L’evoluzione dei controller Pt.2 – gli anni 2000

I controller, dagli arcade alle console casalinghe, hanno fatto tanta strada, passando da controlli digitali a controlli analogici in grado di permettere movimenti a 360°. Quali altre sorprese attendevano i giocatori al volgere del millennio? Controller di precisione assoluta, con un design futuristico e funzioni all’avanguardia? Vediamolo insieme in questo nuovo articolo a continuazione del primo che vi invitiamo a leggere prima di questo.

La generazione 128-bit – la generazione X

Sega, dopo il fallimento del Saturn in Nord-America ed Europa, era decisa a lanciare una nuova macchina da gioco che spezzasse totalmente col passato e per farlo aveva bisogno anche di un controller che offrisse ai giocatori un nuovo modo di giocare i titoli SEGA. Il bianco controller del Dreamcast, che si rifaceva al 3D Pad del Saturn, non sembrava affatto un prodotto SEGA: la disposizione a sei tasti frontali fu abbandonata in favore del layout a rombo, dunque con quattro colorati tasti frontali come PlayStation e Super Nintendo, ma con i classici trigger analogici del precedente pad. Questo controller è in definitiva molto comodo, più piccolo rispetto al suo antenato, anche se non risulta il massimo per lunghe sessioni di gioco: al di là della strana scelta di far passare il cavo dalla parte bassa del controller e non da sopra, fu montata una levetta analogica convessa che, in assenza di una gommina come nel Dual Shock, scivola facilmente dalla pressione del pollice del giocatore, soprattutto quando la mano comincia a sudare dopo lunghe sessioni di gioco; in aggiunta a tutto questo, qualora ci serva, il controller del Dreamcast monta una croce direzionale rialzata, realizzata con plastica durissima e stranamente “iper-spigolosa”, un calvario per chi vuole giocare con gli eccellenti picchiaduro ospitati nell’ultima console SEGA. Tuttavia il nuovo controller per Dreamcast presentava anche due slot, quello frontale indicato per inserire la VMU, ovvero una piccola memory card dotata di un piccolo schermo a cristalli liquidi; non tutti i giochi sfruttarono questa caratteristica (molti giochi mostravano semplicemente il logo del gioco in esecuzione) ma altri invece, come Skies of Arcadia e Sonic Adventure 2, riuscirono a creare una sorta di interazione col gameplay in corso. Nell’altro slot i giocatori avrebbero potuto inserire  il Rumble Pack, più indicato visto che, nonostante possa accogliere una seconda VMU, non è possibile vedere il secondo schermo. Nonostante tutto, parte dell’abbandono dello sviluppo su Dreamcast è dovuto in parte anche al controller: che possa piacere o meno, la verità è che il controller presenta soltanto sei tasti quando PlayStation 2 e Xbox ne presentavano otto e dunque, ammesso che fosse possibile fare dei porting dedicati per Dreamcast, era impossibile per la console accogliere dei giochi che sfruttassero più comandi di quelli previsti. Il controller per Dreamcast non è assolutamente pessimo ma sicuramente SEGA avrebbe potuto fare di meglio.

Cos’è? È un meteorite? Un aquila? Un U.F.O.? No! È il cosiddetto “Duke“, il controller originale della prima Xbox! Questo titanico controller, all’apparenza, sembra presentare un layout a rombo come quello PlayStation o Dreamcast (vista anche la vicinanza fra SEGA e Microsoft in quel preciso periodo) ma in realtà, presenta invece il layout a sei tasti simili ai controller di Mega Drive e Saturn ma disposti in verticale! Non tutti capirono questo sistema e il tutto risultava abbastanza scomodo e poco risoluto. Il controller fu nominato “errore dell’anno 2001” da Game Informer,  ma Microsoft aveva un asso nella manica: il “Duke” fu messo in bundle con la console in tutto il mondo con l’eccezione del Giappone. Per quello specifico mercato Microsoft disegnò un controller che potesse meglio accomodare le più piccole mani dei giocatori giapponesi e così, su richiesta dei fan, il “Duke” fu presto sostituito dal migliore controller “S“. Con questo controller, il cui nome in codice era Akebono (fu il primo lottatore di sumo non giapponese a raggiungere il rank di Yokozuna), i giocatori ebbero in mano un controller veramente di qualità anche se non poteva essere considerato realmente uno dei migliori: fu scelto un più semplice layout a rombo preciso, come quello del DualShock, ma i tasti “bianco” e “nero” finirono in basso a destra dal set principale (i tasti colorati), rendendo il tutto poco comodo, specialmente quando quei tasti servissero immediatamente. I giocatori Xbox dovevano ancora attendere una generazione affinché ricevessero uno dei migliori controller mai realizzati. Il “Duke” però, fra amore e odio, lasciò comunque una qualche traccia nel cuore dei giocatori, tanto che l’anno scorso Hyperkin rilasciò una riproduzione ufficiale di questo strano controller per PC e Xbox One!

In questo rinascimento dei controller anche Nintendo decise di sperimentare con il joypad da lanciare con la successiva console. Il controller per il GameCube è all’apparenza molto strano ma una volta fatto il callo con le prime sessioni di gioco ve ne innamorerete! Il controller si accomoda perfettamente alla forma della mano, offrendo una saldissima presa, ma sarà l’anomala disposizione dei tasti la vera protagonista: al centro troveremo un bel tastone “A”, mentre alla destra, alla sinistra e al di sopra di questo tasto principale, ci saranno i tasti, rispettivamente, “B”, “X” e “Y”, tutti con una forma diversa. Questa scelta fu presa per permettere al pollice, impegnato principalmente col tasto “A”, di raggiungere tutti i tasti attorno, ma principalmente, secondo Shigeru Miyamoto, per permettere una migliore memorizzazione dei tasti del pad. Insieme a questi tre tasti ne troviamo tasti dorsali e una levetta “C” (in sostituzione dei tasti “C” del Nintendo 64) per un totale di sette tasti. Anche questo controller, come quello per Dreamcast, soffriva per un tasto in meno ma a differenza della sfortunata console SEGA, tramite alcuni stratagemmi, riuscirono ad aggiudicarsi dei buoni e gettonati porting dell’epoca anche con quello strano controller.
Più in là Nintendo produsse per GameCube il Wavebird, il primo controller wireless prodotto da un first party dai tempi di Atari. Il controller, che funzionava con le frequenze radio, mancava della funzione rumble ma risolveva in prima persona il problema dei cavi per terra, avviando così il trend, nella generazione successiva, di includere un controller wireless incluso con la console.
Un po’ come il DualShock, questo controller non ne ha mai voluto sapere di morire o passare di moda, tanto è vero che a tutt’oggi è considerato la quintessenza per giocare a qualsiasi gioco della serie Super Smash Bros.; a testimonianza di ciò esistono le “re-release” di questo particolare controller, nonché il Pro Controller PowerA (ufficialmente licenziato) per Nintendo Switch che aggiunge i tasti “home“, “” e “+” e un dorsale sul lato sinistro del controller (ovvero l’ottavo tasto mancante nell’originale).

“Se qualcosa funziona, non aggiustarla”: come anticipato nella prima parte, fu questa invece la filosofia di Sony per questa generazione. Il DualShock 2 rimase quasi lo stesso, implementando principalmente i tasti analogici per tutti i tasti frontali e dorsali, offrendo ancora più precisione del già precisissimo DualShock. PlayStation 2 è la console più venduta di tutti i tempi e un controller così funzionale è a testimonianza della qualità di questa superba macchina da gioco.

Eccellenza e motion control

Prima di introdurre il trend dei motion control, che molto caratterizzò questa generazione, vorremo prima ammirare il fantastico controller per Xbox 360. Questa volta Microsoft si superò consegnando una versione rivisitata del controller “S“, con una presa migliorata, un layout a diamante, permettendo al pollice di raggiungere i tasti con più facilità, quattro tasti dorsali come il DualShock, eliminando i tasti “bianco” e “nero“, e un bel “tastone” home che permetteva anche di avviare la console come un telecomando. La ciliegina sulla torta fu rappresentata dal jack per l’auricolare in bundle con la console in modo da connettere i giocatori online via chat vocale; una feature che diventerà obbligatoria dopo questa generazione. Questo controller diventò in poco tempo anche il controller non ufficiale della scena PC proprio per la sua incredibile versatilità e maneggevolezza e ancora oggi, per chi lo possiede sente il bisogno di acquistare la nuova versione per Xbox One, viene ancora utilizzato da moltissimi giocatori per PC di tutto il mondo. I primi controller in bundle con la console avevano la tendenza, dopo un po’ di usi, al drifting, ovvero un input fasullo dovuto ad alcuni residui di polvere del componente della levetta;  come la non compatibilità con gli HD-DVD e il “red ring of death“, il drifting fu il risultato della scelta di lanciare la console in fretta e furia ma fortunatamente tutti i problemi relativi ai primi lotti di console furono piano piano debellati, dunque anche i controller successivi al lancio, nonché quelli in bundle con i modelli “slim” e “S“, riscontrarono meno problemi di drifting.

Tuttavia, durante questa generazione non fu di certo questo controller a rubare la scena. Era il 2005, durante il periodo dell’E3, quando un trailer mostrò le capacità dello stranissimo controller per l’allora Nintendo Revolution (senza alcun video di gameplay, giusto per dare un ulteriore senso di mistero), in seguito divenuto Wii: la gente che lo utilizzava imitava azioni di ogni tipo, dal brandire uno spada e uno scudo, illuminare una stanza a mo’ di torcia, dirigere un’orchestra, ma anche azioni più comuni come tagliare ingredienti o pescare. In molti storsero il naso di fronte a questo controller a forma di telecomando ma la verità fu che il Wii Remote (o Wiimote) divenne ben presto, in un epoca in cui i tasti d’azione nei controlli erano otto (dieci se contiamo la pressione delle levette), un controller incredibilmente facile da utilizzare grazie ai suoi motion control. Persino genitori e nonni di tutto il mondo finirono per aver giocato, almeno una volta nella vita, a titoli come Wii Sport, Wii Play e molti altri titoli! Sebbene i titoli party erano quelli in cui era coinvolto più movimento, nonché i migliaia di titoli “shovel-ware” che finirono per riempire il catalogo dei giochi ufficiali Wii, non bisogna dimenticare titoli come The Legend of Zelda: Twilight Princess, Super Mario Galaxy, Metroid Prime 3, Mario Kart Wii, Disaster: Day of Crisis, Mad World o No More Heroes in cui il Wiimote aggiunse realmente un layer di profondità finora inesplorato. Il dominio motion control arrivò e tramontò col Wii ma è bene ricordare che fu un periodo molto particolare, tanto che arrivò a influenzare in un qualche modo anche la generazione successiva: ne sono ovvi esempi gli attuali controller DualShock 4 e Nintendo Switch, nonché il gamepad per Wii U (di cui parleremo più avanti).
Impatto a parte, cosa offre un Wiimote? In alto, insieme al pulsante power, troviamo un D-pad che, nonostante la strana posizione, funge perfettamente come un menù rapido in giochi come The Legend of Zelda: Twilight Princess e come metodo di controllo principale se utilizzato in orizzontale, diventando a tutti gli effetti un controller a là Nintendo Entertainment System visti anche i tasti “1” e “2” sull’altra estremità del controller, diventando un controller perfetto per i giochi platform 2D nonché gli stessi giochi per NES presenti nel catalogo della Virtual Console. Preso in verticale, esattamente sulla linea del pollice e indice troveremo un tasto grande “A” e un grilletto “B“, pronti immediatamente per l’uso mentre, sulla metà, troveremo invece i tasti home, “+” e “” (da questa generazione i veri sostituti dei tasti start e select); proprio sotto al tasto home, inoltre, vi è un piccolo speaker che riprodurrà alcuni effetti sonori dal gioco in esecuzione. Tuttavia un Wiimote, soprattutto se si vogliono giocare i giochi più belli, non è niente senza un Nunchuck, l’espansione naturale di questo controller: questa impugnatura offre al giocatore una buonissima levetta analogica e due ulteriori tasti, “C” e “Z“, sulla parte alta dell’impugnatura da premere con l’indice. I tasti effettivi, dunque sono sei (quattro se contiamo che “1” e “2” sono difficilmente raggiungibili in modalità Nunchuck), ma è chiaro che tutto ciò che viene a mancare viene compensato dai movimenti e dalle azioni da compiere, sia con il Wiimote che col Nunchuck, anch’esso parte dei motion control. Al lancio il Wiimote, che funge anche da puntatore (dunque un vero e proprio mouse), doveva includere sia accelerometro, che registra principalmente i movimenti, e un giroscopio che ne registra invece la posizione ma alla fine venne incluso solo il primo; più tardi fu rilasciato il Wii Motion Plus, un accessorio (una sorta di cubo) che ultimò definitivamente il controller per questa generazione aggiungendo il giroscopio, ma in seguito i futuri Wiimote furono costruiti con entrambi i componenti all’interno, rinominando il tutto in Wii Remote Plus. L’esperienza dei controlli per Wii furono strani e, tutto sommato, passeggeri ma i motion control sono a tutt’oggi presenti, in misure più o meno incisive (ma sicuramente meno presenti) a seconda dei giochi, come in Splatoon 2 o Super Mario Odyssey.

Per il resto Nintendo offrì un ulteriore controller a otto tasti rinominato Classic Controller, simile a un controller per Super Nintendo, per giocare al meglio i giochi della Virtual Console, specialmente quelli post-NES. Il Classic Controller Pro, che aggiunse principalmente due maniglie (a là DualShock) per una migliore presa, fu invece il metodo principale per giocare a giochi come Goldeneye 007 (2010) o Samurai Warrior 3 (tanto che venne incluso in bundle), sottolineando invece come i motion control, spesso, risultavano superflui e quanto invece servisse un controller semplice per godersi al meglio alcuni titoli.

L’annuncio del Wiimote colse tutti di sorpresa e fra quelli c’erano anche i concorrenti Microsoft e Sony. La prima lasciò perdere totalmente, almeno per l’inizio, in quanto investire immediatamente avrebbe rappresentato un rischio inutile, senza contare il fare la figura dei copioni, e poi l’analizzare con pazienza il trend dei motion control avrebbe permesso lo sviluppo di un set più originale e avanzato; ovviamente stiamo parlando del Kinect ma qui eviteremo di parlarne in quanto, essendo, sì, un metodo di controllo ma non un controller vero e proprio, non c’è nulla da “tenere in mano” e pertanto rimanderemo questa conversazione a qualche altro articolo. Sony invece cominciò a correre ai ripari in quanto, nonostante le critiche mosse al Wiimote, i motion control erano visti come la prossima grande cosa. Inoltre in pochi sanno che Sony aveva il DualShock 3 pronto sin dal lancio ma una causa legale contro la Immersion Corporation, proprio per la feature del rumble, li spinsero a togliere la vibrazione in favore dei motion control per offrire qualcosa di nuovo. Il Sixaxis fu annunciato otto mesi dopo l’annuncio del Wii Remote e in molti videro uno strafalcione del concetto offerto da Nintendo; il tutto fu aggravato non solo dal fatto che durante l’E3 del 2006 Warhawk fu l’unico gioco per PlayStation 3 a mostrare le capacità del Sixaxis ma gli sviluppatori alla Incognito Entertainment si lamentarono del fatto che il controller Sony arrivò soltanto 10 giorni prima dell’evento. PlayStation 3 fu lanciata fra il 2006 e il 2007 (in Europa) e agli imbarazzanti prezzo di lancio fu incluso un controller sconclusionato, le cui motion feature venivano utilizzate pochissimo, senza vibrazione e anche troppo leggero (dunque prono alla rottura in caso di caduta). Ciò che è peggio è che Phil Harrison, l’allora presidente della Sony Worldwide Studios, ebbe da dire che il rumble era una feature obsoleta e che il motion control era il futuro (senza contare che il Wiimote, seppur senza giroscopio, aveva motion control e vibrazione). I problemi per Sony finirono fra il 2007 e il 2008 quando il più efficiente e iconico DualShock 3, che (come abbiamo scritto nel precedente articolo) implementò i grilletti e la tecnologia wireless con batteria al litio ricaricabile, sostituì definitivamente il Sixaxis, finendo così la motion-avventura per Sony… o così sembrava!

La tecnologia Sixaxis finì direttamente all’interno di PS Vita, mentre su PlayStation 3, intenti e decisi a rilasciare un vero e proprio motion control, Sony rilasciò il PlayStation Move. Nonostante ancora scelsero di copiare direttamente ciò che faceva Nintendo, il nuovo controller Sony risultò ben costruito ed ebbe, fra alti e bassi, un buon successo: nonostante i movimenti potevano sostituire l’ausilio di qualche tasto, furono inclusi tutti i tasti di un DualShock intorno al controller e i primi giochi dedicati al Move, che dovevano essere giocati con la nuova ridisegnata Eye-toy, mostrarono degnamente il potenziale di questi controller. PlayStation Move, durante l’era della PlayStation 3, non ebbe il successo sperato ma questi furono interamente implementati per l’utilizzo di PlayStation VR, e dunque ancora oggi utilizzati dai giocatori di tutto il mondo.

(Nota: il Sixaxis non è presente in questa galleria in quanto differisce soltanto per la scritta “DualShock 3” sul lato alto del controller. Al di là dei motion control, che ovviamente in foto non si vedono, i due controller sono esteticamente identici.)

La mid-gen e i controller odierni

Con Wii Nintendo riuscì ad avvicinare molti casual gamer allontanando però molti hardcore gamer che nel frattempo, intenti a provare il gaming in HD, si spostarono verso Xbox 360 e PlayStation 3. Wii U fu rivelata durante l’E3 del 2011 e con essa il proprio “tablet controller”. Dopo una creativa disposizione dei tasti su Gamecube e un accantonamento generale durante la precedente generazione, Wii U proponeva un ritorno alle origini con una disposizione di tasti più vicina al Classic Controller Pro per Wii, un giroscopio e un touch screen per, letteralmente, vedere i giochi da una prospettiva totalmente diversa; insieme a tutto questo fu incluso un microfono, degli speaker e una telecamerina sulla parte alta dello schermo, dando come l’impressione che fosse una specie di Nintendo DS fisso. Nonostante le premesse, in pochi riuscirono a immaginare realmente un utilizzo innovativo del touchscreen, col risultato che pochissimi giochi sfruttarono al 100% le sue caratteristiche, come Pikmin 3, Splatoon ma soprattutto Super Mario Maker; insieme al controller, ad affondare fu l’intero sistema in quanto i developer difficilmente trovavano un vero utilizzo per il tablet controller, ma ciò che è peggio è che il pubblico non capì realmente cosa fosse il Wii U (un’espansione del Wii? una nuova console? Ne parleremo qualche altra volta).
In tutta questa grande confusione, il nuovo controller non sembrava piacere a tutti: c’era a chi piaceva e c’era chi lo odiava, e fra quelli c’erano sicuramente gli hardcore gamer, proprio quelli che la compagnia di Kyoto sperava di richiamare a sé. Fortunatamente per Nintendo, che si assicurò in ogni caso di rendere i precedenti Wiimote compatibili per il nuovo sistema, lanciò con la console anche il più versatile Pro Controller, molto più simile a un controller per Xbox 360. La particolarità di questo controller, come per il tablet, sta principalmente nel fatto di avere le levette analogiche allineate, entrambi sopra la parte inferiore in cui vi è il D-pad e i quattro tasti principali; in tutto questo, come ormai tutti i controller di quest’epoca, vi sono quattro tasti dorsali di cui due trigger. Il Pro Controller fu indubbiamente una mossa verso la direzione giusta ma, come sappiamo, non bastò per far spiccare Wii U fra Xbox One e PlayStation 4 lanciate l’anno successivo. L’esperienza di Wii U, anche in ambito di sistema di controllo, fu di grande aiuto in seguito per coniare Nintendo Switch.

