GamePodcast #9 – Dalla quarantena, all’E3 fino a Ori and the Will of the Wisp

Inizia una nuova stagione, in questo nuovo e strano anno. Nella puntata di oggi:
– I nostri consigli per passare la quarantena all’insegna del gaming;
– La rubrica di Gero Micciché (Gameloft): GameJam e Covid 19 – The Final Disease;
– E3 cancellato: è la morte delle conferenze così come le conosciamo?;
– Recensione di Ori and the Will of the Wisp.
Tutto questo in compagnia di Marcello Ribuffo, Gabriele Sciarratta e Dario Gangi e Andrea Celauro.
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Fallout di nome e di fatto

La caduta della società per colpa di una qualche guerra nucleare (o “nuculare” se gradite) venuta dal nulla, è stato l’incubo del mondo sin da quando il Giappone ha visto che danni poteva provocare la fissione dell’atomo. Col passare degli anni e della tecnologia il terrore ha toccato vette di un certo rilievo: la Guerra Fredda e l’Orologio dellapocalisse (Doomsday Clock) sembravano sancire quel fall-out che tutti ormai davano per scontato ma capace di ispirare autori di opere di varia natura come Kubrick e il suo Il dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba sino, alla serie protagonista di questo articolo. Fallout, franchise nato a fine anni ’90, è passato attraverso innumerevoli cambiamenti – riusciti o meno – muovendo il pubblico come solo pochi titoli riescono a fare. Questo non è un articolo incentrato su un excursus storico ma cercheremo di capire come qualcosa che sembrava un’ovvia evoluzione si sia trasformata in una tragedia videoludica a tratti esilarante.

L’erba del vicino

Il primo cambiamento evidente accadde nel 2008, anno in cui Fallout 3 scosse il mondo proponendo un open world vasto, ricco di NPC e con una direzione artistica che riprendeva sì lo stile dei predecessori ma esaltato ulteriormente dalle nuove tecnologie. E funzionò. Nonostante le critiche di qualche estimatore della serie originale, il terzo capitolo diede modo a Bethesda di saggiare i frutti della felicità offerta dal pubblico. Fallout 3 è stato un titolo importantissimo sotto tanti punti di vista: un mondo così vasto e aperto era il realizzarsi di un sogno per molti videogiocatori che, in qualche modo, non fecero caso agli eccessivi bug presenti nel gioco. Come tradizione infatti, la creazione dell’open world non è stato semplicissimo e già dal terzo capitolo le cose non sembravano andar bene. Del resto era una delle prime volte che qualcosa del genere saltava fuori e se abbiamo gli attuali open world lo dobbiamo anche a questo titolo.
Eppure, il migliore della serie è uno spin-off. Fallout: New Vegas, tra le mani di Obsidian, divenne qualcosa di estremamente complesso in cui la narrazione venne direttamente influenzata da nuove idee, racchiuse in una sola parola: libertà. Il nuovo Fallout era in grado di esaltare la capacità di immedesimazione del videogiocatore, empatizzando per una o per l’altra fazione presenti, tutte con l’intento di conquistare le ultime tecnologie funzionanti dopo l’olocausto nucleare. L’NRC (la Repubblica della Nuova California), la Legione di Caesar, i Great Khan e le altre erano uno sguardo diverso della società, chiamando il giocatore al ragionamento politico e soprattutto alle conseguenza della vittoria di una o dell’altra fazione. Fallout: New Vegas riesce a mettere nella stessa stanza l’imperialismo dell’Antica Roma, il capitalismo moderno dell’RNC, la dittatura del Sign. House, Oligarchia e sopratutto l’Anarchia, modelli di governo diversi ma ben raccontati, approfonditi sia per tematiche che ideologie. Inutile dire come la scelta finale dell’RNC sia la più saggia e forse la più ovvia una volta scoperto che questa è l’unica a possedere un reale governo, mezzi e strutture in grado di garantire un futuro per gli abitanti del Mojave. Ma tutti gli NPC hanno qualcosa da raccontare e tutta la regione ha qualcosa da insegnare.
Questo picco però, non è proseguito con il quarto capitolo ufficiale che, benché sia stato un buon titolo, in qualche modo non scaldò i cuori dei fan. In Fallout 4, qualcosa cominciava a scricchiolare, a fronte di un comparto tecnico e ludico che poco si scostava dai predecessori. E poi i bug, glitch di varia natura, crash improvvisi…insomma, il marchio di fabbrica.
Ma perché si finisce a parlare di questo? Perché ha segnato la morte di Fallout 76, senza girarci intorno.

