Il dito e la luna: fraintendere il videogame

Ormai avrete sentito tutti parlare della strage di Christchurch, avvenuta il 15 marzo scorso per mano del ventottenne australiano Brenton Tarrant: ha attaccato due moschee della città neozelandese e ucciso un totale di 50 persone, stando ai bilanci attuali. Il motivo dell’attacco? Contrastare la “sostituzione etnica” che in questo momento starebbe dilagando in tutto il mondo, come lui stesso spiega nel suo manifesto pubblicato su 8chan, piattaforma su cui tra l’altro aveva annunciato l’attentato.
Pensare che così tante persone siano morte è ovviamente raccapricciante, ma chi bazzica spesso le zone più “remote” dell’internet sa bene che il mondo è pieno di estremisti di ogni sorta, dai nazionalisti agli anarchici, dagli islamici ai cristiani, maschilisti (i cosiddetti Incel o i Redpill), nazisti e chi più ne ha più ne metta; non è dunque così assurdo pensare che un evento del genere prima o poi, ahimè,  accada.

Ma ciò che rende questo attacco così particolare è la presenza di piccoli elementi che lo rendono il perfetto, archetipale esempio di “live streaming terrorism”: il tutto è stato filmato con una videocamera montata sulla testa di Brenton e mandato in diretta su Facebook, con tanto di musica di sottofondo e citazione al meme “Iscrivetevi a Pewdiepie” prima dell’inizio della sparatoria. Forse è stata proprio la visuale in prima persona ad aver dato adito a molti giornali e testate (quantomeno italiane) che hanno paragonato il fatto, per l’ennesima volta, a un videogioco sparatutto. Non è un caso che il videogame si trovi anche all’interno del manifesto nazionalista prima citato, dove l’autore afferma, in modo evidentemente provocatorio, che Fortnite gli avrebbe insegnato a essere un killer mentre Spyro 3 gli avrebbe trasmesso il suo spirito nazionalista.
Insomma, credibile quanto un comizio di Salvini, e l’accostamento non è causale, visto che anche qui qualcuno gli ha creduto davvero, prendendo per veri i deliri – chiaramente di matrice troll – di un estremista della destra più becera. Numerosa letteratura scientifica ha appurato in questi anni come il videogame non porti a diventare assassini, o stupratori, né come si diventi neanche bravi cecchini (anzi, vari studi ritengono che apporti numerosi miglioramenti dal punto di vista cognitivo e intellettivo).
Se qualcuno ha intenzione di compiere una strage, non si allena su Call of Duty o Fortnite, sa già esattamente dove far pratica dal vivo e come ottenere tutto il necessario. Se qualcuno prova piacere nello stuprare una ragazza, di certo non l’ha scoperto grazie a Rapeplay (gioco recentemente bloccato da Steam che ha come colpa principale la morbosità e il cattivo gusto) e difficilmente invoglierà persona al male: il male e la criminalità esistono da molto tempo prima dell’invenzione dei videogame.
Puntare il dito verso il videogioco serve solo a demonizzare il media distraendo forse dai veri problemi: è soffermarsi a guardare il dito mentre questo indica la luna. Nel frattempo, 49 persone hanno perso la vita, l’umanità ha dato ancora una volta prova della sua crudeltà, e forse non ci si è soffermati abbastanza sulle cause, sul clima d’odio e xenofobia che prolifera nella nostra epoca.

Bisogna ancora imparare a farsi le domande giuste, e forse bisogna valutare adeguatamente il ruolo del medium nella nostra epoca, ora che tratta temi importanti, ora che molti videogame non sono più intrattenimento, ma opere compiute.




Il videogioco come upgrade cognitivo spiegato agli italiani

Viviamo un’epoca molto particolare, dove la tecnologia sembra andar più veloce della capacità che ha l’uomo di apprenderla. Tutto il mondo è lì che freme, sperando in una scoperta o in un’invenzione in grado di cambiare la storia ma c’è un posto particolare, un paese che vive di mille contraddizioni, capace di collaborare attivamente al lancio di una sonda su Marte e, al contempo, di andare in paranoia dopo alcune dichiarazioni di Fabrizio Corona. Questo paese purtroppo non è la Francia ma il nostro, quell’amata/odiata Italia che nonostante tutti i problemi continua a rimanere la settima nazione più potente al mondo (o così dicono). E in un paese simile, diviso tra Papa, Barbara d’Urso e Calenda, i videogiochi non potevano che essere visti alla stessa maniera con cui un britannico vede il bidet: oggetti misteriosi, la cui funzione può solo esser recepita da prescelti.
Ma non siamo certo qui a parlare di come noi poveri videogiocatori veniamo osteggiati dalla comunità italiana bensì, di illuminare la loro visione con alcuni dati importanti sugli effetti che alcune tipologie di videogiochi possono avere sul cervello umano. Ma attenzione: non stiamo nemmeno dicendo che tutti i videogiochi siano formativi e nemmeno che dovreste passare 25 ore al giorno a giocare davanti alla TV. Come ogni media, quello videoludico è in grado di passare da vette elevate come Bioshock a quelle più terragne come Fortnite. Del resto non tutti i film sono Quarto Potere o tutti i romanzi sono 1984.
Dunque «cari italiani e care italiane», scopriamo assieme come sfruttare questo potente mezzo, invece di gridare “al lupo!” senza un valido motivo.