Il nuovo controller per la Xbox One è una vera e propria evoluzione del già ottimo controller per Xbox 360, riportando in auge tutto ciò che rese grandioso il precedente controller, migliorandolo in maniera esponenziale. In seguito, Microsoft rilasciò anche l’Elite Wireless Controller con la quale, grazie a un kit dedicato, è possibile personalizzare il proprio controller con tasti programmabili sul dorso e anche sostituire levette e D-pad, offrendo un grado di personalizzazione mai visto in ambito controller.

Sony invece, forse anche un po’ a malincuore, sostituì l’ormai vecchio design del DualShock con uno nuovo più rotondeggiante, moderno e realmente all’avanguardia. Insieme alle novità del touch pad, dei sensori di movimento correttamente implementati e il led sul dorso del controller, il nuovo controller della PlayStation 4 si adatta ai tempi moderni offrendo al giocatore un immediato tasto share con la quale è possibile caricare sui social network i momenti salienti del proprio gameplay. In quanto a precisione, il controller per PS4 ha un retaggio che va indietro sino al primo DualShock, il che è senza dubbio un sinonimo di garanzia in quanto qualità dell’immissione degli input di gioco.

La natura ibrida di Nintendo Switch ha invece portato al concepimento di un controller formato da due pezzi, simile nell’esecuzione al Wiimote e il suo Nunchuck ma ben lontano dal suo concetto interamente focalizzato nei motion control. I due Joy-Con, sia in modalità portatile che in modalità fissa, offriranno al giocatore la tipica disposizione a diamante ormai tipica dei controller Nintendo, mentre le levette, a differenza del gamepad per Wii U o del suo Pro Controller, stavolta si presentano disallineate per permettere tramite un solo set di Joycon la possibilità di giocare in due giocatori semplicemente tenendo il controller in orizzontale; in tutto questo i controller sono stati muniti di accelerometro, giroscopio e la nuovissima feature HD Rumble, un particolare tipo di vibrazione in grado dare un layer ancora più profondo di realismo (tipico è l’esempio delle biglie in 1 2 Switch). I Joy-Con, purtroppo, si sono resi protagonisti di uno spiacevole malfunzionamento, ovvero quello del drifting dopo circa un anno assiduo di gameplay ma Nintendo, per fronteggiare il problema, si è offerta di riparare i Joy-Con anche dopo il superamento della data di garanzia.
Nel caso voleste evitare il problema del drifting, nonché prendere in mano un controller più tradizionale, allora vi converrà passare al più preciso Pro Controller che offre le stesse feature dei Joy-Con (persino il riconoscimento degli Amiibo) ma con una presa decisamente più comoda e rilassata. In più è presente un D-pad in quanto scartata nei Joy-Con per permettere due pezzi perfettamente speculari e che si prestassero al gioco in due giocatori. Se non vuoi essere considerato un principiante a vita allora ti converrà passare al Pro Controller stasera stesso!

Futuro?

Finisce così la nostra strada che ci ha portato dai joystick ai joypad ma ovviamente, nonostante gli headset VR e chissà quali future diavolerie, i controller saranno destinati ad accompagnare per sempre il giocatore. Quali saranno le future innovazioni per i controlli? Come si controlleranno i videogiochi di prossima generazione? E in tutto questo: qual è il vostro preferito? Fatecelo sapere nei commenti!




L’evoluzione dei controller Pt.1 – Dal digitale all’analogico

Da giocatori ci concentriamo spesso su tanti aspetti dei videogiochi: grafica, artwork, sonoro, storia, contenuti extra e molto altro, ma ciò che li lega realmente è la giocabilità. E cosa detta la giocabilità? Qual è quella bacchetta che dirige quella sinfonia rappresentata dal gioco? Ovviamente è il controller, un accessorio fondamentale per godersi appieno gli infuocati gameplay di moltissimi videgame. Facendo eccezione della cara accoppiata “mouse e tastiera“, entità indissolubile dalle postazioni PC, daremo uno sguardo ai controller first party delle console con la quale sono stati lanciati, dalla comodità alle innovazioni apportate, nonché eventuali evoluzioni come il passaggio dal controller originale PlayStation al Dual Shock.

Dal Joystick al D-pad

In principio c’erano le arcade e i loro ingombranti cabinati diedero una soluzione tanto facile quanto intuitiva. Il piano di controllo presentava solitamente uno stick e dei tasti per eseguire delle azioni, come sparare in giochi come Berserk e Space Invaders o saltare in Donkey Kong. I videogiochi dei tempi erano molto semplici e spesso e volentieri era molto raro trovarne uno che usasse più di un tasto. Nonostante tutto, i primi produttori di console ebbero parecchia difficoltà a tradurre quel set di controlli in un qualcosa di casalingo e a basso costo (proprio per questi  motivi gli arcade stick, come il controller base del Neo Geo, costano parecchio). Il Fairchild Channel F, lanciato nel 1976, si avvicinò parecchio al set da salagiochi, incorporando direzione e azione (nonché anche rotazione) sullo stesso stick, ma fu il controller dell’Atari 2600, rilasciata l’anno successivo, a restituire più fedelmente l’esperienza arcade in quanto più semplice e intuitivo. Anche soltanto vedendo in fotografia si riesce tranquillamente a immaginare l’impugnatura del contoller: la mano sinistra finisce per gestire lo stick mentre la mano destra si occupa di tener saldo il controller e con il pollice premere il tasto rosso che si andrà a posizionare perfettamente sotto di esso. La semplice impugnatura permise a chiunque di capire come funzionassero gli all’ora nuovi videogiochi e furono mosse del genere che portarono l’Atari 2600 di diventare la più venduta macchina da gioco della cosiddetta seconda generazione di console. Lo stile “joystick” fu emulato immediatamente, come dimostrano i controller base per Magnavox Odyssey² (punto cardine del nostro ultimo articolo), Colecovision e Commodore 64, ma la vera sorpresa è che questo set, nonostante la rivoluzione del D-pad e delle levette analogiche (di cui ovviamente parleremo più avanti), è sopravvissuto fino a oggi, principalmente come flight stick usati solitamente nei simulatori di volo per PC.
Va inoltre ricordato che Atari fu anche la prima compagnia a offrire dei controller wireless (radio) first party; più in là vennero prodotti controller wireless per tutte le console ma fu solo tanti anni dopo, col Nintendo Gamecube, che una compagnia first party prese in considerazione di produrre controller wireless per la propria console.

Parallelamente allo stile “Joystick“, anche nelle arcade apparvero giochi che sfruttavano quattro tasti disposti a croce che in un qualche modo indicavano la possibilità di eseguire qualcosa di direzionato: è il caso di Vanguard, famosissima prima hit della SNK, la cui navicella pilotata poteva sparare in quattro direzioni (ricordiamo che è possibile provare Vanguard nella SNK 40th Anniversary Collection). Il controller dell’Intellivision (di cui parlammo nel nostro vecchio articolo delle impressioni a caldo dell’Intellivision Amico) anticipò il concetto del D-pad con il suo strano dischetto metallico girevole in grado di registrare ben 16 direzioni ma il risultato non fu dei migliori in quanto concepito come una sorta di sostituto dello stick, dunque messo in alto nel controller, e perciò risulto scomodo e poco intuitivo.
In Giappone intanto un giovane Gunpei Yokoi, tornando a casa dal lavoro, vide un signore giochicchiare sulla metropolitana con la sua calcolatrice tascabile spingendo tasti a caso. Da quell’immagine il geniale inventore visionò un videogioco che fosse portatile, tascabile e possibilmente costruito con la stessa tecnologia della calcolatrice. Quello che ne venne fuori furono i primissimi Game & Watch, la prima incursione di Nintendo nel campo dei videogiochi portatili (la prima in assoluto fu la MB Microvision) e questo stesso concetto si evolverà in futuro nello stravolgente Game Boy. A ogni modo, i Game & Watch presentavano spesso metodi di controllo sempre diversi, a seconda del gioco, ma fu nel 1982 che il D-pad, come vera e propria crocetta direzionale, fece la sua prima apparizione nel Game & Watch di Donkey Kong, appartenente alla serie Vertical Multi Screen (a sua volta, questi particolari modelli con due schermi, apribili a conchiglia, ispireranno invece la creazione del Nintendo DS… vedi un po’!).

I Game & Watch erano piccoli e la loro tecnologia poteva permettere soltanto gameplay semplici e passeggeri, perciò il D-pad, per quanto innovativo, non veniva usato costantemente per questi portatili. Fu invece col Famicom che il D-pad prese piede e divenne un punto di riferimento per tutti i controller a venire: lo stile “Joystick” fu messo da parte per il nuovo modello “Joypad” in cui il controller passò da una presa verticale a una orizzontale che permetteva i movimenti con il pollice della sinistra e le azioni, una in più rispetto al controller di Atari, con quello della mano destra. Nintendo stava per lanciare il Famicom con tasti quadrati e di gomma ma poco prima del lancio il design dei controller fu cambiato in favore dei più classici tasti rotondi e di plastica, da sempre i più indicati in quanto quelli in gomma sono proni al deterioramento e spesso finiscono per funzionare sempre con più difficoltà (gli stessi tasti start e select dei controller Nintendo pre-N64 finivano per deteriorarsi). Con questo design furono girate le primissime pubblicità del Famicom: notate bene la forma dei tasti.

I controller del Famicom fuorono saldati all’interno della console e nel secondo controller i tasti start e select furono scartati in favore del microfono, caratteristica poco utilizzata ma che comunque diede un certo grado di innovazione, tanto che fece ritorno molti anni dopo col Nintendo DS. Il Famicom arrivò qualche anno dopo in America, Europa e Australia col nuovo nome Nintendo Entertainment System: oltre al nome fu rinnovato l’aspetto generale della console, più simile a un dispositivo HI-FI da mettere nello stesso mobile in cui venivano messi videoregistratori, mangianastri e giradischi, e ovviamente i controller, stavolta staccabili, con i cavi che uscivano dal lato lungo alto dei pad (e non dai lati corti come nel Famicom), più tozzi, senza la feature del microfono e con un nuovo design più serioso e futuristico.

Questo modello fu subito imitato da SEGA e Atari con le loro console Master System, terzo re-design della serie SG-1000, e Atari 7800 che rimpiazzarono loro vecchi joystick con dei joypad (Atari lanciò i suoi nuovi joypad soltanto in Europa). Il design del D-pad Nintendo era (ed è a tutt’oggi) un marchio registrato così i concorrenti aggiunsero una specie di dischetto nei loro controlli direzionali, una buona soluzione per evitare ripercussioni legali da parte di Nintendo. I loro nuovi controller furono tanto comodi quanto la loro controparte ma, per quanto il tasto start fu incorporato nei tasti d’azione, per mettere in pausa il gioco bisognava avvicinarsi alla console per premere l’apposito tasto per fermare il gameplay se si voleva fare una capatina in bagno.

La generazione 16-bit

Ad aprire le danze per le console di nuova generazione fu NEC con il suo PC-Engine (o Turbografx-16 negli Stati Uniti). Il controller in bundle con la console non portava alcuna innovazione, il suo design era pressappoco identico a quello del Famicom/NES, ovvero una croce direzionali, due tasti azione e due tasti menù; tuttavia, a rendere unico questo controller erano le sue levette per regolare il turbo, feature solitamente trovata in molti controller di terze parti qui invece inserite in un controller first party, probabilmente l’unico in tutta la storia dei videogiochi.

SEGA Mega Drive, o Genesis in Nord-America, arrivò in Giappone nell’Ottobre del 1988. Con il rinnovato hardware arrivò un nuovo precisissimo e più grande controller: la croce direzionale fu incastrata in un dischetto e il controller presentò un tasto d’azione in più e un tasto start di plastica al di sopra della stringa dei tre; questo controller fu inoltre il primo ad abbandonare il design quadrato “a telecomando” in favore del più moderno e comodo design tondeggiante, decisamente più ergonomico.

Nel 1990 Nintendo rispose al Mega Drive con il Super Famicom, la loro nuova macchina 16-bit (per vedere tutti i risvolti della grande console war dei 16 bit vi consigliamo di leggere questo articolo). Come Sega, Nintendo accompagnò il nuovo hardware con un nuovo rinnovato controller: anche la compagnia di Kyoto optò per un design più curvo ma aggiunse alla stringa dei due tasti d’azione del Famicom/NES un ulteriore stringa di due tasti al di sopra della prima, avviando così il trend del layout a diamante/romboidale, il tutto un po’ più obliquo rispetto al precedente controller i cui due tasti erano perfettamente orizzontali; in aggiunta alla nuova stringa doppia vennero anche aggiunti i due tasti dorsali “L” e “R” posizionati sul bordo alto del controller dove poggiavano naturalmente le dita indice di entrambe le mani, offrendo così al giocatore un controller a 6 tasti molto intuitivo e per nulla complicato.

Nonostante SEGA fosse il leader del mercato, il Mega Drive aveva solo tre tasti d’azione, tre in meno rispetto al Super Famicom/Super Nintendo  e la loro mancanza si sentiva principalmente per i super popolari Street Fighter II e Mortal Kombat che sfruttavano un set di sei tasti: per Street Fighter II: Special Champion Edition, la seconda versione del picchiaduro Capcom scelta come base per il porting per SEGA Mega Drive, bisognava alternare pugni e calci premendo il tasto start (togliendo al giocatore qualsivoglia possibilità di mettere il gioco in pausa) mentre per il porting di Mortal Kombat il tasto start fu impiegato per la parata dando al giocatore uno strano metodo per alternare pugno forte e pugno debole. SEGA più in là non poté fare altro che lanciare un nuovo controller a sei tasti, diversamente da quello Nintendo disposti a stringhe di tre uno sopra l’altro. Se non altro questo controller ricalcava perfettamente il set di tasti di Street Fighter II in Arcade e molti giocatori, ancora oggi, preferiscono questo specifico set per i tornei dei più recenti capitoli. Tuttavia SEGA dovette rinnovare il proprio controller mentre Nintendo rimase con lo stesso set dal lancio fino alla fine del ciclo vitale del Super Famicom/Super Nintendo, offrendo dunque un efficiente controller sin dall’inizio.

Il layout a tre tasti proposto da SEGA, sia a doppia stringa che a singola stringa, fu comunque ritenuto molto comodo e, così come la libreria dei giochi di Mega Drive e Super Nintendo, la disposizione dei tasti diventò anch’essa un motivo di preferenza. A testimonianza della sua comodità ne sono controller per Atari Jaguar e quello per 3DO che alla stringa di tre tasti, ne aggiunse due  dorsali e un tasto menù in più. Quest’ultimo controller è famoso per aver incluso, nel pad stesso, una porta per il multigiocatore (permettendo dunque, potenzialmente, a un infinito numero di giocatori di partecipare a un gioco multiplayer!) e un jack per gli auricolari, qui usato per ascoltare il sonoro ma che verrà ripreso, anni più tardi, per permettere ai giocatori di comunicare in ambiente online in controller come quello per Xbox e Dual Shock 3. Anche NEC utilizzò questo layout per lanciare il suo controller a sei tasti da lanciare col porting di Street Fighter II: Champion Edition per PC-Engine e lo stesso design (anzi, lo stesso controller) fu messo in bundle col PC-FX, suo successore meno fortunato.

La generazione 32/64-bit e l’arrivo degli analog stick

Ad avviare le danze per la nuova generazione fu SEGA che con il suo Saturn lanciò il suo nuovo controller che si rifaceva al Mega Drive: fu diminuita la corsa dei tasti per una maggiore precisione nei controlli e ne furono aggiunti due  dorsali per un totale di otto, a oggi il numero essenziale per ogni buon controller che si rispetti. In Nord-America ed Europa i controller che arrivarono avevano dimensioni diverse da quelli del Giappone: il design era sostanzialmente più massiccio e in molti lo trovarono scomodo; pertanto SEGA più in là sostituì i controller in bundle con la console con i più piccoli, comodi e leggeri controller destinati al Sol-Levante, stavolta di colore nero lucido come il design per la console in Nord-America e Europa. Questo controller non portò grandi innovazioni ma è a oggi uno dei più comodi e belli mai realizzati.

Come oggi si sa, PlayStation nacque da un accordo fallito fra Sony e Nintendo e il suo controller ne riflette le conseguenze: la disposizione dei tasti si rifà a quella del Super Nintendo, una forma a rombo più retta e per niente inclinata, con l’aggiunta di due tasti dorsali extra, facendo partecipare anche le dita medie di entrambe le mani al gameplay. Il controller Sony aggiunse due impugnature al di sotto del pad per una presa ancora più comoda e solida, l’ideale soprattutto per chi non avesse mai preso in mano un controller. Teiyu Goto, il suo designer, ebbe la geniale idea di utilizzare simboli, anziché lettere, che rappresentassero funzioni universali per qualsiasi videogioco:

  • Il triangolo verde rappresenta il punto di vista: alla punta del triangolo ci sarebbe la testa mentre la sua area rappresenta il suo campo visivo;
  • Il quadrato rosa rappresenta un foglio di carta: questo tasto sarebbe dovuto servire a richiamare i menù o i documenti;
  • La croce e il cerchio, rispettivamente blu e rosso, rappresentano il “no” e il ““: questi tasti sarebbero dovuti servire per prendere decisioni.

Anche se questo schema non fu mai assoluto, la disposizione dei simboli risultò molto intuitiva e fu molto facile memorizzare questo nuovo layout di tasti.