Vita e morte di un gioco qualunque

Perché è successo? Perché Fallout 76 non è riuscito ad avere quel successo che, in fin dei conti, sembrava scontato? Fallout è proprio una delle poche serie che si presta all’MMO: tanti personaggi, personalizzazione, esplorazione, cooperazione e così via. Tutto sembrava perfetto, tutto geniale, con in più la possibilità di lanciare testate nucleari sul territorio, cambiandone per sempre la fisionomia. Allora cosa è andato storto? Avete presente quando alcuni videogiocatori o presunti tali, indicano la non importanza del comparto tecnico, volgarmente definito “grafica”? Ecco, questo è il punto (Google presta attenzione che interessa pure te). Per quanto, l’idea sulla carta sia stata a prova di bomba H, deve esserci un’infrastruttura dietro in grado di sostenerla e il Creation Engine, motore degli ultimi due titoli, semplicemente, non ce la fa. Nato nel 2011 – già vecchio – il Creation Engine è sicuramente un motore grafico versatile ma capace di gestire solo in parte tutto il ben di dio all’interno del mondo di gioco. Come citato in un articolo precedente, un open world non è altro che una “bomba alla legge di Murphy” pronta a esplodere, e serve qualcosa di affidabile in partenza. La domanda è una sola: perché non sviluppare un motore apposito per Fallout 76? Proprio Todd Howard, game director Bethesda, intervistato al Pax East lo scorso Marzo, ha vuotato il sacco, affermando come lo sviluppo del titolo sia stato molto complicato, tragico in certi aspetti. Ben quattro team sono al lavoro sul gioco e, a dir la verità, si è cercato in tutti i modi di porre rimedio alle magagne viste finora, lanciando upgrade gratuiti che hanno sicuramente migliorato ogni aspetto del titolo. Ma oltre la mera tecnica, inspiegabili scelte di design ne hanno ulteriormente sancito la fine. Il fulcro di Fallout è praticamente assente: cittadine, NPC, narrazione diretta (presente solo su terminali e postille) oltre a un evidente riciclo di vari elementi presi di peso dai titoli precedenti… e non solo.
Eppure, se solo si fosse stati un po’ più cauti e lungimiranti, molti dei problemi al lancio non sarebbero accaduti, semplicemente posticipandolo. Meglio un ritardo che il linciaggio no?
Fallout 76 è però qualcosa di importante: ha sancito una volta per tutte l’importanza dell’infrastruttura alle spalle di un titolo ma soprattutto, l’esigenza di un pubblico sempre più informato e critico; un insegnamento che molti danno per scontato ma che alle volte viene dimenticato. A questo punto Fallout 5 cosa sarà? Probabilmente prenderà piede dal nuovo The Elder Scrolls VI sulla base di un Creation Engine ulteriormente aggiornato (purtroppo) ma siamo sicuri, che Todd Howard e Co. in qualche modo, abbiano imparato la lezione.




La creazione di un Open World

Con l’avanzare delle tecnologie, la creazione di nuovi interi mondi digitali in ambito videoludico è divenuta realtà. Dai primi esponenti del genere Open World a oggi l’evoluzione è stata enorme, sino ad arrivare ai recenti Assassin’s Creed: Odyssey, Red Dead Redemption II e Cyberpunk 2077. L’immersione del videogiocatore in un contesto credibile non è solo l’obbiettivo principale: intrattenere, prolungare la durata del titolo e sopratutto restituire un senso di crescita e libero arbitrio, sono tra le componenti più difficili da bilanciare anche perché, questi titoli, possono viaggiare su un limbo molto sottile, dividendosi tra il divertimento e la noia. Come nasce dunque un Open Word e come si sviluppa sino alla sua pubblicazione non è noto a tutti, e oggi cercheremo di raccontarlo. Si tratta di uno dei generi di più complessa elaborazione in assoluto, in poche parole, una “bomba alla legge di Murphy” pronta a esplodere.

Il Mondo in uno Schermo

Sembra incredibile ma gli open world conoscono un proprio Medioevo: più di dieci anni fa infatti, titoli come Beyond Good & Evil, Gran Theft Auto III e Far Cry, si attestavano già su buoni livelli se paragonati alle macchine su cui dovevano girare. Ma a un certo punto, gli open world cominciarono a sparire, in favore di avventure più lineari e, di conseguenza, più “semplici” da produrre. Chiedete al pubblico il perché di questa scelta: fatto sta che l’evoluzione di questa tipologia di videogame subì un drastico rallentamento e per questo l’avvento di saghe come Assassin’s Creed, dopo anni di “buio”, fu una vera e propria rivoluzione, che contribuì a rendere la categoria così come la conosciamo ora. Con l’avvento delle console di attuale e precedente generazione le cose cominciarono a farsi interessanti, arrivando a quel The Witcher III divenuto pietra miliare e nuovo metro di paragone del genere, almeno fino a oggi.
La creazione di un Open World varia a seconda dell’obiettivo finale, racchiudendosi in due macro universi: quelli basati sul mondo reale e quelli fittizi. Entrambi sono uniti dalla gigantesca mole di lavoro necessaria a produrli, che non si limita alla creazione del mondo in sé ma, sopratutto, al bilanciamento generale, al fine di restituire il giusto senso di progressione.
I primi si basano su rilevamenti sul campo, al fine di ricreare nella maniera più dettagliata possibile strade, palazzi, piazze che potremmo vedere dal vivo; ovviamente tutto in scala. Esempi di questo tipo ne abbiamo a bizzeffe come ad esempio il dimenticato The Gateway (2002) in grado di riprodurre una piccola Londra su Playstation 2, passando ovviamente per gli Assassin’s Creed fino ai giorni nostri, dove i rilievi effettuati, soprattutto nella planimetria delle città e dei luoghi storici raggiunge livelli sopraffini. Ma c’è chi ha fatto di più e sempre in casa Ubisoft: The Crew, racing arcade immerso negli interi Stati Uniti. Era possibile letteralmente viaggiare da New York a Los Angeles, (impiegando circa tre ore; niente male) e visitare non solo le maggiori città americane ma anche i piccoli centri e luoghi più famosi dei coloni di tutto il mondo. Creare degli ambienti reali ha la propria dose di responsabilità e, essendo il videogioco un’opera globale, è possibile incappare in qualche imprevisto, come la scelta di censurare statue patrimonio dell’umanità, per evitare di urtare la sensibilità di qualcuno (vedi Assassin’s Creed: Origins). E per chi crea un mondo da zero? La difficoltà viene decuplicata, non tanto per la realizzazione tecnica quantoper quella artistica: anche se fittizio, un mondo possiede delle sue regole, e far sì che l’ambiente di gioco sia coerente con se stesso è la prima regola da rispettare. Del resto abbiamo visto come in The Elder Scrolls V: Skyrim e Fallout 3 tutto questo è estremamente rilevante in quanto, il contesto visivo è la chiave di volta per far sì che la narrazione possa attecchire su solide basi. Questo perché alle volte, un open world può essere anche un pretesto, “mascherando” la poca qualità della trama con la frammentazione della stessa in varie quest, principali e non o, ancora peggio, non sfruttando l’ambiente e il contesto creato. Assassin’s Creed è sempre un franchise da cui è possibile trarre numerosi spunti e anche in questo caso ci accontenta: Unity è stato un disastro per tanti motivi, ma sopratutto perché il suo svolgimento sembra del tutto slegato dalla Parigi rivoluzionaria di fine 1700. Immergere un videogiocatore in un contesto visivo credibile è la base su cui si poggia un open world in tutte le sue declinazioni, una sorta di regola scrittore-lettore che, una volta infranta, riduce di molto l’appeal verso il titolo interessato.

