Il videogioco come upgrade cognitivo spiegato agli italiani

Viviamo un’epoca molto particolare, dove la tecnologia sembra andar più veloce della capacità che ha l’uomo di apprenderla. Tutto il mondo è lì che freme, sperando in una scoperta o in un’invenzione in grado di cambiare la storia ma c’è un posto particolare, un paese che vive di mille contraddizioni, capace di collaborare attivamente al lancio di una sonda su Marte e, al contempo, di andare in paranoia dopo alcune dichiarazioni di Fabrizio Corona. Questo paese purtroppo non è la Francia ma il nostro, quell’amata/odiata Italia che nonostante tutti i problemi continua a rimanere la settima nazione più potente al mondo (o così dicono). E in un paese simile, diviso tra Papa, Barbara d’Urso e Calenda, i videogiochi non potevano che essere visti alla stessa maniera con cui un britannico vede il bidet: oggetti misteriosi, la cui funzione può solo esser recepita da prescelti.
Ma non siamo certo qui a parlare di come noi poveri videogiocatori veniamo osteggiati dalla comunità italiana bensì, di illuminare la loro visione con alcuni dati importanti sugli effetti che alcune tipologie di videogiochi possono avere sul cervello umano. Ma attenzione: non stiamo nemmeno dicendo che tutti i videogiochi siano formativi e nemmeno che dovreste passare 25 ore al giorno a giocare davanti alla TV. Come ogni media, quello videoludico è in grado di passare da vette elevate come Bioshock a quelle più terragne come Fortnite. Del resto non tutti i film sono Quarto Potere o tutti i romanzi sono 1984.
Dunque «cari italiani e care italiane», scopriamo assieme come sfruttare questo potente mezzo, invece di gridare “al lupo!” senza un valido motivo.

Facile facile

Essere arrivato fin qui è già un bel traguardo dopo aver letto qualche riga introduttiva: vuol dire che in qualche modo si è interessati all’argomento. Grazie.
Partiamo dal principio: il concetto de “il videogioco fa male” esiste sin da quando i primi esemplari arrivarono sul mercato italiano. C’è da dire che Pong non vanta certo una trama interessante o per lo meno, degli insegnamenti da trarre; un semplice passatempo ma già in grado di allarmare genitori di tutto lo stivale, abituati a fare cruciverba sui giornali. Ma cari italiani e care italiane, seriamente: il pericolo è lo strumento in sé o l’uso che se ne fa? In base a un simile ragionamento dovremmo tutti eliminare dalla cucina i coltelli; ma poi vorrei vedervi tagliare una bistecca col cucchiaio. Ma siamo sicuri che qualcuno potrebbe uscirsene con “eh ma almeno lo sforzo che fai in più ti permette di bruciare calorie in eccesso”. Quasi quasi divento vegano.
Ma veniamo al punto: già quel Pong, composto da due barrette e un quadratino, era in grado di apportare piccoli ma significativi cambiamenti nel cervello umano, aumentandone riflessi e capacità visiva. Da allora, centinaia sono gli studi che si sono avvicendati, a volte contraddicendosi, a volte arrivando alla stessa medesima conclusione. Di pari passo, anche i videogiochi si sono evoluti, da semplici passatempo a super blockbuster sino a videogame in grado di approfondire tematiche e concetti in maniera più efficace di qualunque altro media. E gli effetti che ognuno di questi generi ha sul cervello umano sembrano specialistici, sviluppando aree diverse e con diversa efficacia.
Partiamo dunque dalla Queen Mary University di Londra e l’University College London che pochi anni fa, hanno condotto studi sulle potenzialità dei videogiochi nello sviluppo del cervello umano; del resto di questo stiamo parlando. Un gruppo di 72 persone, suddiviso in tre sottogruppi, è stato sotto esame da parte degli scienziati delle Università, facendoli giocare a StarCraft e The Sims, entrambi gestionali ma con una forte vena strategica per il titolo spaziale Blizzard. Nel primo infatti, l’organizzazione di risorse e del proprio esercito è fondamentale per riuscire ad avere la meglio sul nemico, cose che spinge un videogiocatore ad adattarsi velocemente a diverse situazioni, creando o rielaborando tattiche e strategie in tempo reale. In poche parole è quello che dovrebbe fare un allenatore di calcio nel bel mezzo di una partita e utilizziamo questo esempio proprio perché l’italiano medio, oltre a esser politico, economista, filosofo, letterato, fisico nucleare e chi più ne ha più ne metta, è anche allenatore. Capito questo è facile arrivare al cosiddetto multitasking, capacità di effettuare più compiti contemporaneamente che sembra essere una prerogativa di ogni videogiocatore.
The Sims invece è semplicemente The Sims, un simulatore di “Dio” che dovrebbe guidare il proprio popolo verso la felicità ma che invece cerca di applicare la legge di Murphy al 100% delle sue possibilità. Rispetto a StarCraft siamo in tutt’altro ambito, con una gestione molto più semplificata e quindi più alla portata di tutti. L’aver giocato quaranta ore, distribuite in sei-otto settimane, cosa avrà comportato? Sicuramente ci sarete arrivati da soli ma è giusto sottolinearlo: i risultati dei test, pubblicati sulla rivista PLoS One, hanno evidenziato come i videogiocatori di StarCraft siano molto più rapidi nel prendere decisioni, dovute essenzialmente a una maggiore attenzione e velocità nell’elaborare in tempo reale quanto stia avvenendo. Essendo una capacità discretamente importante, capace di portarci qui dove siamo ora, è interessante come questa possa essere allenata e migliorata semplicemente giocando, divertendosi; ammesso e concesso che con StarCraft ci si diverta, ma non entriamo nel merito.
E quelli che hanno giocato a fare Dio? Risultati discreti, dovuti a una minore attenzione allo svolgimento del gioco, essendo più semplice in linea generale. Questo lo si nota anche dai test psicologici avvenuti dopo le sessioni di gioco che hanno dimostrato una migliore risposta ai cambiamenti e problem solving nei giocatori dello strategico spaziale. Ma anche la vista, sembra risultare potenziata, al contrario di quello che i nostri cari ci hanno detto: sembra che l’estrapolazione di dati in un contesto confuso e la distinzione di maggiori gradazioni di grigio, migliori a tal punto che si sta pensando di produrre videogiochi specifici per pazienti affetti con problemi alla vista. Ma questi studi, vi chiederete voi, hanno una qualche finalità? Esistono alcune problematiche legate a deficit d’attenzione o iperattività che potrebbero essere alleviate semplicemente giocando a videogiochi specifici, ma ovviamente andranno eseguiti studi più approfonditi. Se non sapete bene di cosa parliamo, basta fare un giro su Facebook.

