Il Videogioco non insegna nulla

Si, è vero, il titolo è abbastanza provocatorio, ma diciamoci la verità: viviamo in un mondo in cui, invece di affrontare le reali cause di un problema, si punta facilmente il dito verso elementi tangenti che molto spesso poco hanno a che fare con un preciso avvenimento. E, come la storia della politica mondiale ci ha insegnato, avere un colpevole tangibile è l’unico modo per distrarre le masse, sollevando il coro di “è stato lui!”. Ovviamente stessa sorte tocca ai videogiochi, bistrattati a tal punto da venir assoggettati come causa delle stragi avvenute in Nuova Zelanda, Belgio, Francia e Stati Uniti o, in Italia, istigatori di omicidi, soltanto perché nella casa dell’assassino si è trovato una copia di Assassin’s Creed. Partiremo proprio da qui, dal collegamento insensato tra un media e una tragedia, ma soprattutto scopriremo come, in realtà, un videogioco non insegni davvero nulla.

La Punibilità del Danno

L’ultima associazione che i media hanno sfruttato è stata tra la strage di Christchurch il 15 Marzo e Fortnite, preso in causa Brenton Tarrant affermando come il titolo Epic Games sia stato fondamentale per avere delle dritte su come sparare.
Prendendo in prestito i concetti di Karl Popper, filosofo politico austriaco del Novecento, sarebbe il caso di applicare il principio di “Punibilità del Danno“, ovvero la punibilità dell’azione tangibile, e non dell’eventuale idea che l’avrebbe scaturita. Attualizzando il discorso, riguardo l’associazione videogioco-strage, come può essere dimostrabile in maniera incontrovertibile che quel videogioco (ma entrano in mezzo tutte le opere d’intrattenimento) abbia condotto un determinato soggetto a compiere una determinata azione criminale? La diretta correlazione, ai fatti, è fuori da ogni logica: l’insieme degli eventi vissuti e affrontati da ogni singolo individuo, questo puzzle di sentimenti e ideologie, può essere messo da parte in favore di ciò che si racconta o si gioca all’interno di un videogioco? Evidentemente no. E così, come per le scellerate sparatorie nei licei americani, per le quali aiuterebbe molto una legge apposita sul possesso di un arma da fuoco e in Italia, paese conosciuto per l’affabile “va bene così”, si punta il dito verso Call of Duty o verso il manga Devilman, che in qualche modo, influenzerebbero le menti dei nostri giovani e spensierati scolari. Ma il principio di punibilità del danno è importante anche per il concetto di censura, tanto cara in Germania e Australia, perché qualora un sistema politico e sociale riconoscesse senza prove tangibili che un’idea sia causa di un grave fatto, ci troveremmo davanti a una società estremamente chiusa, dettato solo dall’arbitrio del momento. Pensate ai terrapiattisti: ipoteticamente, se andassero al Governo, un giorno potremmo avere sui nostri testi una versione molto diversa del Sistema Solare che siamo abituati a vedere. Ma fortunatamente non siamo ancora a questo punto.
Se un’idea non è immediatamente collegabile all’evento, l’azione esercitata in un videogioco può migliorare l’azione nella vita reale? In un articolo precedente, abbiamo preso in esame i vantaggi che alcune tipologie di videogiochi sembrano dare a livello cognitivo ma oggi andiamo oltre. Giocare per ore a Fortnite o Counter Strike, può effettivamente insegnare a sparare? Sì, alla stessa maniera in cui F1 2018 vi prepara a sfidare Hamilton all’attuale stagione di Formula 1.