Tuttavia, la vera rivoluzione fu lanciata col controller Nintendo 64, il primo a includere (dal lancio) una vera levetta analogica, per un totale controllo dei movimenti a 360°. Il tridente, come spesso chiamato dagli appassionati, presentava una disposizione di tasti frontali con i due grossi “B” e “A” uno sopra l’altro e un set di tasti “Cdisposti a croce accanto ai primi due, dando al giocatore una disposizione simile a quella del Saturn ma chiaramente con funzioni diverse: i tasti “C“, di colore giallo, servivano a dare al giocatore un primordiale controllo dual analog in modo da offrire al giocatore un sistema per controllare la telecamera in giochi 3D come Super Mario 64 o Banjo Kazooie o mirare in sparatutto come Quake e Goldeneye 007. In quanto a dorsali il controller ne offriva tre ma, non ci si trovava mai con un gioco che sfruttasse tutti e nove i tasti, bensì sempre con otto: dietro l’impugnatura della levetta analogica si trova il tasto “Z” e pertanto, qualora il giocatore dovesse usare questa impugnatura, non gli verrà mai richiesto di premere il tasto “L” che si trova al di sopra dell’impugnatura col D-pad.
Nonostante in molti non trovassero ergonomico questo controller (in molti ancora oggi lo impugnano in maniera sbagliata) esso rappresentò il punto di svolta per tutti i controller a venire e, come risultato, Sony e SEGA dovettero rivisitare i propri mentre, Nintendo, ancora una volta, rimase con lo stesso pad dal lancio fino alla fine del suo ciclo vitale.

Chiusa una porta si apre un portone e infatti Sony rilasciò il più completo controller DualShock, con due levette analogiche per permettere tutto ciò che offriva  il rivale del N64, e l’innovativa funzione rumble inclusa all’interno del controller, a differenza del controller Nintendo a cui serviva attaccare il rumble pak. In aggiunta a queste feature innovative, le levette analogiche reagivano alla pressione esattamente come dei tasti, diventando ufficialmente “L3” e “R3“. Molti titoli furono ripubblicati per offrire i nuovi controlli analogici, come Resident Evil: Director’s Cut Dual Shock Ver., ma le future pubblicazioni si concentrarono nell’offrire sia il controllo analogico che il controllo tramite D-pad che, nonostante la coesistenza, cominciava a cedere il passo a questo nuovo tipo di controlli.
Il nuovo controller Sony fu così efficiente che il design generale, fra la prima PlayStation e la terza, subì pochissime rivisitazioni, offrendo al giocatore una presa e un controllo vicino alla perfezione: per la successiva generazione Sony cambiò i tasti digitali in tasti analogici, che ovviamente reagiscono alla quantità di pressione applicata, mentre su PlayStation 3 furono implementati i trigger analogici e resero l’intero controller wireless, con la possibilità di ricaricare la batteria a litio via USB. Alla fine il controller cambiò radicalmente soltanto con l’arrivo di PlayStation 4, con la quale fu implementato il piccolo led per identificare il giocatore, il touch pad e accelerometro a tre assi e giroscopio a tre assi, migliorando e implementando correttamente quello che non riuscirono a consegnare con il controller Sixaxis (di cui parleremo più avanti).

SEGA dal canto suo aggiornò il suo sistema di controllo con il nuovo e rinnovato 3D Pad, un controller decisamente più grande rispetto al modello base. Incluso in bundle con Nights into Dreams…, il 3D Pad può sembrare un controller scomodo e ingombrante ma in realtà è invece risulta ergonomico offrendo una presa più rilassata, particolarmente efficiente in giochi picchiaduro come Vampire Warriors: Darkstalkers’ RevengeStreet Fighter Alpha 2 o Virtua Fighter 2. Sebbene non abbia la funzione rumble e i controlli analogici non siano stati implementati per tutti i giochi a venire, il 3D pad fu invece il primo controller a implementare i Trigger analogici dorsali, caratteristica fondamentale di ogni buon controller per console o computer.

Col cambio della prospettiva, dai giochi 2D a quelli 3D, cambiarono anche i controller che da questo punto in poi, non sarebbero mai più stati gli stessi. Mutano i giochi, mutano i controller. Come sarebbero stati i controller successivi? Aspettate il prossimo articolo e continueremo a ripercorrere l’evoluzione dei controller fino al giorno d’oggi!




Pac-Man VS K.C. Munchkin: un clone o un gioco originale?

Prima che Super Mario rivaleggiasse con Sonic nel mercato casalingo, l’iconico Donkey Kong di casa Nintendo dovette fare i conti con Pac-Man, lo strabiliante videogioco del 1980 prodotto da Namco e distribuito da Midway in Nord America. Toru Iwatani, il suo ideatore, ebbe la geniale idea di creare un gioco che potesse attrarre anche le donne e infatti il risultato fu strabiliante. Al di là dell’impressionante fatturato nelle arcade, Pac-Man diventò in pochissimo tempo parte integrante della cultura popolare dei tempi, tanto quanto Super Mario lo diventò negli anni successivi: ne fu prodotta una serie a cartoni animati, il duo musicale Buckner & Garcia lanciarono un singolo ispirato al suddetto videogioco, Pac-Man Fever, che raggiunse la nona posizione nella Billboard Hot 100 americana, senza contare i diversi spin-off che seguirono il gioco originale e tutto il merchandise a esso ispirato. Era normale aspettarsi presto una versione casalinga del popolarissimo arcade Namco e Atari, investì un milione e mezzo di dollari per il progetto, parte dei quali servì per assicurarsi l’esclusiva per le loro console. Atari dovette combattere contro centinaia di altre software house per evitare che il loro gioco fosse scopiazzato: cloni come Snøggle di Brøderbund Software furono tolti dal mercato non appena furono immessi, Atari riuscì addirittura a fermare Maze-Man di Stoneware non appena seppero che stavano preparando delle pubblicità su di esso! On-Line Systems, la futura Sierra Entertainment, e Atari furono sull’orlo di una battaglia legale quando la prima si rifiutò di togliere dal mercato i suoi Jawbreaker e Gobbler; il caso volle che nessun giudice accettò il caso ma Ken Williams non cantò vittoria in quanto nonostante difendesse l’originalità dei suoi giochi dicendo che non erano dei rip-off (ma che se un giudice avesse dichiarato diversamente l’avrebbe tolti volentieri dal mercato) aveva paura che tutto questo desse ad altre software house il diritto di copiare tranquillamente i giochi di chiunque. In tutto questo un caso particolare rimase impresso nella storia e mise anche le basi di come le battaglie sull’originalità dei videogiochi dovessero essere combattute in tribunale: questa è la storia di K.C. Munchkin! per Magnavox Odyssey², o Phillips Videopac G700 (o semplicemente Videopac) in Europa, e di come un clone, o rip-off, potesse essere definito tale nell’allora nuovo mondo dei videogiochi.

I pionieri delle console casalinghe

Nel 1972 il Magnavox Odyssey arrivò nei negozi diventando ufficialmente la prima console casalinga della storia. Il concept c’era ma l’esecuzione non fu delle migliori: i cavi che collegavano gli strani controller erano corti e poco flessibili (anche se è vero che il cavo che collegava la console alla televisione era parecchio lungo), le schede che contenevano i giochi, quasi tutti per due giocatori, erano molto simili fra di loro (quasi sempre due quadratini luminosi programmati in maniera leggermente diversa) e dunque servivano pellicole da attaccare alla TV per sopperire la grafica; in tutto questo bisognava usare carte, tabelloni e lunghi manuali di istruzioni (che dicevano anche quale pellicola usare per quale scheda) per poter fare una semplice partita con un amico. Il concept di videogioco era ancora freschissimo e a quei tempi giochi immediati come Pong e Gun Fight potevano stare solamente all’interno di grossi cabinati da piazzare in bar e negozi di vario tipo; pertanto la produzione del primo Magnavox Odyssey fu interrotta già nel 1975, giusto per far spazio alle miriadi di Pong Console (molte delle quali prodotte dalla stessa Magnavox) che cominciarono a prendere piede da quell’anno in poi.

Nel 1977 Atari lanciò la rivoluzionaria Atari 2600 con risultati eccellenti, dimostrando al mondo il potenziale delle console da gioco e dei videogiochi in generale. Atari 2600 non fu né la prima console a utilizzare cartucce intercambiabili (quell’onore va al Fairchild Channel F) né la prima a entrare nel mercato ma il suo versatile hardware permise di diventare la console numero uno negli Stati Uniti e nel mondo. Intanto Magnavox, che ricordiamo è a tutt’oggi una compagnia gemella di Phillips, decise di sfruttare nuovamente il brand Odyssey per rilanciarsi nel mercato dei videogiochi e così verso la fine del 1978 vennero lanciate in Europa e Nord America i rispettivi Phillips Videopac G7000 e Magnavox Odyssey². La console era buona, vendette più unità della prima, ma tutto sommato il confronto con l’Atari 2600 non reggeva affatto, né come potenza né come libreria software. Pac-Man, dal suo lancio nel 1980, spopolava nelle arcade e fu normale per Phillips, che ovviamente non aveva alcun problema di fondi, pensare di creare un porting per la loro console che intanto faticava a ritagliarsi una fetta all’interno del mercato dominato da Atari; contattarono Midway per contrattarne i diritti ma per loro sfortuna Atari li aveva già battuti sul tempo. Nel frattempo, prima ancora di raggiungere Midway, Magnavox aveva già commissionato a Ed Averett, loro programmatore indipendente, di creare un porting di Pac-man per anticipare i tempi ma non avendo la licenza il gioco doveva essere trasformato in qualcos’altro. Il genere Dot-Gobbler, o Maze-Chase, andava forte e pertanto gli fu chiesto di creare qualcosa che potesse competere contro il concept di Pac-Man, che fosse ispirato ma non una copia. Magnavox dovette giocare attentamente le sue carte: il gioco doveva avere un look più diverso possibile da Pac-Man e le pubblicità, sia in televisione che sulle riviste, dovevano evitare il più possibile di fare qualsivoglia paragone. K.C. Munchkin! arrivò sul Magnavox Odyssey² nel 1981, un anno prima dell’uscita di Pac-Man per Atari 2600 riscontrando pareri più che positivi, diventando la killer app per quella sfortunata console.

Il diverso

Col tempo sono apparsi spudoratissimi cloni del popolare arcade Namco ma K.C. Munchkin! era diverso in molti sensi. Dunque, quali erano queste differenze? Innanzitutto i colori: il labirinto è fucsia e K.C. Munchkin, il nostro protagonista (il cui nome ricalca quello del presidente della Phillips Kenneth C. Menkin), ha delle sembianze simili a Pac-Man ma è azzurro, ha un espressione facciale ben distinta e ha delle piccole antenne, esattamente come i fantasmi che in questo gioco sono tre e non quattro. Il labirinto è rettangolare, ha una struttura irregolare (dunque non speculare come in Pac-Man), una parte di esso gira, permettendo dunque al giocatore di passare da una parte all’altra immediatamente e persino in sicurezza (dunque sbarrando la strada a un potenziale fantasmino) e sono presenti livelli in cui le pareti del labirinto si oscurano rendendo difficile il prosieguo al suo interno. Inoltre K.C. Munchkin! è uno dei primissimi giochi in cui era possibile per il giocatore programmare dei livelli, dando un grado di personalizzazione fino ad allora mai visto. La più grande differenza, tuttavia, stava nel fatto che in tutto il labirinto sono presenti soltanto 12 “pallini” da prendere (quattro sono pallini speciali che permettono, come in Pac-Man, di mangiare i fantasmi), nessuno dei quali stava fermo in un punto fisso e che dunque si spostavano per tutto il labirinto; ogni volta che un pallino veniva eliminato gli altri aumentavano di velocità, l’ultimo supera addirittura la velocità base di K.C. Munchkin e perciò bisogna intercettarlo anziché corrergli dietro.
L’originalità del gioco fu ripagata: il gioco vendette bene, le critiche erano favorevoli e il passaparola di sparse tanto che molti giocatori comprarono il Magnavox Odyssey² principalmente per giocare K.C. Munchkin! (probabilmente portando la console ai 2 milioni di unità vendute oggi riportate).

(Un gameplay dal canale Retro Games Fan)

Ad Atari non piace questo elemento

Magnavox fece di tutto per evitare di citare Pac-Man nelle pubblicità e occasioni varie; tuttavia nulla poteva fermare venditori e giornalisti di citare il gioco Namco. Un negozio di Chicago aveva comprato grossi spazi pubblicitari sul Chicago Sun-Times e Chicago Tribune e nel tentativo di promuovere i videogiochi in negozio descrisse K.C. Munchkin! come “un gioco a là Pac-man“; viste queste strane pubblicità Atari mandò degli investigatori nei negozi di elettronica e i commessi descrivevano il gioco come “una specie di Pac-Man” e “il Pac-Man dell’Odyssey“. Atari si infuriò e fece subito causa alla Phillips affinché rimuovessero K.C. Munchkin! dai negozi.
Atari chiese un ingiunzione preliminare a una corte distrettuale americana ma questa, nonostante il caso sembrasse a senso unico, si schierò dalla parte di Phillips dichiarando che K.C. Munchkin! non era sostanzialmente simile a Pac-Man e dunque non ne violava il copyright. Phillips giocava sul fatto che gli sviluppatori non avevano copiato alcuna linea di codice da Pac-Man e la corte se ne accorse, osservando le differenze fra i due giochi come pallini in movimento, le espressioni facciali dei personaggi e i colori generali. La corte decretò che K.C. Munchkin! aveva un carattere diverso da Pac-Man e i suoi fantasmi erano più “paurosi”. Phillips rimase molto sorpresa da questo risultato inaspettato ma successivamente la corte d’appello si schierò invece dalla parte di Atari e fu lì che persero definitivamente la battaglia. Nonostante i giochi fossero diversi, come la corte distrettuale aveva dichiarato, entrambi i giochi dipendevano dal fatto che lo scopo del gioco era mangiare i pallini, il tutto inseguito da fantasmi; questo era ciò che distingueva Pac-man, invece, da altri Maze Game come Rally X o Take the Money and Run. Inoltre fu portato all’attenzione il fatto che Pac-Man fu creato specificatamente per far avvicinare “giocatori senza una personalità violenta”, come appunto le donne. La corte d’appello dichiarò dunque:

«La conclusione della corte distrettuale, cui dichiara che i due lavori non sono sostanzialmente simili, è chiaramente erronea, e il suo rifiuto di emanare un’ingiunzione preliminare costituisce un abuso di discrezione».
(-672 F. 2d 607, US Court of Appeals, Seventh Circuit)

In seguito Phillips tentò di portare il caso alla corte suprema ma questa non accettò il caso. Fu così che Phillips, nel marzo 1982, dovette ritirare le copie di K.C. Munchkin! dagli scaffali.

(Un gameplay dal canale World of Longplays. Se avete gli auricolari vi consigliamo di toglierli!)

Tanto rumore per nulla!

Lo stesso mese Pac-Man fu rilasciato con licenza ufficiale per Atari 2600 e finalmente, il popolare gioco arcade poteva essere giocato comodamente sul proprio divano di casa. Le aspettative erano altissime e ciò permise a Pac-Man di diventare il gioco più venduto per Atari 2600. Tuttavia, come ormai noto, in molti portarono a casa una versione che si stanziava parecchio dalla versione arcade: Tod Frye, il programmatore principale del progetto, pensava che il gioco potesse spopolare inserendo una modalità per due giocatori ma ciò non fece altro che consumare grossa parte della limitata memoria dei giochi per Atari 2600. I colori erano diversi, Pac-Man, nonostante si muovesse verso l’alto, poteva guardare solo a destra e a sinistra, produceva un rumore fastidiosissimo (anziché il popolare “waka-waka” per la quale diventò famoso), i pallini erano diventati dei rettangoli, il labirinto era ben diverso dalla versione arcade, i controlli erano un po’ poveri ma soprattutto i fantasmi, pur essendo quattro, sfarfallavano costantemente, come se il gioco si dovesse rompere da un momento all’altro. Dopo tutto quello che Atari fece per tener fuori gli imitatori questo era il risultato! La rivista Softline accusò Atari di aver fatto di tutto per far sì che fossero gli unici nel mercato per poi consegnare in seguito una poverissima versione di Pac-Man, elevando invece nel contempo i cloni come i più vicini all’originale. Ed Averett invece evitò di dare la colpa a Tod Frye, invece se la prese con l’hardware dell’Atari 2600 che secondo lui, e fu anche questo il motivo per cui un gioco come Pac-Man non poteva arrivare in console né come l’Atari 2600 né nel Magnavox Odyssey², non era sufficientemente potente, perciò bisognava produrre altro, come appunto K.C. Munchkin!.

Sempre nel 1982 K.C. Munchkin fece il suo ritorno nel nuovo K.C.’s Crazy Chase!, una piccola rivincita contro Atari che ebbe l’ultima risata in tribunale. In questo gioco K.C. Munchkin, sempre all’interno di dei labirinti simili a quelli del primo gioco, deve inseguire e mangiare pezzo per pezzo una specie di serpentone che somiglia parecchio al dragone di Centipede di Atari. In molti videro questo gioco come una sorta di parodia dell’intera vicenda, una voracissima Atari, sotto forma serpentone, intento a mangiare il piccolo K.C. Munchkin ma Ed Averett dichiarò in seguito che il gioco non fu creato affatto con questo spirito in mente. In quanto ad Atari, chissà, forse avranno visto il gioco ma dopo la bruttissima figura fatta col porting di Pac-Man preferirono stare zitti e lasciar correre l’acqua sotto il ponte.

E voi cosa ne pensate? K.C. Munchkin! è davvero un rip-off? In un universo parallelo ha superato Pac-Man e il suo protagonista è oggi una delle icone retrò più amate fra i giocatori?

(Un gameplay di K.C.’s Crazy Chase! dell’utente Marc Ruef)



SNK 40th Anniversary Collection

Se qualcuno non lo sapesse, cominciamo col ricordare che SNK è stata una delle case videoludiche più influenti e importanti del Giappone in campo hardware e software. La Shin Nihon Kikaku (in inglese “New Japan Project”) fu fondata nel 1973 e cominciarono a produrre videogiochi dal ’79 per tutti gli anni ’80 ma fu negli anni ’90 che diventarono dei protagonisti del gaming di quegli anni. Popolari nell’home market ma soprattutto nelle arcade, la SNK rilasciò il Neo Geo MVS (che sta per Multi Video Sistem) nel 1990, segnando così un punto di svolta nel mercato. Oggi SNK è una delle compagnie più attive nell’ambito del retrogaming, avendo rilasciato molti dei suoi titoli chiave sullo store del Nintendo E-Shop e lo spettacolare Neo Geo Mini, una bellissima mini console che riproduce la forma e le funzionalità di un cabinato MVS.
A fine 2018, il 13 Novembre, SNK ha rilasciato per Nintendo Switch la bellissima SNK 40th Anniversary Collection, approdata lo scorso 29 marzo su PS4, una raccolta di titoli pre-MVS curata da Digital Eclipse e SNK, che racconta le radici di questa nota compagnia giapponese. Non troveremo nessun Metal Slug, King of Fighters, Fatal Fury o Samurai Showdown ma avremo in compenso dei grandi titoli che hanno posto le basi per l’avvenire di SNK e i suoi futuri “big red monster”, i cabinati Neo Geo MVS,  che dominarono le arcade negli anni 90. Vediamo cosa c’è all’interno di questa bellissima collection che celebra la vita e l’eredità di una compagnia giapponese che fronteggiò Nintendo e Sega con risultati veramente eccellenti.