Nietzsche, D’Annunzio e Super Mario

Dunque, abbiamo capito come alcuni videogiochi possano migliorare multitasking e problem solving ma sappiamo che esistono altre aree del cervello e altre capacità umane. Se state pensando “eh ma io sto già su Facebook, Twitter, Instagram e PornHub contemporaneamente, commentando”, buon per voi. Ma non vi piacerebbe migliorare la visione d’insieme, distinguere più oggetti ed esser più reattivi? Qui intervengono, secondo l’Università di Ginevra, un’altra tipologia di videogiochi: quelli d’azione. Calma, calma. Cari italiani e care italiane, possiamo percepire le vostre paure riassunte in “mio figlio diventerà un delinquente se gioca ai videogiochi violenti”; certo, potrebbe accadere, con la stessa probabilità che ha il Foggia di vincere la Champion’s League tra tre anni. Ma mettiamo da parte gli allarmismi ingiustificati e ragioniamo a mente fredda, traendo le dovute conclusioni. Pubblicato sul Psychological Bulletin, lo studio dei ricercatori svizzeri, è stato condotto su 15 anni di test su diversi pazienti (o cavie se preferite), arrivando alla conclusione che determinati videogame à la Call of Duty, possono migliorare in maniera sensibile le capacità cognitive dei videogiocatori. Questo include la cosiddetta “attenzione spaziale“, la capacità di riconosce oggetti in ambienti confusi, oltre al già citato multitasking e la capacità di cambiare direzione di pensiero, per così dire la capacità di contraddirsi, andando contro un’idea predeterminata. Anche qui i videogiocatori, ne escono vincitori rispetto a chi non fa uso di questi mezzi ma c’è una domanda che ogni buon scienziato si è posto, invece di accettare dati per assodati come fosse un titolo di un giornale scandalistico: sono i videogiocatori, che avendo insite queste predisposizioni, sono portati a giocare oppure, queste capacità derivano dall’aver giocato? Lo studio condotto su un campione di 2883 giocatori (specifichiamo che all’interno del gruppo i soggetti erano sia maschili che femminili), divisi in due gruppi distinti, messi a giocare rispettivamente videogiochi d’azione (FPS, TPS, Action) e videogiochi di ruolo e casual (Sims e Puzzle Game), per circa otto ore settimanali. I risultati, scontati: chi ha giocato a titoli action ha migliorato di gran lunga le loro capacità cognitive rispetto ai videogiocatori casual e questo, sembra risultare anche da altri studi in tutto il mondo come la Columbia University, California University e del Wisconsin. Quindi sembra tutto rose e fiori e, cari italiani e care italiane, forse state cambiando idea sull’uso dei videogame. C’è un “però”, e per completezza andiamo a citare anche altri studi. Abbiamo già detto come i videogiochi interessano aree del cervello specifiche e, se abbiamo notato come i videogiochi action aumentino le capacità cognitive, a quanto pare, da uno studio effettuato dall’Università di Montreal, proprio l’anno scorso, ha evidenziato una riduzione della massa dell’ippocampo di circa il 2%. Prima di gridare “oddio moriremo tutti”, osserviamo con attenzione lo studio partendo dalla definizione di ippocampo, che non è in questo caso il cavaluccio marino ma una parte fondamentale del cervello che ci permette di orientarci e di ricordare esperienze passate. Dunque, se ricordare il primo vincitore del Grande Fratello è tutto merito (o demerito) di questa parte del corpo. Ma nello studio pubblicato su Molecular Psychiatry era interessato anche lo striato, un’altra parte del cervello che ci permette di formare le abitudini, come il ricordarci come ci si siede.
Questo studio è stato effettuato prendendo come campione 51 uomini e 49 donne (maledetta disparità), mettendoli a giocare con Call of Duty, Killzone: Shadow Fall e Super Mario, proprio lui, separando i gruppi in “apprendisti spaziali” (ippocampo) e “apprendisti da risposta” (striato). I pazienti dunque, sono stati posti davanti a un labirinto virtuale in cui raccogliere determinati oggetti e uscendone il più rapidamente possibile. Si è notata una certa differenza d’approccio tra i due gruppi, in cui, quello spaziale, era più propenso a orientarsi attraverso oggetti specifici come alberi o montagne mentre quelli da risposta, ricordando il percorso, nelle sequenze di svolte a destra e sinistra. Dopo 90 ore di gioco, tra CoD, Killzone e Mario, i nodi sono venuti al pettine: ai giocatori che hanno giocato agli action è stata riscontrata la riduzione dell’ippocampo sopracitata mentre i giocatori di Super Mario ne hanno visto un’aumento. Da notare come chi affetto dalla riduzione, abbia recuperato con lo stesso titolo Nintendo. Se tutto questo è ancora oggetto di studio, anche perché gli effetti potrebbero essere temporanei, c’è da notare come la diversificazione di genere da parte di un videogiocatore, possa portare benefici generali. Questo, ovviamente con un uso attento, senza esagerare.

Alla Calenda greca

Non potevamo che concludere con l’ex Ministro Carlo Calenda che con «Sarà forte ma io considero i giochi elettronici una delle cause dell’incapacità di leggere, giocare e sviluppare il ragionamento. In casa mia non entrano» ha quasi sfiorato l’incidente diplomatico all’interno del nostro stesso paese, perché si sa, l’italiano medio è quella creatura che possiede la propria visione del mondo, unica e inattaccabile. Non parleremo di come l’ottava arte (quella videoludica, se vi fosse sfuggito), abbia un forte impatto sulla cultura moderna e di come sia viatico di una nuova forma di comunicazione del sapere di questo secolo. Come ogni media abbiamo a che fare con opere d’arte e con opere pessime, e se per “leggere” si intende soltanto 50 Sfumature di Grigio o il libro di Barbara d’Urso è chiaro che non andiamo da nessuna parte anche con un medium sacro come quello librario. Calenda esprime un’opinione che come tale va rispettata ma che esprime un parere molto italiano sul mondo videoludico, visto come un universo di serie B popolato da nullafacenti e perditempo. Tutto questo è dovuto semplicemente all’ignoranza sul medium in questione, nel senso che si ignora completamente ciò di cui si sta parlando. C’è da dire che l’Onorevole ha un po’ ritrattato quanto affermato anche perché, senza dati alla mano, è difficile sostenere simili posizioni. Questo articolo, un po’ goliardico, cerca di riportare alla luce dati scientifici che sicuramente vanno ancora approfonditi, ma che si dimostrano utili in un universo di opinioni così diverse e pronte a prendere di mira il “mostro” di turno. Dunque, no i videogiochi non fanno male se usati adeguatamente e anzi sembrano migliorare alcune delle nostre capacità. No, i videogiochi non rendono violenti i ragazzi e no, i videogiochi non rendono analfabeti.
Per cui, cari italiani e care italiane, non preoccupatevi. Probabilmente siamo all’alba di una una nuova era, in cui il “videogioco” potrà integrarsi nella vita di tutti i giorni, implementando lo studio, trasmettendo e migliorando conoscenze in maniera più rapida ed efficacia, lo sport con il miglioramento dei riflessi e capacità visive, supporto ad alcuni pazienti e così via. Il futuro è radioso e per una volta, cari italiani e care italiane, informatevi, siate coscienziosi e miglioratevi. I videogame sono un’opportunità.
E tutto questo parte da voi cari italiani e care italiane e dalle scuole: bisogna educare, già da bambini, all’utilizzo dei videogiochi (ma aggiungiamo anche i social), proprio perché utilizzandoli nella maniera corretta, possono essere un boost per tutte quelle attività che oggigiorno svolgiamo.

– E no, non ritratterò la mia affermazione su Fortnite. –




P.A.M.E.L.A.

Ogni tanto capita di vedere sviluppatori indipendenti alla ricerca di Eldorado, con quel progetto cominciato dall’unione di tanti piccoli sogni e culminato con uno sviluppo più o meno travagliato ma capace comunque di vedere la luce, uscendo tra i vari store sia fisici che digitali. Nvyve Studios si aggiunge a tale novero dal 2015, anno in cui P.A.M.E.L.A cominciò il suo sviluppo, approdando nel 2017 in early access su Steam. Dopo alcuni aggiornamenti abbiamo deciso di testarlo, e il titolo pare presentarsi abbastanza bene nonostante ci sia ancora un po’ di lavoro da fare.

Tra Rapture e Wellington Wells

Negli anni abbiamo visto come a un certo punto qualcuno decide di lasciare la società in cui vive per fondare la propria città ideale, approfittando di alcuni mutamenti sociali, catastrofi o perché no, semplice voglia di cambiare aria. Questi paradisi però hanno una cosa in comune: hanno tutti fallito nel modo o in un altro. Nel mondo videoludico basta citare Bioshock e la sua Rapture, fallita miseramente nonostante la totale libertà da vincoli etici, morali, religiosi ecc, o la più recente Wellington Wells, protagonista in We Happy Few o qualche Vault in Fallout; tutte sono la rappresentazione dell’ego umano, incapace di gestire se stesso senza che si arrivi all’autodistruzione. E l’Eden, fulcro di P.AM.E.L.A., ha lo stesso destino, durando quanto la lettura delle prime pagine della Bibbia. La città ideale, massima espressione del Transumanesimo, è caduta in rovina sotto una misteriosa epidemia dilagata tra i suoi abitanti a seguito di esperimenti eugenetici non riusciti correttamente. Noi veniamo risvegliati dal sonno criogenico da P.A.M.E.L.A., un I.A. estremamente avanzata, in grado di gestire l’intero complesso urbano. Al contrario di quanto siamo stati abituati a vedere da HAL 9000 a Skynet, P.A.M.E.L.A. sembra un’entità benevola, che sin da subito ci aiuta, cercando di risolvere i misteri di Eden. Una volta coi piedi per terra, le associazioni con altri titoli saltano subito all’occhio, dal già citato Bioshock, a Prey fino a Dead Space, in un connubio di generi che già da adesso sembra discretamente funzionare. La narrazione del titolo sembra seguire i classici canoni di un souls like in cui, immersi in un mondo di cui siamo totalmente all’oscuro, abbiamo come unica possibilità di capire dove ci troviamo e cosa sta succedendo quella di leggere alcuni documenti o ascoltare diari di P.A.M.E.L.A. sparsi lungo le vie della città. Questo, assieme all’ambientazione a tratti claustrofobica e a tinte horror, riesce a creare un’ottima atmosfera, in cui cercare di sopravvivere con ogni mezzo diventa la nostra prerogativa. Non ci sono – almeno per ora – quest da seguire: ci siamo solo noi e l’Eden in tutto il suo splendore, capace di raccontarci visivamente quanto stia accadendo. Interessante è la presenza, oltre che di nemici di cui parleremo in seguito, di androidi progettati probabilmente per servire i cittadini e che ora senza uno scopo preciso vagano per le vie della città forse alla ricerca di se stessi; altri androidi adibiti alla protezione continuano invece a pattugliare, rimanendo sfruttabili per gli scontri, rendendoli molto più accessibili. La loro presenza pare segnalare una trama molto più articolata di quanto sembri, ma solo al day one potremmo avere un’effettiva risposta. Sulla carta il progetto sembra funzionare, eppure qualche criticità rischia di minare pesantemente i sogni di questo piccolo studio.