Faccio cose, vedo gente

Dopo aver modellato un nuovo mondo come novelle divinità, arriva la parte più complicata, riassunta nella domanda “e mo’ che ci metto?”. È chiaro che questo processo arriva dopo centinaia di ore di brainstormig, storyboard, idee azzeccate e sbagliate fino a quando si arriva alle decisioni finali. In questo frangente molto dipende dal tipo di videogioco creato che può andare da FPS, TPS, Racing, RPG e persino spaziale. In un racing game, ad esempio, come l’eccellente Forza Horizon 4, il focus, oltre ad andare alla realizzazione dei modelli delle auto, è indirizzato a rendere l’intero ambiente di gioco abbastanza vario da poterne definire diverse regioni, enfatizzandone magari differenze di flora, fauna e clima, oltre a cercare di restituire il giusto colpo d’occhio nelle grandi città. In questo caso, il numero di NPC presenti ad esempio ha una limitata rilevanza così come, elementi di contorno che poco hanno a che fare con le corse sfrenate a bordo di bolidi.  Tutt’altra storia con open world con componente narrativa ed esplorativa come Assassin’s Creed: Odyssey e Red Dead Redemption II, anche se con approcci diametralmente opposti. Entrambi però sembrano aver risolto un problema intrinseco presente in mappe molto vaste: il vuoto. È capitato, in diversi frangenti, che vastità non fa rima con divertimento, presentando zone senza elementi particolari tra altre che esplodevano di vita. Questo equilibrio spezzato, visibile anche nell’acclamato The Legend of Zelda: Breath to the Wild (ma non preoccupatevi, verrà elogiato successivamente), è stato il tallone d’Achille di quasi tutti gli open world ma fortunatamente, grazie forse a macchine più performanti (o magari una maggiore attenzione), questo problema sembra essere risolto: quest, zone intere da esplorare, segreti o semplici scorci mozzafiato, sono la cura di questo male, ma che Rockstar al contrario di Ubisoft, è riuscita a plasmare nella maniera più naturale possibile.
Ma esistono titoli che fanno degli ambienti ricreati il loro punto di forza: Dark Souls vanta una direzione artistica che difficilmente è riscontrabile in altri titoli, con una cura maniacale necessaria, perché è proprio la mappa che ci parla. Questa, visibile quasi interamente da ogni dove e benché non sia un open world in senso stretto, è utile a capire quanto sia importante inserire elementi corretti, coerenti e soprattutto in grado di risaltare agli occhi del videogiocatore.
Quello che colpisce nel titolo Nintendo e Rockstar precedentemente citati è la capacità di reinventarsi, cercando di portare qualcosa di nuovo. Link è immerso in un mondo sconosciuto e libero da vincoli dettati da missioni in sequenza da svolgere per portare al termine il titolo. Siamo vicini alla pura libertà d’azione in cui, il progresso avviene in maniera del tutto naturale, un’approccio molto diverso dai rivali, probabilmente anche per limitazioni hardware; ma non basta fare di necessità virtù: bisogna saperlo fare. Il team di sviluppo è riuscito a portarci tra le mani un’avventura genuina, una scelta che è stata ben premiata durante tutto il corso del 2017. Ma con Red Dead Redemption si è andati oltre, e sicuramente piccolo anticipo di quel che vedremo nei prossimi anni: un mondo vivo, in costante evoluzione e mai uguale a sé stesso; l’evoluzione, visibile sia negli ambienti che fra i personaggi giocanti e non, è un elogio alla cura per il dettaglio, spiegando anche i circa dieci anni di sviluppo. Ed è proprio questo il punto: l’open world è qualcosa di mastodontico e serve il giusto tempo per poter portare qualcosa di innovativo e curato in ogni dettaglio; ma ne vale la pena? In un mercato frenetico come quello di oggi, con questa moda che sembra più prendere il largo, non c’è il rischio del copia-incolla? Sì, e lo vediamo in continuazione. Eppure, basta variare l’intento con cui si crea un mondo aperto: Avalanche Studios, ad esempio, è maestra in questo e il suo Just Cause è una festa per gli occhi. La libertà concessa al giocatore (ben diversa da quella di Link) è in qualche modo indirizzata verso la spettacolarizzazione, rendendo di fatto questo titolo uno dei più divertenti e intrattenti sul mercato. Inoltre, anche il futuro Rage 2 potrà contare su una vasta mappa che metterà assieme il contesto esagerato di id Software con la cura per gli ambienti di Avalanche.
Il contesto è e resterà sempre fondamentale: creare un mondo credibile in tutti i suoi aspetti la regola d’oro per chi vuole cimentarsi in questa faticosa missione. Ma poi c’è la tecnica e, come Bethesda insegna, basta poco per distruggere tutto.