Una notte al museo

Prima di scendere nelle (brevi) analisi dei singoli giochi che compongono questa raccolta, vogliamo analizzare la presentazione della collection in sé. All’avvio avremo la possibilità di accedere alla sezione museo dove poter conoscere la storia dei titoli SNK dal 1978 – pensate –  al 1990, anno in cui fu lanciato il più standardizzato sistema Neo Geo MVS, includendo dunque anche giochi che non sono presenti in questa raccolta. Ogni presentazione include solitamente artwork, manuali di istruzioni, illustrazioni pubblicitarie, screenshot e a volte anche foto dei cabinati, il tutto accompagnato da brevi ma dettagliatissime linee di testo che ci raccontano la storia dello sviluppo del gioco in questione, le innovazioni portate e retroscena esclusivi. Sono così utili e belle che le abbiamo consultate più volte nel compilare questa stessa recensione!
La sezione museo include inoltre le colonne sonore di tutti i giochi presenti in questa collezione, nel caso vorreste ascoltare singolarmente alcuni dei brani dei giochi a cui avete giocato. Nelle opzioni invece potrete guardare i crediti, cambiare la lingua (dei menù, non certo dei giochi), vedere il progresso degli achievement esclusivi di questa collection e scegliere la visualizzazione verticale o orizzontale, come un vero cabinato arcade (ma questa opzione è possibile solo in modalità portatile).
Nei giochi, così come accade per le migliori collection che si rispettino, abbiamo la possibilità di cambiare il ratio dell’immagine, ovvero il classico 4:3 (spesso allungato) centrato, il 4:3 che si lega ai bordi superiori e inferiori dello schermo e 16:9 (le stesse opzioni presenti nella release Sega Ages di Thunder Force IV); poi possiamo cambiare filtro dell’immagine, ovvero il pixel perfect (senza filtro), con gli scalini della TV e il filtro monitor da sala giochi, ai tempi più avanzati rispetto ai monitor casalinghi. Essendo questa collection principalmente indirizzata ai giocatori di una certa età che hanno giocato in passato a questi titoli, e che con buona probabilità hanno sempre meno tempo per giocare ai videogiochi, è stato inserito un tasto rewind, “L”, che permette di mandare indietro l’emulazione dei giochi giocati e dunque giocare al meglio ogni singola partita; un compromesso veramente superiore, e più veloce, dei più comuni save/load state (a ogni modo presenti e utilizzabili dal menù di pausa). Qualora doveste abbandonare per forza la vostra partita potrete tornare al menù principale con l’opzione “salva ed esci”; in questo modo, quando riprenderete la vostra partita, vi ritroverete esattamente nel punto in cui l’avevate lasciata, una scelta semplice, standard, essenziale e perfettamente funzionale. In alcuni dei giochi è possibile cambiare la regione e scegliere le versioni arcade e Nintendo Entertainment System (ove presente). Quest’ultima opzione è una vera e propria manna dal cielo per quegli utenti che non hanno ancora preso in considerazione l’iscrizione al servizio online di Nintendo Switch che permette l’accesso ai titoli NES in streaming. Ma adesso diamo un breve sguardo di dettaglio a buona parte dei giochi inclusi in questa raccolta.
Di seguito vi verranno riportati i titoli (anche alternativi), l’anno di produzione, le versioni regionali (selezionabili dal menù col tasto “X”) e versione hardware, ovvero arcade e/o NES.

  • Alpha Mission/ASO1985US, JPArcade, NES. Uno dei primi shoot ‘em up moderni della SNK, che dunque seguì la rivoluzione lanciata da Gradius nel 1985. Il gameplay si rifà principalmente a Xevious, con obiettivi in volo e in superficie da eliminare coi missili, ma la sua unica meccanica consistente nel raccogliere pezzi di armatura in volo, e dunque creare diverse combinazioni di offesa e difesa, lo accostava tranquillamente ai giochi RPG di cui i programmatori SNK erano ghiotti. È un gioco veramente difficile e tedioso ma grazie alle opzioni inserite in questa collection potremo giocarlo con molta calma, la stessa che mancava tempo addietro quando orde di bambini sudati inserivano le proprie 500 lire per provare a superare anche un solo livello.
  • Athena1986INTArcade, NES. Platform che ha per protagonista la dea greca della sapienza, dell’arte e della guerra (rigorosamente in bikini rosso come da tradizione epica), lo si può considerare come un insolito mix di Alex Kidd in Miracle World, per il design generale, e Ghost ‘n Goblins per la sua incredibile difficoltà. Sebbene il gioco non sia esente da difetti, Athena fu una delle più grandi hit della SNK prima del lancio del Neo Geo MVS; il titolo portò elementi propri del RPG, genere più propriamente legato alla dimensione casalinga, in un semplice platform per arcade tramite la semplice collezione di armi, scudi e pezzi di armatura che apparivano addosso ad Athena una volta raccolti: una vera rivoluzione per l’epoca. La protagonista stessa divenne una delle prime mascotte della SNK, tanto che per il titolo Psycho Soldier (che vedremo più avanti) venne creata Athena Asamiya, una discendente diretta dell’originale Athena, che apparirà più in là anche nella serie picchiaduro King of Fighters, anche con l’iconico bikini rosso nelle schermate di vittoria. Sconsigliato a chi ha poca pazienza e ai puristi dell’epica greco-romana.
  • Crystalis/God Slayer1990US, JPNES. Questo titolo per NES si discosta in tutto e per tutto dallo stile arcade che caratterizza molti dei giochi SNK presenti in questa collection, infatti Crystalis è un iconico gioco d’avventura sullo stile di The Legend of Zelda che provò a colmare la grande fame venutasi a creare dopo il rilascio di Zelda II: The adventure of Link, titolo che lasciò i fan della saga con uno strano amaro in bocca per il suo forte scostamento dal primo capitolo. A differenza dell’iconica saga Nintendo, il design generale di Crystalis ha una spiccata sfumatura sci-fi, più vicina a Phantasy Star, e altre componenti RPG non presenti in The Legend of Zelda, prima fra tutti la crescita livellare. Il gioco ricevette nel 2000 un porting per Gameboy Color ma solamente con l’avvento di internet Crystalis ottenne lo status di cult following. Una vera e propria chicca per NES che difficilmente gli iscritti del servizio online di Nintendo Switch vedranno in tempi brevi (sempre se mai arriverà) in streaming; una vera e propria gemma nascosta che potrete persino giocare offline! Se c’è un titolo che vale l’acquisto di questa collection, Crystalis è esattamente quel gioco.

  • Ikari Warriors/Ikari1986US, JPArcade, NES. Ispirato a film come Rambo e Commando, Ikari Warriors è un gioco simile a uno shoot ‘em up che però ci permette di controllare l’avanzamento dei nostri soldati Ralph e Clark (Paul e Vince al di fuori del Giappone), futuri combattenti in King of Fighters. Sebbene, come Athena, il gioco presentava una miriade di difetti (soprattutto sulla versione per console) il gioco diventò popolarissimo, sia nelle sale giochi che nelle case dei possessori del NES, per via dell’avvincente campagna da giocare in due giocatori contemporaneamente. Dopotutto, come non poteva Ikari Warriors diventare popolare? Insomma, includeva due virili soldati che uccidevano ondate di nemici in una giungla a petto nudo a colpi di fucile (infatti molti giocatori speculavano che i due personaggi giocabili erano proprio John Rambo e John Matrix di Commando, in poche parole Sylvester Stallone e Arnold SchwarzeneggerRambo Commando!), granate ed era possibile anche guidare i carri armati, feature che diventerà essenziale in Metal Slug. La versione per console è decisamente la più difficile in quanto non era possibile includere la feature dello stick rotante presente in sala giochi (oggi fedelmente riprodotta nella la versione arcade col secondo stick del controller del Nintendo Switch, le stesse meccaniche di un twin stick) e non era possibile continuare a giocare dopo la perdita delle due vite; tuttavia, alla perdita dell’ultima vita, potrete riprendere a giocare se digiterete, con i tasti “A” e “B” del NES, il nome di una famosa pop band svedese di quattro lettere… Mamma Mia, che complicazione!
  • Ikari Warriors II: Victory Road1986US, JPArcade, NES. Terminata la prima avventura, Paul e Vince tornano a casa in aereo ma una strana turbolenza li porta avanti nel futuro, in uno strano mondo sci-fi popolato da strane creature e alieni. Il gameplay generale rimase lo stesso del primo capitolo ma furono aggiunte giusto nuove armi, come i bazooka e le spade in grado di uccidere i nemici senza un proiettile, le aree nascoste e sostituiti i carri armati con delle armature. Questo nuovo titolo incluse inoltre delle chiarissime linee di dialogo, uniche per entrambe le versioni. Nonostante i temi più seriosi, in Ikari Warriors II furono inseriti elementi di humor per rendere la fruizione del gioco più leggera. Se giocate a questo gioco in due provate a incrociare le spade come si vede nell’artwork!
  • Guerrilla Wars/Guevara1987US, JPArcade, NES. Inizialmente il gioco fu concepito come un ulteriore sequel di Ikari Warriors ma durante lo sviluppo il presidente della SNK si interessò ai personaggi di Ernesto “Che” Guevara e Fidel Castro dopo aver letto il libro “La Guerra di Guerriglia” scritto dal rivoluzionario cubano, unico libro che trattava la rivoluzione cubana disponibile in Giappone. Fu così che un giorno, a metà dello sviluppo del sequel, si presentò ai programmatori chiedendo che il titolo venisse trasformato in un gioco sui rivoluzionari cubani. Ebbene sì, nella versione Giapponese (in realtà anche quella americana ma i nomi dei personaggi giocabili non vengono mai menzionati) controllerete il guerrigliero Che Guevara e l’ex leader cubano Fidel Castro, come secondo giocatore, intenti a rovesciare il durissimo governo di Fulgencio Batista… altro che lezioni di storia! Il gameplay riprende Ikari Warriors in tutto e per tutto ma aggiunge il salvataggio di ostaggi, che se colpiti da un nostro proiettile comporteranno la perdita di 500 punti, e il miglioramento delle AI dei nemici, ora più furbe e più strategiche. Probabilmente è un gioco che non portò grandi innovazioni, ma era un gioco “rivoluzionario” a modo suo!

  • Ikari III: The Rescue1989US, JPArcade, NES. Stavolta per la rabbia, visto che “Ikari” in giapponese significa proprio “rabbia”, Paul e Vince abbandonano le armi e decidono di far fuori i nemici alla vecchia maniera: “mazzate”! In Ikari III le armi da fuoco si fanno rare, così come i neo-introdotti oggetti contundenti, e il nostro metodo di difesa principale diventano i pugni e i calci – un vero e proprio tributo a Chuck Norris!. Da notare è anche l’abbandono dello stile animato degli artwork in favore di uno più realistico e crudo.
  • Iron Tank1988US, JPNES. Altro titolo sviluppato per NES che non arrivò mai nelle sale giochi ma che, a differenza di Crystalis, conserva un gameplay prettamente arcade. Iron Tank è il sequel di TNK III (che vedremo più avanti), ovvero un gioco simile a Ikari Warriors ma in cui controlleremo un carro armato. I due tasti del NES serviranno a sparare due tipi di fuoco diversi, ovvero uno sparo che segue la direzione del carro armato e uno direzionato nel verso del cannone principale. TNK III era dotato dello stesso stick rotante di cui Ikari Warriors era munito per muovere il cannone principale (dunque si poteva mirare dritto col cannone principale e spostarsi lateralmente continuando a sparare coi cannoni inferiori, sparando così in due direzioni contemporaneamente) ma col controller del NES è tutto un altro discorso: il cannone superiore si muove soltanto quando terremo premuto “B” (layout del NES), ovvero il tasto dei cannoni inferiori, perciò sarà impossibile sparare in due direzioni in questa versione. Nonostante le limitazioni Iron Tank risulta comunque un gioco molto gradevole.
  • P.O.W. Prisoners of War/Datsugoku1988US, JPArcade, NES. Uno dei primi beat ‘em up della SNK, P.O.W. si rifà principalmente a film come Fuga di mezzanotte o Fuga da Alcatraz in cui un protagonista programma, e conclude, una fuga da una prigione di massima sicurezza. La versione arcade di questo gioco ha un sistema di controllo a quattro tasti che includono un calcio e un pugno forte, un tasto per le combo e un tasto per il salto. Nel 1989 P.O.W. uscì per NES e, visti i problemi relativi al controller e alla memoria del sistema, fu semplificato il sistema di combattimento e tolta la modalità per due giocatori; in compenso furono introdotte nuove armi e oggetti contundenti, sub-aree e un nuovo boss finale. Per una volta la versione NES sembra che abbia dato di più rispetto alla controparte arcade!

  • Prehistoric Isle in 19301989US, JPArcade. In questo spettacolare shoot ‘em up sulla scia di R-Type partiremo alla volta di una misteriosa isola per capire cosa si cela dietro allo strano fenomeno della scomparsa degli aerei che le si avvicinano; una volta lì scopriremo che l’isola è abitata da creature preistoriche, dinosauri, cavernicoli e altri esseri ancestrali. Come il rivoluzionario gioco della Irem, avremo una sorta di satellite che rimarrà attaccato al nostro aereo ma potremo posizionarlo in otto posizioni diverse dalle quali partirà un colpo di supporto diverso: in diagonale bassa verrà lanciato un siluro in pieno stile Gradius, se lo posizioneremo sul retro lasceremo delle mine, e così via. I passi avanti rispetto ad Alpha Mission e Chopper I (arrivato in questa collection come DLC) sono evidenti e, fra gli Shmup presenti in questa collection, Prehistoric Isle in 1930 è certamente il più completo e il più avvincente.
  • Psycho Soldier1987US, JPArcade. Sequel spirituale di Athena che include la sua erede Athena Asamiya, Psycho Soldier è un platform a scorrimento automatico che funziona su quattro superfici, un po’ come avviene in City Connection della Jaleco. Ha pochi legami con l’originale Athena, come il poter rompere i blocchi e l’inclusione di Athena stessa, ma offre un gameplay nettamente superiore al suo predecessore, con potenziamenti di vario tipo e persino trasformazioni, e si gioca con molto piacere, soprattutto in cooperativa con un secondo giocatore che comanderà l’amico Sie Kensou, anche lui futuro combattente in King of Fighters. Di degna nota è soprattutto la colonna sonora, la prima nella storia dei videogiochi a includere una traccia con delle linee cantate dalla cantante giapponese Kaori Shimizu; la versione giapponese venne curata con particolare attenzione, tanto che poi per l’uscita di Athena per Famicom venne inclusa una musicassetta con il singolo, ma la versione inglese presenta delle linee “broken english” molto risibili!
  • Street Smart1989US,JPArcade. Il primo esperimento della SNK in ambito picchiaduro. Il genere era ancora agli albori: Street Fighter, uscito nel 1987, pose le basi per i picchiaduro in tutto il mondo, ma non stupì abbastanza da imporre uno standard, e molte compagnie videoludiche ponevano in essere un proprio sistema di gioco sempre diverso. Street Smart mette i giocatori in un area di gioco tridimensionale, ponendosi dunque come una specie di area boss di un beat ‘em up, ma il tutto risulta molto giocabile pur non avendo mosse speciali e tutte quelle feature che faranno grandi i tournament fighter à la Street Fighter II. Al posto della parata, Street Smart offre un tasto per fare una capriola all’indietro e evitare con stile gli attacchi avversari. Gli unici due personaggi disponibili, Karate Man e Wrestler, sono rispettivamente primo o secondo giocatore. L’obiettivo del gioco? Mettere al tappeto gli avversari per la gloria, i soldi… e le ragazze!

  • TNK III/T.A.N.K.1985US, JPArcade. In TNK III si combatte con un carro armato, guidato dal Ralph di Ikari Warriors, e il sistema dello stick rotante, per la prima volta implementato qui, permette di far fuoco col cannone principale in una direzione e muoversi in un’altra facendo fuoco con un altro cannone che segue la direzione dell’autoblindo. Grazie ai controlli di una console moderna come il Nintendo Switch possiamo rivivere l’esperienza autentica di questo storico titolo che non solo ha avviato questo filone di titoli di sparatutto dall’alto con lo stick rotante ma ha anche salvato la SNK da un incombente fallimento. Un vero e proprio capolavoro!
  • Vanguard 1981 INTArcade. Primo grande successo mondiale per SNK, Vanguard era così popolare che Atari ne comprò i diritti per poter fare un porting per l’Atari 2600 che divenne un successo anche nel mercato casalingo. Era uno shooter simile a Scramble, gioco della Konami che pose le basi per gli shmup e la sua stessa saga di Gradius, ma proponeva feature ambiziosissime: aveva quattro tasti per sparare in alto, in basso, a destra e a sinistra, scorreva in orizzontale, in diagonale e in verticale, aveva delle linee di dialogo, rese con una primitiva sintesi vocale simile a quella vista in Berzerk, ed era uno dei primi giochi per sala giochi a includere una funzione di continue (tanto che nei filmati demo, prima di inserire il gettone, veniva spiegata questa futuristica feature). A bordo della nostra navicella dobbiamo arrivare in fondo alla caverna in cui risiede il re Gondo, un alieno che terrorizza le colonie vicine; al termine dell’avventura, come consueto per i primi giochi arcade, il gioco ricomincia a una difficolta elevata e potremo continuare fin quando ne abbiamo voglia (che fortuna non dover più inserire monete in una macchina). Magari ai giocatori più giovani Vanguard potrebbe non dire niente, ma ciò non toglie che è uno dei giochi più importanti della storia del gaming e merita di essere giocato almeno una volta nella vita. L’unica cosa che avrebbe potuto migliorare questo gioco sarebbe stata inserendo un’intonazione di Danger Zone di Kenny Loggins ogni qual volta la voce robotica annuncia l’ingresso in una “danger zone“, ma in fondo va bene così (e poi… non l’aveva ancora scritta)!