Facile facile

Essere arrivato fin qui è già un bel traguardo dopo aver letto qualche riga introduttiva: vuol dire che in qualche modo si è interessati all’argomento. Grazie.
Partiamo dal principio: il concetto de “il videogioco fa male” esiste sin da quando i primi esemplari arrivarono sul mercato italiano. C’è da dire che Pong non vanta certo una trama interessante o per lo meno, degli insegnamenti da trarre; un semplice passatempo ma già in grado di allarmare genitori di tutto lo stivale, abituati a fare cruciverba sui giornali. Ma cari italiani e care italiane, seriamente: il pericolo è lo strumento in sé o l’uso che se ne fa? In base a un simile ragionamento dovremmo tutti eliminare dalla cucina i coltelli; ma poi vorrei vedervi tagliare una bistecca col cucchiaio. Ma siamo sicuri che qualcuno potrebbe uscirsene con “eh ma almeno lo sforzo che fai in più ti permette di bruciare calorie in eccesso”. Quasi quasi divento vegano.
Ma veniamo al punto: già quel Pong, composto da due barrette e un quadratino, era in grado di apportare piccoli ma significativi cambiamenti nel cervello umano, aumentandone riflessi e capacità visiva. Da allora, centinaia sono gli studi che si sono avvicendati, a volte contraddicendosi, a volte arrivando alla stessa medesima conclusione. Di pari passo, anche i videogiochi si sono evoluti, da semplici passatempo a super blockbuster sino a videogame in grado di approfondire tematiche e concetti in maniera più efficace di qualunque altro media. E gli effetti che ognuno di questi generi ha sul cervello umano sembrano specialistici, sviluppando aree diverse e con diversa efficacia.
Partiamo dunque dalla Queen Mary University di Londra e l’University College London che pochi anni fa, hanno condotto studi sulle potenzialità dei videogiochi nello sviluppo del cervello umano; del resto di questo stiamo parlando. Un gruppo di 72 persone, suddiviso in tre sottogruppi, è stato sotto esame da parte degli scienziati delle Università, facendoli giocare a StarCraft e The Sims, entrambi gestionali ma con una forte vena strategica per il titolo spaziale Blizzard. Nel primo infatti, l’organizzazione di risorse e del proprio esercito è fondamentale per riuscire ad avere la meglio sul nemico, cose che spinge un videogiocatore ad adattarsi velocemente a diverse situazioni, creando o rielaborando tattiche e strategie in tempo reale. In poche parole è quello che dovrebbe fare un allenatore di calcio nel bel mezzo di una partita e utilizziamo questo esempio proprio perché l’italiano medio, oltre a esser politico, economista, filosofo, letterato, fisico nucleare e chi più ne ha più ne metta, è anche allenatore. Capito questo è facile arrivare al cosiddetto multitasking, capacità di effettuare più compiti contemporaneamente che sembra essere una prerogativa di ogni videogiocatore.
The Sims invece è semplicemente The Sims, un simulatore di “Dio” che dovrebbe guidare il proprio popolo verso la felicità ma che invece cerca di applicare la legge di Murphy al 100% delle sue possibilità. Rispetto a StarCraft siamo in tutt’altro ambito, con una gestione molto più semplificata e quindi più alla portata di tutti. L’aver giocato quaranta ore, distribuite in sei-otto settimane, cosa avrà comportato? Sicuramente ci sarete arrivati da soli ma è giusto sottolinearlo: i risultati dei test, pubblicati sulla rivista PLoS One, hanno evidenziato come i videogiocatori di StarCraft siano molto più rapidi nel prendere decisioni, dovute essenzialmente a una maggiore attenzione e velocità nell’elaborare in tempo reale quanto stia avvenendo. Essendo una capacità discretamente importante, capace di portarci qui dove siamo ora, è interessante come questa possa essere allenata e migliorata semplicemente giocando, divertendosi; ammesso e concesso che con StarCraft ci si diverta, ma non entriamo nel merito.
E quelli che hanno giocato a fare Dio? Risultati discreti, dovuti a una minore attenzione allo svolgimento del gioco, essendo più semplice in linea generale. Questo lo si nota anche dai test psicologici avvenuti dopo le sessioni di gioco che hanno dimostrato una migliore risposta ai cambiamenti e problem solving nei giocatori dello strategico spaziale. Ma anche la vista, sembra risultare potenziata, al contrario di quello che i nostri cari ci hanno detto: sembra che l’estrapolazione di dati in un contesto confuso e la distinzione di maggiori gradazioni di grigio, migliori a tal punto che si sta pensando di produrre videogiochi specifici per pazienti affetti con problemi alla vista. Ma questi studi, vi chiederete voi, hanno una qualche finalità? Esistono alcune problematiche legate a deficit d’attenzione o iperattività che potrebbero essere alleviate semplicemente giocando a videogiochi specifici, ma ovviamente andranno eseguiti studi più approfonditi. Se non sapete bene di cosa parliamo, basta fare un giro su Facebook.

Nietzsche, D’Annunzio e Super Mario

Dunque, abbiamo capito come alcuni videogiochi possano migliorare multitasking e problem solving ma sappiamo che esistono altre aree del cervello e altre capacità umane. Se state pensando “eh ma io sto già su Facebook, Twitter, Instagram e PornHub contemporaneamente, commentando”, buon per voi. Ma non vi piacerebbe migliorare la visione d’insieme, distinguere più oggetti ed esser più reattivi? Qui intervengono, secondo l’Università di Ginevra, un’altra tipologia di videogiochi: quelli d’azione. Calma, calma. Cari italiani e care italiane, possiamo percepire le vostre paure riassunte in “mio figlio diventerà un delinquente se gioca ai videogiochi violenti”; certo, potrebbe accadere, con la stessa probabilità che ha il Foggia di vincere la Champion’s League tra tre anni. Ma mettiamo da parte gli allarmismi ingiustificati e ragioniamo a mente fredda, traendo le dovute conclusioni. Pubblicato sul Psychological Bulletin, lo studio dei ricercatori svizzeri, è stato condotto su 15 anni di test su diversi pazienti (o cavie se preferite), arrivando alla conclusione che determinati videogame à la Call of Duty, possono migliorare in maniera sensibile le capacità cognitive dei videogiocatori. Questo include la cosiddetta “attenzione spaziale“, la capacità di riconosce oggetti in ambienti confusi, oltre al già citato multitasking e la capacità di cambiare direzione di pensiero, per così dire la capacità di contraddirsi, andando contro un’idea predeterminata. Anche qui i videogiocatori, ne escono vincitori rispetto a chi non fa uso di questi mezzi ma c’è una domanda che ogni buon scienziato si è posto, invece di accettare dati per assodati come fosse un titolo di un giornale scandalistico: sono i videogiocatori, che avendo insite queste predisposizioni, sono portati a giocare oppure, queste capacità derivano dall’aver giocato? Lo studio condotto su un campione di 2883 giocatori (specifichiamo che all’interno del gruppo i soggetti erano sia maschili che femminili), divisi in due gruppi distinti, messi a giocare rispettivamente videogiochi d’azione (FPS, TPS, Action) e videogiochi di ruolo e casual (Sims e Puzzle Game), per circa otto ore settimanali. I risultati, scontati: chi ha giocato a titoli action ha migliorato di gran lunga le loro capacità cognitive rispetto ai videogiocatori casual e questo, sembra risultare anche da altri studi in tutto il mondo come la Columbia University, California University e del Wisconsin. Quindi sembra tutto rose e fiori e, cari italiani e care italiane, forse state cambiando idea sull’uso dei videogame. C’è un “però”, e per completezza andiamo a citare anche altri studi. Abbiamo già detto come i videogiochi interessano aree del cervello specifiche e, se abbiamo notato come i videogiochi action aumentino le capacità cognitive, a quanto pare, da uno studio effettuato dall’Università di Montreal, proprio l’anno scorso, ha evidenziato una riduzione della massa dell’ippocampo di circa il 2%. Prima di gridare “oddio moriremo tutti”, osserviamo con attenzione lo studio partendo dalla definizione di ippocampo, che non è in questo caso il cavaluccio marino ma una parte fondamentale del cervello che ci permette di orientarci e di ricordare esperienze passate. Dunque, se ricordare il primo vincitore del Grande Fratello è tutto merito (o demerito) di questa parte del corpo. Ma nello studio pubblicato su Molecular Psychiatry era interessato anche lo striato, un’altra parte del cervello che ci permette di formare le abitudini, come il ricordarci come ci si siede.
Questo studio è stato effettuato prendendo come campione 51 uomini e 49 donne (maledetta disparità), mettendoli a giocare con Call of Duty, Killzone: Shadow Fall e Super Mario, proprio lui, separando i gruppi in “apprendisti spaziali” (ippocampo) e “apprendisti da risposta” (striato). I pazienti dunque, sono stati posti davanti a un labirinto virtuale in cui raccogliere determinati oggetti e uscendone il più rapidamente possibile. Si è notata una certa differenza d’approccio tra i due gruppi, in cui, quello spaziale, era più propenso a orientarsi attraverso oggetti specifici come alberi o montagne mentre quelli da risposta, ricordando il percorso, nelle sequenze di svolte a destra e sinistra. Dopo 90 ore di gioco, tra CoD, Killzone e Mario, i nodi sono venuti al pettine: ai giocatori che hanno giocato agli action è stata riscontrata la riduzione dell’ippocampo sopracitata mentre i giocatori di Super Mario ne hanno visto un’aumento. Da notare come chi affetto dalla riduzione, abbia recuperato con lo stesso titolo Nintendo. Se tutto questo è ancora oggetto di studio, anche perché gli effetti potrebbero essere temporanei, c’è da notare come la diversificazione di genere da parte di un videogiocatore, possa portare benefici generali. Questo, ovviamente con un uso attento, senza esagerare.

