abilità rispecchia la volontà di Remedy di produrre qualcosa di estremamente esaltante e coreografico, facendo sentire il giocatore davvero all’interno del mondo di gioco: l’interazione ambientale è ai massimi livelli così come, ovviamente, la distruttibilità ambientale; ne consegue che durante gli scontri, avremo l’inquadratura stracolma di elementi, in grado di enfatizzare ogni piccolo anfratto di gameplay. Anche il resto dei poteri a disposizione è estremamente appagante da usare, potenziabili ulteriormente attraverso classici punti esperienza, così come l’arma in dotazione che, grazie all’uso di perk casuali, può generare effetti diversi a seconda delle nostre esigenze, come una ricarica più rapida dell’energia o il minor consumo di proiettili (comunque infiniti).
Tutto perfetto quindi? Benché Control riesca a rendere quasi tutto ciò che vediamo a schermo memorabile, è difficile non rimanere basiti (in senso negativo), dalla realizzazione dell boss fight, in netto contrasto rispetto al resto del titolo. In poche parole prive di mordente e a tratti noiose.
Ma tralasciando questo aspetto, Control è un’esperienza appagante anche dal punto di vista del gioco in senso stretto, con ampia libertà lasciata al giocatore. Nel bene o nel male, la Oldest House è il nostro parco giochi.

Semplicemente un miracolo

Quello che risalta immediatamente, come già accennato, è la gestione della fisica che, tralasciando qualche lecito svarione nel riprodurre la giusta massa degli oggetti, è tra le cose più riuscite del titolo. Si ha sempre la sensazione di stare in un luogo concreto, dove la minima interazione crea delle conseguenze. Tutto questo grazie anche al Northlight Engine, lo stesso utilizzato in Quantum Break ma qui in pieno spolvero: la gestione di un alto numero di poligoni, la loro interazione e filtri di ottima fattura sono solo la punta dell’iceberg di un motore che da il suo meglio nella gestione delle luci attraverso un lavoro encomiabile anche senza l’attivazione del Ray Tracing. Tutto questo ben di dio risulta anche ben ottimizzato e, se ci pensate, è un piccolo miracolo: nelle situazioni più concitate con distruzione “a go go”, effetti luci singoli per ogni elemento a schermo e dettagli ultra, Control riesce a mantenersi stabile e le piccole correzioni avvenute nell’ultimo periodo ne hanno ulteriormente migliorato le performance. Tutt’altra storia invece con Ray Tracing attivo: che la tecnologia sia ancora un po’ acerba lo si è capito, ma fa specie notare come a cotanta bellezza visiva corrisponda a un calo drastico del frame rate, anche con DLSS attivo. Nulla di ingiocabile, ma se volete godervelo appieno, a 4K e RT attivo, sappiate che qualche sacrificio bisogna farlo. Facendo notare con leggero disappunto la mancanza dell’HDR e animazioni non proprio al passo coi tempi, Control rimane una gioia per gli occhi, grazie a una regia impeccabile e con cutscene da brivido che a volte mischiano sapientemente il digitale col live-action, alla stregua di Hellblade: Senua’s Sacrifice.
Dal punto di vista audio, il titolo si presenta solo in lingua inglese con sottotitoli, con ottima interpretazione di Courtney Hope nei panni della protagonista Jesse Faden, e dei comprimari, mai sopra le righe e attenti a un conteso così particolare. Nota di merito infine agli effetti sonori, estremamente peculiari e attenti nel restituire i giusti feedback, sia in fase puramente esplorativa sia durante la presenza dell’Hiss, con un attento studio del sound design, definito appositamente per rendere al meglio questa entità.

In conclusione

Control è semplicemente una piccola perla che, come spesso accade, rimane incompresa. I dati di vendita purtroppo non sono rosei, vuoi per una campagna marketing priva di mordente e un periodo di lancio azzardato. Ma di qualità ce n’è davvero tanta, qualità realizzata col cuore da un team di sviluppo che ha realizzato l’opera che voleva e, di questi tempi, non è cosa da poco. Il viaggio di Jesse all’interno della Oldest House è uno dei più memorabili degli ultimi anni, con Control, in grado di candidarsi senza alcun problema al titolo di miglior gioco dell’anno 2019.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Sapphire Radeon RX 580 8GB NITRO+ Special Edition
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10