L’uomo deve essere superato

P.A.M.E.L.A. mischia tanti generi: un sandbox con elementi survival horror, FPS-RPG (probabilmente bisognerà creare una categoria apposita per questo tipo di titoli, che vada oltre la generica dicitura “action”). Sin da subito possiamo scegliere che tipo di bonus o malus saranno presenti in partita, dalla difficoltà in se sino al permadeath, in cui saremo costretti a ricominciare da capo una volta tirate le cuoia. La sua molteplice natura dunque salta subito fuori: è fondamentale raccogliere il maggior numero di risorse possibili per il crafting e per il potenziamento del proprio equipaggiamento, che consta in una speciale tuta, presente in diverse versioni e gradi di evoluzione, oltre a perk aggiuntivi e armi corpo a corpo e a distanza come del resto l’elemento survival, in cui rischieremo la morte se non si è mangiato o bevuto a sufficienza.
Il titolo sembra abbastanza vario, donando un buon senso di progressione, soprattutto durante le fasi di combattimento, forse il vero punto debole del lavoro Nvyve Studio. Al grido di “ho i pugni nelle mani” saremo costretti a farci strada attraverso combattimenti poco entusiasmanti: tutto sta nella gestione della schivata, poco intuitiva e che gioverebbe davvero di un buon sistema di targeting del nemico, in modo da rendere più semplice girare intorno all’avversario e scoprire eventuali punti deboli. Essendo comunque ancora il titolo in early access, si può chiudere un occhio e si spera vivamente che il combat system venga implementato a dovere. Purtroppo le cose non cambiano una volta ottenute delle armi a distanza, incapaci di restituire un feedback reale. I combattimenti sono dunque una danza in cui è necessario schivare i pochi pattern d’attacco nemici, abbastanza semplici da gestire anche se potrebbe capitare di affrontarne ben più di uno. In questo caso eseguire la “tecnica segreta della fuga” o attirare i nemici verso robot sentinella, potentissimi e in grado di gestire da soli una piccola orda. In generale questo funziona ma purtroppo ci sono da segnalare numerosi bug all’intelligenza artificiale, oltre a quelli tecnici: capiterà infatti di osservare strani comportamenti, come robot impassibili alle aggressioni o nemici capaci di rimanere ostacolati da oggetti insormontabili come una sedia.
Uno dei pochi obbiettivi chiari è quello di riportare Eden a esser quantomeno funzionante, cercando di riparare piccoli guasti all’alimentazione energetica, fondamentale per esplorare adeguatamente le vie della città in quanto, essendoci anche un ciclo giorno/notte, molte zone resteranno al buio, relegandoci all’ausilio della nostra fedele torcia. Insomma, si cerca di rendere il tutto quanto più immersivo possibile, anche grazie alla totale mancanza di HUD e l’utilizzo di menu e interfacce in tempo reale olografiche. Questo, come del resto l’intera struttura tecnica, poggia le sue solide basi sul motore Unity, estremamente versatile e qui sfruttato al suo meglio. Gli ambienti sono ben dettagliati, alcuni estremamente grandi e, nonostante il colpo d’occhio  generale sa di già visto, artisticamente sembra avere una propria, forte identità. A colpire è l’impianto luci, capace di regalare ottimi scorci sia di giorno che di notte fuori, ma anche all’interno, dove si fa uso di elementi olografici e simil-oled. Il risultato dunque è molto buono, anche se la componente audio sembra forse ancora indietro, in cui manca una vera profondità dei vari suoni presenti, ma anche componenti sonore di contorno, stile Alien Isolation o Dead Space, per intercederci: suoni ambientali sinistri, vento, vibrazioni, insomma, un campionario più vario in grado di esaltare quanto vediamo a schermo.

In conclusione

P.A.M.E.L.A. è forse ancora lontano dalla sua release definitiva ma già ora riesce a intrattenere e invogliare il giocatore a scoprire i piccoli segreti di Eden. Le meccaniche presenti sembrano ben studiate e frutto di una buona programmazione, mentre altri elementi, come il combat system, necessitano ancora di molto lavoro. Potenzialmente questo titolo potrebbe diventare davvero interessante e starà alle mani di  Nvyve Studio far si che ciò accada.




We Happy Few – E La Pillola Va Giù

Come tutti sappiamo, We Happy Few, è un titolo dalla storia travagliata, presentato ormai nel lontano 2015 e arrivato in questi giorni, ben diverso da quanto prospettato. La campagna Kickstarter atta a finanziare il progetto è stata una manna per Compulsion Games ma anche una spada di Damocle, in quanto, dopo vari rinvii, l’uscita del titolo non poteva più esser posticipata. Terminato il lungo periodo di early access, Wellington Wells è pronta per essere esplorata, un’isola avvolta dal mistero ma anche da tanti elementi da rifinire.

Sembra talco, ma non è…

Inghilterra, 1960, ma non quello che pensate: la Seconda Guerra Mondiale è stata vinta dalla Germania e, come in altre ucronie, questo ha portato molti cambiamenti nella società. Ma c’è una città particolare, un luogo isolato, che ha deciso  di dimenticare il passato vivendo in allegria e spensieratezza: Wellington Wells è la vera protagonista del titolo, proprio come Rapture per Bioshock, anche se con le dovute proporzioni. Tra gli abitanti circola una speciale “medicina”, la Joy, capace di regalare subito benessere, rendendo luminosa anche una lugubre giornata; ed ecco quindi che la città pullula di vita, lontana dalle tragedie vissute durante il conflitto, cui nessuno sembra ricordarsene. A dir la verità, questo espediente non è nuovo: si pensa subito al Soma di Brave New World di Aldous Huxley, ma anche a Naruto e al suo Tsukuyomi Infinito o persino a Code Geass: Lelouch of the Rebellion e alla droga Refrain. Come rendere dunque originale un espediente narrativo già abusato in numerose opere? Ci pensa il comparto artistico a mettere una pezza, ma anche la caratterizzazione dei protagonisti con i loro dialoghi a renderci quasi alieni di fronte alle bizzarie che ci troveremo davanti.
Ma – come dicevamo – Wellington Wells è il fulcro, una radiosa prigione in cui la perfezione la fa da padrona, tanto che ogni minimo gesto ritenuto “non conforme” (come correre) verrà immediatamente preso di mira dagli abitanti e dalla polizia, una sorta di Gestapo, pronta a sedare qualunque tipo di ribellione. Basta infatti mancare una sola dose di Joy – come avviene nel prologo – per far cessare la meravigliosa fiaba indotta dalla droga, attanagliando con sensi colpa, rimorsi e traumi che solo una guerra e i suoi postumi è in grado di produrre. We Happy Few è tutto questo, un costante contrasto di emozioni che riesce a colpire nel segno lo spettatore, con dialoghi ben scritti e originali, con una sceneggiatura che riesce a estrapolare tematiche importanti da ogni anfratto della cittadina. Purtroppo, non di solo narrativa si vive.

Perché sei così serio?

We Happy Few nasce come immersive sim con una forte componente survival mitigata in questa versione finale. La fame, la sete e la stanchezza non sono più letali come nella concezione originaria del gioco, divenendo meri malus per la nostra stamina. Gli sviluppatori, probabilmente ascoltando i pareri del pubblico durante l’early access, hanno addolcito alcune componenti che, in qualche modo, risultano però mal amalgamate tra loro. Andare a ricercare varie componenti per il crafting come i buoni Bioshock o Fallout insegnano, è fondamentale: bidoni della spazzatura, cassette della posta, bauli possono diventare delle vere e proprie miniere e, ottenuti i componenti necessari, sarà possibile dilettarsi nella costruzione di vari oggetti che variano tra quelli base e quelli avanzati. Non solo armi e oggetti utili, ma anche il vestiario ha la sua importanza: una caratteristica che non è andata persa è lo stealth, essenziale, ma fino a un certo punto. Indossare il vestito giusto in certi frangenti può fare la differenza, eppure, tutto si perde in un bicchiere d’acqua, naufragando in un’intelligenza artificiale lacunosa sotto molti punti di vista: basterà un piccolo errore per ritrovarsi accerchiati da gente che nemmeno si trovava nelle vicinanze, e si potrà far tornare tutto alla normalità con la stessa facilità, semplicemente svoltando l’angolo, come dopo un’istantanea dose di Joy. Questo difetto fa pendant anche con la morte, che non ha alcuna conseguenza, anzi, a volte sarà più comodo tirare le cuoia piuttosto che proseguire. Tutto ciò rende il titolo poco appagante ed, escludendo l’efficace narrativa, nel complesso il risultato rischia di essere disastroso. Anche il venire alle mani con i nemici del momento non regala alcuna soddisfazione a causa di hit box imprecise, mancanza di feedback reale e animazioni non proprio eleganti. Sembra quasi di colpire il vuoto, sarebbe bastato davvero poco per mettere una pezza a questo problema.
Anche la differenziazione esteriore dei tre protagonisti viene meno: la loro fisicità così diversa non risulta fondamentale e solo aumentando il nostro livello con alcuni upgrade, potremmo sentire lievi differenze.
Gli unici elementi discretamente riusciti sono le sezioni notturne, in cui il coprifuoco è attivo ed esser visti può scatenare un putiferio ma, soprattutto, la meccanica dedicata alla pillola Joy e ai suoi effetti. Ogni compressa ingerita comporta alcuni cambiamenti – anche visivi – dato che potremmo passare inosservati per le vie della città e superare senza problemi i detector per i “Musoni”, coloro che rifiutano le gioie della medicina. Ma assumerne troppa ha delle controindicazioni, come perdita della memoria e crisi d’astinenza più marcate, in grado di far imbestialire la popolazione. È quindi un bene assumerla solo in casi specifici; anche qui, spingere su questa meccanica avrebbe garantito maggiore originalità e spessore a un titolo che vede nell’amalgama degli elementi il principale problema.
Durante le avventure avremo modo di sbloccare piccoli rifugi, degli hub dove poter riposare o spostarsi rapidamente, cosa abbastanza utile quando si ha a che fare con molte quest secondarie aperte ma purtroppo fin troppo simili tra loro.