L’abito fa il monaco

Il bello della tecnologia è che ogni anno c’è sempre qualcosa di nuovo. Quello che un tempo era impensabile a un certo punto diventa possibile ma l’insidia è sempre dietro l’angolo. I moderni open world sono molto complessi anche dal punto di vista tecnico, dove si cerca di mettere assieme diverse simulazioni nella maniera più omogenea possibile. Una delle più grandi innovazioni l’ha introdotta Ubisoft con il suo Sea Engine, apparso in Assassin’s Creed III e ulteriormente potenziato in Assassin’s Creed IV: Black Flag: l’utilizzo di diverse equazioni sulla fisica dell’acqua, ha permesso un’attenta simulazione delle onde, cosa essenziale quando oltre al suolo, è possibile esplorare anche gli oceani. Da questo punto di vista le ultime produzioni dedicate agli Assassini, sono davvero eccellenti, mostrando mondi così diversi come quello acqueo e terrestre in tutta la loro complessità. Negli ultimi anni ha fatto anche capolino la simulazione del clima, passando da caldo afoso a intense nevicate, in grado tra l’altro di influenzare il gameplay. Anche questo processo è estremamente delicato: gestire centinaia di elementi diversi nello stesso momento può risultare davvero arduo e solo con le recenti macchine si è riusciti a raggiungere ottimi risultati. Questo perché è tutto l’ambiente a risentire del cambiamento: prendiamo ad esempio la pioggia; ogni goccia è indipendente l’una dall’altra e, ognuna di esse, viene influenzata dall’ambiente circostante dunque, già di per sé, molto complesso. Se aggiungiamo anche la simulazione dei venti o la gestione di elementi volumetrici come nebbia o fumo, il rischio del patatrac è dietro l’angolo. Per non parlare di come le superfici, una volta bagnate, debbano riflettere ancora più luce e di conseguenza ambiente circostante, appesantendo ancor di più il tutto. Ma per rendere veramente reale l’ambiente in cui ci muoviamo, devono intervenire le luci, che stanno pian piano passando da un’illuminazione globale al ray tracing. L’illuminazione globale è stata croce e delizia per ogni sviluppatore, che ha permesso sì una buona approssimazione nella simulazione dei fasci di luce ma molto distante dalla realtà. Funzionando in stretta relazione con gli shader, questo sistema riproduce centinaia di fasci di luce multi-direzionali, influenzando anche le ombre e le rifrazioni. Niente male, ma il ray tracing? Non abbiamo ancora visto la sua applicazione su larga scala ma le potenzialità sono sotto gli occhi di tutti. I prossimi open world potrebbero contare su un rivoluzionario sistema di illuminazione, trasformando gli odierni Odyssey o Marvel’s Spider-Man, in oggetti da antiquariato. Ma tutto questo ben di dio richiederà macchine ancor più performanti delle attuali GPU, visto la fatica con cui la GTX 2080 riesce a gestire tutto ciò, solo con anti aliasing DLSS.
A meno che non si tratti di post apocalittici come Fallout o Rage, anche la vegetazione ha il suo bel da fare, a dimostrazione di come un’innovazione tecnica possa influire sul gameplay. Il caso eclatante arriva sempre da Assassin’s Creed, che con un maggior dettaglio del fogliame 3D dinamico è riuscita ad aggiungere alcune meccaniche stealth anche in mancanza di architetture. E non dimentichiamo le animazioni: ci vorrebbe un articolo a parte per parlare di quanto sia difficile gestire animazioni uniche in base al contesto, non solo per il personaggio che controlliamo ma per tutti gli NPC presenti su schermo. Non siamo ancora al punto di avere personaggi non giocanti unici, avendo a che fare molte volte con la ripetizione esasperata dei diversi modelli (vedi We Happy Few). Proprio le animazioni, unite alla gestione della fisica, sono le vere gatte da pelare e serve un ottimo lavoro di pulizia dei vari codici affinché non avvenga il disastro. Come dicevamo, Bethesda è ormai habitué in questi termini, contando su un motore di gioco (Creation Engine) targato 2011 e già imperfetto alla sua nascita. La buona norma, sarebbe quella di creare un nuovo motore di zecca a ogni passaggio di generazione piuttosto che aggiornare il precedente perché, a ogni riscrittura, possono generarsi conflitti che se presi sottogamba, possono rovinare l’intera esperienza.

In sostanza, questi sono i parametri da tener d’occhio nella creazione di un open world: tutto deve funzionare in perfetta armonia affinché il giocatore possa sentirsi integrato all’interno di nuovo mondo. La creazione della mappa è solo la punta dell’iceberg di un immenso lavoro e magari, ora che state giocando uno di questi titoli, soffermatevi davanti a una roccia o un cespuglio, chiedetevi perché si trovi lì e il tempo necessario alla sua modellazione. Poi alzate lo sguardo verso l’orizzonte: vi accorgerete di quanto ogni programmatore e artista abbia faticato per permettervi di godervi sane ore di svago.




Top 5: Novembre 2018

La fine di questo 2018 videoludico è ormai vicina e il mese di Novembre ci ha regalato alcuni dei titoli più importanti di tutta l’annata. Andiamo a vedere quali.

#5 Fallout 76

Il titolo Bethesda era uno dei più attesi dell’anno: dopo la pubblicazione di The Elder Scrolls Online gli sviluppatori americani si lanciano nel loro primo MMORPG, un prequel narrativo ambientato nel 2102, venticinque anni dopo la guerra nucleare che ha devastato il mondo. Noi impersoneremo un abitante del Vault 76 atto a riconolonizzare il territorio. Attualmente il titolo soffre di qualche problema con i server e probabilmente ingranerà dopo qualche patch correttiva e un po’ di mesi di rodaggio, quindi è da considerare come un investimento a lungo termine.

#4 Football Manager 2019

Nuova interazione per l’amata saga manageriale calcistica di Sports Interactive: quest’anno il team ha voluto cambiare faccia, con una nuova interfaccia grafica e una rinnovata attenzione sul lato tecnico-tattico. Mai come quest’anno sarà fondamentale trovare il giusto assetto e progettare bene la sessione di allenamenti, facendo attenzione a non strafare ed evitare di esser falcidiati dagli infortuni, esattamente come nella realtà. Probabilmente uno dei migliori capitoli della serie, ottimo anche per chi non ne ha mai giocato uno e vorrebbe iniziare ad emulare le gesta di Allegri, Guardiola o Mourinho.

#3 Battlefield V

Il nuovo capitolo del popolare sparatutto di casa DICE fa buon uso delle critiche arrivate nel periodo della beta, regalandoci uno dei migliori titoli della saga: abbandonato il periodo della Prima Guerra Mondiale di Battlefield 1 si ritorna sui campi da battaglia della Seconda Guerra Mondiale, prendendo i punti di forza del predecessore e ampliandoli in un gameplay frenetico e fluido. Battlefield V è anche uno dei primi titoli che sfrutta appieno le potenzialità della serie di schede grafiche RTX di Nvidia con la tecnologia ray tracing, capace di avvicinarci sempre di più al fotorealismo. Manca ancora l’attesa modalità battle royale in arrivo a breve, ma al momento il titolo pubblicato da Electronic Arts ha fatto centro.