Quelli che abbiamo elencato sono i titoli originariamente rilasciati per Nintendo Switch, ma la stessa edizione è stata gratuitamente implementata l’11 dicembre 2018, quando tutti i possessori di SNK 40th Anniversary Collection si sono ritrovati un aggiornamento che aggiungeva ben altri 9 titoli:

  • Bermuda Triangle1987US, JPArcade. Un insolito shoot ‘em up che incorpora le meccaniche dello stick rotante visto in TNK III e Ikari Warrior, Bermuda Triangle permette di controllare una nave madre di grandi dimensioni (simile a una Great Fox della saga di Star Fox, per intenderci) e pertanto, visto che schivare i proiettili non sarà semplicissimo, potremo contare sui caccia che affiancheranno la nostra nave madre, anche per quel che riguarda la potenza di fuoco. Ciò che stupì all’epoca, insieme all’emozionante gameplay che includeva anche meccaniche di viaggio nel tempo, fu anche la sua coloratissima e vibrante grafica, visivamente un grande passo in avanti per SNK.
  • Chopper I/Legend of Air Cavalry1988US, JPArcade. Un moderno shoot ‘em up che ricorda nelle sue fattezze la saga di 19XX di Capcom. Altro grande titolo per SNK, Chopper I offre un gameplay veramente da manuale, con un intensità di proiettili nemici simile ai primi titoli della Toaplan, come Truxton e Zero Wing, famosi per aver – diciamo – lanciato quella tendenza che anni più avanti si sarebbe evoluta nel bullet hell (ma questo titolo è ben lontano dall’esserlo). Un titolo più che mai adatto per gli appassionati degli shmup vecchio stile, non troppo moderno ma neanche troppo datato.
  • Fantasy 1981US, JPArcade. Altro titolo proveniente dall’epoca d’oro delle arcade, per tanto costruito intorno allo stesso hardware di Vanguard e Sasuke vs. Commander (rilasciato in questi DLC), questo titolo offre un gameplay incredibilmente vario che si rifà principalmente ai più popolari Donkey Kong, Jungle Hunt e lo stesso Vanguard, in cui un ragazzo corre dietro alla sua sfortunata ragazza che viene rapita da pirati, scimmioni e tribù di cannibali. Come il precedente successo arcade SNK, Fantasy include l’innovativa feature di continue, chiare (ed esilaranti) linee vocali e persino, in un livello, parte della popolarissima hit disco “Funkytown”! Un altro titolo storico che, come Vanguard, possiede quella magia capace di portarci in un epoca in cui ci si stupiva con poco fatta principalmente di giochi elettronici, code interminabili dietro a un cabinato, senza cellulari e senza internet.

  • Munch Mobile/Joyful Road1983US, JPArcade. In questo strano gioco dai toni “pucciosi” controlleremo un’automobile senziente dalle braccia elastiche, utili per raccogliere mele, ciliegie, pesci, sacchi di soldi e taniche di benzina ai bordi della strada. Munch Mobile è un gioco particolarmente difficile, soprattutto perché la strada è piccola e l’uscita fuori strada comporta la perdita di una vita, ma se si è bravi potremo arrivare addirittura agli uffici della SNK! Il gioco, inoltre, tenta di sensibilizzare i più piccoli riguardo i temi dell’ambiente e dell’inquinamento: una volta raccolto e mangiato un oggetto commestibile possiamo guadagnare molti più punti se getteremo i suoi resti nei cestini della spazzatura riallungando le braccia verso questi oggetti sparsi nei per i bordi della strada. L’ironia sta proprio nel fatto di come un’automobile, un oggetto artificiale, riesca ad essere più pulita di certe persone!
  • Ozma Wars1979 INTArcade. Questo titolo, il più vintage di questa collection, è un fix shooter sulla scia di Space Invaders, il primo gioco che imitò il successo arcade della Taito. Ozma Wars nacque dall’impossibilità di Taito di produrre abbastanza cabinati e tabletop di Space Invaders; SNK, in mezzo alle tante compagnie che acquistarono i diritti per produrre Space Invaders al fine di aiutare Taito con la distribuzione, creò parallelamente sullo stesso hardware un kit di conversione per offrire ai giocatori delle sale giochi, che erano colme di cabinati di Space Invaders, un’esperienza diversa e lanciarsi nel mercato come un nuovo produttore, al pari di Taito, Sega e Nintendo. Anziché far fuori una schiera di alieni come nel popolare arcade, Ozma Wars innova il concetto proponendo navicelle, più dettagliate e sullo stile dei caccia spaziali di Star Wars, che come in uno shooter moderno scendono dall’alto verso il basso, sparano con più frequenza e persino di riducono la loro hitbox mettendosi di taglio (come quando si premono “L” e “R” in Star Fox) o addirittura rendendosi invisibili per qualche secondo; probabilmente, però, l’innovazione più grande di questo titolo fu quella di offrire dei livelli sempre diversi e la barra di energia, che si ricarica attaccando la nostra navicella alla più grande nave madre. Il modesto successo di questo gioco, primo vero loro titolo originale, spinse la SNK a puntare sempre più in alto e Ozma Wars rappresenta in tutto e per tutto l’inizio della compagnia che noi oggi conosciamo e amiamo.
  • Paddle Mania 1988INT Arcade. Probabilmente uno dei primi crossover della storia, ma non come intendiamo oggi un Super Smash Bros.: Paddle Mania mette faccia a faccia, in un campo chiuso in cui la palla non può andare fuori campo, giocatori di tennis, pallavolo, pallanuoto, sumo e persino surfisti! Nonostante le bizzarre premesse lo scopo del gioco è comunque molto semplice: mandare la palla nella porta avversaria, esattamente come in Pong. Sebbene il gioco originale prestava due tasti per muovere la racchetta da destra verso sinistra e viceversa, sul Nintendo Switch si è deciso di optare per dei controlli twin stick che rendono l’esperienza un po’ tediosa e non realmente gradevole. L’esperienza del twin stick è portata avanti in tutta la collection, ma probabilmente Paddle Mania è il gioco a cui meno serve questa feature!

  • Sasuke vs. Commander 1980INTArcade. Altro innovativo gioco arcade della SNK, costruito ancora una volta sullo stesso hardware di Vanguard, Sasuke vs. Commander è ancora una volta un gioco simile a Space Invaders. Invece di conformarsi a uno stile sci-fi, come andava di moda ai tempi, questo titolo offrì al giocatore uno scenario tipicamente giapponese con shogun, il carattere “grande” che si vede in lontananza (che segnala il culmine della festa dei morti di Kyoto) e gli immancabili ninja. Alla fine delle schermate di combattimento, in cui i ninja lanceranno a Sasuke gli iconici shuriken, apparirà un nemico più tenace e più grande; per tale motivo si dice che Sasuke vs. Commander introdusse il concetto di boss al termine di un livello. Un altro gioco che ci racconta le origini delle arcade.
  • Time Soldiers/Battle Field1987 US, JPArcade. Ancora una volta un top-down shooter sulla scia di Ikari Warriors con la differenza che lo stick ruotante qui montato ruota in 16 direzioni anziché in 8 come in tutti i giochi con questa caratteristica che abbiamo visto in questa collection. Time Soldier offre un campo di gioco più ampio e perciò possiamo muoverci in tutte le direzioni che vogliamo. Ovviamente, come il titolo ci suggerisce, questi futuristici combattenti – uno dei quali, dall’alto, sembra Pegasus dei Cavalieri dello Zodiaco – si spostano nel tempo per salvare i loro compagni, alcuni di loro in un’antica Roma popolata da soldati romani e persino creature mitologiche! Anche se il gameplay, dopo aver giocato ai vari Ikari Warriors, Guerrilla Wars e TNK III, può risultare ripetitivo almeno ci consola il fatto che qui il ritmo si presenta un po’ più veloce, con una difficoltà attenuata e una grafica più dettagliata.
  • World Wars1987 INTArcade. Sequel di Bermuda Triangle, il gioco, che gira sulla stessa arcade board, presenta le medesime caratteristiche del suo prequel ma con una navicella più piccola. Il concept della nave madre fu abbandonato in favore di un gameplay più fruibile e classico, con power up e proiettili più facilmente evitabili; viene abbandonata anche la componente del viaggio nel tempo in favore di un più semplice viaggio intorno al mondo, anche se mantiene le stesse componenti sci-fi. Da provare indubbiamente.

The future is now!

Come abbiamo visto, la collection (che include anche Beast Busters e SAR: Search and RescueI) prende in considerazione un periodo poco conosciuto della storia della SNK ma ciò non toglie che sono comunque 32 grandi giochi che vi possono regalare ore e ore di gameplay di stampo prettamente arcade, ormai quasi del tutto perduto. La presentazione e le funzionalità di questa collection sono veramente superbe e ci sono comunque diversi giochi in grado di giustificare l’acquisto per Nintendo Switch e PS4, primo fra tutti Crystalis. Non sarà forse una collection che interesserà ai più giovani (a parte i più virtuosi interessati a “studiare la storia”) ma vi garantiamo che è un gran salto nel passato e, per chi non conosce la SNK, una vera e propria lezione sulla loro storia e sulla loro eredità che ancora oggi influenza il panorama videoludico mondiale.




Not a Hero: Super Snazzy Edition

C’è chi dice che 3D e 2D sono due mondi separati e in quanto tali non convergono in nessun modo. Nella storia dei videogiochi spesso delle meccaniche proprie del 2D sono state riproposte 3D, non sempre con risultati eccellenti, ma il processo inverso è veramente raro, tanto che è difficile riportare degli esempi concreti; non siamo qui per farvi una top 10 dei giochi che hanno sfidato le leggi della bidimensionalità, però possiamo parlarvi di Not a Hero: Super Snazzy Edition, un gioco interamente 2D che implementa, con risultati davvero ottimi, il cover system tipico dei più frenetici third person shooter 3D come Gears of War o Uncharted. Questo frenetico sparatutto, uscito originariamente nel 2015 su PC e arrivato su Nintendo Switch soltanto quest’anno, è un mix di azione, tatticismo, violenza e follie alla Quentin Tarantino con una spruzzata di humor e parlate inglesi che donano all’intero gioco una veste unica e veramente eccezionale. Vediamo insieme questo gioco sviluppato dallo studio inglese Roll7 e pubblicato da Devolver Digital che, ancora una volta, mette nella sua immensa libreria un gioco veramente audace e innovativo come i già visti Minit e Crossing Souls.

Ta ta ta ta ta ta ta ta ta ta…

Siamo a 21 giorni da un’elezione in una città del Regno Unito e il singolare Bunnylord, un coniglio viola antropomorfo venuto dal futuro, vuole a tutti i costi diventare sindaco per scongiurare il crimine che, a detta sua, farà affondare la città in una crisi irreversibile. Con il poco tempo rimasto, Bunnylord attuerà una campagna anticrimine per mano delle peggiori canaglie del Regno Unito, sociopatici senza il minimo scrupolo quando si tratta di far fuori qualcuno; cominceremo utilizzando Steve, il migliore amico di Bunnylord, ma piano piano, una volta diminuiti i crimini, salirà il consenso e perciò sempre più folli esaltati, come Mike, Samantha e Cletus, cominceranno ad appoggiare il coniglio viola; ma andiamo con ordine. I livelli proposti in Not a Hero sono fatiscenti palazzi di periferia a più piani dove si nascondono intere bande di criminali: ci sarà sempre un obiettivo principale, come uccidere uno specifico NPC, rubare degli oggetti, piazzare bombe, salvare ostaggi e altri tre obiettivi secondari, come chiudere un livello in un tempo limite, uccidere tutti i nemici o chiudere una determinata sequenza di uccisioni senza essere colpito e tanti altri (a volte anche precedenti obiettivi principali) e, più obiettivi completiamo in un livello più crescerà il nostro consenso (che servirà appunto per sbloccare più velocemente tutti i personaggi). Il primo livello spiegherà la meccanica portante di Not a Hero, ovvero il sistema di scivolata, con “b”, seguita dalla successiva (quasi assicurata) copertura dietro a un oggetto del background, dalla quale rimarremo coperti dal fuoco nemico e potremo sparare quando questo non sarà nascosto come noi; capire questa meccanica è fondamentale per compiere delle run senza sbavature ma anche per sopravvivere al meglio fra le orde nemiche e dunque completare il livello. Scivolare, in fondo, è l’unico modo per trovare copertura e perciò, piano piano, dobbiamo capire come funzionano queste strane (ma interessanti) meccaniche allenandoci a premere e rilasciare il tasto al momento giusto per finire nel punto più strategico dalla quale far fuoco. Importantissimo, oltre allo scivolare, nascondersi e sparare, è ricaricare l’arma al momento giusto e nel punto giusto, possibilmente nascosti dietro a un oggetto del background e quando il fuoco nemico si fa meno denso.
I personaggi variano a seconda dell’arma che usano, il che influirà sul tipo di fuoco in sé (la pistola spara un colpo dritto e preciso, il fucile un colpo ampio ma con caricatore  meno ampio e il mitra, con ampio rateo di fuoco ma scarsa precisione), la velocità di movimento, il tipo di esecuzione (di cui parleremo a breve) e possibilmente altre abilità uniche di uno specifico personaggio. L’esecuzione è un tipo di uccisione che potremo compiere quando andremo incontro a un nemico in scivolata facendolo cadere: una volta che sarà a terra, premendo il tasto del fuoco, il nostro personaggio ucciderà il nemico, chi con colpo di pistola e chi con una mossa particolare o un oggetto contundente come un coltello o una katana. Nei livelli, inoltre, possiamo trovare delle armi secondarie, molto utili per liberare le schermate più affollate e degli upgrade per i proiettili della nostra arma, che li renderanno infuocati, esplosivi, perforanti, rimbalzanti e molto altro ancora. Ogni personaggio offrirà dunque un gameplay diverso e pertanto, per via delle molteplici variabili che contraddistinguono ognuno di loro, si vengono a creare delle spiacevoli disparità portando il giocatore a preferire giusto una cerchia di personaggi più vicini al suo stile di gioco senza necessariamente provarli tutti; tuttavia, tanti stili significano anche un gameplay veramente vario già solo sul piano della scelta e perciò il sottolineare la disparità fra i personaggi non è un fattore necessariamente (forse anche per niente) negativo nell’intero.
Not a Hero è di base uno shooter che mischia elementi da alcuni giochi classici come Elevator Action Return, Contra e in parte alcuni altri classici per computer sulla scia di Persian Gulf Inferno ma si comporta nelle meccaniche come un modernissimo sparatutto sulla scia di Gears of War; ciò permette un gameplay infuocato il cui tempismo tra far fuoco e copertura è fondamentale se si vuole sopravvivere alle orde di nemici, che faranno fuoco manco fossero dei napoletani a Capodanno. Grazie alla suddivisione in tre capitoli, in cui in ordine faremo fuori una mafia russa, una gang di afro-britannici e una triade panasiatica, possiamo gradualmente approcciare questo singolare sistema e capire qual è lo stile di gioco che più ci aggrada, ovvero quale fra quello più casinista e cruento o quello furtivo e tattico. Più il giorno delle elezioni si avvicina più i livelli si faranno sempre più irti di nemici più forti, che sfoggeranno nuove armi o più coriacei da eliminare; in questo Not a Hero, offre una learning curve veramente piacevole e anche se gli obiettivi si faranno sempre più difficili (che dovranno essere soddisfatti tutti in una run di un livello) il gameplay non porterà mai il giocatore alla frustrazione.
In aggiunta alla campagna principale, è possibile trovare in alcuni livelli delle porte rosse che ci porteranno in delle aree bonus e la campagna “me, myself and Bunnylord”, precedentemente rilasciata come DLC (il che ne fa la particolarità di questa Super Snazzy Edition), in cui controlleremo in prima persona il politico che non si fa alcun scrupolo nella lotta contro il crimine. Peccato solamente che una volta completati tutti gli obiettivi delle 21 missioni (che servono per ottenere i finali migliori), più quelli della campagna aggiuntiva che includono solamente tre missioni extra, non ci rimarrà più niente da fare, accorgendoci di quanto il gioco sia abbastanza breve nonostante il buon livello di sfida e i numerosi livelli; sarebbe bastata anche una semplice partita +, magari utilizzando il solo Bunnylord oppure con obiettivi secondari del tutto nuovi, ma l’unica cosa che rimane è solamente l’opzione di azzerare il file di salvataggio e ricominciare un nuovo file se proprio vogliamo rigiocare da capo questo titolo (che lo merita parecchio nonostante tutto).

Menomale che Bunnylord c’è!

Not a Hero mischia grafiche vintage, principalmente quelle di Atari 2600, Nintendo Entertainment System e dei computer Commodore 64 e Atari ST, presentando delle tonalità retrò comunque “remixate” e animate a modo per appellarsi al meglio ai giocatori odierni. Lo scenario riesce a essere immediatamente chiaro e ciò è fondamentale per il giocatore in quanto, bisogna capire sin da subito quali sono i punti in cui si possa cercare riparo. La grafica riesce a essere funzionale al giocatore e al gameplay e ciò non può che essere un punto a favore per la fruizione di questo gioco in quanto, in sostanza, ogni punto che ci sembra un riparo lo è per davvero. I personaggi sono ritratti con uno stile un po’ più “atarieggiante” ma ciò non toglie la possibilità di distinguere tutti i tratti distintivi di ogni personaggio come una collana, un occhio schizzato, una determinata capigliatura, una sigaretta o altro ancora. Inoltre, per i fan de Il Grande Lebowsky, in questo gioco potrete giocare con un Jesus molto simile a quello del film, con dei capelli neri raccolti, pizzetto, una camicia viola e un “gioco d’anca costante” – diteci come si fa a non amare questo gioco! –. Tutti i personaggi sono abbastanza “singolari” e ciò lo si può evincere dalle loro esilaranti linee di dialogo, rigorosamente prodotte con accenti inglesi veramente incomprensibili; sebbene tutte le linee testuali sono tradotte in italiano e i giocatori, per la maggior parte, possono ritrovarsi con una buona esperienza d’inglese ciò non basta per capire gli astrusi accenti che per altro sono parte dello humor delle one-liner qui prodotte. Insomma, per capire buona parte dell’umorismo delle linee di dialogo dei personaggi (e dei nemici) conviene allenare le vostre orecchie guardando un bel po’ di puntate di Monty Python’s Flying Circus, per intenderci! Impossibile poi non notare la forte componente satirica del gioco che tende principalmente a ridicolizzare ed esagerare le mire politiche e la losca vita di alcuni personaggi politici del mondo attuale, supportati per altro da gente psicopatica come tutti i personaggi che useremo per “attuare” la politica di sicurezza di Bunnylord basata sulla forza bruta e il terrore (se questo gioco fosse stato ambientato in Italia sicuramente avremo potuto stilare qualche particolare analogia…).
Parlando invece del comparto sonoro, Not a Hero propone una colonna sonora che mischia molti generi prettamente elettronici, fra cui il synthpop, la musica elettronica inglese e la chiptune, ma ciò che fa da padrone è certamente la componente dubstep. Sebbene ci sia un richiamo nostalgico nelle melodie, il gioco vuole proporre comunque qualcosa che tutti possano apprezzare e pertanto viene offerta una colonna sonora di tutto rispetto, fatta con bisunti chip sonori e con sintetizzatori moderni: ogni livello, ha un suo brano originale, perciò possiamo affermare che è stato fatto davvero un bel lavoro, anche perché i temi sono veramente graziosi.