Tra il dire e il fare

Arriviamo al punto focale di questo articolo. Si è sentito spesso di come un media, in questo caso un videogioco, abbia influito sulle nostre capacità, che sia uno sport o semplicemente un hobby. Ma è davvero così?
Partiamo dai simulatori di guida, che in questo momento vedono il lavoro di Kunos Simulazoni, Assetto Corsa, come l’apice di questo settore. Il videogioco è indubbiamente molto accurato, restituendo ottimi feedback e sensazioni grazie alla realizzazione certosina di auto e tracciati. Ma, una volta allenati in-game, siamo pronti a salire su una purosangue, dando il massimo? Ovviamente no, e la risposta è molto semplice: la realtà è un’altra cosa. Persino i simulatori più avanzati, nelle segrete stanze delle scuderie di Formula 1 impallidiscono se confrontati a ciò che un pilota deve affrontare nel corso di un Gran Premio. All’interno di un simulatore casalingo, non abbiamo ad esempio, la ben che minima sensazione della Forza G in accelerazione, in frenata e in curva, capace, in certe andature, di far letteralmente del male a una persona non allenata. Per non parlare poi delle effettive capacità del mezzo, la sua potenza e il suo calore, che in certe vetture può sfiorare i 60°C ma soprattutto, l’adrenalina e la paura, unici elementi capaci di far capire al pilota i rischi di andare sempre al limite. Il videogioco può sì darci delle dritte, farci imparare l’andatura di un tracciato, ma siamo ben lontani da quello che la vita reale propone. In poche parole: se volete seguire la carriera di pilota, dovete guidare realmente.
Stessa cosa accade quando alcuni dirigenti e allenatori, indicano Football Manager come manuale di sopravvivenza calcistico, scoprendo nuovi talenti e preparatore alla carriera da allenatore. Benché sia un prodotto ineccepibile sotto diversi aspetti, il lavoro Sport Interactive rende davvero in grado di gestire una squadra di calcio? La risposta la sapete già. Gestire un gruppo di almeno 25 personalità diverse è molto differente dal controllare delle statistiche su schermo, senza contare la gestione delle eventuali mogli di eventuali capitani. La pressione esercitata da ogni partita, le critiche, le interviste, rischi esonero, sono tutti elementi che si riescono ad affrontare solo dopo aver solcato i campi di calcio per svariati anni e non è nemmeno sicuro che arrivati a una certa età, si è sicuramente dei bravi allenatori. Capacità tattiche ed empatiche sono elementi che si possono allenare, certo, ma è il contesto a far la differenza, molto diverso dalla poltrona e dallo schermo di un PC.
Se state pensando che questo articolo stia parando sull’ovvio, avreste dannatamente ragione, ma se si stanno scrivendo queste righe, un motivo esiste.

Questo motivo si chiama “sparatoria“, arrivando così al momento che tutti stavamo aspettando: dopo aver passato una vita a giocare ai vari Call of Duty, Battlefield, Wolfenstein e via dicendo, siamo in grado di prendere un M4 e sparare? Ma che ve lo diciamo a fare.
La particolarità di un’arma da fuoco è che si presenta ergonomicamente molto diversa da un joypad o un mouse. Questo aspetto è molto importante da tenere in considerazione quando si accusa un videogioco di allenare giovani Shinigami. Cominciamo dal peso: ogni arma ha una sua massa e questo, influenza postura, capacità di mirare, nonché resistenza fisica. Senza prendere in considerazione questi aspetti, pensare di poter prendere semplicemente un’arma, mirare e centrare il bersaglio è fuori questione. Influiscono tanti altri aspetti, molte volte ignoti, come la respirazione, che se ben eseguita aiuta a gestire meglio la posizione dello strumento di fronte al bersaglio, il calore e il frastuono generato dal colpo, capace di frastornare chiunque. Anche l’aspetto psicologico è importante: «può sparare solo chi è pronto a ricevere il proiettile» – vediamo chi coglie la citazione – è una frase altisonante ma che rispecchia bene “lo stato d’animo” che potrebbe avere chi compie simili azioni. Togliere la vita a qualcuno è un passo che una persona dotata di raziocinio non farebbe mai (escludendo casi speciali), ma una volta trovati in quel frangente, come reagisce la nostra psiche? Quali sono le conseguenze dell’atto? Tutti elementi che un videogioco non può e non potrà mai restituire.
Si può tranquillamente intuire come, associare il giocare un videogioco all’azione reale, risulti molto frettoloso, un assunto privo di contenuto. Come per «tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare», alla stessa maniera, tra l’azione esercitata all’interno del contesto videoludico e l’azione esercita in un contesto reale, vi sono regole fisiche, psichiche, sociali, ambientali che un mezzo di intrattenimento può in qualche modo simulare ma che dista anni luce dal reale impatto che possono avere su un individuo. Passando dalla Formula 1 al poligono di tiro (si spera solo quello), è necessario tener presente come “giocare” e “simulare” siano attività ben diverse dal “vivere”, in mezzo alle quali stanno in mezzo anche la morale, la formazione culturale e l’atavica distinzione tra bene e male.