The Secret of Middle City

Molti dei giochi indie a cui giochiamo sono spesso meri rimandi al passato,  giochi pixellosi a cui fa sempre un certo piacere giocare; tuttavia, ogni giocatore ha quasi sempre un “guilty pleasure”, un titolo non propriamente bello con la quale ha una certa affinità cui però, trovandosi in contesti pubblici, ne parla anche male. Dunque ci si accorge che il gioco è fondamentalmente carente, lo si prende a parolacce di fronte agli amici gamer ma appena si torna a casa la prima cosa che si fa è accendere il computer e giocare con quel gioco maledetto… ecco, The Secret of Middle City è potenzialmente uno di quei titoli!
Sviluppato dallo studio indie italiano GDG Entertainment, è un gioco punta e clicca dalle tonalità “singolari”: sebbene il budget per la realizzazione sia chiaramente ben ristretto, come spesso accade per questo tipo di giochi, qui si respira un’aria ancora più low cost, un’avventura grafica che si presenta alquanto “scrausa” e, da titolo per PC anni ’90, persino “rotta”. The Secret of Middle City, se non altro, è stato concepito col motore Hollywood, il che significa che, oltre a funzionare su PC e Mac, è stato concepito e gira su Amiga OS 4, sistema operativo ancora reperibile e tuttoggi supportato! L’operazione nostalgica riesce in tutto e per tutto, anche se, sfortunatamente, l’opera attinge troppo e solo al passato, portando con sé sia i pregi che i difetti dei giochi per computer dell’epoca; potremmo dire benissimo di amare e odiare questo gioco allo stesso tempo: lasciateci spiegare.

Un tipetto… singolare

Middle City, 22 Aprile: viene segnalata la scomparsa di Linda Patton, brillante ragazza di questa piccola comunità di montagna. Viene trovato un braccio mozzato vicino a un fiume, insieme a un braccialetto con il suo nome impresso, e perciò si teme il peggio. Si decide dunque di coinvolgere il governo e così viene inviato il miglior agente federale del FBI; purtroppo Dale Cooper è impegnato a Twin Peaks con Laura Palmer e così, in sostituzione, dobbiamo accontentarci dell’agente Cox, un agente provolone, tonto e cascamorto. Durante il filmato iniziale, verremo a conoscenza di un misterioso “grande albero”, un luogo che sembra custodire un grosso segreto; cominceremo così a girare per Middle City in cerca di indizi, tentando di ricostruire quello che è successo a Linda Patton la sera della scomparsa; tutto sembra avvolto nel mistero e, a quanto pare, in molti dicono di guardarci le spalle e che la città nasconde un segreto collettivo. Come in ogni buon punta e clicca dovremo ovviamente andare in cerca di indizi interrogando le persone del luogo, triggerando i dialoghi testuali, che risultano abbastanza esilaranti, mantenendo una linea comica ispirata alle più classiche avventure grafiche della LucasArts ma con sfumature tipicamente italiane. È possibile inoltre, passando il mouse sugli oggetti di un luogo, analizzare gli oggetti che non possiamo prendere; talvolta da questi indizi è possibile capire come procedere nella nostra avventura… o semplicemente scoprire il pensiero dell’agente Cox! Per come è strutturato il gameplay, non c’è in realtà alcuna ragione di spostarsi all’interno dell’ambiente al di fuori dei dialoghi: è possibile analizzare la stanza e raccogliere determinati oggetti solamente col mouse e dunque, se negli ambienti non ci sarà nessuno da interrogare, il nostro agente starà sempre fermo sulla soglia d’ingresso di certi ambienti senza mai spostarsi di un centimetro. Non è un difetto terribile, ma toglie certamente dinamismo e azione al titolo, ci sarebbe piaciuto vedere un detective più attivo anziché far sembrare il tutto una sorta di text game.
Nulla da eccepire riguardo comparto testuale ma, come abbiamo accennato all’inizio, certi elementi nostalgici potevano essere tranquillamente lasciati nel passato da siamo stati presi: non sappiamo se fosse intento dei developer, ma i dialoghi non sono più rivisitabili e dunque non si possono richiamare due volte. È vero che le finestre vanno avanti solamente tramite un nostro click, ma tante volte ci si può semplicemente dimenticare di un dettaglio, il nome di una persona o una destinazione, perciò vi converrà stare attenti a ogni parola che verrà detta anche se, nonostante i dialoghi siano molto divertenti, buona parte delle interazioni è praticamente inutile e non serviranno a ricostruire ciò che è successo la sera dell’accaduto o a costruire delle ipotesi su chi sia il colpevole della sparizione di Linda Patton. Il vero effetto di questa mancanza emerge ancor di più quando si salva e si ritorna a giocare dopo ore; il non poter richiamare determinati dialoghi alla riaccensione del computer è un male per i giocatori più smemorati e, a meno che non si guardi una guida online, finiremo per girare a vuoto per Middle City per parecchio tempo per trovare la conversazione da triggerare, per visitare una destinazione non ancora presa in esame, per consegnare un oggetto o, ancora più criptico, un oggetto combinato che ci permetterà di continuare la campagna. La logica in tal senso viene coinvolta ben poco ai fini della progressione nell’indagine: non si cercano indizi per scoprire i risvolti della scomparsa di Linda Patton ma si gioca per mandare avanti l’avventura. I NPC potrebbero anche parlarci di luoghi da visitare e/o persone da interrogare ma, fino a quando determinati obiettivi (di cui il gioco stesso ci tiene all’oscuro) non verranno soddisfatti, non potremo procedere verso certi luoghi.
Man mano andremo ricostruendo il quadro completo, Middle City si aprirà sempre di più, ma scoprire quali parti della città, dopo determinati dialoghi, risultano sbloccate è sempre abbastanza criptico: difficilmente sapremo quando e dove si troveranno i nuovi luoghi da visitare (sarebbe bastato segnalarlo con una schermata incidentale) e questo lede in termini di funzionalità il design.
L’inventario contiene le opzioni usa/dai e combina/unisci, ma capire quali sono gli oggetti da unire e quali da usare in certe circostanze è spesso molto difficile: forse questa è una caratteristica che solamente gli appassionati più infoiati delle avventure grafiche potranno apprezzare.