Alla Calenda greca

Non potevamo che concludere con l’ex Ministro Carlo Calenda che con «Sarà forte ma io considero i giochi elettronici una delle cause dell’incapacità di leggere, giocare e sviluppare il ragionamento. In casa mia non entrano» ha quasi sfiorato l’incidente diplomatico all’interno del nostro stesso paese, perché si sa, l’italiano medio è quella creatura che possiede la propria visione del mondo, unica e inattaccabile. Non parleremo di come l’ottava arte (quella videoludica, se vi fosse sfuggito), abbia un forte impatto sulla cultura moderna e di come sia viatico di una nuova forma di comunicazione del sapere di questo secolo. Come ogni media abbiamo a che fare con opere d’arte e con opere pessime, e se per “leggere” si intende soltanto 50 Sfumature di Grigio o il libro di Barbara d’Urso è chiaro che non andiamo da nessuna parte anche con un medium sacro come quello librario. Calenda esprime un’opinione che come tale va rispettata ma che esprime un parere molto italiano sul mondo videoludico, visto come un universo di serie B popolato da nullafacenti e perditempo. Tutto questo è dovuto semplicemente all’ignoranza sul medium in questione, nel senso che si ignora completamente ciò di cui si sta parlando. C’è da dire che l’Onorevole ha un po’ ritrattato quanto affermato anche perché, senza dati alla mano, è difficile sostenere simili posizioni. Questo articolo, un po’ goliardico, cerca di riportare alla luce dati scientifici che sicuramente vanno ancora approfonditi, ma che si dimostrano utili in un universo di opinioni così diverse e pronte a prendere di mira il “mostro” di turno. Dunque, no i videogiochi non fanno male se usati adeguatamente e anzi sembrano migliorare alcune delle nostre capacità. No, i videogiochi non rendono violenti i ragazzi e no, i videogiochi non rendono analfabeti.
Per cui, cari italiani e care italiane, non preoccupatevi. Probabilmente siamo all’alba di una una nuova era, in cui il “videogioco” potrà integrarsi nella vita di tutti i giorni, implementando lo studio, trasmettendo e migliorando conoscenze in maniera più rapida ed efficacia, lo sport con il miglioramento dei riflessi e capacità visive, supporto ad alcuni pazienti e così via. Il futuro è radioso e per una volta, cari italiani e care italiane, informatevi, siate coscienziosi e miglioratevi. I videogame sono un’opportunità.
E tutto questo parte da voi cari italiani e care italiane e dalle scuole: bisogna educare, già da bambini, all’utilizzo dei videogiochi (ma aggiungiamo anche i social), proprio perché utilizzandoli nella maniera corretta, possono essere un boost per tutte quelle attività che oggigiorno svolgiamo.

– E no, non ritratterò la mia affermazione su Fortnite. –




EA Sports: ed è di nuovo polemica sui sistemi di looting nei videogiochi

Nonostante le recenti polemiche dei consumatori riguardanti le loot-box, Daryl Holt, vice presidente di EA Sports, secondo un’intervista rilasciata per la nota rivista online gamesindustry.biz, ha affermato che il loro modello, adottato per l’acquisizione di loot-box, sia ineccepibile.
Fino a quando non si verificarono problemi con le loot-box di Star Wars Battlefront II, questo “meccanismo” non era mai stato molto criticato, come per FIFA, in cui è fortemente presente un sistema di “lootaggio”, tranquillamente alimentato dagli acquisti online dei giocatori.

Daryl Holt, ai microfoni di gamesindustry.biz durante il Gamelab Barcellona, dice infatti:

«È un tipo di gioco differente, è questo l’aspetto che devi approfondire quando parliamo della scelta del giocatore come parte del nostro mantra “prima il giocatore“. Gli viene semplicemente data la scelta su come vogliono competere. Posso guadagnare loot-box in FIFA Ultimate Team semplicemente giocando. Posso anche batterti se hai una squadra migliore, perché sono migliore di te a FIFA, io non mi preoccupo di quello che è il mio punteggio come squadra.»

Ma in ogni caso, la polemica nata per i “bottini” di Battlefront 2 ha alzato un polverone, facendo anche dubitare della sostenibilità del modello di “looting” adottato da EA.

«Il nostro modello è assolutamente sostenibile. Certamente ha cambiato il nostro modo di fare, quando sentiamo informazioni dagli altri giocatori o dall’industry, nel modo in cui tutti reagiamo e ci adattiamo a esso. Per esempio, la divulgazione delle probabilità di vincita dei pacchetti nei nostri giochi EA Sports è una cosa molto importate, così possiamo avere una comprensione totale al riguardo, come comunichiamo, come ci occupiamo del servizio dal vivo e come testiamo le cose e implementiamo il feedback su tutti i prodotti. Per quanto riguarda EA Sports e Ultimate Team, la modalità di looting è molto popolare: funziona come dovrebbe e offre ai giocatori la possibilità di giocare nel modo in cui vogliono giocare, il che ritengo sia prezioso finché riusciamo ad assicurarci che non sia un danno per la fruibilità del gioco.»

Ma il punto di vista di EA sulle loot-box, nonostante tutto, rimane in contrasto con quanto stabilito dalla Commissione per il gioco d’azzardo belga, che ha accusato aspramente tale meccanismo, indipendentemente dal valore reale degli oggetti o dalla possibilità di scambiarli al di fuori del gioco. Tutto ciò è una violazione della legislazione sul gioco d’azzardo.

In seguito a questa decisione, EA ha risposto, affermando:

«Crediamo fortemente che i nostri giochi siano sviluppati e implementati eticamente e legalmente in tutto il mondo.»

Holt sostiene che il loro sistema di looting non sia in alcun modo equiparabile al gioco d’azzardo:

«Sai cosa potresti ricevere, hai informazioni dettagliate su quello che acquisti; non è affatto un gioco d’azzardo. Oltretutto  non esiste una valuta reale per i pacchetti acquistati in gioco. C’è una netta disconnessione tra ciò che viene detto, ciò che viene chiesto e ciò che viene pensato, rispetto a ciò che accade realmente nel settore. Non sappiamo cosa potrebbe accadere in futuro; possiamo solo continuare a proporre la migliore esperienza per i nostri giocatori.»

Indipendentemente da ciò che EA crede sia o non sia gioco d’azzardo, la Commissione per il gioco d’azzardo belga, ha stabilito che il sistema di looting adottato, viola la legislazione e che alla fine, verranno prese contromisure. Per ora, il ministro della giustizia belga Koen Geens, si incontrerà con le parti interessate del settore, per iniziare un dialogo. Peter Naessens, direttore della Belgian Gaming Commission, ha recentemente dichiarato in una intervista di gamesIndustry.biz:

«Prenderemo tutte le misure preparatorie per la stesura dei rapporti di polizia, ma di certo non sarà “domani”. Deve passare un certo lasso di tempo per il Ministro della Giustizia.»