Vota Bunnylord!

Ancora una volta i giochi proposti da Devolver Digital non si smentiscono e abbiamo di nuovo un piccolo capolavoro fra le mani. Not a Hero: Super Snazzy Edition è certamente un titolo da tenere in considerazione, specialmente in vista di qualche periodo di saldo in cui potremmo aggiudicarcelo per un prezzo ancora più basso di quello standard (12,99€). Questo insolito e, in parte, sconosciuto titolo potrà certamente regalare tantissime ore di sano divertimento a qualsiasi giocatore, specialmente quelli più abituati a vedere questo tipo di giochi in tre dimensioni, pur accettando la sua veste retrò e il suo humor pungente. Nonostante qualche lieve bug è sempre un vero peccato che questo titolo non si annoveri fra gli indie più gettonati del panorama recente; diamo a Bunnylord il rispetto che merita (o altrimenti ci manderà a casa uno dei suoi killer psicopatici!).




Atari Jaguar: quando la potenza non è tutto

Atari: il marchio che introdusse i videogiochi al mondo negli anni ’80, un tempo magico, in cui la grafica e il suono venivano compensati con l’immaginazione del singolo giocatore. Come sappiamo e abbiamo accennato anche in un nostro precedente articolo, Atari godeva di grandissima fama, tanto da essere sinonimo di videogioco, ma la crisi del 1983 portò alla chiusura di Atari.Inc e il suo marchio cadde nell’oscurità, per sempre eclissato da Nintendo. Sotto la leadership di Jack Tramiel, fondatore di Commodore che acquistò i suoi asset hardware per poi rilanciarli sotto il nuovo brand Atari Corporation, la compagnia si rialzò in piedi con lancio di Atari 7800; sebbene la console non costituì un fallimento, grazie anche alla deliziosa feature della retrocompatibilità con Atari 2600, questa non riusciva a reggere il confronto con Nintendo a livello di marketing, software e supporto di terze parti, neppure con il computer/console Atari XEGS, rimanendo di conseguenza una console di nicchia e per pochi appassionati. Nel 1989 Atari lanciò Lynx, la prima console portatile a colori e con display retroilluminato, un anno prima del più aggressivo Sega Game Gear che presentava più o meno le stesse caratteristiche. Ancora una volta, nonostante le sue ottime capacità, la nuova console Atari (che cominciò il nuovo trend interno di chiamare le proprie console con nomi di specie feline) non ebbe lo stesso supporto del Nintendo Gameboy e Sega Game Gear, finendo dunque per rappresentare la nicchia. Vale ricordare però che il Lynx, come l’Atari 7800 e i computer XEGS e ST, erano molto popolari in Europa, specialmente in Regno Unito che rappresentò, in un certo senso, il nuovo core-market dell’azienda. Dopo il 1992 Atari, che fermò la produzione del 7800, non aveva più nulla sul fronte delle console casalinghe, mentre nel frattempo Nintendo e Sega se le davano di santa ragione “a colpi di bit”. Con l’arrivo di Sega Mega Drive (o Genesis in Nord America) i giocatori vennero messi di fronte alla nuova parolina “bit”, un termine che in realtà nessuno sapeva cosa significasse realmente ma stava a sottolineare, in un qualche modo, la potenza hardware di una determinata console o computer. Grazie “all’esposizione dei bit” Sega potè accaparrarsi un netto vantaggio contro il Nintendo Entertainment System con i suoi 16bit, otto in più rispetto alla controparte, ma con l’arrivo del Super Nintendo la guerra, da lì in poi, fu combattuta ad armi pari.
Atari, visto anche che il Turbografx 16 di NEC non decollava al di fuori del Giappone (dove si chiama PC Engine), capì che bastava “averlo grosso” per vincere la partita… Il numero dei bit – maliziosi che non siete altro –! In questo scenario Atari avviò ben due progetti capitanati dall’esperienza di alcuni ingegneri provenienti dal Regno Unito, uno che avrebbe permesso di sbaragliare la competizione corrente e un altro per la generazione futura, visto che la successiva generazione di console cominciava a prendere qualche sembianza; questa è la storia dell’Atari Jaguar, una console che più di tutti ricordò ai giocatori che la potenza non è tutto.

(Jaguar, Jaguar, JAGUARRRRRRRRRRR!!)

Sete di conquista

Prima di parlare del Jaguar bisogna parlare del Panther, la console 32bit che avrebbe dovuto competere originariamente contro Super Nintendo e Sega Genesis. Il progetto originale risale nel 1988 anno in cui Atari, spinta dal voler riconquistare il cuore dei giocatori di tutto il mondo, avviò il progetto di un prototipo utilizzando la tecnologia di un Atari XEGS e la scheda video del Atari Transputer Workstation. Lo sviluppo andava bene ma i progressi non entusiasmavano nessuno all’interno dell’azienda; Richard Miller, vicepresidente di Atari Corporation (che fonderà più in là la VM Labs che ha portato il mondo il Nuon), andò a chiedere aiuto alla Flare Technolgy, una piccola compagnia inglese fondata da tre ex ingegneri di Sinclair Research, ovvero Martin Brennan, Ben Chese, che andò a lavorare più in là con Argonaut Games alla quale si deve il chip FX montato nelle cartucce dei giochi 3D dello SNES come Star Fox e Stunt Race, e John Mathieson, suo ex collega e amico. Flare era nota per aver prodotto il chip Flare 1 montato in alcune schede arcade ma soprattutto nel Konix Multisystem, console 100% inglese che fu cancellata per diversi motivi: il chip poteva permettere uno scaling mai visto prima, ancora più veloce di quello nell’Atari ST. Atari diede dei fondi a Flare per migliorare il chip esistente e inserirlo nel Panther e avviare parallelamente il progetto del chip Flare 2, che sarebbe stato parte dell’Atari Jaguar.
Grazie al supporto di Atari, Flare potè cominciare lo sviluppo di una nuova console 32bit contenente il nuovo chip migliorato, che venne chiamato Panther come l’automobile della moglie di Martin Brennan (la Panther Kalista) e, presto, la denominazione del chip finì per rinominare l’intero progetto e il prodotto definitivo. In tutto questo, con due progetti avviati, Atari sperava prima di mettere in difficoltà la competizione corrente col Panther e poi, successivamente, lanciare il Jaguar con i suoi 64bit, anticipando la prossima generazione e porsi dunque come la più potente (visto che si vociferava già delle console 32bit). Il Panther era quasi pronto ma i suoi dev kit, da distribuire agli sviluppatori, non funzionavano una volta assemblati; Atari avrebbe dovuto investire ulteriori risorse per risolvere questo problema ma per sua fortuna lo sviluppo del Jaguar era in netto anticipo e perciò si deliberò nel non continuare a produrre il progetto 32bit. Al Consumer Electronic Show del 1991 Atari annunciò la cancellazione del Panther ma in compenso annunciò quella del Jaguar che sarebbe stato pronto per il 1993, un predatore pronto a fare a brandelli la concorrenza e riconquistare il suo trono all’interno del mercato dei videogiochi.

Dall’annuncio al lancio

L’annuncio a sorpresa al CES del 1991 non solo infiammò la stampa ma convinse anche i giocatori; il Jaguar si poneva sia come una console più potente di SNES e Mega Drive che una console di prossima generazione in grado di competere, persino superare, le future rivali 3DO, Sega 32X, Saturn e PlayStation. In tutto questo Atari riuscì anche ad accaparrarsi degli ottimi 3rd party come Micro Prose, Virgin Interactive, Gremlin Graphics, Activision, InterplayUbisoft, che lanciò proprio nel Jaguar il primo Rayman, e molti altri. Per tutto il 1993 Atari svelò a poco a poco le specifiche della console e futuri add-on come il Jaguar CD, un headset VR e un modem per il gioco in rete (questi due prodotti non uscirono mai), il tutto fino all’uscita su tutto il suolo americano previsto per il primissimo 1994. Nel Novembre del 1993 furono inviate 50.000 unità fra New York e San Francisco in test market e i risultati furono strabilianti: la console andò sold out in un giorno e poco dopo i pre-order in Europa toccarono le 2 milioni di unità. Arrivati a questo punto IBM, che produceva i componenti della console, si ritrovò con le spalle al muro non potendo soddisfare una domanda così grossa e così Atari, contro il suo stesso interesse, decise di concentrarsi sul mercato americano, accantonando il mercato dove andavano più forti; di conseguenza, al lancio, in Gran Bretagna arrivarono solamente 2.500 unità.
Ciononostante, per Atari le cose stavano girando per il verso giusto: insieme all’eccellente test market a New York e San Francisco, il Jaguar vinse nel Gennaio del 1994 il premio il “best new game system” su Videogame Magazine, “best new hardware system” su Game Informer e “technical achievement of the year” su DieHard GameFan. I più tecnici furono certamente attratti dalle potenti qualità del Jaguar: la console di base era in grado di creare oggetti 3D con texture, poteva produrre sprite alti 1000 pixel, era possibile cambiare la risoluzione nei background 2D (in modo da poter rendere, per esempio, meno visibile un layer più lontano, creando un ottimo effetto di profondità) e ostentava effetti luce e altri effetti speciali veramente all’avanguardia.
La console attrasse inizialmente una base di giocatori di tutto rispetto grazie sia a un’aggressiva campagna di marketing, il cui slogan principale era “do the math” (più o meno “fai i conti”, in quanto le pubblicità sottolineavano il “gap dei bit” fra il Jaguar e le restanti console), e una buona linea di titoli di lancio e altri che arrivarono man mano; dopo gli iniziali Cybermorph, Raiden e Evolution: Dino Dude arrivarono l’incredibile Tempest 2000, Wolfenstein 3D e Doom, i cui porting erano i più belli e i più vicini al PC (ai tempi) e Alien vs Predator che diventò la killer app del sistema. In aggiunta a tutto questo, a metà del 1994 Atari vinse una causa legale contro Sega per violazione di brevetto: la compagnia giapponese dovette pagare alla compagnia di Jack Tramiel 50 milioni di dollari in spese giudiziarie, fu costretta ad acquistare azioni Atari per 40 milioni e rilasciare alcuni giochi esclusivi Sega su Atari Jaguar (che non uscirono mai). Jaguar aveva tutte le carte in tavola per diventare un competitor importante nel mercato ma Atari non aveva fatto i conti con il nemico numero uno della macchina: la sua stessa scheda madre.

(Il controller del Jaguar, come quello del ColecoVision e Intellivision, aveva un tastierino numerico sulla quale era possibile attaccare degli overlay. È stato, probabilmente, l’ultimo controller con una tale feature.)

Tom & Jerry

Sin dal lancio i giocatori si accorsero che Cybermorph, che era uno shooter sulla falsariga di Star Fox ma presentava una struttura più aperta, era molto più avanzato di Raiden e Evolution: Dino Dudes e che questi due  sembravano dei normalissimi giochi 16 bit. Col tempo, nonostante la console ricevette tanti grandi titoli, i giocatori si accorsero che qualcosa andava storto e che non tutti i giochi sfruttavano le vere capacità dell’Atari Jaguar. Si dice appunto che questa console è in realtà una console 32+32bit e che dunque non è una vera macchina 64bit; ma qual è la verità?
Il cuore della macchina era un processore Motorola 68000 ma in realtà era supportato da altri due processori RISC chiamati “Tom” e “Jerry“: Tom si occupava di tutto il piano grafico, dunque era la GPU e generava gli oggetti in 3D, mentre Jerry si occupava del comparto sonoro, dunque processava i segnali audio e gli effetti sonori. In pratica i programmatori dovevano programmare grafica e sonoro separatamente su quei due chip in modo che venissero mandati al Motorola 68000 che avrebbe processato il tutto e “generato” il gioco al giocatore; John Mathisen descrisse il chip principale come un project manager, che non fa nessun effettivo lavoro ma è lì per dire a tutti cosa fare. Programmare sul Motorola 68000 era molto più facile visto che era un chip montato nei primi computer Macintosh, il Commodore Amiga, l’Atari ST e persino il Sega Mega Drive; per venire in contro alle date di scadenza, visto che il sistema Tom & Jerry non era chiaro a tutti, i giochi venivano programmati direttamente sul Motorola 68000 in quanto molti programmatori avevano già programmato per quel determinato chip, e perciò molti dei giochi vennero fuori con una veste tutt’altro che 64bit, alcuni porting erano persino più carenti delle controparti 16bit. La credibilità del Jaguar si sgretolava piano piano e, contrariamente alle previsioni di Jack Tramiel che si aspettava almeno 500.000 unità vendute in un anno, alla fine del 1994 i dati di vendita riportarono solamente circa 100.000 unità. Adesso per Atari arrivava l’anno 1995, anno in cui il Jaguar sarebbe dovuto entrare in competizione con Sega Saturn e Sony PlayStation.

(I due grossi chip sulla sinistra sono Tom e Jerry, mentre il chip più grosso sulla destra è il Motorola 68000)

La seconda fase

Al CES del Gennaio 1995 Atari comincia l’anno nuovo col botto: vengono annunciate le date di uscita e il prezzo per il Jaguar CD, insieme all’annuncio di dei dischi proprietari dalla capienza di 790Mb, Jaglink, che premette di collegare due Jaguar, per il VR headset (annunciato per il Natale ma mai uscito) e per moltissimi giochi. Due mesi dopo viene annunciato un price drop di 149,99$ e Atari dedide di non sviluppare molti dei suoi prodotti: la produzione di XEGS, ST e Falcon si fermano sin da subito mentre il Lynx verrà abbandonato alla fine del 1995. Era chiaro, a quel punto, che Atari era pronta a tutto pur di vendere il Jaguar. Sam Tramiel, figlio di Jack che prese le redini di Atari alla fine degli anni ’80, per fronteggiare l’imminente uscita di Sega Saturn e Sony PlayStation, si rese disponibile per molte interviste al fine di promuovere la loro console casalinga ma a molti sembrava che si stesse arrampicando sugli specchi: ad Aprile, su Next Generation Magazine, disse che Saturn e PlayStation erano destinate a fallire per il loro prezzo (che a lui sembrava esorbitante), mentre a Luglio, nella medesima rivista, dichiarò che il Jaguar aveva venduto 150.000 unità, che il 50% degli utenti Jaguar avrebbe comprato il Jaguar CD, che “l’interno del Saturn era un casino”, ignorando il proprio complicato sistema Tom & Jerry e che il Jaguar presentava le stesse caratteristiche, se non più potente, del Saturn e poco più debole di PlayStation (mentre in reltà la console Sega era, su carta, più potente di della console Sony!).
Le affermazioni di Sam Tramiel gli si rivoltarono contro quando prima Sega Saturn e poi Sony PlayStation superarono di molto, già nel periodo di lancio, le vendite complessive di Jaguar di un anno di attività; persino 3DO, rimasta inizialmente indietro, superò la console Atari con 500.000 unità vendute. In tutto questo, i giochi promessi al CES 1995 tardavano ad arrivare e l’accordo con Sega, per la perdita di quel caso giudiziario, non uscirono mai. Nell’Ottobre del ’95, un mese dopo l’uscita del Jaguar CD, Atari decise di destinare meno risorse al Jaguar, tentando di reinvestire ciò che è rimasto nella produzione hardware e software PC; successivamente, a Novembre, venne chiuso lo studio Atari che produceva i giochi first party e nel natale del 1995 il Jaguar fu venduto per 99,99$, l’ultimo e definitivo price drop. Come se non bastasse, Sam Tramiel subì un lieve attacco di cuore che costrinse il padre Jack di nuovo alla direzione dell’azienda che aveva comprato dalla Warner Communication.

Dalla chiusura alla seconda vita di Jaguar

Nel Gennaio 1996 furono riportati i disastrosi dati di vendita di Atari Corporation: l’azienda fatturò solamente 14.6 milioni di dollari, significativamente meno dei 38.7 milioni del 1994, mentre nell’anno trascorso furono venduti solamente 125.000 unità, decisamente meno rispetto a quanto dichiarato da Sam Tramiel su Next Generation Magazine; a tutto questo si aggiungevano 100.000 unità invendute e solo 3.000 unità vendute in Giappone, dove fu distribuito in pochissimi negozi. Sebbene nel 1996 alcuni giochi continuavano a uscire, la produzione di Atari Jaguar terminò di lì a poco. Atari Corporation, in Aprile, si fuse con JT Storage e più tardi, nel 1998, vendettero il nome ad Hasbro.
Contrariamente a ogni aspettativa, la sfortunata console riemerse dal dimenticatoio: nel Maggio 1999 Hasbro non rinnovò la licenza sull’Atari Jaguar, facendo ricadere i diritti sul dominio pubblico; da quel momento in poi, qualsiasi sviluppatore, grande o piccolo, è libero di produrre e vendere un gioco per Jaguar senza il permesso di Hasbro. Furono rilasciati subito tre giochi precedentemente cancellati, uno dei quali della Midway e ancora oggi, l’Atari Jaguar è casa di una scena homebrew veramente vasta; l’ultimo titolo uscito per la console è stato Fast Food 64, rilasciato il 23 Giugno del 2017. Dal 2001 al 2007 i rimanenti Jaguar sono stati venduti dalla catena di negozi inglese Game per 30£, fino al price drop finale di 9,99£. E ancora, come se non bastasse, lo stampo industriale per creare la console esterna è stato usato dalla compagnia Imagin per creare un utensile per dentisti e riutilizzata di nuovo per il gaming nel fornire il design esterno della console cancellata Retro VGS/Coleco Chameleon. Che dire? È una bestia che proprio non ne vuole sapere di morire!

(Un video dell’utente bframe che ci mostra tutti i giochi dell’Atari Jaguar)

Mamma, possiamo tenerlo?