Floppy pieni di “sorprese”

La grafica di The Secret of Middle City è stata realizzata a mano per poi essere ritoccata in seguito nei computer Amiga; si nota un certo art style tipico delle avventure grafiche degli anni ’90, eppure alcuni elementi risultano fuori posto: cominciamo dalle cutscene, molte delle quali sono disegnate e colorate a matita; nulla in contrario a questa scelta stilistica, anzi, è uno stile molto audace in un ambiente in cui tutto è stilizzato e progettato millimetro per millimetro al computer. Si vede chiaramente la passione del disegnatore Stefano Buonocore, perno fondamentale dello sviluppo di questo gioco, per le vecchie avventure grafiche e per gli art stile tipici dei giochi per i vecchi computer europei; tuttavia alcuni NPC, nonostante gli ambienti siano ben lontani dallo stile delle cutscene, presentano spesso lo stesso stile a matita, ben lontano dal protagonista, facendoli spiccare in modo poco armonico rispetto al contesto, come fossero stati estrapolati da un altro gioco.
Il titolo verrà giocato in 3:4. Ai bordi troveremo le varie opzioni del gioco ma, anche se si tratta di un chiaro elemento nostalgico, rimanda a un’idea volontariamente cheap. L’inventario, per esempio, è richiamabile cliccando sulla sua icona ai bordi dello schermo, e per toglierlo bisognerà cliccare nuovamente sulla stessa; per rendere questo processo più veloce, e dunque tornare velocemente in azione, sarebbe stato molto meglio cliccare da qualche parte lontano dal box del menù anziché riportare il mouse sull’icona del menù oggetti.
Sembra voler intenzionalmente richiamare (in maniera nostalgica) alcuni di quei giochi presenti in Giochi per il mio Computer, a tratti anche quei terribili giochi per PC in regalo con le scatole di cereali Kellogs o con le merendine del Mulino Bianco; ci riesce anche, ma non è che stiamo finendo in un campo fin troppo nostalgico? È probabile inoltre che la programmazione avvenuta su Amiga impedisca al gioco una risoluzione ottimale: abbiamo ottenuto una versione del gioco standalone e non siamo riusciti a giocare a questo titolo in modalità full screen per via di un errore, costringendoci a giocarlo in modalità windowed. L’operazione è stata tentata su più di un PC, con lo stesso identico risultato. Non sappiamo dire se la stessa cosa avviene su Steam (dove il gioco è in vendita per 14,99€) o su Amiga OS 4.
I temi musicali del gioco richiamano a dovere l’epoca delle avventure grafiche anni ’90; i temi sono molto semplici ma riescono a restituire quelle le sensazioni di una passeggiata all’interno di questa piccola comunità di montagna. Non mancheranno chiaramente temi più “oscuri” quando andremo a visitare qualche luogo misterioso o intraprenderemo un dialogo particolarmente importante; in questi frangenti lo stile melodico richiama chiaramente quello tipico di Angelo Badalamenti, compositore dell’acclamatissima serie TV I Segreti di Twin Peaks (che, ovviamente, influenza tantissimo la trama di questo titolo), e bisogna dire che questi temi sono particolarmente belli, nonostante i toni demenziali della quale il gioco è intriso. Come abbiamo già detto, i dialoghi sono interamente testuali, ma ci sarebbe tanto piaciuto se questi fossero stati doppiati ed essere dunque di supporto al testo, come avvenuto lo scorso anno in Thimbleweed Park, punta e clicca di Ron Gilbert che compie la stessa “operazione nostalgia”.