Chiaroscuro

Anche dal punto di vista tecnico We Happy Few non raggiunge vette d’eccellenza. Nonostante l’utilizzo dell’Unreal Engine 4 il gioco lascia adito a qualche dubbio, a cominciare da alcuni glich e bug di varia natura, come corpi spariti nel nulla o l’eccessivo pop-up delle texture. Oltre a questo, fa quasi impressione l’eccessivo riutilizzo degli asset sia per gli ambienti che per la popolazione, consistente in circa cinque-sei modelli, ripetuti all’infinito. Tutto crea anche problemi alla navigazione in quanto perdersi per le vie della cittadina sarà all’ordine del giorno. Nonostante un ciclo meteo e giorno-notte il titolo non riesce proprio a spiccare, se non per alcune trovate artistiche come il passaggio dalla triste realtà al lucente bagliore della vita dovuto all’assunzione della pillola Joy e allo stile in cel-shading che, in qualche modo, regala a We Happy Few una sua identità. Inoltre, il titolo sarà uno dei pochi a poter sfruttare la nuova tecnologia per il ray tracing e il nuovo anti-aliasing DLSS, disponibili non appena le nuove Nvidia serie 2000 muoveranno i loro primi passi sul mercato.
Fortunatamente la componente audio riesce a salvare quanto rimane, contando su un ottimo doppiaggio inglese, con uno slang appositamente elaborato. Tutto risulta a volte caricaturale ma efficace, in grado di far risaltare i momenti bui come quelli goliardici.  Purtroppo la traduzione non sembra essere andata a buon fine, con sottotitoli a volte incompleti e soprattutto invasivi, mostrando dialoghi non direttamente interessati a noi, anche nel bel mezzo di un’altra conversazione. Il risultato è una caotica bulimia di frasi su schermo che rendono il tutto di difficile comprensione.

In conclusione

We Happy Few paga il suo contorto sviluppo e l’improvviso cambio di direzione che ne hanno mozzato, a ogni livello, il gameplay. L’ossatura buona del titolo resta nella componente narrativa e nel doppiaggio, in grado di restituire una storia forse non originale ma capace di emozionare, esplorando le mille sfaccettature della società umana. Dipende dunque da quanto peso decidiate di dare alla trama e al suo evolversi rispetto al resto: valutando gli elementi nel loro insieme, si arriva giusto alla sufficienza. È dunque una grossa occasione sprecata ma un buon punto di svolta per Compulsion Games, che dopo questa esperienza potrà ripensare ai propri errori e portare in futuro qualcosa di più completo e meglio curato in tutti i suoi aspetti.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




Nuovo Bioshock in arrivo?

Dopo l’arrivo delle remastered e dei rumor che indicavano un grosso ritorno su un importante franchise da parte di 2K Games, sembra che un nuovo capitolo di Bioshock sia in dirittura d’arrivo. Secondo quanto affermato da Jason Schreier, giornalista di Kotaku, questo progetto è affidato a un “reparto segreto” della software house, il che – mettendo assieme tutte le tessere del puzzle – farebbe pendant con un’altra notizia, ovvero il rientro del figliol prodigo Shawn Elliot, sviluppatore della famosa saga. Tutto quindi fa presuporre che un nuovo Bioshock potrebbe arrivare nel giro di quanche anno.
Che arrivi qualche annuncio “a sorpresa” al prossimo E3?




Spec Ops: The Line gratis ancora per qualche ora

Dopo The Darkness II, Humble Bundle non ha smesso di regalare giochi. In questi giorni è il turno di Spec Ops: The Line, uno sparatutto in terza persona con recensioni molto positive su Steam uscito sei anni fa. Il gioco è stato sviluppato da 2K Games, già padri della saga di BioShock. Il titolo sarà disponibile soltanto per qualche ora, quindi affrettatevi!




Guillermo Del Toro vorrebbe dirigere il film di Bioshock

La possibilità di vedere una trasposizione cinematografrica di Bioshock è stata a lungo considerata a Hollywood, con il regista de I Pirati dei Caraibi Gore Verbinski assegnato al progetto, prima che venisse eliminato. Per Verbinski sarebbe stato necessario un ampio budget per ricreare la città di Rapture, così come il film andava concepito in maniera tale che sarebbe risultato certamente vietato ai minori.
Il progetto è quindi fallito, ma un altro famoso regista si è detto interessato al progetto: Guillermo Del Toro, in un’intervista a Shortlist, ha infatti affermato: «Per creare un film da un videogioco l’unico che potrei realmente vedere possibile è Bioshock, mi piacerebbe trasformarlo in un film, Gore Verbinski era affezionato e sarebbe stato perfetto.»

 




5 videogame dalla Lore originale imprescindibile

La scrittura nei videogame si fa un elemento sempre più importante e questo non riguarda solo i singoli titoli ma anche intere saghe, dietro le quali si è creato un intero universo comunemente inteso come “Lore”. Le Lore elaborate appositamente per determinati videogiochi non sono poche, e qui ne abbiamo raccolte 5 che non dovreste davvero perdere.

La prima da ricordare è una serie fantasy dai contorni classici ma affatto banale, The Elder Scrolls: ambientata nel vasto continente di Tamriel, la saga di Bethesda prende elementi del mondo pre-medievale, con vari riferimenti all’Impero romano, e li mischia con una forte dose di fantasy che, fra creature fantastiche, magie e quest da portare a termine, rendono i vari titoli della saga i capitoli un grande romanzo fantastico degno della letteratura di genere.

Di diversa ambientazione è una delle lore più acclamate si sempre, quella di BioShock, nella quale il creatore, Ken Levine, è riuscito a mettere al servizio di un first-person shooter una grande storia distopica che mischia i principi di Ayn Rand alla cupezza machiavellica di George Orwell, creando personaggi di altissimo spessore che in ogni capitolo mostrano i loro caratteri marcati e sfaccettati, un aspetto che innestato in un mondo di gioco che offre una storia ben curata e una scrittura sapiente e attenta, ha reso questa saga un vero e proprio capolavoro narrativo.

Una serie che ha unito giocatori di entrambi i sessi e di ogni età più di ogni altra è probabilmente quella di Mass Effect, nella quale Bioware ha avuto il merito di compenetrare perfettamente la lore al gameplay, rendendo la scrittura fondamentale per la comprensione di quel che accade nei singoli titoli e creando una storia fantascientifica solidissima e che mischia azione, relazioni personali e intrighi in un videogame che ha la dignità di un grande romanzo di sci-fi.

Uno degli universi più belli e più vasti mai creati nella storia dei videogame è certamente quello di Warcraft, con storie in continua evoluzione che vedono un lavoro di scrittura combinato tra i creativi della Blizzard e i vari autori esterni che hanno collaborato a formare il “canone attuale”, il quale consta di un gran numero di romanzi, fumetti e racconti che hanno reso le storie ambientate nella “Grande Oscurità” un affresco fantasy fra i più apprezzati della nostra epoca.

Ma una delle più straordinarie lore in assoluto è certamente quella di Dark Souls. L’universo creato da Hidetaka Miyazaki è fortemente influenzato dal gioco di ruolo Dungeons & Dragons e dalle suggestioni di Kentaro Miura e presenta una storia dall’intricata simbologia, che ha come costante il tema dei cicli e che ha unito una lore complessa, d’ambientazione fantasy medievale, in un gameplay che risulta a oggi uno dei più complessi e controversi del panorama videoludico.