Insomma, la situazione non è delle più rosee riguardo tutte le software house che hanno ormai adottato il meccanismo di looting. EA probabilmente è solamente la prima a finire nell’occhio del ciclone  e, probabilmente, ne seguiranno altre. Anche Activision, per esempio con le “casse rifornimenti” dei suoi ultimi Call of Duty, che permettono di trovare armi uniche e più potenti, di certo non è da meno. Sono del parere che il sistema di loot-box non sia del tutto deleterio, purché non vada a intaccare il portafoglio. Sarei più propenso a un sistema meritocratico del meccanismo delle “casse premio”, in questo modo, chi gioca molto o gioca bene avrebbe veramente meritato il riconoscimento e non chi ha più fondi sul conto. A meno che, come per Overwatch, le casse non diano altro che oggetti di valore puramente estetico senza influire sulla giocabilità del titolo.




Disc Jam

Vi piace giocare a frisbee con gli amici ma odiate l’afa estiva, la sabbia e i cani indisciplinati che acchiappano il disco volante intromettendosi fra voi e il vostro avversario? Se la risposta è “sì” troverete in Disc Jam il vostro compagno ideale per l’estate, un gioco sportivo fresco, futuristico, frenetico e veramente divertente! Questo spettacolare titolo è stato concepito da High Horse Entertainment, una compagnia fondata dagli ex dipendenti Activision Jay Mattis e Timothy Rapp, i cui curriculum vedono figurare titoli del calibro di Call of Duty, Guitar Hero e Tony Hawk’s Pro Skater; dopo ben vent’anni trascorsi nella leggendaria compagnia americana, i due hanno deciso di mettersi in proprio e concentrarsi, come si può leggere nel loro sito, su giochi arcade vecchio stile per portarli nel XXI secolo. Disc Jam, il loro primo lavoro, incarna perfettamente questi obiettivi e restituisce al giocatore un’esperienza intensa e velocissima essendo ispirato, chiaramente, a Windjammers, gioco della Data East originariamente uscito per le piattaforme Neo Geo (e oggi giocabile su Playstation 4 e PS Vita), e Rocket League per le customizzazioni, la presentazione generale, le atmosfere futuristiche ma soprattutto la sua natura online e cross-platform; è possibile giocare a questo titolo per PS4 e Steam ma noi prenderemo in esame la nuovissima versione per Nintendo Switch.

How to play

Disc Jam mette di fronte due team avversari, in singolo o in doppio, in un’area simile a un campo da tennis e l’obiettivo della partita è vincere due set da 50 punti. Per racimolarli bisognerà mandare il disco nella rete avversaria o farlo cadere per terra nella metà opposta (visto che è diviso da una sorta di rete); a ogni nostro lancio il punteggio, che parte da 5 (ma che arriverà direttamente a 10 se al primo lancio andrà a punti), salirà di un punto, dunque più saranno i passaggi fra gli avversari più sale la posta in gioco: non basterà solamente rimanere concentrati ma anche agire più velocemente possibile. Quando ci si troverà nella traiettoria di un lancio avversario, e si sarà certi di prenderlo, sarà decisivo mandare il disco indietro il prima possibile per sfruttare la sua stessa potenza e far sì che possa viaggiare sempre più veloce; mantenere il ritmo dei lanci è molto importante, perderlo significa fare un lancio più lento e dunque più possibilità per l’avversario di riprenderlo in fretta.
I controlli, di conseguenza, sono molto semplici e pensati per un gameplay veloce e frenetico, facili da imparare anche se un po’ di difficili da applicare in un match online: in offesa si lancia il disco premendo il tasto “B” con direzione, puntando dunque alla rete avversaria o a una parte di essa, oppure “X” per tirarlo in alto e sperare che il nostro rivale non riesca a prenderlo prima che cada per terra; con “ZL” e “ZR” possiamo effettuare dei tiri ad effetto ma premendo “B” e ruotando un po’ la levetta analogica, fra i 90° o i 180°, riusciremo a eseguire gli stessi lanci, talvolta persino più curvi; in difesa invece possiamo fare una scivolata premendo “X” e direzione, che ci permetterà di coprire grossi spazi di campo in poco tempo, oppure, con “B“, possiamo caricare uno scudo di energia che bloccherà la traiettoria del disco mandandolo in aria ma dobbiamo comunque raccoglierlo in tempo per far si che non cada per terra e regali dei punti al nostro avversario. Se carichiamo con anticipo lo scudo o ci posizioniamo nel punto di caduta del disco in tempo (se appunto il nostro avversario ce lo tirerà con “X”) allora avremo la possibilità di fare un super lancio che avrà una traiettoria insolita e andrà incredibilmente veloce.
I lanci dei giocatori saranno molto precisi e risponderanno a ogni inclinazione della levetta; meno, sfortunatamente, lo saranno i movimenti del giocatore stesso. Con buona probabilità, per rendere l’esperienza più accessibile e meno macchinosa possibile, gli sviluppatori hanno fatto sì che il giocatore possa correre o faccia dei semplici passetti a seconda dell’inclinazione della levetta ma i suoi movimenti saranno relegati a sole 8 direzioni, come in un gioco vecchio stile con visuale dall’alto. Bisognerà imparare a gestire bene questi comandi se vogliamo bloccare ogni lancio avversario, specialmente perché se ci arriverà il disco mentre siamo di spalle cadremo per terra, il disco volerà e, cadendo al suolo, darà i punti all’avversario; una meccanica abbastanza realistica – chi vorrebbe mai essere colpito sul collo da un frisbee a questa velocità! – anche se, personalmente, pensiamo sia un po’ eccessiva per un gioco arcade. Per quanto strano possa sembrare, vi consigliamo di seguire passo passo i tutorial del gioco, anche perché non sono obbligatori (non pensate di essere degli esperti solo perché avete divorato Windjammers ai tempi che furono).

Tutti in campo!