Tirando le somme

Cosa pensiamo dunque di The Secret of Middle City? Dire, come abbiamo detto all’inizio, che sia allo stesso tempo bello e brutto non è un assurdità. Ci sono elementi, come la grafica, il sonoro o le battutine stupide di Cox, che rendono il gioco adorabile e un bel salto nel passato; tuttavia, ce ne sono altri, come l’astrusità dell’inventario, il non poter richiamare i dialoghi una seconda volta e il non poter capire quando e dove certi luoghi diventano accessibili, che ce lo fanno anche odiare. È chiaramente un titolo pensato principalmente per gli amanti delle avventure grafiche di una certa età (anche perché non mancano certi disegni e scene un po’ piccanti) e chiaramente non per tutti: è uno di quei giochi in cui si sarebbe potuto fare anche di più, ma si è puntato forse troppo sull’effetto nostalgia, prendendo del passato sia gli aspetti positivi che quelli negativi, riportandoli nel presente senza un’adeguata revisione, consegnando un’avventura grafica meno curata, con meno carattere e certamente non all’altezza di molti altri titoli odierni del genere. Il prezzo su Steam non risulta competitivo, e forse andrebbe rivisto verso il basso per stimolare l’acquisto a gamer curiosi che vogliano comunque godersi qualche ora di divertimento. Se vi mancano questo tipo di avventure grafiche, quel senso di “cheap” tipico di certi giochi per PC di fine anni ’90, e soprattutto se avete un AmigaOne X5000 (il modello corrente di Amiga), beh… allora questo gioco fa per voi!




Virginia

Il recente annuncio di Transference VR durante la conferenza Ubisoft all’E3 ci ha dato ancora una volta dimostrazione di come il mondo cinematografico e quello videoludico vadano sempre più intrecciandosi, nutrendosi dei rispettivi mezzi tecnici, linguaggi e suggestioni formali e sostanziali. Il meccanismo è in atto da tempo, il sempre maggior ricorso nel settore agli attori hollywoodiani è un segno di ulteriore ibridazione, e quando titoli come Virginia si affacciano nel panorama dei videogame abbiamo la misura di quanto la settima arte sia un’influenza di rilievo per certi autori e game designer, anche in termini di regia e sceneggiatura.
Sviluppato da Variable Games, Virginia segue la storia di Anne Tarver, neo agente FBI assegnato al caso della scomparsa del giovane Lucas Fairfax e, al contempo, incaricato di riferire agli Affari Interni del comportamento della collega Maria Halperin, con cui si trova in coppia sul caso. Da questi presupposti, piuttosto classici, prende le mosse un intreccio che si complicherà progressivamente, mostrando risvolti complessi che porteranno il giocatore in un dedalo di misteri nascosti dietro la quieta immagine dell’ordinario.

