Virginia

Il recente annuncio di Transference VR durante la conferenza Ubisoft all’E3 ci ha dato ancora una volta dimostrazione di come il mondo cinematografico e quello videoludico vadano sempre più intrecciandosi, nutrendosi dei rispettivi mezzi tecnici, linguaggi e suggestioni formali e sostanziali. Il meccanismo è in atto da tempo, il sempre maggior ricorso nel settore agli attori hollywoodiani è un segno di ulteriore ibridazione, e quando titoli come Virginia si affacciano nel panorama dei videogame abbiamo la misura di quanto la settima arte sia un’influenza di rilievo per certi autori e game designer, anche in termini di regia e sceneggiatura.
Sviluppato da Variable Games, Virginia segue la storia di Anne Tarver, neo agente FBI assegnato al caso della scomparsa del giovane Lucas Fairfax e, al contempo, incaricato di riferire agli Affari Interni del comportamento della collega Maria Halperin, con cui si trova in coppia sul caso. Da questi presupposti, piuttosto classici, prende le mosse un intreccio che si complicherà progressivamente, mostrando risvolti complessi che porteranno il giocatore in un dedalo di misteri nascosti dietro la quieta immagine dell’ordinario.

Richiami seriali

Pur godendo di una trama complessa, sul piano narrativo Virginia prende le mosse da stereotipi classici del cinema e della fiction televisiva. Come se non bastassero i riferimenti agli UFO che aleggiano nel corso della storia, a rievocare X-Files si aggiunge la collocazione dell’ufficio della Halperin in un seminterrato, che ricorda quello del buon vecchio Fox Mulder, l’agente meno amato dai vertici del FBI. Seppur i richiami sono estremamente ricorrenti, non è la serie di Chris Carter il principale riferimento del titolo: le dinamiche della provinciale Kingdom (immaginaria cittadina della Virginia), ricordano molto da vicino quelle dell’altrettanto immaginaria Twin Peaks, ed è proprio nell’opera di David Lynch che troviamo il basamento concettuale di Virginia. A partire dal soggetto dell’indagine, quel Lucas che con la sua scomparsa diventa la mano atta a scoperchiare il Vaso di Pandora delle esistenze dei miti cittadini di Kingdom, svolgendo quindi una funzione simile a quella di Laura Palmer in Twin Peaks, e diventando il fulcro attorno al quale si srotola l’inconscio della stessa protagonista, Anne. Virgina non è infatti la classica detective story: l’indagine diventa anzi quasi un pretesto per mostrare la polvere nascosta sotto il pesante tappeto di Kingdom, ma soprattutto per leggere dietro le vite dei due personaggi principali, gli agenti Anne e Maria. In Virginia non sono presenti enigmi, neanche sotto forma di piccoli puzzle, e per questo possiamo definire il titolo come una “visual novel”. Il puzzle è probabilmente la personalità stessa della protagonista: in parallelo all’indagine sulla scomparsa del giovane Lucas, è evidente come Anne conduca una silenziosa ricerca su alcuni aspetti del proprio passato che non hanno mai trovato risposta.