Fin qui abbiamo spiegato come si svolgono le partite in sé, ma ci sono ancora molte cose di cui parlare; Disc Jam, similarmente a Rocket League, offre diverse customizzazioni e stili di gioco diversi. Per prima cosa i personaggi selezionabili hanno caratteristiche differenti, a differenza del popolare indie cui i modelli delle auto non hanno variazioni sostanziali fra loro, ma solo stilistiche, e ognuno di loro gode dunque di un diverso stile che può accentuare meglio le diverse abilità dei giocatori: Gator, per esempio, è un giocatore a tutto tondo che può permettere un gioco bilanciato anche se nessuna delle sue abilità spicca in particolare; Haruka, abbastanza indicata per i principianti, è una giocatrice veloce e riesce a coprire tutto il campo da gioco in poco tempo ma i suoi lanci non sono fra i migliori; Stanton, al contrario, ha dei lanci potenti e fa delle scivolate molto lunghe ma non è velocissimo nella corsa; i più esperti, alla fine, potranno usare Makenna, una giocatrice veloce, molto tecnica e che fa dei tiri ad effetto insuperabili ma, proprio per gestire questa particolare abilità, bisognerà saper coordinare bene il tasto di lancio con la levetta analogica.
Ci sono poi altri due altri giocatori ma questi sono sbloccabili per 25000 Jamoleons, la valuta principale del gioco, ottenibili alla fine di ogni incontro o scambiabili per dei soldi veri dal Nintendo E-Shop; i soldi del gioco, sfortunatamente (al di là di questi due specifici giocatori), ci permetteranno di ottenere una ricompensa casuale dalla macchinetta dei premi per 1000 J e purtroppo dobbiamo attenerci all’outcome random di quest’ultima. La vera disgrazia di questo sistema è che gli unici elementi comuni a tutti sono solamente la skin del disco, l’emblema e il tag del giocatore (e il super tiro ma, momentaneamente, ci sono solo 3 traiettorie e nessuna di queste è sbloccabile dalla macchinetta o acquistabile separatamente); tutto il resto, ovvero lo stile della tuta, taunt e posa di vittoria, sono unici per un solo personaggio giocabile. Pertanto, come avviene in molti (forse anche troppi) giochi di oggi, bisognerà tentare e ritentare la sorte per ottenere quello che realmente vogliamo per il nostro giocatore. È possibile comprare gli elementi casuali con dei red ticket, ma questi sono ottenibili solamente, stando a quanto scritto da High Horse Entertainment su Steam, qualora la macchinetta dei premi ci dia un “doppione” e ogni premio ha il suo valore anche in questa valuta; come potremo constatare dall’in-game store, i taunt e le pose di vittoria valgono 25 red tickets, le skin del disco 125, i tag 5, etc… almeno il gioco, al di là dell’outcome random della macchinetta, ci permette di ottenere dei doppioni per poterli scambiare in un’altra valuta: una buona alternativa anche se è ugualmente tediosa.
Personalizzato il nostro personaggio possiamo finalmente scendere in campo per dei match infuocati con gente di tutto il mondo! Il sistema di matchmaking funziona per punti classifica (che ovviamente otterremo a fine partita e ci posizioneranno in punti più alti in graduatoria) e per continente, da selezionare prima di avviare la lobby; più è vicino il nostro avversario, migliore sarà la trasmissione della nostra partita. La comunità è attiva, ci sono molti giocatori anche se, essendo nuovo nella libreria di Nintendo Switch, sul piano numerico Disc Jam non è ancora ai livelli di grossi brand multiplayer come Rocket League o Fortnite, non c’è grossa affluenza in tutte le ore della giornata; se siete degli “scalatori di classifiche online” vi converrà armarvi di una buona dose di pazienza oppure usufruire del “ghost arcade”, che consiste in match singoli o doppi contro AI modellate dallo stile di giocatori reali, o delle partite private, se conoscete persone che come voi hanno comprato questo gioco; riguardo a quest’ultima modalità, servirà solamente creare una stanza, darle un nome, una password e cedere questi dati a i vostri amici. Purtroppo non abbiamo potuto testare realmente questa funzione perciò non vi sappiamo dire se questa funzione sfrutta il cross-platforming; stando ad alcuni post su Reddit, visto che il sito ufficiale di High Horse Entertainment non dà alcuna informazione a riguardo, al momento questa specifica feature non è disponibile, ma sembra che gli sviluppatori stiano lavorando per far sì che i match privati possano avvenire anche tra una piattaforma e l’altra. È possibile, inoltre, se un vostro amico è in visita a casa vostra, staccare un Joycon e competere insieme in match singoli in locale o doppi in online; nonostante si tratti probabilmente i match più divertenti, questi sono meno frequenti, perciò, anche se escluderete i match singoli dalla ricerca avversari, non sempre avrete la possibilità di beccare quattro giocatori che hanno le vostre stesse intenzioni.
Le partite, che siano match 1v1 o 2v2, sono sempre infuocatissime ma, come dicevamo all’inizio, è importantissimo imparare i comandi; anche se il matchmaking funziona a dovere e segue semplici logiche matematiche troverete moltissimi giocatori, anche molto vicini alla vostra posizione in classifica, che sono dei veri e propri assi e anticipano ogni vostra singola mossa. I controlli sembrano attecchire meglio con alcuni giocatori e meno con altri e forse chi scrive (e ciò che segue è una personalissima opinione generata dall’esperienza personale) non si trova fra i primi; non fraintendete, ci si diverte tantissimo con questo titolo, e la buona fan base attuale dimostra quanto il suo gameplay si ben congegnato; tuttavia, forse per la sua natura frenetica e veloce, questo titolo non fa per tutti. Oggi ci sono un sacco di giochi multiplayer che appartengono alla medesima categoria, e Disc Jam non è che un nuovo titolo che si aggiunge al catalogo; se gradite di più i giochi in cui la componente online è quella portante o se vi piacciono quelli in cui bisogna pensare e agire in fretta, specialmente se sportivi, allora questo gioco farà sicuramente per voi.

Blernsball? Mi dispace, è domani!

Disc Jam si presenta come uno sport futuristico, veloce, emozionante e in cui ogni secondo conta. A supporto di ciò abbiamo una bella grafica 3D molto pulita, sviluppata con Unreal Engine 4, che riesce a mantenersi a 60 FPS stabili sia in modalità portatile che in dock da dove i diversi colori e dettagli “high-tech” dell’arena, come gli ologrammi, la rete che mostra il livello del punteggio o i guardrail laterali, spiccano molto di più; i modelli dei personaggi sono molto curati, un filo over-the-top ma ognuno, specialmente con le skin e i taunt collezionabili, con una giusta dose di personalità. La sola cosa che un po’ delude della grafica è la sua staticità, soprattutto per l’inclusione di una sola arena e per il fatto che si vedano sempre gli stessi 4 personaggi (al massimo 6, se incrociate qualcuno che abbia sbloccato i due personaggi acquistabili); nonostante la sua bellezza e le diverse personalizzazioni dei personaggi, Disc Jam non offre molta varietà visiva (almeno non per ora).
Il comparto musicale, così come la sua presentazione generale (persino nei menù), ricorda molto quello di Rocket League; da buon e-sport che si rispetti i suoi temi includono sonorità molto moderne ed energiche, che si affacciano per lo più alla musica elettronica, al rock ma soprattutto alla dubstep. Sia nel menù che durante le partite, avremo modo di ascoltare dei temi molto curati e belli, specialmente quello del secondo (o terzo) set che ricorda per certi versi Stinkfist dei Tool, anche se, un po’ come accade per il comparto grafico, questi sono sempre gli stessi e, in questo caso, è veramente possibile contarli in una mano sola: allo stato attuale c’è solamente il brano del menù, primo set, secondo set e menù di fine partita… Ecco qua l’intera soundtrack! I giocatori non hanno linee di dialogo ma a ognuno di essi è stata data una voce e la si può sentire a ogni lancio o scivolata; nulla di che, ma serve a dare la giusta profondità a un match duro e faticoso (anche se la voce di Haruka, personalmente, risulta davvero insopportabile!).