#2 Darksiders III

Terzo attesissimo capitolo della saga di Darksiders, il primo dopo il fallimento di THQ e il passaggio a THQ Nordic: questa volta vestiremo i panni di Furia, uno dei quattro cavalieri dell’Apocalisse, atta a distruggere le impersonificazioni dei sette vizi capitali.
Pur mantenendo l’aspetto action-adventure con elementi RPG dei predecessori, Darksiders III aggiunge degli elementi hack and slash e soulslike al mix, rendendo il titolo sviluppato da Gunfire Games un gradito ritorno.

#1 Red Dead Redemption II

Il titolo di Rockstar Games era uno dei più attesi dell’anno e non ha deluso le aspettative: Red Dead Redemption II ci riporta negli impolverati sentieri del Far West, dove impersoneremo Arthur Morgan, leader di una banda di fuorilegge che dovremo gestire e dirigere come ogni buon capo che si rispetti. Ogni nostra mossa avrà un impatto sulle cittadine e sugli NPC che incontreremo lungo l’avventura, siano essi nella storia principale che durante le fasi di free roaming, e sotto questo punto di vista il lavoro di Rockstar è enorme: la già grande base del precedente capitolo viene ampliata a dismisura, restituendo al giocatore un titolo open world vivo e capace di evolversi come poche volte si è visto nella storia dei videogiochi, rendendo Red Dead Redemption II non solo uno dei migliori titoli del 2018, ma probabilmente uno dei migliori degli ultimi anni.




Questo cross-play non s’ha da fare

«Questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai», era la minaccia proferita dai Bravi manzoniani al Don Abbondio de I Promessi Sposi. Il mondo videoludico odierno non poteva farsi mancare il suo Don Rodrigo, che oggi veste i panni di una Sony che mette il veto su un altro matrimonio, quello che sarebbe celebrato dal cross-play tra PC e consoleLe ultime dichiarazioni del CEO della compagnia giapponese, Kenichiro Yoshida, le avete lette in molti, e vale ricordarle per rinfrescarsi la memoria:

«Il nostro pensiero sul cross-platform è sempre che Playstation 4 sia il miglior posto in cui giocare. Credo che Fortnite abbia scelto noi perché la nostra console offre la miglior esperienza possibile agli utenti. Abbiamo comunque altri giochi che sfruttano il cross-play con il PC e altri sistemi, e decidiamo in base a quale sistema offre la miglior esperienza per gli utenti: questo è il nostro modo di intendere il cross-platform.»

In sostanza, le parole di Yoshida suonano un po’ come “guardateci: siamo i migliori e non abbiamo bisogno di nessuno”. Dichiarazioni che vanno in netto contrasto, nei fatti, con tutto ciò che succede nel mondo videoludico odierno, e che sanno anche di leggera paraculata. Soprattutto considerando le lamentele di alcuni sviluppatori, come quelle di Todd Howard, direttore e produttore di alcune delle serie più famose di Bethesda, come The Elder Scrolls e Fallout: a proposito dell’imminente Fallout 76, Howard ha dichiarato:

«Fallout 76 non avrà il supporto del cross-play. Ci piacerebbe, ma semplicemente non possiamo. Sony non è così disponibile come le altre»

Dichiarazioni simili a quelle rilasciate da Andrew Wilson, CEO di Electronic Arts a proposito di Battlefield V:

«Stiamo osservando il comportamento di alcuni giochi di successo, riguardo al gioco cross-platform, per esempio, Fortnite: riteniamo che un’interfaccia unica che permette ai giocatori PC di incontrarsi con gli utenti mobile, e quest’ultimi di poter giocare con gli utenti console sia una parte importantissima del nostro sviluppo per il futuro.»

Sono dello stesso avviso anche Microsoft e Nintendo: ha sorpreso in positivo il video pubblicato qualche mese fa, nel quale si vede un utente Xbox One giocare a Minecraft con un utente Switch. A tal proposito riportiamo le parole di Reggie Fils-Aime, COO di Nintendo of America:

«Ci sono compagnie, come la mia, che incoraggiano e permettono il cross-play. Ci sono degli sviluppatori che vogliono e richiedono il cross-play. Poi ci sono le altre compagnie: e quello che fanno riguarda solamente i possessori di quelle piattaforme. Noi non siamo così, ma è una nostra decisione. Noi siamo a favore del cross-play, altri no.»

In sintesi, al momento la situazione è questa: c’è Sony, barricata tra le sue stesse mura e che rilascia dichiarazioni alquanto discutibili, e poi c’è un intero mondo videoludico che spinge verso un cross-play totale tra tutte le piattaforme.
Secondo un ex sviluppatore della casa giapponese, John Smedley, la ragione della testardaggine di Sony a riguardo del cross-play è tutta da legare al fattore economico. Quasi come se negli uffici di Minato temessero un calo di popolarità e di vendite. Eppure, sotto questo punto di vista, non corrono nessun rischio: Xbox One è lontana, mentre Switch, nonostante un ottimo risultato di vendite, raggiungerebbe la base di PlayStation 4 installate solamente nel 2020.

Personalmente, da utente pienamente a favore del cross-play, spero che Sony riveda il prima possibile le sue posizioni. Penso che si sia incaponita su delle posizioni anacronistiche, visto che tutto il mondo verte verso un futuro dove il cross-play e il cloud gaming saranno la normalità. Quanto sarebbe bello vivere il videogioco senza limitazioni di sorta? E senza mura a dividere le diverse utenze tra console e PC? La console war, con tutta la sua puerilità, verrebbe spazzata via e si aprirebbe, finalmente, un mondo dove tutti i sistemi siano interconnessi tra di loro.
Inoltre, a dirla tutta, se in termini numerici oggi Sony può aver ragione, e avvantaggiarsi di un profitto che a oggi si ridurrebbe (anche se in misura probabilmente marginale), c’è la solita miopia nel non vedere questa come un’opportunità: essere i più forti sul mercato significa anche non avvantaggiarsi totalmente della propria posizione dominante in vista di futuri vantaggi. A concedere il cross-play senza limiti, PlayStation oggi ne guadagnerebbe in immagine, ritornando a essere “For the players“, in linea col motto di PlayStation 4.