Ricordo, cammina con me

Il gioco alterna infatti una narrazione lineare – cronologicamente ordinata nel susseguirsi dei singoli giorni che compongono la settimana in cui si colloca l’indagine – a rapidi flashback, visioni, sequenze oniriche, figlie del linguaggio lynchiano che pervade l’intero titolo. Le memorie e le visioni di Anne tendono sempre più a confondersi col piano del reale, i simboli sono talmente vividi da lasciare più di una volta il dubbio sulla loro veridicità. È un impianto che ricorda Twin Peaks, ma anche Blue Velvet, altro film di David Lynch dal forte apparato simbolico, anch’esso ambientato in una piccola cittadina americana, al punto che, nell’unica sequenza del videogame ambientata in un Roadhouse, non mi sarei stupito di sentire il pezzo di Bobby Vinton che dà il titolo al lungometraggio del regista di Missoula.
Simbolismo e tendenza all’astratto per un titolo ambizioso, dunque, ma non sempre questi elementi sono ben calibrati: Virginia gode infatti di un immaginario surreale espresso in sogni e allucinazioni che dà spesso luogo a un’ambiguità a volte confusionaria. Ma, se è vero che la realtà è talvolta contaminata dalla finzione, è altrettanto vero che la finzione rivela a sua volta scampoli di verità nascoste nelle profondità della coscienza, e questo meccanismo riesce a volte a fornire in maniera efficace vari indizi su cosa agiti il subconscio di Anne. Più di una volta però questo procedimento non risulta efficace, con la conseguenza che il flusso simbolico perde in potenza e armonia, risultando caotico, claudicante e solo parzialmente apprezzabile. Elemento che si fa tanto più delicato nella misura in cui non sono presenti dialoghi o linee di testo a contribuire alla spiegazione della storia: Virginia opera infatti una scelta di campo coraggiosa e che, in ogni caso, dà i suoi frutti in fase di regia, la quale riesce a offrire ottimi momenti di cinema, con un montaggio serrato e improvvisi salti scenici non solo nelle cinematiche, ma soprattutto nei momenti di gameplay.

Il bisonte, la scatola, il cardinale

Lo stile cinematografico di Virginia è uno degli aspetti più riusciti del titolo, capace di dare al giocatore una narrazione essenziale ed efficace e abile nel giocare con gli stilemi di un certo cinema d’autore statunitense. Siamo ovviamente lontani dalle vette simboliste di registi del calibro di Lynch, Cronenberg o Ferrara, la regia è qui molto più acerba, talvolta ingenua, ma è innegabile come Virginia sia uno dei migliori esempi del genere in campo videoludico, raccontando una storia che regge pur in assenza di dialoghi, affidandosi al montaggio e alla potenza di immagini popolate da simboli poderosi che vanno dal bisonte (animale americano per eccellenza) al cardinale rosso (uccello detto “cardinale della Virginia“, che ritorna come un ossessivo redde rationem della protagonista con il proprio passato), i quali ricorrono nelle visioni e nei sogni di Anne unitamente a simboli quotidiani, quasi banali, che scandiscono il tempo e il ritmo della storia.
Assume forte valenza simbolica la chiave spezzata che Anne porta sempre con sé, simulacro attorno al quale ruotano il proprio vissuto irrisolto, il rapporto col padre, i misteri sepolti, la paura d’affrontarli e l’impossibilità d’aprire una scatola nascosta in interiore che serba verità che spesso si preferirebbe non conoscere.

Suoni e visioni

Virginia non è certo un titolo elaborato sul piano grafico, con modelli tridimensionali in cel shading che conservano comunque un proprio stile e che danno il loro meglio negli ambienti aperti, nei quali predominano i colori chiari. Nell’opera dominano inoltre i cromatismi, con un ricorrere del rosso che ricopre un valore certamente simbolico, e che fa il paio con l’erubescenza del cardinale della Virginia.
Un punto a favore va alle animazioni prodotte da Terry Kenny – abilmente affiancato dal Pink Kong Studios – le quali rivestono un ruolo molto importante nel dettagliare una storia che, in assenza di dialoghi, risulta esaltata dai particolari visivi, dalle espressioni, dalle movenze dei corpi, atte a rendere atteggiamenti o particolari stati d’animo dei personaggi.
Sul piano tecnico si riscontrano un po’ di problemi di frame rate, nonostante il titolo sia stato giocato a 30 FPS come consigliano gli sviluppatori sin dal menù iniziale; nulla che risulti troppo fastidioso, considerando soprattutto che non vi sono particolari esigenze di precisione, ma sono comunque piccoli difetti presenti nel titolo riscontrati da più di un giocatore.
Il vero capolavoro dell’opera è però il comparto sonoro, una raffinatissima colonna sonora composta da Lyndon Holland ed eseguita dall’Orchestra Filarmonica di Praga che non sfigura nel confronto con i suoi omologhi della settima arte, accompagnando l’azione con perfetta coerenza e restituendo in maniera magistrale quel senso di sospensione proprio del contesto onirico, giocando a volte su una dialettica oppositiva suono-ambiente che regala risultati di straordinaria armonia (vedi la traccia Roadhouse nella sequenza al locale notturno); Holland, classe 1987, dà prova di grande perizia e di una consapevolezza sul piano armonico affatto scontate per un compositore così giovane, spaziando da chiare influenze di genere – una su tutte quella di James Newton Howard e dei suoi primi lavori quali Il Fuggitivo, Linea Mortale e Virus Letale, dalle quali eredita soprattutto la commistione fra suoni orchestrali e sintetizzatori – ad alcune più recenti OST di Cliff Martinez, e creando un ponte fra la musica classica e le sonorità sintetiche ’80-’90 che ben si presta ad accompagnare le sequenze di un titolo come Virginia.