Manca ancora qualcosa

Si potrebbero stare ore a elogiare questo titolo, il primo di questa neonata compagnia il cui futuro pare già da qui prospettarsi luminoso e interessante; Disc Jam non ha molti difetti e per il suo prezzo di lancio di 14,99€ sul Nintendo E-Shop è davvero regalato (sempre se non ne vogliate spenderne altri per i Jamoleon). Tuttavia, quello che delude è ciò che non c’è, specialmente a un anno dal lancio nelle altre piattaforme; per quanto divertente possa essere il titolo della High Horse Entertainment, questo, allo stato attuale, offre veramente poco: 6 giocatori (di cui 2 acquistabili separatamente), una sola arena e due sole modalità di gioco. A un anno dalla sua uscita, Rocket League offriva già altre modalità, come l’arena per l’hockey e quelle sperimentali, elementi per le customizzazioni sempre nuovi e DLC sempre ben graditi; dunque se paragoniamo la vita di Disc Jam al titolo di Psyonix sembra che, forse, gli sviluppatori non ci stiano credendo tanto, ma è più probabile che non abbiano abbastanza fondi.
Questo titolo non ha nulla da invidiare a molti altri, merita tante nuove modalità di gioco (anche una semplice arena ghiacciata, risulterebbe divertente e piena di imprevisti), maggior varietà di personaggi e magari un sistema di acquisizione delle ricompense meno tedioso di quello attuale; anche se il titolo non è (ancora) ai livelli di Rocket League o di Fortnite non sembra che il supporto da parte dei fan stia mancando, e, dunque, speriamo di vedere nuovi aggiornamenti in Disc Jam per rendere quello che è già un bel gioco ancora più profondo ed entusiasmante.
Se siete stanchi dei classici giochi di sport e siete alla ricerca di un titolo in grado di mettervi alla prova e che possa entusiasmarvi con poco (perché comunque, allo stato attuale, rimane comunque un gioco molto bello), allora troverete in Disc Jam una sfida alla vostra altezza. Ma ricordate: se ci incontrate, o siete con noi o siete contro di noi… e noi non scherziamo proprio!

(Lui è il volto di GameCompass in Disc Jam. Quando lo vedrete…  tremate!)



Speciale E3: Black Ops III gratis per un tempo limitato

Durante la conferenza Sony, è stato annunciato che a partire da stanotte, Call of Duty Black Ops III  entra a far parte dei titoli gratuiti per i possessori di PlayStation Plus, ma solo per un mese: dall’11 giugno all’11 luglio. Insieme a ciò, sono state annunciate delle nuove mappe, chiamate Back in Black Maps, ottenibili preordinando Black Ops IIII. 

https://youtu.be/RdYCdeu4rII




Battlefield V includerà la campagna single player

Nuovi dettagli ci attendono in vista dell’uscita dell’FPS principale di Electronic Arts, la cui software house, ha rivelato la presenza di una avvincente campagna in single-player, che sembra seguire lo stile già introdotto in Battlefield 1, mirando alle battaglie su vasta scala. Al contrario della serie Battlefield, il suo concorrente Call Of Duty, sembra aver tralasciato, almeno per Call of Duty: Black Ops 4, la modalità in single-player, ma DICE ed EA non sembrano condividere l’idea. Il CEO EA, Andrew Wilson, ha dichiarato a proposito:

«Con il nostro prossimo Battlefield, il team di DICE sta dando vita all’intensità del combattimento in modi totalmente nuovi e inaspettati. Ogni battaglia è unica e ogni modalità porta le sue sfide, dal modo in cui interagisci con l’ambiente intorno a te, ad avvincenti storie per single-player, al multiplayer su larga scala che si estende su più mappe e modalità. »

Questo titolo, che secondo alcune fonti si ambienterebbe all’interno dei maggiori conflitti della Seconda Guerra Mondiale, dovrebbe includere (anche se non si hanno conferme ufficiali) una modalità Battle Royale, seguendo dunque la moda del momento. Non ci resta che aspettare le novità che verranno sicuramente annunciate all’E3 2018 che si terrà il 9 giugno.




Alla conquista del podio: la guerra dei Battle Royale

Cos’è una Battle Royale? È questa la prima domanda da porre. Il genere “Battle Royale” è stato sdoganato dall’omonimo film giapponese (tratto a sua volta dall’omonimo romanzo di Koushun Takami) uscito nel 2000,  realizzato da Kinji Fukasaku, ultima sua opera prima della morte, avvenuta nel 2003. Il film narrava la storia di una classe di adolescenti bloccati su un’isola remota e costretti a combattere fino alla morte, che avrebbe lasciato soltanto un sopravvissuto. Questo genere è stato adattato successivamente in produzioni cinematografiche di ampio rilievo come Hunger Games (a sua volte tratta dalla trilogia letteraria di Suzanne Collins)
Un simile concetto non ha tardato a essere inserito all’interno di una struttura videoludica che oggi è di grande successo, vedendo come attuali campioni del genere titoli come PlayerUnknown’s Battlegrounds e Fortnite, i quali al momento si battono a colpi d’aggiornamenti per la “corona” del re dei Battle Royale.
Al momento il genere è molto in voga tra i giocatori di tutto il mondo e, di conseguenza, tutte le software house che vogliono garantirsi un posto di rilievo tra i “big” del settore (e soprattutto sul mercato) stanno cercando di sfruttare il trend a proprio favore. Non pare lontana l’ipotesi di un “bagno di sangue” tra le varie aziende, visto che, al momento, ci sono circa una dozzina di concorrenti che inseguono il successo di Pugb e Fortnite, nella speranza di usurpare il trono o com,unque di ritagliarsi una fetta di rilievo sul mercato. Ogni volta che un genere vede un boom, non poche software house si gettano alla cieca in progetti di emulazione nella speranza di spuntarla, in una Battle Royale nella quale solamente una uscirà vincitrice. I titoli che al momento comandano il genere sono in realtà delle “copie”: beninteso, non parliamo di plagio, ma del fatto che il titolo che attualmente registra i numeri più alti, PUBG, è in realtà nato da una mod di Arma II, DayZ: Battle Royale, a sua volta variante della mod DayZ ispirata al film omonimo.
Fino a pochissimi anni fa era il genere MOBA a farla da padrone e, anche allora, tutto partì da una mod, più precisamente da alcune mappe: quella di Aeon of Strifetratta da Starcraft, fu la prima, anche se ancor più celebre fu quella sviluppata per Warcraft III, quella di Defense of the Ancients (DotA). Seguirono una miriade di esponenti del genere, da giochi in flash come Minions, sviluppato da The Casual Collective nel 2008, sino ad arrivare al notissimo League of Legends, a oggi probabilmente il MOBA più giocato al mondo, passando per il secondo capitolo di DotA.
Durante gli anni, quindi, l’universo videoludico ha visto l’evolversi di varie tendenze, dal boom degli MMO, come World of Warcraft, per poi passare agli FPS come Call of Duty, fino ai MOBA e ai titoli Battle Royale.

Esistono vari fattori che possono determinare il successo di un videogioco: primo tra tutti è il costo del titolo poiché, se un giocatore ha acquistato H1Z1, ovviamente sarà meno propenso a comprare PUBG, visto che dovrà spendere altri soldi per giocare a un titolo che potenzialmente presenta le medesime caratteristiche. Il secondo problema è il fattore “compagnia“, in virtù del quale un giocatore sarà più o meno propenso ad acquistare un titolo posseduto dagli amici, effettuando battaglie in co-op e non. Ultimo, ma non meno importante, è il fattore accessibilità: essere un free-to-play può avere dei vantaggi, da questo punto di vista, rispetto a un titolo a prezzo pieno, permettendo a più persone di provarlo ed eventualmente effettuare ulteriori acquisti in-game. Per esempio Fortnite ha chiaramente questo target, fornendo a tutti gli utenti la possibilità di giocare gratuitamente la modalità battle royale.
Durante queste variazioni di tendenza della domanda da parte degli utenti, le software house minori, osservando l’andamento sul mercato di titoli massivi come PUBG, ritengono di riuscire a replicare simili successi, addirittura migliorando il prodotto. Ma gli eventuali upgrade apportati difficilmente riescono a spostare una grande fetta d’utenza dal titolo preferito dai più a quello dei più piccoli: semplicemente perché, a parità di caratteristiche e struttura, il gioco non vale la candela.
Per poter creare qualcosa di nuovo e coinvolgente, in grado di smuovere il mercato, bisogna analizzare e capire cosa sia possibile aggiungere e migliorare, così da poter rendere il proprio lavoro unico e interessante agli occhi del pubblico, al fine di essere promotori di una nuova tendenza.