Mi piace pensare alle parole di Imagine di John Lennon: «Imagine all the people sharing all the world». D’altronde, il videogioco è questo: condividere una passione e dei bei momenti in compagnia. Quindi, cara Sony, spero che un giorno ti unirai a noi in questo splendido girotondo di gamer che desiderano giocare in ogni luogo, in ogni momento e con qualunque piattaforma possiedano.
Del resto, se non sarai tu, sarà il mercato a volerlo. Per cui, scendi già adesso a giocare con noi!




Gamescom 2018: la ricostruzione è protagonista in Fallout 76

Fallout 76 è in arrivo e tra le sue nuove peculiarità potrà vantare la possibilità di ricostruire le fondamenta dell’America, distrutta dai bombardamenti nucleari. Riprendendo quanto visto in Fallout 4, in 76 sarà possibile sfruttare il C.A.M.P. un dispositivo in grado di costruire armi, oggetti, equipaggiamento e tanto altro, una volta posseduto i materiale necessari. Il meccanismo di costruzione sembra abbastanza semplificato rispetto al capitolo precedente, con anche la possibilità di trasportarlo e costruire nuovi accampamenti altrove.
Fallout 76 arriverà il 14 Novembre su Xbox One, PlayStation 4 e PC ma sulla console Microsoft si avrà la possibilità di giocare la beta con accesso anticipato.




The Elder Scrolls Online: Summerset

The Elder Scrolls, è una delle saghe videoludiche più famose di tutti i tempi. Fiore all’occhiello di Bethesda, vide la luce con il suo primo capitolo nel lontano 1994 con The Elder Scrolls: Arena. Esattamente 20 anni dopo, nel 2014 uscì The Elder Scrolls Online, un MMORPG (massive multiplayer online role play game) ambientato nel territorio di Tamriel, la cui storia si svolge circa 1000 anni prima degli avvenimenti di Skyrim e non è in alcun modo legata agli altri capitoli della saga. Inizialmente il gioco prevedeva una “fee” mensile per poter giocare, come altri titoli presenti nel mercato, basti guardare Final Fantasy XIV di Square Enix o il brand plurimiliardario e sicuramente più famoso di World of Warcraft di Blizzard. Probabilmente a causa dello scarso successo del titolo, successivamente Bethesda decise di abolire l’abbonamento e mantenere solamente il costo per l’acquisto del gioco.

Un territorio in continua espansione

In TES Online, Tamriel sarà quasi completamente esplorabile a differenza degli altri titoli della saga in cui era possibile battere solo una determinata provincia: per esempio in Oblivion, il quarto capitolo della saga, era possibile muoversi all’interno della provincia di Cyrodill, mentre in Skyrim, l’ultimo uscito al momento, si ha la possibilità di esplorare solo l’omonima provincia. Al momento le province e le regioni esplorabili (alcune previo possesso dell’apposito DLC dedicato) sono:

  • High Rock, patria dei Bretoni e provincia capitale del Daggerfall Covenant.
  • Hammerfell, patria dei Redguard ed in seguito anche degli Orchi.
  • Morrowind, patria degli Elfi Scuri.
  • Skyrim, patria dei Nord.
  • Cyrodill, patria degli Imperiali. Dedicata al PvP di massa.
  • Black Marsh, patria degli Argoniani. È formata da foreste tropicali e paludi.
  • Elsweyr, patria dei Khajiiti.
  • Valenwood, patria degli Elfi dei Boschi. Di questa, fa parte anche l’isola di Summerset.
  • Summerset, patri degli Elfi Alti.

Nuovi orizzonti

Proprio su quest’ultima isola, Summerset, concentreremo la nostra attenzione. Recentemente infatti, Bethesda, ha rilasciato l’ultimo aggiornamento per TES Online, dopo Morrowind l’anno scorso. Quest’ultima espansione vede l’apertura di una nuova regione completamente esplorabile (un agglomerato di isole, nonché patria degli Elfi Alti), e l’inserimento del nuovo ordine degli Psijic, entrando a far parte del quale, garantirà nuovi poteri e abilità speciali.
Fondamentalmente nessuna novità è stata apportata al comparto tecnico del gioco, tutto è rimasto invariato, ma questo vuole essere tutt’altro che una nota di demerito, perché la scelta fatta dal team è del tutto lecita e più che motivata: tutto funziona perfettamente già così com’è. Il sistema di combattimento è solido e rodato, così com’è ben sviluppato l’albero delle abilità o il sistema di creazione e incantamento di armi e armature.

Acquistarlo o non acquistarlo?

Probabilmente se vi piacciono gli MMORPG, questo lo troverete uno dei più interessanti degli ultimi tempi. TES Online vi assicura un gameplay rilassato e abbastanza vario anche dopo diverse ore di gioco. Purtroppo manca la localizzazione in italiano del titolo, il che potrebbe rendere frustrante la lettura delle copiose quest che si intraprenderanno nel corso del gioco e che, quasi sicuramente, porteranno i meno ferrati nella comprensione della lingua straniera a cliccare sul tasto “skip” il più delle volte. Ovviamente è da considerarsi una mancanza in luce del fatto che normalmente i giochi prodotti dalla stessa casa sono sempre localizzati in Italiano. Tutto sommato però TES Online, rimane un ottimo titolo, che viene periodicamente aggiornato e espanso, una piccola perla che i veri fan del Lore di The Elder Scrolls non dovrebbero farsi sfuggire.