Richiami seriali

Pur godendo di una trama complessa, sul piano narrativo Virginia prende le mosse da stereotipi classici del cinema e della fiction televisiva. Come se non bastassero i riferimenti agli UFO che aleggiano nel corso della storia, a rievocare X-Files si aggiunge la collocazione dell’ufficio della Halperin in un seminterrato, che ricorda quello del buon vecchio Fox Mulder, l’agente meno amato dai vertici del FBI. Seppur i richiami sono estremamente ricorrenti, non è la serie di Chris Carter il principale riferimento del titolo: le dinamiche della provinciale Kingdom (immaginaria cittadina della Virginia), ricordano molto da vicino quelle dell’altrettanto immaginaria Twin Peaks, ed è proprio nell’opera di David Lynch che troviamo il basamento concettuale di Virginia. A partire dal soggetto dell’indagine, quel Lucas che con la sua scomparsa diventa la mano atta a scoperchiare il Vaso di Pandora delle esistenze dei miti cittadini di Kingdom, svolgendo quindi una funzione simile a quella di Laura Palmer in Twin Peaks, e diventando il fulcro attorno al quale si srotola l’inconscio della stessa protagonista, Anne. Virgina non è infatti la classica detective story: l’indagine diventa anzi quasi un pretesto per mostrare la polvere nascosta sotto il pesante tappeto di Kingdom, ma soprattutto per leggere dietro le vite dei due personaggi principali, gli agenti Anne e Maria. In Virginia non sono presenti enigmi, neanche sotto forma di piccoli puzzle, e per questo possiamo definire il titolo come una “visual novel”. Il puzzle è probabilmente la personalità stessa della protagonista: in parallelo all’indagine sulla scomparsa del giovane Lucas, è evidente come Anne conduca una silenziosa ricerca su alcuni aspetti del proprio passato che non hanno mai trovato risposta.

Ricordo, cammina con me

Il gioco alterna infatti una narrazione lineare – cronologicamente ordinata nel susseguirsi dei singoli giorni che compongono la settimana in cui si colloca l’indagine – a rapidi flashback, visioni, sequenze oniriche, figlie del linguaggio lynchiano che pervade l’intero titolo. Le memorie e le visioni di Anne tendono sempre più a confondersi col piano del reale, i simboli sono talmente vividi da lasciare più di una volta il dubbio sulla loro veridicità. È un impianto che ricorda Twin Peaks, ma anche Blue Velvet, altro film di David Lynch dal forte apparato simbolico, anch’esso ambientato in una piccola cittadina americana, al punto che, nell’unica sequenza del videogame ambientata in un Roadhouse, non mi sarei stupito di sentire il pezzo di Bobby Vinton che dà il titolo al lungometraggio del regista di Missoula.
Simbolismo e tendenza all’astratto per un titolo ambizioso, dunque, ma non sempre questi elementi sono ben calibrati: Virginia gode infatti di un immaginario surreale espresso in sogni e allucinazioni che dà spesso luogo a un’ambiguità a volte confusionaria. Ma, se è vero che la realtà è talvolta contaminata dalla finzione, è altrettanto vero che la finzione rivela a sua volta scampoli di verità nascoste nelle profondità della coscienza, e questo meccanismo riesce a volte a fornire in maniera efficace vari indizi su cosa agiti il subconscio di Anne. Più di una volta però questo procedimento non risulta efficace, con la conseguenza che il flusso simbolico perde in potenza e armonia, risultando caotico, claudicante e solo parzialmente apprezzabile. Elemento che si fa tanto più delicato nella misura in cui non sono presenti dialoghi o linee di testo a contribuire alla spiegazione della storia: Virginia opera infatti una scelta di campo coraggiosa e che, in ogni caso, dà i suoi frutti in fase di regia, la quale riesce a offrire ottimi momenti di cinema, con un montaggio serrato e improvvisi salti scenici non solo nelle cinematiche, ma soprattutto nei momenti di gameplay.

Il bisonte, la scatola, il cardinale

Lo stile cinematografico di Virginia è uno degli aspetti più riusciti del titolo, capace di dare al giocatore una narrazione essenziale ed efficace e abile nel giocare con gli stilemi di un certo cinema d’autore statunitense. Siamo ovviamente lontani dalle vette simboliste di registi del calibro di Lynch, Cronenberg o Ferrara, la regia è qui molto più acerba, talvolta ingenua, ma è innegabile come Virginia sia uno dei migliori esempi del genere in campo videoludico, raccontando una storia che regge pur in assenza di dialoghi, affidandosi al montaggio e alla potenza di immagini popolate da simboli poderosi che vanno dal bisonte (animale americano per eccellenza) al cardinale rosso (uccello detto “cardinale della Virginia“, che ritorna come un ossessivo redde rationem della protagonista con il proprio passato), i quali ricorrono nelle visioni e nei sogni di Anne unitamente a simboli quotidiani, quasi banali, che scandiscono il tempo e il ritmo della storia.
Assume forte valenza simbolica la chiave spezzata che Anne porta sempre con sé, simulacro attorno al quale ruotano il proprio vissuto irrisolto, il rapporto col padre, i misteri sepolti, la paura d’affrontarli e l’impossibilità d’aprire una scatola nascosta in interiore che serba verità che spesso si preferirebbe non conoscere.