Gli infiniti mondi di BioShock

In occasione dei suoi primi dieci anni, cogliamo l’occasione di parlare di una delle saghe che più hanno segnato il mondo videoludico, un gioiello sotto tutti i punti di vista: BioShock. Se ne è già detto molto, forse tutto, ma dopo l’uscita dei due DLC per BioShock Infinite, Burial at the sea, questo universo si è ulteriormente espanso coinvolgendo tutti i capitoli, unendoli. Vediamo dunque cosa c’è alla base del progetto, i significati e soprattutto di capirci qualcosa riguardo una delle trame più complicate della storia umana. Buona lettura.

Una città in fondo l’oceano

Tutto nasce dal genio di Ken Levin, già creatore dell’amatissimo Sistem Shock del 1994, che, ispirandosi a George Orwell e soprattutto ai romanzi di Ayn Rand decise di creare un mondo utopico, in tutti i suoi aspetti. I romanzi della Rand da cui trasse maggiormente ispirazione furono La rivolta di Atlante e La fonte meravigliosa che contengono temi rivolti all’Oggettivismo, teoria filosofica creata dalla scrittrice, andando contro i sistemi totalitari dell’epoca. Tra le cose più interessanti di questo modo di pensare vi è che lo scopo morale della propria vita sia l’interesse razionale di se stessi, il cosiddetto Egoismo razionale, un individualismo che non danneggia il prossimo; il sistema politico ed economico deve garantire il rispetto dei diritti individuali, nella forma più pura del capitalismo; infine il ruolo dell’arte, che nella vita dell’uomo deve essere utilizzata per trasformare le idee metafisiche più grandi in opere d’arte che l’uomo possa comprendere e a cui possa rispondere emotivamente.
Da queste idee partirà la stesura della sceneggiatura di BioShock.

Dopo il nostro precipitare in pieno oceano a bordo del nostro aereo, notiamo subito qualcosa di strano: un faro, in mezzo al nulla, ma unica chance di sopravvivenza. Una volta entrati vi è una batisfera, ci saliamo, e comincia il viaggio con il celebre discorso di Andrew Ryan, sulla creazione di una città lontana da vincoli morali, religiosi e politici. Molto sarà collegato alle Sister e all’ADAM, sostanza necessaria alla fabbricazione dei Plasmidi. Alle bambine, quindi,  venne impiantata, nello stomaco, la lumaca di mare generatrice di ADAM, trasformandole, diventando ossessionate dalla sostanza e addestrate a raccoglierla ed estrarla dalle lumache marine stesse o dai cadaveri dei ricombinanti morti. Essendo vulnerabili vennero creati i Big Daddy, enormi creature geneticamente modificate e corazzate.
In BioShock ogni personaggio principale porta con sé la sua dose di simbolismo: il Dottor Steinman, ad esempio, è alla continua ricerca dei canoni di bellezza perfetti, a simboleggiare, come l’uomo sia un essere vanitoso e di come sia più importante l’apparire che essere. Tema trattato sapientemente e raccontato anche da audiolog di personaggi secondari – donne soprattutto – che hanno utilizzato i plasmidi per ricostruire il proprio corpo, non riconoscendosi più e facendo perdere loro la consapevolezza dell’io.
Sarà un percorso ricco di ostacoli e colpi di scena da maestro e i finali multipli saranno indicativi, non solo sulla nostra condotta di gioco, ma soprattutto sulla reale natura dell’uomo e su sul destino.

BioShock si presenta come un classico sparatutto in prima persona, immediato, e con alcuni elementi da gioco di ruolo, come potenziamenti per armi o plasmidi, i quali possono essere attivi o passivi: quelli attivi possono essere iniettati per poter utilizzare poteri speciali dalla mano sinistra, come fiamme, ghiaccio, elettricità, sciame d’api e tanto altro. Quelli passivi possono rendere più veloci, far subire meno danni o far fare meno rumore. Uno dei pochi elementi criticati risiede nelle cosiddette camere della vita, dispositivi in cui il protagonista resuscita una volta morto. Il loro utilizzo effettivamente facilità le cose in quanto è possibile superare le sezioni più ostiche con un pizzico di perseveranza, anche perché i nemici sconfitti non tornano in vita. Sono comunque contestualizzate nella trama ma è possibile disabilitarle tramite l’apposito menu. Il comparto audio è eccellente: doppiaggio in italiano ottimo e musiche malinconiche, opprimenti avvolgono il giocatore in un atmosfera dai tratti horror e claustrofobici. A livello tecnico era un gioiello, non solo per quanto riguarda texture luci e modellazione ma anche per la resa dell’acqua, elemento cardine del gioco, e sicuramente la migliore mai realizzata sino ad allora. Ciò che colpisce comunque è il comparto artistico: tutto in stile Art Decò, devastato da conflitti interni alla città, esprime a chiare lettere il degrado e la decadenza nella quale Rapture è caduta.

Rapture, è lei la vera protagonista del gioco. Rapture è un’immensa città sottomarina segretamente costruita nel 1946 nelle profondità dell’Atlantico, alimentata da energia termica generata da vulcani sottomarini e rifornita di ossigeno da migliaia di piante cresciute in enormi serre. Fondata da Andrew Ryan, Rapture fu la sua soluzione all’oppressione delle autorità politiche e religiose a favore della libera iniziativa dell’individuo che, slegato da confini etici, religiosi o politici, avrebbe potuto dare il meglio delle proprie capacità esplorando così i confini della mente umana. La città è popolata da coloro che Ryan riteneva essere il meglio dell’umanità.
Non esiste un vero e proprio governo, ognuno è padrone di se stesso, libero da leggi e moralismi che viviamo ogni giorno. Vi è quindi una sorta di anarchia controllata, dove tutti possono dare il massimo per il bene della collettività.
Ma 15 anni dopo, quando arriviamo per la prima volta nella città capiamo che tutto questo non ha funzionato. BioShock è un opera pessimistica, che vede l’uomo soltanto come un egoista e alla ricerca di più potere. Tutti potevano vivere felici, completi eppure la natura umana, ha rovinato questo sogno portando la città perfetta al declino.
Ma in questa città tutti hanno perso, soprattutto la speranza, la speranza di tornare ai fasti di un tempo. I nemici che affronteremo durante il gioco non sono malvagi, ma soli, disperati, alla ricerca costante di se stessi, cose che messe tutte assieme possono portare alla follia. Diventa così un circolo vizioso: l’egoismo genera solitudine, abbandono, che col passare del tempo creano un vuoto che si cerca di colmare con tutto ciò che si pensi possa aiutare come il denaro, o il potere.
BioShock risponde a domande come il perché abbiamo bisogno di governi, leggi ed etica e perché non siamo liberi di esprimerci come vogliamo, facendoci vedere come la vera natura dell’uomo non possa portare a nulla di costruttivo se lasciata a se stessa. Ma è comunque presente la speranza, attraverso le nostre scelte cambiamo il mondo, e attraverso le nostre scelte nel gioco possiamo illuminare un po’ il futuro dell’uomo.

Gli antipodi

Nel 2010 esce BioShock 2 in cui la storia si svolge otto anni dopo gli eventi narrati nel primo capitolo. Tutto ha  però inizio nel 1958, poco prima della caduta di Rapture.

Un prototipo di Big Daddy chiamato Soggetto Delta è impegnato nello scortare la propria Sorellina, Eleonore Lamb. Ma all’improvviso la madre della bambina, Sofia Lamb interrompe la missione. Attraverso un plasmide in grado di ipnotizzare la vittima, spinge il soggetto Delta a spararsi sul posto. Risvegliatosi dopo 10 anni, il Soggetto Delta trova Rapture sull’orlo di una guerra civile, in mancanza di molte sorelline e quindi meno Adam. In questo contesto Sofia Lamb, psicologa, nonché avversaria in politica di Andrew Ryan, conquista pieni poteri. Nei panni del Big Daddy sperimentale, faremo di tutto per ritrovare la nostra sorellina Eleonore, in una città ancora più pericolosa del primo capitolo.

BioShock 2 è un’evoluzione di quanto visto nel primo episodio. Gameplay ulteriormente affinato, più frenetico e con un feeling migliore di armi e plasmidi. Una delle maggiori novità è la trivella, utilizzabile fin da subito e devastante nei corpo a corpo. La trama è molto coinvolgente, ben raccontata, grazie anche ad un ottimo doppiaggio, molto espressivo, e alle musiche ed effetti sonori che accompagnano sapientemente ciò che vediamo su schermo.
Qui passiamo dal capitalismo puro di Ryan al comunismo estremo della Lamb, assolutamente contraria all’individualismo, preferendo una collettività, in cui tutti fossero uguali e con pari opportunità; tutto racchiuso ne La famiglia.
Per quanto sia interessante questo cambiamento radicale rispetto al primo capitolo Sophia Lamb non raggiunge mai le vette carismatiche di Andrew Ryan, facendo sì che BioShock 2 sia vittima del successo del predecessore. Sa un po’ tutto di già visto per quanto riguarda le ambientazioni con alcune aggiunte che potevano essere tranquillamente evitate. Un’ottima aggiunta invece sono le Big Sister, nemici completamente diversi rispetto dai Big Daddy, essendo molto più agili e veloci.