La sfida di Facebook a Twitch e Youtube

Nei primi mesi dell’anno, Facebook ha introdotto il suo Gaming Creator Pilot Program, un’iniziativa mirata ai content creator, come PewDiePie, che offre la possibilità di streammare a 1080p/60fps e con possibilità di monetizzazione dei video. Una mossa che conferma la decisione del social network di puntare più sulla creazione di una vera e propria stazione televisiva a portata di smartphone, ovvero Facebook Watch: difatti, se nel lato sportivo fanno eco gli accordi con Fox per trasmettere la UEFA Champions League e alcune partite pomeridiane della MLB (la lega americana di baseball), sul lato videoludico risaltano gli accordi per portare su Facebook Watch alcuni tornei della Electronic Sports League, principalmente i tornei di Paladins e di Counter Strike: Global Offensive.

Tutto ciò che manca a Facebook per competere con Twitch e Youtube sono gli influencer. Come citato da Guy Cross, direttore delle partnership americane della compagnia:

«Stiamo cercando dei partner che hanno la capacità di attirare pubblico, ma che credono anche nel progetto. Vogliamo costruire qualcosa di speciale che unisce sia gli strumenti già a disposizione per gli streamer, che le novità proposte da Facebook. I content creator videoludici sono i benvenuti sulla piattaforma: lo scorso anno abbiamo sperimentato molto e abbiamo ricevuto molti suggerimenti che ci hanno permesso di migliorare e di investire ancora di più i nostri sforzi su questo lavoro.»

Facebook vuole puntare a diversificare la propria proposta da Twitch: in quest’ultimo i giochi di tendenza la fanno da padrone, mentre Facebook, forte dei 2,2 miliardi di utenti (secondo i dati degli ultimi mesi del 2017), vuole abbracciare qualsiasi tipo di gioco. Gli streamer registrati al nuovo programma hanno già la possibilità di ricevere donazioni dagli utenti, lo streaming a 1080p, e secondo Cross «si sta lavorando insieme ai content creator per l’aggiunta di altre opzioni».

Insomma, sembra proprio che il social network creato da Mark Zuckerberg stia seriamente puntando sul mercato dello streaming video, ma ci sarà spazio per loro in un mercato dominato da Twitch e Youtube? Cross dice la sua al riguardo:

«Molte aziende, come sviluppatori di giochi tripla A o broadcaster di eventi e-sport, si sono dimostrati molto interessati al nostro progetto. Il settore del gaming è vasto e continuamente in crescita: su Facebook abbiamo più di 800 milioni di utenti che usano i giochi della piattaforma, e se contiamo anche gli utenti che partecipano attivamente ai gruppi riguardanti i videogiochi, oppure che condividono video appositi, i numeri sono davvero importanti.»

Ma Cross e Facebook devono stare attenti alla percezione del pubblico riguardo al social network: essendo un social più diretto i contenuti rapidi la fanno da padrone, con video dalla durata molto ridotta, e dove, in generale, gli utenti non passano molto tempo, preferendo più un approccio “mordi e fuggi”:

«Sappiamo che Facebook non è necessariamente un posto dove passi gran parte del tempo, gli utenti sono più abituati a loggare continuamente in più fasi del giorno. Per questo abbiamo bisogno di puntare su Facebook Watch, dove verranno offerti contenuti dalla durata maggiore, come serie tv, eventi sportivi o varietà d’intrattenimento.»