Ritirarsi dagli eSport a 24 anni

Come citato da Engadget, dopo 11 anni di attività, Matthew “Burns” Potthoff si è ritirato da player professionista di Call of Duty ad appena 24 anni. Oggi, due anni dopo il ritiro, lavora dietro le scene per eUnited, una squadra di eSport con giocatori professionisti di Call of Duty, Counter-Strike: Global Offensive, Gears of War, Smite e Playerunknown’s Battleground.

Fa strano sentire di un player professionista che si ritira a questa giovane età: negli sport tradizionali, come il calcio, siamo abituati a sentire di ritiri dal professionismo dopo i 35, o 40 anni. Eppure negli eSport, settore nato da poco, ma in grandissima espansione, tanto da ricevere grossi investimenti e apprezzamenti da figure storiche del gaming, come John Romero, e addirittura da parte del CIO, il comitato olimpico internazionale, il ritiro di Potthoff fa notizia. Com’è possibile ritirarsi dalle competizioni in giovane età? Ce lo spiega proprio lui, raccontando la sua storia.

Gli inizi di Matthew sono umili: il padre lo accompagna al suo primo torneo nel 2005, in una piccola esibizione per giocatori di Halo e Call of Duty. Burns ha partecipato a entrambi i tornei, riuscendo a vincere pure un premio, ma di entità inferiore a quanto pubblicizzato, e quindi il genitore sentenziò che gli eSport erano una truffa.

Tredici anni fa, la situazione del professionismo videoludico era molto diversa rispetto a quella che conosciamo adesso: nonostante piccoli tornei già attivi sul suolo americano, mancava la scintilla che avrebbe acceso la miccia degli eSport. Ci toccherà attendere quattro anni per l’exploit mondiale di League of Legends, e addirittura sei anni per il primo torneo milionario di Dota 2. Sei anni che ci separano pure dalla nascita di Twitch, fattore fondamentale per la crescita di questo settore.

Ma Potthoff aveva fiutato il potenziale del pro gaming, e cominciò a partecipare sempre a più tornei possibili, fino a vincere un free-for-all nazionale di Modern Warfare 3, portando a casa ben 25.000 dollari.
A proposito del suo iniziale approccio al professionismo, Burns ha dichiarato:

«Penso che molti giocatori possano capirmi: ai tempi usavo i videogiochi come uno strumento per sfuggire dalla dura realtà. I miei genitori si erano appena separati, e vivevo tra la casa di mia madre e quella di mio padre, e l’unico modo che avevo per non perdere i contatti con i miei amici era quello di giocare online insieme. Dopo qualche anno ho notato che avevo del talento, e che a scuola parlavano tutti di quanto fossi forte. Ma nonostante la creazione di DeathWisH, il mio team, ho deciso che era meglio accantonare il mondo degli eSport e concentrarmi sul college: solamente dopo essermi laureato in economia dell’intrattenimento ho deciso di ritornare a tempo pieno nel campo del gaming professionistico.»

Anche qui, sembra che il destino abbia compiuto un cattivo scherzo al ragazzo: solamente nel 2014, due anni dopo aver preso la laurea, è stata introdotta la prima borsa di studio dedicata agli eSport, a cura della Robert Morris University. Solamente due anni dopo sarebbe nata la National Association of Collegiate eSports, un ente che riconosce e gestisce programmi di eSport in più di 60 college americani e che punta a diventare l’equivalente videoludico dell’NCAA, la lega collegiale americana di sport come basket e football.

«Cos’avrei fatto se la scena professionistica di allora fosse come quella odierna? Probabilmente avrei lasciato il college per dedicarmi agli eSport al 100%. Dico così perché allora i salari erano molto inferiori rispetto a quelli odierni: quando avevo 21 anni guadagnavo circa 500 dollari al mese ed ero costretto a vincere tornei per portare il cibo in tavola. Adesso ci sono ragazzi di 16 o 17 anni che guadagnano quanto guadagnavo a 21 anni, e hanno tutto il tempo per migliorare le loro abilità.»

La questione dei salari merita un approfondimento: l’industria degli eSport è in crescita e si sta stabilizzando, con giochi di prima fascia come League of Legends oppure Overwatch dove sono stati istituiti i salari minimi per i giocatori professionisti, rispettivamente a 75.000 dollari per il MOBA di Riot Games e 50.000 dollari per il titolo di Blizzard. Però non sono tutte rose e fiori, e anche un sistema in rapida crescita presenta delle discrepanze: infatti Call of Duty non garantisce un salario minimo e non ha le stesse regole dei due giochi citati in precedenza.

All’epoca anche la CWL Pro League, il campionato mondiale di Call of Duty, era strutturato in un modo diverso: veniva usato un sistema simile ai campionati calcistici europei, con promozioni e retrocessioni, dove la squadra con più punti partecipava ai mondiali, dove il premio consiste in 1,4 milioni di dollari. Era lo stesso sistema usato da League of Legends e Overwatch, almeno fino allo scorso anno, dove sono stati introdotti i salari minimi – come citato prima – ma soprattutto, il passaggio dai team a veri e propri franchise, adottando quindi un modello simile a quello che si vede sui parquet dell’NBA o negli stadi della NFL.
Anche a causa del sistema non al passo con i tempi della CWL, Potthoff, ha deciso di ritirarsi, dopo la sconfitta decisiva per 4-3 in un’entusiasmante duello tra gli H2K e il suo team, i Liquid.

«Vincere quella serie avrebbe rilanciato la mia carriera, oltre che aumentato il mio stipendio. Avrei potuto vivere tranquillamente per 8-9 mesi, ma è andata male, e non c’era un torneo da disputare per 4-5 mesi. Avevo pure smesso di giocare, perché la ferita era troppo profonda. Ho riprovato a tornare in carreggiata con un paio di tornei dove sono arrivato tra i primi 24 e i primi 16, ma lì ho capito che non c’era più niente da fare, e quindi ho appeso il pad al chiodo.»

Burns aveva deciso di mollare la vita da pro-player, ma non quella del mondo che ha amato per anni: a 26 anni, nel 2016, entra in eUnited prima come head coach e adesso ricopre la carica di general manager, dove si occupa dello sviluppo e del recruiting di molti giocatori giovani.
A proposito di quest’incarico, Potthoff dichiara:

«Abbiamo anche reclutato quattro giocatori minorenni, ma non metterò mai gli impegni del team prima dei loro obblighi, come scuola e famiglia. Ma ci stiamo impegnando per renderli dei veri professionisti: personalmente penso che siano già a un buon livello, e la loro giovane età li mette in un’ottima posizione, visto che sono gli unici giocatori minorenni della comunità professionista di Call of Duty, e vogliamo dare il giusto input per far partire la loro carriera da pro-players, così come loro vogliono mettercela tutta per riuscirci.»



I videogiochi possono renderci più aggressivi?

Quante volte vi è capitato, magari quando eravate più piccoli, di sentirvi dire dai vostri genitori che l’ultimo videogioco che vi hanno comprato non è adatto a voi perché troppo violento e che questo può influenzarvi negativamente? O di aver sentito innumerevoli telegiornali etichettare Call of Duty e GTA come le cause principali di un omicidio o attentato? Il rapporto tra violenza virtuale e reale è un tema presente da anni e specialmente in questo periodo, con le parole di Donald Trump in merito all’argomento, le considerazioni si sprecano.