Giocare a Skyrim su un water intelligente

The Elder Scrolls V: Skyrim, famosissimo gioco di ruolo fantasy rilasciato per la prima volta nel 2011, è ora giocabile sui water, e non “solo” con Nintendo Switch. Incredibilmente i gabinetti saranno in grado di supportare Skyrim: Very Special Edition.
All’inizio di quest’anno, Kohler ha presentato una nuova toilette intelligente, Numi, che offre compatibilità con l’Artificial Intelligence Alexa di Amazon, in grado di eseguire ordini impartiti da comandi vocali, come sollevare il sedile del water o riprodurre musica dai propri altoparlanti incorporati.
Recentemente la nuova tecnologia ha catturato l’attenzione di Reddit, in cui è stato spiegato che, per impostazione predefinita, Numi, attraverso Alexa, è in grado di scaricare e lanciare Skyrim: Very Special Edition, lo spin-off ironico di Bethesda.
Il servizio igienico costa oltre $6000, rendendo questo il modo più costoso di giocare la peggiore versione di Skyrim.
Alexa sta per essere integrata in tutti i tipi di dispositivi, dai frigoriferi alle auto, dai forni alle fotocopiatrici, e di conseguenza, presto si potrà giocare Skyrim praticamente ovunque.




Prey: Mooncrash (DLC) – Abuso di “Vivi, Muori, Ripeti”

Circa un anno fa, Prey tornava sui nostri schermi grazie all’egregio lavoro di Arkane Studios, team che ha confezionato un titolo vario, appagante e soprattutto sorretto da un impianto narrativo di prim’ordine. Del Prey originale, targato 2006 (e piccolo flop commerciale) non è rimasto nulla, e anche questo reboot ha fatto fatica a farsi strada nel combattutissimo mercato videoludico moderno, trovando comunque il favore della critica, che lo ha elevato a uno dei migliori titoli del 2017. Mooncrash è il primo DLC del franchise, concepito in uno stile rouguelike che inaspettatamente ben si sposa con le atmosfere del gioco, e, che risulta soprattutto ben giustificato. Seguirà più avanti Typhon Hunter, espansione che per la prima volta aggiungerà componenti multiplayer a un titolo già strutturato come Prey.

Vivi, muori, ripeti

Dopo aver vestito i panni di Morgan Yu, in questa espansione saremo Peter, un hacker che dovrà fare luce sui misteri della stazione lunare segreta Pytheas, con la quale la TranStar ha perso i contatti. Per risolvere la faccenda, Peter dovrà rivivere gli ultimi momenti di cinque membri dello staff della stazione, attraverso una sorta di realtà virtuale. Vivremo dunque altrettante storie parallele che, se ultimate con successo, riveleranno anche l’epilogo del protagonista. Questa è la base su cui poggia la narrativa del DLC ma, come  Arkane insegna, ci sarà ben molto di più da scoprire, al fine di collegare tutte le tessere del puzzle e fare luce sui misteri della Pytheas.
L’intera stazione lunare è l’hub delle nostre disavventure, abbastanza estesa e varia e con nuovi nemici come lo Squalo Lunare – detto così fa ridere, ma una volta incontrato avrete soltanto voglia di scappare – e nuove armi come le Granate GLOO. All’interno della mappa gli elementi saranno sempre variabili, da posizione e numero dei nemici alla distribuzione e reperibilità di materiali e consumabili.
Ogni run si presta a essere un’esperienza unica ed estremamente appagante con ognuno dei cinque personaggi disponibili; questi vantano a loro volta peculiarità uniche e verranno sbloccati una volta terminata una sessione, oppure saranno “trovati” lungo il percorso. Ognuno di essi avrà inoltre obbiettivi specifici, che innalzano il livello di varietà e longevità dell’espansione.
Ogni potenziamento, disponibile grazie alla valuta di gioco e a nuovi progetti scoperti, potrà renderci vere macchine di morte, ma ovviamente questo non si traduce in invincibilità: l’IA dei nemici sembra imparare dalle nostre azioni, modificando il comportamento e rendendo tutto ancor più difficile. La morte in questa espansione fa semplicemente parte del gioco. La natura roguelike del contenuto si fa sentire senza mai risultare frustrante: se all’inizio la meccanica sembra rispondere a logiche di “trial and error“, basterà entrare in confidenza con le i meccanismi di gioco per essere nuovamente rapiti dallo stile di Prey.
Riguardo al resto, rimane tutto quel che abbiamo imparato a conoscere del titolo principale, dove le fasi di puro shooting non raggiungono l’eccellenza, ma tutto il  resto bilancia bene questa lacuna, aggiungendo anche un nuovo sistema di danni semi-permanenti al protagonista, dal sanguinamento alle fratture, curabili solamente con specifiche soluzioni. Il nuovo sistema trova spazio non solo in questa espansione ma anche nel gioco base, rendendo Prey – soprattutto per chi l’affronta per la prima volta – ancor più profondo e complesso.

Ti porto sulla Luna

Dal punto di vista tecnico, la base lunare Pytheas è un bel vedere, ricca di elementi particolareggiati, ambienti vari e con un ottimo level design. Il CryEngine fa anche qui il suo bel lavoro, inficiato da momenti di “bloodborniana” memoria nelle fasi di caricamento, così lunghe da poter includere potenzialmente un altro DLC al loro interno.
Anche questa espansione vanta un ottimo doppiaggio italiano e un’attenta localizzazione, così come lo è la realizzazione degli effetti sonori.