Suoni e visioni

Virginia non è certo un titolo elaborato sul piano grafico, con modelli tridimensionali in cel shading che conservano comunque un proprio stile e che danno il loro meglio negli ambienti aperti, nei quali predominano i colori chiari. Nell’opera dominano inoltre i cromatismi, con un ricorrere del rosso che ricopre un valore certamente simbolico, e che fa il paio con l’erubescenza del cardinale della Virginia.
Un punto a favore va alle animazioni prodotte da Terry Kenny – abilmente affiancato dal Pink Kong Studios – le quali rivestono un ruolo molto importante nel dettagliare una storia che, in assenza di dialoghi, risulta esaltata dai particolari visivi, dalle espressioni, dalle movenze dei corpi, atte a rendere atteggiamenti o particolari stati d’animo dei personaggi.
Sul piano tecnico si riscontrano un po’ di problemi di frame rate, nonostante il titolo sia stato giocato a 30 FPS come consigliano gli sviluppatori sin dal menù iniziale; nulla che risulti troppo fastidioso, considerando soprattutto che non vi sono particolari esigenze di precisione, ma sono comunque piccoli difetti presenti nel titolo riscontrati da più di un giocatore.
Il vero capolavoro dell’opera è però il comparto sonoro, una raffinatissima colonna sonora composta da Lyndon Holland ed eseguita dall’Orchestra Filarmonica di Praga che non sfigura nel confronto con i suoi omologhi della settima arte, accompagnando l’azione con perfetta coerenza e restituendo in maniera magistrale quel senso di sospensione proprio del contesto onirico, giocando a volte su una dialettica oppositiva suono-ambiente che regala risultati di straordinaria armonia (vedi la traccia Roadhouse nella sequenza al locale notturno); Holland, classe 1987, dà prova di grande perizia e di una consapevolezza sul piano armonico affatto scontate per un compositore così giovane, spaziando da chiare influenze di genere – una su tutte quella di James Newton Howard e dei suoi primi lavori quali Il Fuggitivo, Linea Mortale e Virus Letale, dalle quali eredita soprattutto la commistione fra suoni orchestrali e sintetizzatori – ad alcune più recenti OST di Cliff Martinez, e creando un ponte fra la musica classica e le sonorità sintetiche ’80-’90 che ben si presta ad accompagnare le sequenze di un titolo come Virginia.