Essendo noi stessi un Big Daddy possiamo comportarci come tali: possiamo prendere una sorellina, scortarla verso cadaveri per prendere l’ADAM e proteggerla da tutti i nemici.
BioShock 2 è sicuramente un gran bel titolo, con un voto superiore a 9, ma semplicemente non è BioShock.

Infinite porte

Nel 2013 esce BioShock Infinite che, tutto sommato, può essere considerato un capolavoro mancato, per via di un gameplay che non porta nulla di nuovo alla saga ma con una trama tra le più affascinanti mai viste. Affascinante come i personaggi di Elizabeth soprattutto, Booker deWitt e Zackary Comstock.

Ambientato nel 1912, il titolo si basa sulla scomparsa nei cieli di Columbia, città volante fondata da Zachary Hale Comstock (auto nominatosi “il Profeta“).
Impersoniamo Booker deWitt, un detective alcolizzato e accanito giocatore d’azzardo, con un passato burrascoso e in congedo forzato dall’agenzia Pinkerton. Gli viene offerta la possibilità di coprire il suo debito attraverso un incarico dato da un losco individuo: «portaci la ragazza e annulla il debito». Il suo compito consiste nel trovare la città di Columbia e, una volta arrivato, trovare una certa Elizabeth e portarla da loro. Sarà uno dei viaggi più incredibili mai intrapresi.

Più avanti mi occuperò di mettere assieme tutti i vari pezzi del puzzle ma già da ora importante soffermarsi su un DLC, diviso in due parti, denominato Funerale in mare. In questo contenuto aggiuntivo c’è molto più di quanto molti di noi si aspettavano, facendo luce non solo su Infinite, ma su tutto il mondo di BioShock.

All’inizio del DLC la storia comincia come se nulla fosse successo: Booker deWitt è addormentato, perseguitato da ricordi confusi e traumatici. All’improvviso una donna misteriosa entra nel suo ufficio proponendogli un lavoro: ritrovare una certa Sally. Booker è sorpreso dalla richiesta, perché quella bambina era la sua figlia adottiva, un’orfana della guerra tra Andrew Ryan e Frank Fontaine, a cui si era affezionato. Capiamo di essere a Rapture mentre la committente si rivela essere Elizabeth, ma lui non sembra riconoscerla. Usciti dall’ufficio i due trovano durante il Capodanno del 1958, come l’inizio di BioShock 2. Anche in questo caso sarà un viaggio allucinante, con una scrittura perfetta, facendo diventare il tutto una delle migliori opere di fantascienza mai create. Ma ci arriveremo.

BioShock Infinite tratta un infinità, appunto, di tematiche più o meno esplicite all’interno di Columbia. Uno di questi è il puro razzismo e lo sfruttamento dei deboli che però, non fermerà le idee di ribellione, venendosi a creare situazioni che porterà ai Vox Populi, gruppo che cercherà di portare la democrazia nella città volante.
Altro tema importante è quello della religione: tutto è intriso di ambiguità, con Zackary Comstock nella veste di un profeta onnipresente e onnisciente, praticamente una vera e propria divinità per il suo popolo. Nonostante una fede incrollabile, guidata dal cristianesimo più radicale, in molte circostanze i columbiani arriveranno a ignorare persino i principi base della loro fede e, come per le Crociate, sfruttare le ideologie del bene per giustificare il male.

Tuttavia il gioco è chiamato Infinite per un motivo. Il tema del Multiverso è sempre stato affascinante, prevedendo un’infinità di universi simili al nostro ma esistenti contemporaneamente. Questa teoria, prende piede nella prima metà del novecento grazie a Hugh Everett III che dopo attenti studi, arrivò a teorizzare che se è possibile effettuare misurazioni a livello quantistico allora è probabile che per ognuna di queste possa esistere un altro Universo in uno spazio-tempo differente. Può risultare complicato ma con qualche esempio ne verremo a capo.
Il gioco comunque, è sempre uno sparatutto in prima persona, praticamente simile ai precedenti capitoli, con un comparto tecnico che non fa gridare al miracolo. Il comparto artistico è invece ciò che risalta maggiormente e pressoché perfetto. È letteralmente poesia in movimento, ed è impossibile non farsi colpire da Columbia. Elizabeth e Booker, indipendentemente da loro legame, sono personaggi ormai iconici, aiutati da un perfetto doppiaggio in italiano, veramente molto espressivo e dalla giusta tonalità. Musiche usate magistralmente, ricalcano le atmosfere sempre col giusto tempismo. E il finale è letteralmente da brividi, uno dei migliori mai visti.

Un miliardo di mondi

Ci sono domande alla quale non possiamo rispondere ma fortunatamente in questo caso, grazie alla deliziosa scrittura di Levine possiamo tirare delle conclusioni. Se avete notato non ho voluto approfondire di proposito le trame per evitare spoiler che rovinerebbero l’esperienza. Ma questa in fin dei conti è una recensione di un intera saga, cercando di far luce su tutti gli aspetti nascosti. Quindi da ora in poi ci saranno grossi – ma proprio grossi – SPOILER, siete avvisati.

 

Terminando BioShock Infinite, compresi i DLC alcune domande sorgono spontanee e per poter trovare le risposte, bisogna diventare dei fisici quantistici e cominciare ad avere qualche nozione su Micro-Universo e Macro-Universo.
Per Macro-universo intendiamo un Universo completamente diverso da un altro, esistente su un piano spazio-temporale differente. Quindi, nel gioco, possiamo osservarne due: uno dedicato a Rapture e uno dedicato a Columbia. Entrambe le città, entrambi questi mondi, sono esattamente contemporanei ma, mentre a Rapture è circa il 1960 a Columbia è il 1912. Da essi derivano i Micro, simili ai Macro, ma che esistono nello stesso spazio-tempo. Tutto ciò, possiamo osservarlo quando viaggiamo tra le Columbia alternative che in BioShock Infinite, durante la rivoluzione dei Vox Populi.
In questi Universi così diversi, troviamo dei fatti che sono in comune e che daranno vita alle vicende di tutto il mondo di BioShock. Sono eventi, anche in questo caso, contemporanei, ma in tempi e luoghi diversi.

Sappiamo che le vicende del primo capitolo iniziano quando Andrew Ryan comincia a costruire Rapture, la sua città ideale. Sappiamo anche che, nel frattempo, a Colunbia Booker deWitt, decide di battezzarsi, divenendo Zachary Hale Comstock. L’onniscienza del Profeta è data dalla capacità di vedere infinite realtà grazie al dispositivo spazio-temporale creato dai Lutece e, proprio in una di queste realtà scorge la città in fondo l’oceano, all’inizio della sperimentazione dell’ADAM sugli umani.
Anche i fatti di Funerale in mare derivano da una di queste conseguenze, generando così due diverse realtà: in una Booker avvia gli eventi di BioShock Infinite, nell’altra, Booker, avvia gli avvenimenti del DLC. Capito questo, abbiamo una maggiore consapevolezza della cronologia dei fatti:

  1. Funerale in mare è ambientato dopo il finale principale di Infinite, ma solo dal punto di vista di Elizabeth, colei che impersoniamo. Cronologicamente però, è precedente ad esso. Ecco perché Comstock è ancora vivo.
  2. Quando Elizabeth porta Songbird a Rapture per affogarlo, notiamo una città devastata dalla guerra civile, semi distrutta e con i Big Daddy e Sorelline che raccolgono l’Adam. Ma tutto questo, nel DLC, non esiste. Non vi è ancora alcun legame tra le bambine e il colosso corazzato.

Nella parte finale di Infinite possiamo apprezzare meglio i concetto di Macro e Micro Universo. Nella scena dei Fari, Elizabeth entra in un ambiente con infiniti Fari simili a quello che porta a Rapture, e che quindi, rappresentano i Micro-Universi di BioShock. Sempre nella stessa situazione, siamo catapultati in un mondo con dei Fari simili alle costruzioni su Columbia, con conseguenti Micro-Universi.
Quando Booker decide di sacrificarsi, nel finale principale, quest’ultimo Macro-universo Columbia viene cancellato. Ma Elizabeth decide comunque di seguire Comstock a Rapture, cercando di salvare in ogni modo Sally, la bambina che tanto le ricordava la se stessa da piccola. Se lei non fosse andata lì, Jack Ryan (colui che impersoniamo nel primo capitolo) non si sarebbe mai recato a Rapture e quindi non avrebbe salvato tutte le sorelline e, di conseguenza Sally. Tutto quello che abbiamo vissuto in BioShock e Bioshock 2 lo dobbiamo ad Elizabeth che però, al collassare del Macro-Universo Columbia, ne perde i ricordi, incontrando così l’Elizabeth inconsapevole di Infinite.
In poche parole scopriamo che BioShock Infinite, DLC compreso, è un prequel di BioShock.