Un video pubblicato dal canale della Casa Bianca che si schiera contro la violenza nei videogiochi.

Eppure, nessuno studio ha mai confermato che giocare assiduamente a titoli violenti porti a essere tali nella vita vera, al contrario può portare a diversi benefici (come potete leggere qui). Fortunatamente un altro esperimento condotto di recente arriva a sostenere che uno dei nostri hobby preferiti non ci porta a diventare degli assassini senza scrupoli: secondo Douglas Gentile, psicologo dello sviluppo ed ex Director of Research del NIMF (National Institute on Media and the Family) giocare abitualmente a quel tipo di giochi porti a essere generalmente più aggressivi, ma fa anche una grossa distinzione tra l’aggressività e la violenza fisica. Per aggressività non si intende il senso pieno del termine, ma bensì si riferisce all’indole che è insita in ognuno di noi: nessuno si vede come una persona totalmente cattiva, ma a tutti capita di compiere delle azioni non proprio buone, ma che non sono definibili crudeli, come rispondere male a qualcuno di proposito o ignorarlo, o ancora dire qualcosa di non propriamente carino per il puro scopo di insultare; Gentile con il suo essere “kind of mean” intende proprio questo.

Al suo esperimento hanno preso parte 3000 bambini di Singapore: inizialmente è stato misurato il tempo passato davanti a videogiochi violenti e in seguito come questi mostrano di essere dei “bimbi cattivi” concentrandosi su tre criteri: in che misura si accettano le cose fastidiose che accadono e se si pensa che queste siano in un qualche modo fatte di proposito, come si reagisce alle provocazioni decidendo se è il caso di rispondere in maniera cattiva o meno, e infine le fantasie aggressive, ovvero pensare a come sarebbe essere più o meno cattivi davanti ad altri. Secondo gli studi di Gentile, i bambini che passano più tempo davanti a giochi con scene cruente sono quelli che mostrano di più questi tipi di pensiero.
Questo non vuol dire che tutti i videogiocatori di shooter e simili diventano automaticamente aggressivi, ma influenza allo stesso modo di un film o una serie tv di quel genere, o di quegli imprevisti che accadono nella vita di tutti i giorni come macchiarsi la camicia col caffè o far cadere lo smartphone per terra e scoprire che lo schermo si è rotto; nessuna di queste cose è degna di accuse tanto grandi come quella di causare omicidi di massa o sparatorie nelle scuole, né tanto meno i videogiochi, infatti Gentile è apertamente in disaccordo con chiunque affermi il contrario. Ciò su cui invece è d’accordo e che consiglia di fare sopratutto ai genitori con figli piccoli è quello di osservare il rating di età e di informarsi su che tipo di contenuti offre il gioco che si sta per acquistare.
Ma quindi, perché scagliarsi a mani basse su questo media? Perché nessuno ha mai incolpato film o libri che portano lo stesso tipo di contenuti? Ovviamente nessuno di questi ha colpa, ma la risposta potrebbe derivare dal fatto che il videogioco agli occhi di molti è ancora qualcosa di sconosciuto e di difficile comprensione, e purtroppo, come la storia ci insegna, questi termini vanno spesso a braccetto con sbagliato o pericoloso. Semplicemente sarebbe più facile rendersi conto che come il sangue che si vede in tv è “solo salsa di pomodoro” e le persone che muoiono sono tutti attori, nei videogiochi sono semplicemente file ISO ed effetti sangue. Niente induzione alla violenza, solo intrattenimento.




Videogiochi e cinema: il lento dialogo tra industrie

Il mondo dei videogiochi e quello cinematografico hanno linguaggi comuni e, pur serbando i due mondi non poche differenze, entrambi vanno avvicinandosi sempre più in termini di linguaggio e anche di rilevanza sul piano sociale e culturale.
I dati parlano chiaro, e le testimonianze di questo avvicinamento sono sempre maggiori. Fra queste, è interessante leggere quella di Gina Ramirez, agente all’APA (Agency for the Performing Arts), che in un’intervista rilasciata a GamesIndustry.biz, spiega i vari aspetti per cui i videogiochi e il cinema venivano considerati universi differenti, per quanto riguarda il marketing e la scelta degli attori e la loro evoluzione nel tempo.
L’APA si occupa di rappresentare attori, scrittori, produttori, registi, ma negli ultimi anni l’agenzia si è interessata anche al mondo dei videogiochi, che nell’ultimo decennio ha avuto una crescita esponenziale.
L’agenzia per cui lavora Ramirez, oltre a rappresentare colossi come Capcom per la realizzazione di film e nuove iniziative o Activision, è riuscita a far collaborare piccoli produttori con i grandi marchi del mondo dei videogame, come la stessa Activision, che ha permesso a un giovane scrittore di lavorare a un DLC per Call Of Duty. Ma non si occupano solamente di grandi aziende: hanno infatti anche rappresentato DJ2 e alcuni sviluppatori indie e le loro relative pubblicazioni, come We Happy Few, Little Nightmares e Ruiner.
Secondo la Ramirez, i videogiochi devono ancora affermarsi del tutto nel mondo del business, ma la strada pare essere quella giusta. La stessa Ramirez ha lavorato per varie agenzie fino ad arrivare, nel 2013, ad Activision; proprio lavorando lì si è resa conto che il mercato videoludico è ancora troppo “giovane” per poter essere uno standard di business per le aziende.
Durante la sua esperienza in Activision, Gina Ramirez ha notato l’evoluzione dell’atteggiamento delle celebrità verso il mondo dei videogiochi: anni fa lavorare con i videogiochi era visto alla stregua del fare da testimonial a merendine o bibite, ma lei è riuscita a sensibilizzare la maggior parte dei VIP ed è riuscita a coinvolgerli personalmente ed emotivamente, ottenendo così prezzi più economici per la loro partecipazione.
Molte aziende, però, non riescono a comprendere l’importanza del coinvolgimento dell’attore nella creazione del videogame e si intestardiscono nell’ingaggiare un attore, magari perché famoso o perché lo credono perfetto, ignorando la sua voglia di partecipare e il suo reale coinvolgimento.
Gina Ramirez nel 2015 lascia Activision con la convinzione che il dialogo tra Hollywood e il mondo videoludico sia impossibile ma, quando firmò con l’APA, l’agenzia disse di credere che un incontro tra le due forze era possibile. Nonostante le perplessità, la Ramirez volle ritentarci e stavolta con buoni risultati.
A lungo andare, oltre agli attori/doppiatori, anche l’intero mondo cinematografico è diventato molto più economico per gli sviluppatori: prima gli studi cinematografici, per utilizzare una loro IP, pretendevano per l’acquisto di una licenza una quota molto alta, invece adesso lavorare con i videogiochi viene visto come una pubblicità, una mossa marketing intelligente e di conseguenza il costo delle licenze per l’utilizzo di IP già registrate è sceso.
Ancora oggi quello tra il mondo dei videogiochi e quello cinematografico non è un dialogo semplice, dovuto a molte – troppe – rigidità da un lato e dall’altro, Ramirez, i due mondi si avvicinano sempre di più, a testimonianza di come il videogame rivesta un valore sempre più importante anche sul piano artistico.