Finali senza fine

Nel saggio Tipologia del romanzo poliziesco, il critico Tzvetan Todorov distingueva due narrazioni all’interno delle storie appartenenti al macro-genere del giallo: la storia del delitto e quella dell’inchiesta condotta dal detective, che altro non è che un mezzo per ricostruire la prima storia. Nel caso di Virginia, il delitto (ovvero la scomparsa del giovane Lucas) è un mero pretesto per un viaggio multiforme, che attraversa i tortuosi sentieri dell’inconscio delle due protagoniste e che finisce col costruire un grande affresco d’intrighi, complotti, società segrete e misteri governativi racchiuso nel microcosmo di una piccola cittadina americana. Come molti suoi corrispettivi cinematografici (e non), quel che Virginia lascia al giocatore è un senso di stordimento e disorientamento di fronte a una storia dal forte impatto visivo (e visionario) e non pochi quesiti aperti. Il titolo si affida a una potenza di immagini basata su simboli, icone e simulacri i cui significati sottesi si dipanano tra salti temporali e narrativi, diacronie, flashback che aprono uno squarcio sul passato dei personaggi principali e flashforward che prefigurano scenari futuri probabilmente irrealizzati fino all’apoteosi lisergica della sequenza finale. Come nel Doppio Sogno di Schnitzler, il dualismo fra realtà e immaginazione lascia il giocatore nell’incapacità di distinguere il vero dal falso, quel che Anne ha realmente vissuto e quel che invece è frutto di sogni e visioni; se questo non è un difetto in sé, lo è però il suo contenuto, quel piano surreale del titolo che da un lato conferisce a Virginia una gran forza immaginifica ma, dall’altro, finisce col risultare troppo carico, talvolta ridondante, spesso frammentario, penalizzando una trama i cui risvolti si perdono in un insieme astratto e indefinito.
Il lavoro di Jonathan Burroughs e soci rappresenta comunque un pregevole unicum in ambito videoludico, strizzando l’occhio ai grandi maestri del cinema surreale sul piano icastico e, per scelte formali, ai noir più visionari di metà ‘900, da The Third Man di Carol Reed a Laura di Otto Preminger, con i quali ha in comune le atmosfere rarefatte e una doppia articolazione narrativa in cui tutti i personaggi, gli oggetti, i simboli assurgono a simulacri guidati da una voce senza corpo.
Titolo difficilmente incasellabile in ambito videoludico (a meno che non ci si voglia fermare spregiativamente e semplicisticamente a una definizione di “walking simulator” che non tiene conto di contenuti e forme), Virginia è una detective story che non presenta enigmi o elementi di difficoltà per il giocatore, il quale non dovrà far altro che immergersi in una narrazione di genere dai risvolti metafisici e psicologici che, pur non risultando priva di difetti, indurrà i più curiosi a rivivere una seconda volta le circa 3 ore di gameplay per vedere la storia da un’altra angolazione, nella speranza di decifrare, nel marasma di simboli sfuggiti a un primo sguardo, la chiave spezzata atta ad aprire la cassetta dei significati nascosti dell’opera.




Distraint

Ogni creazione artistica racconta sempre qualcosa dell’epoca in cui è scritta: alcune opere portano con sé solo lo spirito del tempo, altre raccontano per scelta la propria contemporaneità. Se è vero che la letteratura ci ha narrato le storie di ogni tempo, il cinema ci ha restituito il ‘900, la musica continua a parlare ai cuori di interi popoli e le arti visive – dalle prime iscrizioni nelle caverne a oggi – hanno immortalato fatti e accadimenti della storia umana, probabilmente tra un secolo (o anche meno) le opere videoludiche contribuiranno a raccontare l’epoca in cui viviamo.
Il fatto che nel 2015 un giovane sviluppatore finlandese abbia prodotto un’avventura grafica a tinte fosche dall’ambientazione horror chiamata Distraint (e quindi intitolata al pignoramento) potrà dirla lunga su questi anni figli della grande recessione e della crisi dei Subprime.

Esecuzione forzata

“Each house is a story of failure — of bankruptcy and default, of debt and foreclosure”
(Sunset Park, Paul Auster)

Se il mio professore di diritto privato leggesse quanto sto per scrivere chiederebbe la revoca della mia laurea ma, semplificando, possiamo dire che il pignoramento è un mezzo con cui si sottrae qualcosa a qualcuno che ha avuto la cattiva idea di indebitarsi. Ogni cosa è pignorabile, anche le action figures che tenete sulla vostra scaffalatura. Ma se vi pignorassero un Funko Pop sarebbe forse più facile farsene una ragione (a meno che non abbiate quello di Clockwork Orange da 12.000 €) che se vi pignorassero la casa in cui abitate. Il pignoramento del proprio focolare è probabilmente una delle peggiori prospettive per chiunque: un’idea da incubo, ideale per un horror. Con la crisi l’aumento delle esecuzioni forzate sugli immobili è stato inevitabile e il game designer Jesse Makkonen si è forse chiesto come ci si deve sentire a non avere più una casa, ma soprattutto si è messo nei passi di chi ha l’onere di togliere la casa a qualcuno, strapparla via con tutto il suo deposito di ricordi, esperienze e momenti vissuti. Invece del cinico affarista privo di remore in simili situazioni, qui abbiamo il signor Price, un uomo dotato di coscienza ed empatia, caratteristiche non ideali quando ci si trova in un simile ruolo. Eppure Price dovrà andare fino in fondo nel suo viaggio tra stanze, corridoi, uffici, androni e soprattutto abitazioni da confiscare. Un percorso che è un susseguirsi di gironi danteschi in una storia dalla struttura vagamente dickensiana, un Canto di Natale fuori stagione che porterà Price a confrontarsi con i propri spettri nel corso di ogni espropriazione (che, per inciso, sono 3, proprio come i fantasmi di Natale del racconto dickensiano) e che lo vedrà in bilico tra i morsi della sua coscienza e la sua voglia di far carriera: intuiamo fin dall’inizio come il nostro protagonista non sia proprio un esempio di cinismo, a differenza dei suoi capi, gli sprezzanti McDade, Bruton & Moore, che appaiono di tanto in tanto a ricordargli le regole del successo. Il fatto che a presiedere ai pignoramenti vi sia un’azienda privata di cui Price è un semplice agente suona come un’incongruenza, visto che di solito quest’attività è di competenza dello Stato: ho pure cercato come vengono effettuate le esecuzioni forzate in Finlandia e in altre parti del mondo occidentale e pare che anche in questi paesi sia competenza di enti o agenzie governative, che non hanno un marchio privato come nel caso in questione. Sotto questo aspetto è dunque necessario fare uno sforzo di sospensione dell’incredulità, e francamente non viene difficile considerando l’ambientazione cupa e straniante e la tecnica di racconto non lineare, che ricorre a improvvisi salti temporali, a scene oniriche che raccolgono i frammenti del franto inconscio di Price e a sequenze surreali che rafforzano il senso d’angoscia trasmesso dal racconto, improntato sulla scia di un simbolismo che sembra unire David Lynch a Silent Hill in un unico titolo.