Come abbiamo accennato, Atari Jaguar è di dominio pubblico e perciò abbiamo tutto il diritto di emulare la console e i giochi. Tuttavia, al di là dei recenti sviluppi sull’emulazione, stando a molti utenti l’emulazione di Jaguar è ancora un po’ carente e spesso e volentieri molti giochi presentano bug o si bloccano improvvisamente (e non è un problema relativo ai PC). Dunque l’alternativa, visto che ancora nessuno ha prodotto un sistema clone (e Polymega non ha annunciato un modulo dedicato), è proprio quella di comprare un Atari Jaguar originale. Anche se i prezzi sono un po’ più alti del loro prezzo originale, bisogna dire che per una console che ha venduto meno di 300.000 unità è un prezzo equo; andare a caccia dei videogiochi, dunque delle orrende cartucce (in senso buono) con la maniglia in alto, è un discorso a parte in quanto dipende sempre dalla reputazione di un gioco e dalla tiratura e come abbiamo visto, contrariamente a ciò che si possa pensare, ce ne sono tanti. Assicuratevi che la console vi arrivi con il suo cablaggio proprietario per montarlo alla TV via RCA. Discorso a parte va fatto per il Jaguar CD: questo particolare add-on, a differenza dei più comuni Sega CD o PC-Engine CD, è famoso per essere particolarmente fragile ed è facile incappare in uno dei tanti Jaguar CD non funzionanti e, se lo collegherete alla TV, ve lo farà sapere con la famosa “red screen of death” che indica un problema di comunicazione fra la base e l’add-on; come se non bastasse, l’add-on è ancora più raro della console in sé e perciò rischiate di sprecare oltre 200€ per un Jaguar CD morto. È un acquisto che va fatto molto attentamente, anche per la base, ma se state attenti e siete interessati alla sua particolare libreria di giochi potrete portare a casa una gran bella console che ha detto molto e, sorprendentemente, ha ancora molto da dire!




Intellivision Amico: impressioni a caldo

In questa rubrica abbiamo già visto il Polymega, una console di prossima uscita dedicata esclusivamente al retrogaming e al recupero dei vecchi giochi, sia tramite cartucce e dischi (la cui macchina estrarrà le immagini) sia tramite uno store online da lanciare nel tardo 2019. A percorrere quasi gli stessi binari della nostalgia, Tommy Tallarico, famoso compositore che per ha lavorato nell’industria videoludica per titoli come Aladdin per Sega Genesis, Terminator per Sega CD, Cool Spot e Metroid Prime, ha comprato nel Maggio 2018 gli asset di Intellivision Production di Keith Robinson, precedente detentore venuto a mancare l’anno scorso, fondando la nuova Intellivision Entertainment e, giusto qualche giorno fa (22 Ottobre) è stato lanciato un trailer per l’Intellivision Amico, una console, a detta del suo nuovo CEO, rivolta a tutta la famiglia, una macchina che propone giochi per ogni tipo di giocatore e non solo gli hardcore gamer. Sul nuovo sito di Intellivision Entertainment è possibile vedere tutti i dettagli della macchina (che a breve discuteremo); ma prima di buttarci a capofitto sulle novità, diamo prima uno sguardo alla precedente console di seconda generazione, giusto per ripercorrere la storia di questo marchio spesso dimenticato ma molto importante.

Meravigliosa creatura

L’originale Intellivision, prodotto da Mattel Electronics, fu lanciato nel 1980, previo test market a Fresno, in California nel 1979, introducendo sul mercato una marea di innovazioni all’avanguardia (forse anche troppo) per i suoi tempi, feature e capacità che avremmo visto anni o addirittura decenni, più tardi: per prima cosa, Intellivision è stata la prima console con processore 16bit in grado di dare alla macchina, sul piano grafico e sull’azione, un vantaggio decisivo contro la concorrenza, sottolineato tramite un’aggressiva campagna marketing, che poteva permettere l’inserimento dell’Intellivoice Voice Synthesis Module, un add-on esterno in grado di poter dare ad alcuni giochi delle vere e proprie tracce vocali digitali da ascoltare durante il gameplay; Intellivision è stata la prima macchina a puntare direttamente agli appassionati sportivi, proponendo all’interno della sua ottima libreria, che offriva titoli innovativi come Utopia e Advanced Dungeon and Dragons: Cloudy Mountain che gettarono le basi, rispettivamente, per i generi god simulator e avventura, i primi giochi su licenza delle varie federazioni sportive americane, come MLB, NFL, NBA, NHL, ect.; inoltre (e questo è veramente una feature più volte ripresa nel tempo ma decollata soltanto negli anni 2000) è stata la prima macchina a fornire una distribuzione digitale, tramite cavo televisivo, con il suo add-on Playcable, una qualità, ad oggi, immancabile nelle console moderne. Unico suo punto a sfavore era forse il poco intuitivo controller, direttamente saldato all’interno della console e dunque non sostituibile, che presentava un dischetto metallico, simile ma non uguale a una croce direzionale, che si sostituiva al joystick e che dava al giocatore ben 16 (eccessive) direzioni, quattro tasti principali sui lati e una tastiera numerica, simile a quella di un telefono, sulla quale era possibile attaccare degli overlay di cartone sulla quale erano spiegate le funzionalità di ogni singolo tasto per un determinato giochi; dunque, tenendo anche conto del fatto che il dischetto direzionale funziona anche come tasto se premuto al centro, ci sono ben 17 tasti, veramente troppi per una console di questa generazione. Fra pregi e difetti, possiamo senza dubbio dire che è stata una console veramente all’avanguardia, sia sul piano tecnico che sul piano marketing, ma fra Colecovision, Magnavox Odyssey2, Atari 5200 (che si dava battaglia da sola per rimpiazzare l’obsoleta Atari 2600 che, paradossalmente, era ancora la console che vendeva di più) e i nuovi PC casalinghi, l’Intellivision era una goccia d’acqua nell’oceano della competizione.
Successivamente, nel 1984, per limitare le perdite, Mattel fondò Intellivision Inc., tramutata in seguito in INTV Corporation, che continuò la distribuzione della console, adesso chiamata appunto INTV e la produzione di giochi e console, il tutto distribuito esclusivamente via posta ed esente dal marchio Mattel, fino al 1990, anno in cui Nintendo e Sega approcciarono i loro uffici per fermarne la produzione. Anche se meritava molto di più, Intellivision se ne uscì con oltre 3 milioni di console vendute in tutto il mondo e più in là, a testimonianza dell’amore e dell’innovazione portata da questa macchina, sotto la nuova Intellivision Production fondata da Keith Robinson nel 1997 furono licenziate diverse collection, fra PC Windows e console e addirittura l’Intellivision Flashback di AtGames, una retro-console plug and play per poter riscoprire una buona manciata di giochi. Intellivision è stata senza dubbio una console che ha saputo farsi spazio nei cuori della community.

Un nuovo Amico

Il marchio e il prestigio di Intellivision è sopravvissuto fino a oggi, anno in cui Tommy Tallarico ha comprato le possessioni di Keith Robinson e ha rilanciato l’intera azienda sotto il nome di Intellivision Entertainment mettendosi al capo. Ed è così, come un fulmine a ciel sereno, appare Amico, la nuova console Intellivision che verrà lanciata il 10 Ottobre 2020 (fate caso a 1010 2020! Piccoli stratagemmi per ricordare certe date, un po’ come Sega Dreamcast fece per il suo 09/09/1999) per un prezzo di lancio fra i 149 ai 179$. Vediamo un po’ cosa offre questa nuova console che propone caratteristiche veramente fuori dal comune.
Innanzitutto la macchina detta una regola tanto interessante quanto rigida, ovvero “2D only”: ebbene sì, la macchina conterrà un avanzatissimo chip in grado di offrire la migliore grafica 2D sul mercato. La macchina sarà ovviamente in grado di connettersi a internet via wi-fi, dove potremo accedere allo store online per acquistare i software aggiuntivi, che saranno esclusivamente digitali, giocare online, vedere le classifiche all’interno dei singoli giochi e partecipare a tornei. Per il resto, nella console, ci saranno delle porte USB, uscita HDMI, delle luci al led che cambieranno colore con le interazioni con i giochi e il sito Intellivision Entertainment parla anche di un “System Expansion Interface”, forse un qualche futuro add-on, chissà. I controller wireless presentati ricalcano la forma di quelli originali, dunque ci sarà un dischetto (che però stavolta sembra funzionare di più come un d-pad), i quattro tasti sui lati del controller e verranno aggiunti inoltre microfono, speaker, vibrazione, sensori giroscopici e sarà possibile ricaricarli sulla base della console; la più grande innovazione, però, è senza dubbio il touchscreen integrato che sostituirà il tastierino numerico, e magari riuscirà a restituire, forse, quel concetto pensato originariamente per l’Intellivision che ai tempi non funzionò benissimo per via della tecnologia poco avanzata. Sarà possibile inoltre collegare alla console i propri smartphone via app dedicata in assenza di controller originali Amico (fino a otto giocatori). Per ciò che riguarda i software, che non andranno oltre la classificazione ESRB 10+, non solo saranno esclusivamente in 2D ma saranno tutti esclusive Amico, sottolineando anche che la console non ospiterà porting, DLC o microtransazioni e che i prezzi varieranno da un minimo di 2,99$ a un massimo di 8,99$. Momentaneamente, sempre sul lato software, si parla di classici re-immaginati, dunque vecchi titoli che vedranno un upgrade grafico, sonoro, nuovi livelli, modalità multiplayer locale, online e molto più: questi verranno presi dalla libreria Intellivision, Atari, iMagic, famoso third party dei tempi e altri titoli arcade come Super Burger Time, Moon Patrol, R-Type, Toejam & Earl e molti altri. La console, al momento dell’acquisto, avrà alcuni classici inclusi ma sono stati promessi oltre 20 nuovi titoli per il lancio.

Amico o Nemico?

Il team di Intellivision Amico è composto da gente veramente competente: come abbiamo già detto, Tommy Tallarico sarà il CEO di Intellivision Entertainment, mentre al suo fianco troveremo i produttore Jason Enos, veterano dell’industria che ha lavorato in ben oltre 100 progetti fra Sega, Konami, E.A. e Namco, Phil Adam, Mike Mika, Perrin Kaplan, altra veterana che si occupò dei lanci di Super Nintendo, Nintendo DS, Wii, Gamecube e N64 (e che ovviamente si occuperà del lancio di Amico), Beth Llewelyn alle pubbliche relazioni, altra veterana Nintendo con ben 12 anni di carriera alle spalle, David Perry e Scott Tsumura come special advisor, il co-fondatore di Intellivision Steve Roney, Bill Fisher, altro programmatore dipendente dell’originale Intellivision, André Lamothe, specialista hardware che ha persino avuto esperienza alla NASA, Emily Rosenthal per ciò che riguarderà le comunicazioni e gli eventi e Paul Nurminen, attualmente l’host del Intellivisionaries podcast.
Come possiamo ben vedere, la nuova Intellivision Entertainment sta tracciando delle chiarissime linee direttive, a ben due anni di distanza dal lancio, con chiarissime idee su ciò che saranno i loro giochi, come verranno giocati, che aspetto avranno e persino quanto dovranno costare. Tommy Tallarico ha espressamente detto:

«Vogliamo creare una console che i genitori vorranno comprare, che non gli venga indicata dai figli».

Ha anche rivendicato come l’industria, oggi, si concentri solo sugli hardcore gamer, tenendo fuori tutta quella fetta di pubblico che non gioca regolarmente coi videogiochi o, semplicemente, non ne sono attratti; Intellivision Amico dovrà essere una console rivolta a tutti, uno di quei dispositivi da accendere durante le feste a casa con amici e parenti per passare delle sane ore di gaming accessibile a tutti, un po’ come avvenne per Nintendo Wii – se è per questo, riflettendo, il nome di questa console rimanda proprio al suo significato italiano, amico, una console simpatica che può entrare nel cuore di tutti –. Sebbene ci sia un solidissimo team esperiente alle spalle dell’Intellivision Amico, ci sono alcune qualità che non ci entusiasmano, anzi, ci sembrano dei veri e propri diktat: per quanto interessante e audace possa sembrare una console che proporrà esclusivamente giochi in 2D ciò escluderà a priori tutti quei produttori che potrebbero realizzare titoli in 3D, anche con un forte richiamo nostalgico; in poche parole, non vediamo il motivo per cui il 3D, moderno o retrò che sia, debba essere bandito dalla libreria a priori; avere una console che si distingua nel mercato, esattamente come succedeva fra Super Nintendo e Sega Mega Drive nella quarta generazione di console, è sicuramente un fattore positivo ma bisogna anche trovare delle vie di mezzo, dei compromessi vitali per una buona immissione nel mercato. La scelta di creare giochi esclusivi per Intellivision è certamente interessante ma può comunque essere una lama a doppio taglio. L’industria vive di porting e di titoli multipiattaforma e, se è per questo, alcuni di questi titoli hanno contribuito a lanciare alcune console di nuova generazione. Pensiamo proprio a Shovel Knight, uno dei titoli più solidi per il lancio di Nintendo Switch (aiutato, ovviamente, al rilascio della campagna interna Specter of Torment) e che potrebbe essere assente dal parco titoli di  Intellivision Amico, una console che al meglio potrebbe valorizzare un gioco dai toni retrò come questo. Il concetto di esclusiva e ancora vivo e funzionante ma i porting e i titoli multipiattaforma sono decisamente vitali per la sopravvivenza di una console, anche in una visione di cross-play, caratteristica che a oggi diventa sempre più un must per alcuni titoli che offrono un multiplayer online. Come potranno mai approcciare le third party verso un sistema così esclusivo? Prendendo il caso di Shovel Knight: Yacht Club Games dovrà produrre da capo un nuovo titolo della saga oppure rimappare la grafica con una più moderna, per sfruttare al meglio le specifiche di questo nuovo chip 2D rendendolo esclusivo per l’Intellivision Amico senza poterlo rendere disponibile per PC o le restanti console?
Tommy Tallarico ha sottolineato che l’obiettivo della console sarà considerare ogni persona, far sì che le persone approccino ai videogiochi ma è molto difficile attuare un piano simile senza almeno far salire a bordo anche i giocatori più assidui che compongono la più grossa fetta del mercato, anche in una prospettiva di marketing in cui, gli ormai decisivi, “influencer” di YouTube o Twitch non si troveranno invogliati a  giocare con Intellivision Amico, oppure potrebbero produrre una sorta di “product placement forzato”. Neppure Nintendo, ai tempi dell’accessibilissimo Wii, ha escluso i giocatori più assidui, tanto è vero che quella console, insieme ai tantissimi party game per i giocatori più casuali, ha anche tanti altri titoli per gli hardcore gamer: basti citare i diversi titoli di Resident Evil su Wii, MadWorld, House of the Dead: Overkill, No More Heroes e molti altri poco “family friendly”.
Attrarre i giusti developer e avere una buona linea di lancio è spesso la chiave per il successo di una console ed è difficile che potranno costruire la loro fortuna su un parco titoli per console di seconda generazione; tutto si giocherà su quei 20 titoli esclusivi brand new non ancora annunciati. Non dimentichiamo poi i prezzi accessibili del software: quali saranno gli accordi dietro alla vendita di un gioco così a buon mercato? Quali saranno i vantaggi dei developer che intenderanno investire nel sistema e quali quelli di Intellivision Entertainment? Dietro al team di Amico c’è un team veramente competente e pertanto crediamo che ci sia ancora molto che non è stato ancora detto; tuttavia la politica sulle esclusive è probabilmente da rivedere e se Amico ospiterà solamente giochi esclusivi e allora bene che questi siano veramente eccellenti e che possano essere in grado di fronteggiare i modernissimi giochi proposti da Sony, Microsoft e Nintendo. Sperando che il tutto non sia un “Davide contro Golia”, speriamo che Intellivision Entertainment offrirà in futuro più dettagli riguardo ai giochi di lancio, sulla politica delle esclusive, che a noi sembra fin troppo restrittiva e sulle potenzialità di Amico. Non possiamo fare altro che seguire la pagina di Intellivision Entertainment su Facebook e iscriverci al canale YouTube. E voi farete entrare questo nuovo Amico a casa vostra?




Food Party: prodotti alimentari nei videogiochi

L’alimentazione è un bisogno primario degli esseri umani e, da giocatori, possiamo dire che è forse più forte nei gamer. Dobbiamo pur smettere di giocare, spegnere la console o il PC per poi addentare un bel panino, goderci un gustoso piatto di pasta o, visto che le calorie bruciate di fronte allo schermo non sono tantissime, rifocillarci con della sana frutta. Non tutti i videogiochi ci spingono a mangiare: magari passando da tutti quei fast food in Dead Rising o guardando quei cosciotti di maiale in Castlevania potrebbe venirci un insolito languorino, ma che succede quando il cibo stesso diventa il protagonista del gioco? Oggi, un po’ come abbiamo fatto tempo fa con le celebrità, vogliamo fare un excursus di sapori – più o meno sani – e gaming dando uno sguardo ad alcuni titoli il cui fine non è necessariamente la produzione di un gioco avvincente ma venderti un prodotto! In questo articolo troverete dei giochi il cui fulcro è la promozione di un brand alimentare, perciò, salvo casi eccezionali, non parleremo di casi product placement come il KFC in Crazy Taxi, le promozioni e gli oggetti speciali di Subway in Uncharted 3: Drake’s Deception o le mentine Airway in Splinter Cell: Chaos Theory. Al solito, la lista non sarà completissima perciò se ci dimentichiamo qualcosa fatecelo sapere pure nei commenti!

(COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA!)

Domande esistenziali

Sin dall’alba della nascita dei prodotti di consumo l’uomo è da sempre stato messo di fronte una domanda tanto semplice quanto decisiva: Coca Cola o Pepsi? Sin dal loro arrivo sul mercato, più o meno intorno alla fine del ‘800, le due compagnie si sono letteralmente odiate, una guerra combattuta prodotto su prodotto. Nel 1983, visto che Pepsi nel 1975 diede un duro colpo alla compagnia rivale con dei test a occhi bendati nei supermercati americani, Coca Cola distribuiva alle convention un gioco per Atari 2600 senza etichetta, insieme alla console (che per la crisi, tanto, costavano pochissimo), intitolato Coke Wins ma più in là rinominato dal pubblico Pepsi Invaders per via della sua estrema somiglianza con Space Invaders (tanto che, infatti, il titolo nasce dal codice madre del gioco Taito ed è pertanto considerabile, in tutto e per tutto, un hack). Il titolo, sviluppato da Atari stessa, mirava a promuovere il marchio Coca Cola, infatti lo scopo del gioco era annientare la schiera di navicelle che in cielo formavano sei pericolosissime scritte “PEPSI“, capitanate da altrettanti alieni residuati da Space Invaders, e quando si vinceva appariva la scintillante scritta “Coke Wins“; tuttavia, essendo il marchio del nemico così in bella vista, sembrava che stessero promuovendo la compagnia rivale anziché il promotore stesso e perciò oggi in molti vedono in questo gioco l’esempio lapalissiano di un colpo di zappa sui piedi. Il gioco non fu mai venduto al pubblico ed è pertanto uno dei più rari di sempre: delle copie sono state vendute su eBay per prezzi che oscillavano dai 1000 ai 2000 dollari americani. Se volete provare questo rarissimo gioco vi converrà ovviamente provarlo su un emulatore… oppure, potreste comprare una Coca Cola per 2 euro al bar!