Finali senza fine

Nel saggio Tipologia del romanzo poliziesco, il critico Tzvetan Todorov distingueva due narrazioni all’interno delle storie appartenenti al macro-genere del giallo: la storia del delitto e quella dell’inchiesta condotta dal detective, che altro non è che un mezzo per ricostruire la prima storia. Nel caso di Virginia, il delitto (ovvero la scomparsa del giovane Lucas) è un mero pretesto per un viaggio multiforme, che attraversa i tortuosi sentieri dell’inconscio delle due protagoniste e che finisce col costruire un grande affresco d’intrighi, complotti, società segrete e misteri governativi racchiuso nel microcosmo di una piccola cittadina americana. Come molti suoi corrispettivi cinematografici (e non), quel che Virginia lascia al giocatore è un senso di stordimento e disorientamento di fronte a una storia dal forte impatto visivo (e visionario) e non pochi quesiti aperti. Il titolo si affida a una potenza di immagini basata su simboli, icone e simulacri i cui significati sottesi si dipanano tra salti temporali e narrativi, diacronie, flashback che aprono uno squarcio sul passato dei personaggi principali e flashforward che prefigurano scenari futuri probabilmente irrealizzati fino all’apoteosi lisergica della sequenza finale. Come nel Doppio Sogno di Schnitzler, il dualismo fra realtà e immaginazione lascia il giocatore nell’incapacità di distinguere il vero dal falso, quel che Anne ha realmente vissuto e quel che invece è frutto di sogni e visioni; se questo non è un difetto in sé, lo è però il suo contenuto, quel piano surreale del titolo che da un lato conferisce a Virginia una gran forza immaginifica ma, dall’altro, finisce col risultare troppo carico, talvolta ridondante, spesso frammentario, penalizzando una trama i cui risvolti si perdono in un insieme astratto e indefinito.
Il lavoro di Jonathan Burroughs e soci rappresenta comunque un pregevole unicum in ambito videoludico, strizzando l’occhio ai grandi maestri del cinema surreale sul piano icastico e, per scelte formali, ai noir più visionari di metà ‘900, da The Third Man di Carol Reed a Laura di Otto Preminger, con i quali ha in comune le atmosfere rarefatte e una doppia articolazione narrativa in cui tutti i personaggi, gli oggetti, i simboli assurgono a simulacri guidati da una voce senza corpo.
Titolo difficilmente incasellabile in ambito videoludico (a meno che non ci si voglia fermare spregiativamente e semplicisticamente a una definizione di “walking simulator” che non tiene conto di contenuti e forme), Virginia è una detective story che non presenta enigmi o elementi di difficoltà per il giocatore, il quale non dovrà far altro che immergersi in una narrazione di genere dai risvolti metafisici e psicologici che, pur non risultando priva di difetti, indurrà i più curiosi a rivivere una seconda volta le circa 3 ore di gameplay per vedere la storia da un’altra angolazione, nella speranza di decifrare, nel marasma di simboli sfuggiti a un primo sguardo, la chiave spezzata atta ad aprire la cassetta dei significati nascosti dell’opera.