Nebbie in pixel art

Distraint è un’avventura grafica bidimensionale a tinte fosche in pixel art ideata da Jesse Makkonen, dicevamo, game designer finlandese già autore dell’interessantissimo Silence of the Sleep. Il gameplay è essenziale, trattandosi di un’avventura a scorrimento laterale nella quale l’obiettivo è risolvere enigmi non troppo complessi e che ha al centro storia e ambientazione atte a restituire il senso di angoscia e lacerazione interiore del protagonista. Come in un classico punta e clicca, si dovranno raccogliere oggetti che saranno raggruppati in un inventario dotato di tre soli slot (che non arriverete mai a riempire) e utilizzarli in modo da poter andare avanti.
Parlare di level design sarebbe troppo, trattandosi di un indie game dalla grafica basilare che risulta comunque buona, essendo questo uno speed project (lo stesso Makkonen scrive d’averci impiegato “82 giorni, 620 ore, tazzine di caffè 155/54 litri”) ma sul piano artistico la resa centra in pieno l’intento, grazie anche a piccoli, decisivi innesti come una nebbiolina d’effetti particellari atta ad accentuare l’atmosfera onirica e un effetto grana che contribuisce ad atemporalizzare la storia raccontata. Il sonoro completa questo quadro, insinuandosi in maniera delicata e appropriata e contribuendo in maniera decisiva a restuire un’ambientazione ansiogena e il dramma psicologico del protagonista.

L’elefante nella stanza

«Quel momento segnò la mia rovina: questa è la mia storia, e questi sono i miei rimpianti»
(Distraint)

Distraint è un’avventura grafica che potrebbe anche passare per una visual novel gotica, tanto il peso della trama è maggiore di quello degli enigmi; fosse letteratura sarebbe un racconto horror nemmeno tanto breve (ma neanche lunghissimo: il gioco dura circa un paio d’ore) dal buon ritmo, dai temi solidi e con qualche sbavatura: Makkonen calca probabilmente troppo la mano sugli elementi onirici, preme l’acceleratore del surrealismo e ogni tanto rischia di andare fuori strada. Nel tentativo di rendere più potente il piano simbolico dell’opera, alcune sequenze appaiono sovraccaricate e rischiano di risultare in parte poco funzionali al racconto, che a volte ne subisce il peso: la stessa scena dell’elefante (che resta comunque una delle più intense del titolo) non fa eccezione, e alcuni momenti simili rischiano di non giovare al risultato finale, mentre altri sono inseriti con grande equilibrio nel tessuto narrativo.
Ciò nonostante, Distraint resta un’opera interessante, nella quale l’autore ci restituisce una storia a più livelli, ottimamente resa nonostante gli stretti tempi di produzione, e nella quale il messaggio passa forte e chiaro, portandoci al finale in un climax di angoscia, ambiguità, claustrofobia onirica, ambientazioni surreali in cui non si lesinano i jumpscare.
Un’opera videoludica che denota una certa forza di contenuti e sapienza narrativa, e che piacerà agli amanti dell’horror psicologico e autoriale.