BioShock, inteso come saga, è assolutamente uno dei più grandi, se non il più grande viaggio che potreste fare. È la dimostrazione che anche il mondo videoludico può essere considerato alla pari, se non superiore, a film o libri di qualsivoglia genere. Non troverete da nessuna parte musiche, dialoghi, trama, lato artistico racchiuse in una sola opera. Ringraziamo di cuore Ken Levine per averci portato in mondi che chi lo sa, magari esistono da qualche parte, nei meandri dello spazio-tempo.




Top 7: le migliori intro nei videogames

Chi ben comincia è a metà dell’opera e questo detto vale anche per il mondo videoludico. Le intro servono per introdurci al mondo di gioco e a volte diventano dei piccoli capolavori, magari ricordate più dei giochi stessi. Vediamo quindi quali sono le migliori, e attenzione a possibili spoiler.

#7 Half-Life

Comincia tutto da qui, almeno per la narrazione diretta, senza utilizzo di cutscene: Half-Life rivoluziona tutto, facendoci vedere tutto dagli occhi del protagonista, aumentando in maniera esponenziale l’immedesimazione. Il complesso di Black Mesa scorre via attraverso i finestrini del treno, dandoci anche un brivido lungo la schiena, una sorta di presagio su qualcosa che sta per andare storto. Insomma, l’inizio di un’epica avventura.

#6 Batman: Arkham Asylum

Dopo tanti giochi deludenti dedicati a Batman, ne arriva uno che apre con il protagonista che sfreccia sulla sua Batmobile con a bordo Joker finalmente catturato. Tralasciando la cutscene iniziale realizzata col motore di gioco, il tutto si svolge sotto i nostri occhi con l’impressione di vivere quei momenti assieme a Bruce Wayne.

#5 Crysis 3

«Cosa sei pronto a sacrificare?» sono le parole di Prophet in orbita intorno alla terra con l’astronave dei Ceph pronta a sferrare l’attacco finale. Il protagonista ci racconta in prima persona gli avvenimenti dei 2 capitoli precedenti e quanto abbia sacrificato per dare una chance alla terra di salvarsi. La spettacolare scena in CGI, nonché la musica composta da Borislav Slavov, regala forti emozioni legandoci al protagonista di questo terzo capitolo che vediamo sconfitto e senza la possibilità di salvarsi. Il gioco sarà un lungo flashback che ci riporterà di nuovo a questo punto, ma le cose fortunatamente prenderanno una piega diversa.

#4 Fallout 3

Il piano sequenza, ripreso dai capitoli precedenti, entra prepotentemente nei nostri occhi con il terzo capitolo: la radio, semi distrutta ma ancora funzionante, trasmette una vecchia canzone degli Ink Spot, I Don’t Want to Set the World On Fire e, man mano che la camera si allontana, comincia a presentarsi il mondo di gioco, probabilmente dilaniato da esplosioni nucleari, sino a quando un uomo armato e corazzato appare facendo venire un sussulto. L’ormai celebre frase «War, War never changes», aprirà una sequenza introduttiva, fino al tutorial interamente integrato nel gioco, novità assoluta a quell’epoca negli RPG.

#3 Zone of the Enders: the second runner

Hideo Kojima ha realizzato una saga – ahimè dimenticata – denominata Zone of the Enders. Le intro sono ricercate, con molta importanza data alla regia e alla musica, ed è con The second runner che si raggiunge l’eccellenza. L’intro, della durata di quasi 8 minuti, colpisce come detto per le scelte registiche, che ricordano molto le cutscene in Metal Gear mescolando sapientemente sequenze realizzate col motore di gioco e sequenze animate dando un tocco di originalità al tutto. Altro punto di forza è Beyond the Bounds, il tema musicale del gioco, realizzato da Maki Kirioka e interpretato da Maki Kimura influenzata dalla lingua e dallo stile finlandese.

#2 Mass Effect 2

In questa prima parte di Mass Effect 2 vengono introdotti immediatamente i nuovi antagonisti, i Collettori, i quali a bordo della loro nave distruggono la Normandy, regalandoci scorci mozzafiato. Il gesto eroico di Shepard nel salvare Joker sembra normale routine ma capisci che qualcosa non quadra quando lo vediamo precipitare, soffocare e probabilmente bruciato vivo con l’attrito dell’atmosfera. Fortunatamente la storia continuerà sviluppando ottimi presupposti.

#1 Bioshock

Capolavoro indiscusso sotto tanti punti di vista, Bioshock rapisce già dopo i primi secondi: si comincia dalle uniche parole pronunciate dal protagonista e dall’inabissarsi dell’aereo sul quale viaggiava, per poi trovare rifugio all’interno di un faro in mezzo al nulla. Sin dalle prime parole del discorso di Andrew Ryan, cominciano i brividi: si viene rapiti dal carisma di un personaggio ormai storico, e dalle sue motivazioni nel costruire Rapture, la città in fondo all’oceano libera da politica, religione ed etica. Tutto ci spinge a capire cosa è successo e, una volta avuta risposta, si avrà una nuova consapevolezza nel riguardare questa intro.




Perception

«Quando si è ciechi si imparano un paio di cose sulla fiducia». Cassie lo sa sin da bambina, e con questa frase ha inizio il rapidissimo racconto che dall’infanzia di Phoenix, Arizona, ci porta al giorno della sua partenza alla volta di Gloucester, nel Massachusetts.
È lì che si trova, infatti, la villa che ricorre nei frequenti incubi che non le danno pace negli ultimi mesi, ed è proprio dal vialetto della fantasmatica e antica magione di Echo Bluff che ha inizio l’avventura della nostra protagonista, animata da un unico, irrefrenabile imperativo: «I need to do this».

«Looking on darkness, which the blind do see»

Cassie varca la soglia della dimora in cui è interamente ambientato Perception impugnando l’unica arma di cui dispone, un bastone con il quale ha imparato fin da piccola a “vedere” il mondo attorno a sé. La sua vista si compone di un tratteggiarsi di linee chiare sullo sfondo di tenebra dei suoi occhi, nel quale le forme si delineano a ogni vergata e a ogni rumore di passi. La nostra protagonista ha imparato fin da piccola a distinguere gli oggetti e gli spazi in relazione al suono prodotto, facendo del proprio bastone un sonar e dell’udito il suo senso principale.
Esploreremo dunque la casa in prima persona «osservando l’oscurità che i ciechi vedono» e cercando di capire la composizione delle stanze in un percorso che ci porterà a ricostruire le storie sepolte tra le mura della casa, che apprenderemo sotto forma di audiolognote e documenti. Ed ecco che qui subentra il secondo strumento a disposizione di Cassie, lo smartphone, grazie al quale riusciremo a conoscere il contenuto di ogni testo trovato in giro.
Da buona figlia del suo (nostro) tempo, Cassie ha infatti a disposizione le app che servono a facilitarle la vita quotidiana, e che diventano fondamentali per poter ricostruire la storia celata nella villa di Echo Buff: il Delphi, app “text-to-speech” per mezzo della quale avremo la lettura di un testo dopo averlo fotografato, e il servizio “Friendly Eyes“, nel quale un operatore verrà in nostro soccorso nei casi in cui per Delphi sia impossibile la lettura, “prestandoci” i suoi occhi e descrivendoci ciò di fronte a cui ci troviamo.

Presenze

«Lottare è sempre stata, più o meno, una forma di cecità»
(José Saramago, Cecità)