In conclusione

Prey: Mooncrash rispecchia la voglia di sperimentale del team Arkane che, dopo i Dishonored, continua a essere all’altezza della sua nomea, confermandosi uno degli studios più talentuosi della scena videoludica. Questa espansione è solo la prima parte in vista del Typhon Hunter che porterà grossi cambiamenti all’interno del franchise, magari anche in vista di un eventuale futuro secondo capitolo. Al prezzo di lancio di 19,99€, Mooncrash è un’ottima occasione per riprendere in mano uno dei migliori titoli del 2017: non un semplice compitino, ma un DLC vario, con nuove sfide e capace di intrattenere. Attenderemo i prossimi mesi per verificare l’impatto dato dall’avvento del multiplayer.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




Speciale E3 2018: Conferenza Bethesda

Si è tenuta questa notte con start alle 3:30, la conferenza che ha tenuto incollati alle poltrone, me e il buon Marcello Ribuffo. Si conosceva già gran parte di quello che è stato annunciato ma ciò non toglie che la conferenza Bethesda ci ha lasciato positivamente colpiti. Uno dei titoli più attesi e discussi, Rage 2, ha aperto le danze, presentato direttamente dalla band musicale che ne ha composto la colonna sonora. Uno scioccante fps adrenalinico di palese spunto arcade, che vede nel suo gameplay forte e chiara la presenza dell’affiancamento ad Avalanche Studios.

A seguire è stata presentata la già conosciuta edizione Summerset di The Elder Scrolls online, che includerà nuove ambientazioni, missioni e razze, espandendo ancora di più il già enorme mondo di TES Online. All’interno del Summerset verranno inclusi due DLC, WolfHunter e MurkMire, ambientato nella regione di Blackmarsh in cui ci si addentrerà nella lore degli argoniani.

Senza perdere altro tempo è toccato al pacchetto DLC Mooncrash, disponibile già da oggi al prezzo di € 19,99, in arrivo con l’ultimo aggiornamento di Prey, che vedrà Morgan Yu alle prese con la fuga da una base lunare. Oltre al DLC ci sarà anche un aggiornamento del titolo che aggiungerà le seguenti feature: New Game+ e il Survival Mode. Solo successivamente verrà rilasciato anche l’interessante modalità multliplayer Typhoon Hunter, modalità nella quale potremo impersonare uno dei mimic; quest’ultima potrà essere giocata anche con in VR.

Insieme al DLC di Prey viene presentato anche un futuro DLC per Wolfenstein II, dal titolo Youngblood, un interessantissimo add-on cooperativo che vedrà le due figlie di William Blazkowicz alle prese con i nazisti. Questa nuova avventura sarà possibile giocarla in modalità co-op con un amico per migliorare l’esperienza di gioco. Oltre questa piccola grande novità, arriverà anche la modalità Cyberpilot, giocabile in VR, che darà ai giocatori la possibilità di pilotare le war machine.

Durante la conferenza è stato dato spazio anche il nuovo Quake Champions, che non sembra aver aggiunte significative rispetto alle sue precedenti versioni, ma  promette di essere l’FPS più veloce e adrenalinico di tutti i tempi. Quake è disponibile già adesso in early access e sarà scaricabile gratuitamente per tutta la settimana.

Marcello Ribuffo, a inizio conferenza aveva avanzato una previsione,  al quale non diedi tanto peso, ma che effettivamente si è dimostrata corretta, contro tutte le aspettative: è stato infatti presentato Doom 2 (ufficialmente chiamato Doom Eternal). Purtroppo Bethesda non ha mostrato alcun gameplay al momento ma un solo trailer in cui vengono mostrati angoscianti ambientazioni e mostri terrificanti, tipici e degni eredi del Doom che tutti conosciamo.

A smorzare un po’ l’hype ci ha pensato il porting su console domestica di The Elder Scrolls Legends, un titolo free to play  e card game approdato sul mercato mobile nel 2017. Un porting che non aggiunge nulla di nuovo al gioco ma che potrebbe aumentare il già corposo numero di utenti.

La conferenza è andata poi come previsto, con l’annuncio e il rilascio della data di uscita ufficiale di Fallout 76, il 14 Novembre 2018. L’eccentrico Todd Howard, di Bethesda, con la sua infinita simpatia tra una battuta e l’altra, ha annunciato il titolo, accompagnato dalla clip che avevamo già visto alla conferenza Microsoft qualche ora prima, ma alla quale viene aggiunto anche un’inedita porzione di gameplay e una carrellata di informazioni riguardo tutte le nuove e interessantissime feature del gioco: tra tutte, emerge la possibilità del gioco in co-op fino a 4 giocatori, la possibilità di costruire strutture che hanno come unico limite la nostra immaginazione e quella più interessante – quella che ci ha fatto letteralmente sobbalzare dalle poltrone – ossia la possibilità di scovare dei siti nucleari sparsi nella zona contaminata per poter lanciare dei missili su diversi punti della mappa con tutte le conseguenze del caso. Inoltre è stata annunciata la futura collector’s edition che pare essere ricca di contenuti.

Da questo momento fino al termine, Howard ci ha accompagnato, presentando i rimanenti titoli, come l’annuncio del porting da mobile di Fallout Shelter, già reperibile su PS4 e Nintendo Switch. Non è ben chiaro ancora il motivo della mancanza di Xbox all’appello ma non sono stati forniti dettagli in merito. Shelter è stato seguito immediatamente dopo da The Elder Scrolls Blades, uno stupefacente TES in miniatura sviluppato per il mercato mobile, molto ben caratterizzato e con un fantastico comparto grafico se consideriamo che è stato studiato per i dispositivi portatili.

Arrivati quasi al termine della conferenza Bethesda, come un fulmine a ciel sereno, ci viene presentato Starfield, una nuova IP in fase di sviluppo per la nextgen, che si è mostrato in un brevissimo trailer dando un accenno di quello che potenzialmente potrebbe essere la tipologia di gioco, al momento classificabile come sci-fi.

A chiudere la sfilza di novità, non poteva che esserci la ciliegina sulla torta, quello che il pubblico – compresi noi in redazione – ha aspettato per anni e su cui Howard ha simpaticamente scherzato durante la conferenza: stiamo parlando dell’annuncio ufficiale di  The Elder Scrolls VI, accompagnato da una breve clip in cui purtroppo appare solamente il titolo del gioco su uno sfondo paesaggistico.

Tirando le somme, quella di Bethesda è stata una rivincita a tutti gli effetti rispetto l’anno precedente, con tantissime novità e tanto hype per i futuri titoli della casa statunitense. A questo punto non ci rimane che attendere pazientemente le prossime uscite.