Eppure, la più grande sfida per Facebook resta quella dei puri numeri: lo scorso anno, il social network ha ospitato 27.500 streamer attivi. Numeri irrisori rispetto agli 814.000 di Twitch e ai 293.000 di Youtube e, considerando che Twitch e Youtube sono già facilmente a disposizione degli utenti Playstation 4 e Xbox One che vogliono cimentarsi nel live streaming, sembra proprio che Facebook stia per intraprendere forse la sua sfida più difficile negli ultimi dieci anni. Nonostante tutto, Cross sembra fiducioso nella riuscita del progetto:

«Stiamo tenendo d’occhio altre piattaforme per vedere i loro pregi e difetti. Ci vorrà un po’ di tempo prima di partire attivamente con questo progetto, ma nell’anno appena passato abbiamo compiuto molti test che ci hanno permesso di fare molti passi in avanti.»

Insomma, vedremo se Facebook riuscirà a emergere come seria contendente al trono del live streaming, detenuto da Twitch. Anche se, visti i record ottenuti da Ninja (che recentemente ha avuto in live una star del mainstream come il rapper Drake), sembra che il social di Mark Zuckerberg dovrà prepararsi a un’ardua salita.




John Romero: gli Esport saranno più grandi degli sport tradizionali

John Romero in passato ha creato alcuni dei migliori FPS di tutti i tempi, primi fra tutti Doom e Quake, e così facendo ha anche gettato le basi per il multiplayer competitivo e gli Esport in generale. I colleghi di Gamereactor hanno discusso con John Romero a proposito della Romero Games, il sua nuova casa produttrice, e verso la fine hanno chiesto i suoi pareri riguardo agli Esport e se intende fare qualcosa di nuovo per la nuova disciplina.

Romero commenta:

«In realtà no perchè io ho già contribuito sin dall’inizio degli Esport. Pensate, mentre stavamo lavorando a Quake sapevamo già che gli Esport erano una realtà; venivamo contattati da diverse persone che adoravano i Deathmatch competitivi in Doom e volevano gli stessi in Quake e quando uscì, essendo stato il presidente del Cyberathlete Professional League per 10 anni, abbiamo organizzato degli eventi a Dallas con una presenza di 5000 persone che guardavano match di Quake o Counter-Strike validi per dei grossi premi in denaro. […] Arrivati ad un certo punto siamo riusciti a dividere qualcosa come un milione di dollari per le diverse posizioni del torneo.».
«Questo avveniva già negli anni 90, gli Esport andavano fortissimo, sono cresciuti a dismisura, i giochi cambiavano ma arrivati ad un certo punto, a metà dei 2000, pensammo: “perchè non fare un gioco che non cambi ogni volta, così come il calcio rimane lo stesso da sempre? È un gioco che non cambia, è super-competitivo, le persone ci giocano da sempre, perchè non possiamo fare una cosa simile con gli Esport?” […] Il problema era che non c’erano sponsor per finanziare un simile gioco, dunque non si poteva fare nulla senza i fininanziamenti necessari.».
«Tutto ciò non avveniva e dunque si prendeva in condiderazione il gioco del momento; StarCraft lo è stato per anni ma adesso è il momento di League of Legends, è l’Esport del momento. Ci sono altri titoli alla quale la gente gioca ma questo è gigantesco e va fortissimo. È davvero un bel gioco ed è un po’ come il calcio, insomma, si basa sul gioco di squadra e si fruisce meglio degli altri giochi competitivi in cui si gioca individualmente. I giocatori volevano un qualcosa che si basasse sul gioco di squadra, un po’ alla Counter Strike, e così si è potuta fondare una lega e con essa team più grandi.».
«Penso che gli Esport siano molto fighi, ci sono un sacco di persone che li guardano, e prima o poi diventeranno più grandi ancora degli sport tradizionali, perchè puoi inserirti virtualmente come uno spettatore e goderti lo spettacolo. Perciò penso siano fanstastici… certo, l’industria non è interamente fatta di Esport, ma questi sono una cosa gigantesca, così come lo sarà l’Augmented Reality. È una grossa parte dell’industria videoludica ma non comprenderà mai l’intera industria.».