Armati di smartphone e bastone vagheremo, dunque, tra stanze e storie che porteranno Cassie alla rivelazione di atroci verità, ma non saremo soli: la casa, in apparenza disabitata, è in realtà infestata da una misteriosa entità chiamata “La Presenza” alla quale il nostro curiosare non piacerà affatto, e dalla quale dovremo fuggire per evitare il game over.
Il gameplay di Perception è sostanzialmente tutto qui: divisa in quattro atti, la trama si dipana in un percorso nel quale andremo avanti per obiettivi e ascolteremo tutti i documenti che ci permetteranno di ricomporre l’intero puzzle della storia mentre stiamo attenti a non farci catturare dalla Presenza.
In assenza di una scelta tra livelli di difficoltà, l’unica selezione possibile all’inizio sarà fra “Chatty Cassie” (“Cassie chiacchierona”) e “Silent Night” (“Notte silenziosa”), modalità, quest’ultima, scremata da molte spiegazioni inerenti il plot, nella quale trovano spazio prettamente le linee di testo utili ad andare avanti nel gioco.
Il consiglio è quello di scegliere senz’altro la prima modalità, sia per non perdersi una storia per molti versi interessante, sia perché molto del resto del titolo lascia a desiderare. Pur prendendo, infatti, le mosse da un concept indubbiamente affascinante e in gran parte originale, Perception mostra i propri evidenti limiti proprio sul piano del gameplay. Il titolo di The Deep End Games è un survival horror in prima persona che richiama lavori come Amnesia e Outlast, con un’impostazione da walking simulator e una ricostruzione a ritroso dei tragici accadimenti degli abitanti della casa che ricorda il recente What Remains of Edith Finch. Pur non raggiungendo lo spessore del titolo di Giant Sparrow, l’impianto narrativo risulta comunque molto godibile, nel pieno rispetto della tradizione del genere; sul piano della giocabilità, invece, quel che penalizza Perception è, da un lato, la presenza di meccaniche ripetitive e poco avvincenti, ma soprattutto, dall’altro, la mancanza di un basamento di vera tensione, la quale va scemando con l’abituarsi ai routinari meccanismi che caratterizzano il gameplay.
Il titolo inizia bene, specie se giocato in cuffia e con la giusta atmosfera: ci si sente isolati, indifesi nell’oscurità e insicuri del fatto di poter sfuggire all’imprevedibilità della Presenza, la quale potrebbe coglierci impreparati in ogni momento e in ogni stanza. Col progredire del gioco si prendono però ben presto le misure e ci si accorge che, in realtà, La Presenza non è poi così presente: si capisce ben presto che è infatti difficile che questa si manifesti (se non in determinati punti del gioco o solo in seguito a una dose massiccia di rumore) e, anche in questo caso, sfuggirle non risulta particolarmente problematico, grazie anche ai numerosi nascondigli piazzati nelle varie stanze. Insomma, alla lunga vengono a mancare livelli di imprevedibilità e di rischio che, in titoli del genere, diventano il sale della sfida (e chi ha giocato a titoli come Clock Tower Haunting Ground questo lo sa bene).
C’è da aggiungere che Cassie possiede un’altra skill, un Sesto Senso che le permette ogni volta di sapere verso quale obiettivo andare, facilitando non poco il nostro compito all’interno della casa e risparmiandoci molta fatica sul piano esplorativo, a meno che non si abbia l’intento di trovare tutti gli audiolog e i documenti utili a ricostruire l’intera storia (approccio, ripeto, caldamente consigliato a chi voglia godere dei contenuti).
Concettualmente l’operazione di Perception potrebbe ricordare Beyond Eyes, adventure game in terza persona nel quale si vestono i panni di una ragazzina immersa in una bianca cecità che ricorda quella di Saramago e che crea attorno a sé un mondo a colori col progredire del gioco, mentre qui l’effetto del bastone di Cassie richiama molto più quello di Scanner Sombre, nel quale si cammina in ambienti totalmente bui nei quali gli oggetti si ergono nei loro contorni tramite uno scanner atto a rilevarli.

Tutti i colori del buio

«La capacità sensoriale del cieco dotato di qualche residuo di vista può essere, di volta in volta, magica e inquietante. Non hai niente davanti, niente alle spalle; ed ecco emergere dalla nebbia un’ombra di forma umana: quanto è incantevole e tremenda! È una visione folle e sacra, l’ininterrotto apparire e scomparire del mondo fisico» (Stephen Kuusisto, Tutti i colori del buio)

A causa di tutti questi accorgimenti, il gioco globalmente non sembra restituirci con efficacia l’esperienza della cecità, la quale sembra a tratti un mero pretesto.
Dobbiamo dunque abbandonarci alla sospensione dell’incredulità e goderci un comparto grafico di certo perfettibile, ma la cui resa è comunque suggestiva, tra onde sonore di radio e giradischi, bambole in movimento, fasci di luce esterna che intuiamo dallo sferzare del vento fino ad alcune scoperte inaspettate in cui incapperemo nel nostro oscuro tour. Sullo schermo nero i contorni si tingono di azzurro, «il colore dello zucchero, delle zebre e delle zanzare», mutuando le parole del cieco protagonista di Almost Blue; ma in realtà i colori cambiano in prossimità della Presenza, tingendo la vista di giallo quando questa si trova nelle vicinanze, gradandosi di arancione intenso e infine di rosso con il suo progressivo avvicinarsi, rappresentando così il livello di tensione di Cassie.
Suono e visione hanno dunque una stretta correlazione ma, se la grafica ci offre dei risultati gradevoli e di una certa suggestione, lo stesso non può dirsi del comparto sonoro che dà del suo meglio in alcuni jumpscare (affidati praticamente solo all’architettura sonora) ma risulta nel complesso poco curato, al punto che la trasposizione visiva del suono diventa più importante del sonoro stesso, il quale dovrebbe essere invece il fondamento dell’intero gameplay, essendo la fonte della vista di Cassie e l’elemento di maggior suspense del titolo. Quel che davvero manca è il bilanciamento tra le parti: perseguendo l’intento di offrire al giocatore una maggior possibilità visiva, si penalizzano tutte le potenzialità che un audio design ben congegnato avrebbe potuto offrire, allontanando il giocatore da un’autentica esperienza di cecità in un contesto orrorifico. Ciò che Perception ha di ammaliante perde il proprio fascino e la propria potenza evocativa dopo circa mezz’ora di gioco, quando la casa comincia a essere percepita come un luogo “da ricostruire” piuttosto che come uno spazio reale da tirar fuori dal fondo pozzo dell’ignoto, sensazione ulteriormente accentuata dalla luminescenza degli obiettivi che possiamo mettere letteralmente in luce ogni volta tramite un sesto senso che trova poca giustificazione.

Percezioni

«Ora che ho perso la vista, ci vedo di più»
(Alfredo in Nuovo Cinema Paradiso)

Sviluppato da una parte di quel team di Irrational Games che ha lavorato su BioShockPerception nasce da un’idea originale e suggestiva che ha permesso allo sviluppatore di raccogliere più di 150.000 dollari su Kickstarter. Il titolo doveva uscire nel giugno del 2016, ha subito un ritardo di quasi un anno e in questi casi si spera che più tempo si traduca in migliori risultati, ma evidentemente non è bastato.
Il gioco mette davvero in atto uno spreco di tanto buon potenziale, considerando che alla base vi è un impianto narrativo ben congegnato, un buon doppiaggio e anche un meccanismo di ecolocalizzazione globalmente ben architettato.
Ma ci si ferma lì: il resto si perde nella routine che porta ciclicamente il giocatore a camminare, toccare, prendere un oggetto, ascoltare un ricordo, attivare il sesto senso, andare avanti e poi ripetere tutto da capo, con qualche intermezzo da brivido offerto dall’avvento della Presenza e qualche piccolo jumpscare. Troppo poco sul piano della suspense, troppo poco in termini di sfida per un survival horror di questo genere, e i contenuti non sono buoni abbastanza da compensare, non raggiungendo questi uno spessore autoriale ed essendo rimaste inespresse anche alcune intuizioni sulle quali sarebbe stato interessante lavorare, come quella di creare un racconto leggendario attorno alla proprietà di Echo Bluff, idea nata e morta nei 5 minuti di un singolo mockumentary che avrebbe potuto invece costituire la base di una serie di storie, creepypasta e leggende urbane sulle quali costruire un’aura di mistero tra finzione e realtà attorno alla villa. Un peccato anche per Cassie, personaggio ben costruito del quale emergono personalità e carattere e che quindi avrebbe meritato un altro sviluppo, mentre qui si limita a quasi a subire il fluire degli eventi e al mero ascolto delle singole storie.
Ad aggravare un quadro retto dunque quasi esclusivamente da una linea narrativa ben curata e da una grafica comunque accattivante sono inoltre i non pochi bug e glitch presenti nel titolo, alcuni dei quali bloccano di fatto l’avanzamento del giocatore, costringendo a ripartire dall’ultimo checkpoint (che per fortuna è quasi sempre abbastanza vicino): nella versione per PS4 che abbiamo giocato, mi sono ritrovato in una stanza dalla quale era impossibile uscire a causa di un dislivello nel pavimento che coinvolgeva tutta la mobilia attorno, insensatamente sollevata da terra (e no, non era un effetto di telecinesi spiritica).
Anche la traduzione italiana sembra essere figlia di una certa fretta e di approssimazione, non solo per l’evidente mancanza di cura della trasposizione nella nostra lingua, ma perché non di rado i sottotitoli italiani si alternano a quelli inglesi o addirittura si ritrovano intere sequenze in cui la voce scorre senza essere accompagnata da alcuna didascalia. Il linguaggio non è così complesso da non essere inteso da chi mastichi un po’ di inglese, ma qualunque backer nostrano che ha contribuito al finanziamento dell’opera avrebbe ragione di arrabbiarsi.
Titolo dedicato «a chi sia stato incompreso, mal giudicato, sottovalutato, a tutti quelli che non sarebbero mai riusciti a far qualcosa» e in parte ispirato a una storia vera accaduta alla fine del XVII secolo, Perception rappresenta una grossa occasione mancata, tradendo ottime premesse dal punto di vista del concept e della storia e rivelandosi un gioco certamente godibile ma globalmente privo di spessore, povero di sfida e mal congegnato dal punto di vista del gameplay, in un genere – quello del survival horror – che offre oggi omologhi ben più degni d’attenzione.