Nel 1983, su Atari 2600 e Intellivision, ci fu un’altra famosa promozione, stavolta per un prodotto assente nei supermercati italiani: parliamo di Kool-Aid Man, gioco che promuove la famosa bevanda fruttata americana “fai-da-te”. Su Atari 2600 controlleremo la famosa brocca animata che da tanti anni promuove il brand e lo scopo del gioco è evitare i Thirsties in corsa, perché altrimenti verremo schiantati a destra e a manca nell’area di gioco e fermarli quando allungano le cannucce per bere dalla pozza di Kool-Aid nel fondo. Poco tempo dopo, per Intellivision, uscì un gioco in cui il nostro obiettivo era quello di controllare due bambini intenti a collezionare i tre ingredienti principali per fare una bella brocca di Kool-Aid (la bustina con la polvere, dello zucchero e una brocca di acqua ghiacciata… sbaglio o stiamo facendo pubblicità gratuita?). Anche qui, i Thirsties, i nemici di Kool-Aid Man, saranno alle nostre calcagna e se ci prendono due volte per noi sarà game over; ma se riusciremo a preparare la bevanda in tempo chiameremo la cara brocca sorridente e goderci il Kool-Aid in santa pace!

(Oh yeah!)

Basta aperitivi, abbiamo fame!

Avete fame? Non vi va di andare in cucina a preparavi un hamburger? A quanto pare, nell’anno 2025 (dunque fra sette anni, tenetevi forte!), i ricercatori Burger King creeranno un Whopper così buono che non dovrete spostarvi dal divano, sarà lui a venire da voi! In Whopper Chase, gioco del 1987 per Commodore 64, ZX Spectrum e MSX, controlleremo il famoso hamburger di casa Burger King alla volta delle fauci di un avventore che lo chiama per telefono; per strada dovremo eliminare pomodori e cetrioli ostili e chef gelosi a colpi di maionese in eccesso (sapete, quella che scola via ai lati del panino morso dopo morso). Il gioco è stato prodotto in Spagna su musicassetta ed era possibile ottenerlo con un Whopper solo nei Burger King spagnoli; al di là dell’intento commerciale la diffusione è stata un successo e come conseguenza i prezzi su eBay, oggi, non sono per niente proibitivi nonostante la circoscrizione al territorio iberico. Di sicuro, nel 1987, i bimbi spagnoli saranno andati ben più volentieri al Burger King con questa scusa (e forse saranno anche ingrassati parecchio)!

Ronald McDonald alla riscossa!

Poteva McDonald’s tirarsi fuori dalla guerra dei software digitali per promuovere i loro ristoranti fast food per famiglie? Nel 1992 arriva M.C. Kids (non Mc Kids…) su Nintendo Entertainment System, noto come McDonald’s Land in Europa, un grazioso platformer ispirato primariamente a Super Mario Bros. 3 per quel che riguarda il design dei livelli e l’overworld diviso in sette mondi. Contrariamente a quel che si possa pensare, il gioco non mette in risalto i prodotti McDonald’s ma di certo è una gran bella presentazione delle mascotte dei loro ristoranti come Ronald McDonald, Birdie, Grimace e l’avido Hamburglar che in questo gioco ruba una borsa magica al famoso (e spaventoso) clown. Per avanzare nell’overworld ci servirà collezionare delle carte da consegnare alle mascotte una volta terminato un livello – gameplay che verrà ripreso anni più tardi nel terribile Spartan per Nintendo Switch –; di certo non è fra i platformer migliori che il NES possa offrire ma per essere un gioco su licenza e, in tutto questo, anche una chiara trovata commerciale per promuovere i ristoranti McDonald’s il risultato non è male e il gioco, nonostante alcuni difetti, risulta tuttavia godibile.

Dopo questo titolo, McDonald’s rientrò nel mondo dei videogiochi con altri due platformer per Sega Mega Drive o Genesis in Nord America: il primo è Global Gladiators del 1992, un gioco in cui due ragazzini di nome Mick e Mack vengono catapultati nel loro fumetto preferito (guarda caso pieno di doppi archi dorati) grazie a una magia di Ronal McDonald, e l’altro è McDonald’s Treasure Land Adventure del 1993. L’ultimo titolo è davvero niente male, specialmente perché dietro allo sviluppo di tale gioco c’è il leggendario studio Treasure, noto per aver prodotto alcuni dei migliori videogiochi mai sviluppati come Gunstar Heroes, Dynamite Headdy, Guardian Heroes, Radiant Silvergun e Ikaruga! Che dire? Anche i migliori hanno bisogno di un Big Mac di tanto in tanto!

I’ vogl na pizz!…

Ai napoletani sicuramente non piacerà ma per gli americani è una garanzia quando non ci si vuole avventurare in un ristorante italiano sconosciuto: Domino’s Pizza è un brand molto famoso negli Stati Uniti e dal 2015 è presente anche nel territorio italiano con otto ristoranti a Milano e uno a Bergamo. Il titolo che vedremo adesso è Yo! Noid, videogioco con protagonista il Noid, protagonista e mascotte delle pubblicità di questo popolare brand americano. A differenza dei giochi McDonald’s il gioco, che in realtà era un titolo per Famicom di Capcom originariamente uscito come Kamen no Ninja Hanamaru, risulta molto carente sia sul piano della dinamicità, offrendo un gameplay poco bilanciato per il fatto che il Noid viene annientato solo dopo un colpo e una grafica buona ma confusionaria sul piano dell’uso dei layer di scorrimento. Ad aggravare la situazione sono presenti le orrende sezioni dei pizza eating contest in cui bisognerà mangiare più pizza di un altro Noid; queste sono delle vere e proprie boss battle in cui regna la casualità, in quanto i due partecipanti pescheranno in maniera radomica un numero da un selettore e, il partecipante col numero più alto aggiungerà un punto sul suo pizza meter. Meglio andare a mangiare una pizza!

… e una Pepsi!

Più tardi, nel 1999, anche Pepsi si buttò nel mercato videoludico proponendo un titolo a oggi molto discusso, una vera e propria bestia rara, visto che uscì solo in Giappone, ma molto divertente e soprattutto bizzarra. Sviluppato dallo studio giapponese KID, Pepsiman per PlayStation è una sorta di gioco d’azione in cui controlleremo l’iconico (non in Italia) supereroe gasato nel intento di portare una Pepsi a chi ne ha bisogno, come un militare nel deserto; il gioco si presenta come uno runner sullo stile di Metro Cross o Penguin Adventure – oggi sarebbe un gioco ideale per smartphone – e bisognerà evitare bizzarri ostacoli come dei lavori in corso per strada, stendibiancheria nei giardini, camion carichi di Pepsi e lattine giganti che ci inseguono come il masso all’inizio di Indiana Jones e i Predatori dell’Arca Perduta. Stranamente, il gioco è interamente doppiato in inglese, il che lo rende tranquillamente giocabile per chi non parla giapponese, e con alcune cutscene girate a Los Angeles che includono la presenza dell’attore Mike Butters, ricordato per essere stata la prima vittima del killer in Saw: l’Enigmista; a quanto pare era programmata una release internazionale ma alla fine il gioco rimase relegato al Giappone.
Il gioco, tuttavia, non segna la prima apparizione di Pepsiman in un videogioco; il supereroe era presente nel picchiaduro Fighting Vipers nel 1996 per Sega Satun (di cui potrete vedere un footage nel fondo di questo articolo sul Polymega, anche se Pepsiman non è presente) dove divenne un personaggio sbloccabile grazie a un accordo pubblicitario fra Pepsi e Sega.

Prima di concludere il discorso di questi particolari titoli promozionali vogliamo parlare un secondo dei “videogiochi originali” presenti nelle confezioni delle merendine Ferrero. A oggi è molto difficile tracciare tutte le “release” di questi titoli, che comprendono titoli del calibro de Gli Straspeed e la Strarace e il videogioco de i Magicanti, delle mascotte Ferrero durate per poco tempo, ma vale la pena di ricordare lo spettacolare Fresh Adventure, un lentissimo e davvero scadente platform con il pinguino del Kinder Pinguì e Fetta al latte; perché spettacolare? Per questo esatto motivo:

GameCompass per la vostra salute

Ci sono ancora molti giochi che promuovono brand alimentari, come Cool Spot per le console 16 bit che promuoveva la 7-Up, Chester Cheetah: Wild Wild Quest per Sega Mega Drive e Super Nintendo che promuoveva il brand di chips Cheetos e persino i recenti Dash of Destruction e Crash Course per Xbox 360 per promuovere il brand Doritos. Tuttavia, i giochi che abbiamo promosso finora contengono prodotti ipercalorici che nel peggiore dei casi, possono portare a malattie come il diabete.
Per scongiurare casi come questi la Novo Nordisk, una compagnia danese specializzata nel trattamento del diabete e nella produzione di insulina, si è buttata nel ring nel 1992 con Captain Novolin per SNES, un titolo sviluppato da Sculptured Software per sensibilizzare i bambini affetti da diabete (ma solo quelli col Super Nintendo. Al diavolo quelli col Mega Drive o i computer!). Nel gioco ci verranno spiegate le migliori soluzioni per trattare questa brutta malattia e per proseguire le avventure dell’unico supereroe affetto da diabete di tipo 1 bisognerà di tanto in tanto rispondere a qualche domanda sull’argomento; sia genitori che bambini hanno trovato questo gioco molto utile nonostante il gameplay poco interessante ma bisogna anche ammettere che mirare alla sensibilizzazione a un problema così grande e spesso sottovalutato è un obiettivo veramente nobile… il vero problema, giusto per concludere in bellezza, era che il gioco veniva venduto a prezzo pieno e nessuna parte dei proventi venne investita per la ricerca; dunque, alla fine dei conti, il vero obiettivo del gioco era venderti l’insulina della Novo Disk!

Dunque, state attenti a cosa mangiate, non andate a mangiare cibo spazzatura di frequente o altrimenti vi toccherà giocare con Captain Novolin!

(Bene Captain Novolin, ha salvato il mondo! Per festeggiare che ne direbbe di un bel pezzo di tor… ops…)



Calcio e videogiochi: un legame radicato nel tempo

Negli ultimi anni il fenomeno degli eSport ha dimostrato quanto sia forte il legame tra il mondo dei videogiochi e quello dello sport, soprattutto se consideriamo il formarsi di squadre e leghe professionistiche, come la Overwatch League o il tesseramento di molti pro player da parte delle squadre di calcio, com’è successo in Italia con Mattia “Lonewolf92” Guarracino tesserato dalla Sampdoria.
In realtà, questi due mondi avevano già molte cose in comune, già a partire dalla metà degli anni ‘80: stiamo parlando delle sponsorizzazioni di vari publisher e sviluppatori sulle maglie di molte squadre di calcio dal blasone nazionale e internazionale. In questo numero di EVOL faremo un excursus storico su questo tema.

Partiamo dagli inizi: dobbiamo la palma di pionieri del genere alla Commodore, allora tra i leader del settore videoludico. Dal 1988 fino al ‘92/’93, l’azienda fondata da Jack Tramiel è apparsa sulle maglie del Chelsea: i tempi dei petrodollari di Roman Abramovich e del tatticismo di Maurizio Sarri erano ancora lontani, visto che la squadra londinese retrocesse in Second Division (la attuale Championship) alla fine della stagione ‘87/’89, salvo poi ritornare in First Division (ora Premier League) dopo un anno per poi veleggiare in zone di metà classifica. Nella stagione ‘93/’94 vi fu una piccola sostituzione: da Commodore si passò ad Amiga, però senza cambiare risultati, visto che la squadra allora allenata da Glenn Hoddle finì la stagione al quattordicesimo posto, perdendo inoltre la finale di FA Cup contro il Manchester United.
Commodore nel frattempo finì anche sulle maglie del Bayern Monaco in Germania dal 1984 fino al 1989, ottenendo risultati decisamente migliori rispetto ai blues, visto che i bavaresi vinsero ben quattro scudetti, una coppa e una supercoppa di Germania. Risultati analoghi anche in Francia, visto che il Paris Saint Germain, dal 1991 al 1995, vinse due coppe di Francia, una coppa di lega e un campionato nazionale.

Passiamo a Sega, che cominciò a sponsorizzarsi in casa con il JEF United, squadra di Ichihara che dal 1992 al 1996 ottenne solamente dei risultati da mezza classifica. Ben più celebre, invece, l’operazione di marketing che portò Arsenal, Deportivo La Coruña, Saint-Etienne e Sampdoria ad avere il logo di Sega Dreamcast sulle maglie. Fu un’operazione che per molti decretò il flop dell’ultima console della casa giapponese, anche a causa del costoso accordo con i “gunners”. Alla fine, solamente la squadra allenata ai tempi da Arsene Wenger ottenne dei buoni risultati nel triennio che va dal 1999 al 2002, con un Charity Shield (oggi Community Shield), una FA Cup e un campionato vinto. La Sampdoria finì quinta in Serie B per le due stagioni (1999-2002), mentre la singola stagione (2001) della console Sega sulle maglie della squadra francese e spagnola non regalarono molte gioie, visto che il Deportivo arrivò secondo e staccato di sette punti dal Real Madrid e, il Saint-Etienne, addirittura retrocesse in Ligue 2.
Curiosamente, Sega aveva già avuto legami con il calcio nel nostro paese, con le indimenticabili pubblicità di Master System II, Game Gear e Mega Drive con protagonisti Walter Zenga, Gianluigi Lentini e l’attuale CT della nazionale italiana Roberto Mancini, allora stella della Sampdoria campione d’Italia nel 1991.

Dopo Sega è il turno di Nintendo: l’associazione più nota è quella con la Fiorentina dal 1997 fino al 1999, anni dove i viola finirono nella parte alta della classifica andando a un passo dallo scudetto nel 1998 (alla fine ottennero un terzo posto), sfumato per il grave  infortunio ai danni di Gabriel Omar Batistuta, capitano e stella della squadra. Ben prima invece, nella stagione 1992-1993 il Siviglia di Diego Armando Maradona, sponsorizzato dal Super Nintendo, concluse la stagione al dodicesimo posto. Invece, in madrepatria, l’azienda di Kyoto detiene il 16,6% della proprietà del Kyoto Sanga FC, squadra che vivacchia in seconda divisione e che ha avuto il suo piccolo momento di gloria nel 2002, con la vittoria della Coppa dell’Imperatore.

Storia travagliata, invece, per quanto riguarda Atari: se gli appassionati si ricorderanno della maglia del Lione dal 1999 al 2001 con i loghi dell’azienda, oltre che di Infogrames, e capace di vincere una coppa di lega francese, pochi sapranno che la compagnia fondata da Nolan Bushnell e Ted Dabney era coinvolta, sotto l’agglomerato di aziende della Warner Corporations, in una importante fetta dei New York Cosmos e della North American Soccer League. All’epoca il calcio statunitense era fortemente amatoriale, ma grazie alla mostruosa disponibilità economica derivante dal gruppo Warner, i Cosmos riuscirono ad acquistare Pelè, probabilmente il più forte calciatore di tutti i tempi. La compagine della grande mela riuscì a vincere ben tre campionati dal 1977 al 1980, non solo grazie all’apporto di “o rey”, ma anche con l’arrivo di vecchie glorie sulla via del ritiro, come Franz Beckenbauer o la leggenda della Lazio, Giorgio Chinaglia. Purtroppo la NASL, l’allora campionato di calcio nordamericano, cessò di esistere nel 1984, con squadre soffocate da debiti e con sponsor sull’orlo del fallimento: tra di esse vi era proprio Atari, reduce dal flop commerciale del tie-in di E.T. che, non solo causò il celebre crash dei videogiochi, ma anche il fallimento sia dei New York Cosmos, che della NASL stessa.

L’unica big che manca al riassunto è Sony: pur essendo conosciuta anche per il marketing rivoluzionario e al passo con i tempi, l’azienda giapponese ha solamente sfruttato il marchio PlayStation per sponsorizzare l’Auxerre, squadra francese che milita attualmente in Ligue 2 e che, dal 1999 al 2006 ha solamente vinto due coppe di Francia. Ben più nota invece, la sponsorizzazione dell’azienda madre sulle maglie della Juventus dal 1995 fino al 1998, anni dove la “vecchia signora” vinse due scudetti, due supercoppe italiane, una supercoppa UEFA, una coppa intercontinentale e la Champions League del 1996, vinta contro l’Ajax.

Concludiamo con un rapido excursus riguardanti altre compagnie: Capcom sulle maglie del Cerezo Osaka dal 1994 al 1996, Konami su quella dei Tokyo Verdy dal 1999 al 2001, la brevissima parentesi natalizia di Pro Evolution Soccer 2009 con la Lazio, il rivale FIFA con lo Swindon Town dal 2011 al 2014, Football Manager sponsor del Watford nella stagione 2012-2013, Ocean Software che sponsorizza Jurassic Park nelle maglie dell’FC Martigues nel 1993 e la partnership tra Eidos e il Manchester City dal 1999 al 2002.

E attualmente? Le uniche presenze videoludiche nel calcio attuale sono limitate solamente a due squadre: una è l’AFC Wimbledon, squadra di League One inglese (il corrispettivo della nostra Lega Pro, per intenderci) che, dal 2002 a oggi viene sponsorizzata da Football Manager, venendo pure usata nelle immagini dimostrative del popolare manageriale calcistico di Sports Interactive. L’altra squadra ad avere forti legami col settore videoludico sono i Seattle Sounders della Major League Soccer americana, sponsorizzati da Microsoft: nel 2009-2010 con il logo di Xbox Live e dall’anno successivo semplicemente dalla console di casa Redmond. I Sounders vantano nel loro palmares una vittoria della MLS nel 2016 e una U.S. Open Cup nel 2014.

La storia ci insegna che il calcio, ma anche molti altri sport (su tutti il wrestling, e cito due nomi: Xavier Woods e Kenny Omega, quest’ultimo addirittura nei panni di Cody in un trailer per Street Fighter V) hanno un legame fortissimo con i videogiochi, e il recente interessamento del CIO per gli eSport ha radice ben più profonde del semplice interesse economico.




Atari Entertainment System: storia di un accordo andato a male

A molti giocatori ormai è nota, grazie ad articoli e documentari, la storia del crollo del mercato dei videogiochi del 1983 in Nord America: troppe console da gioco, “deflazione” di software videoludici, molti dei quali di bassissima qualità e l’abbassamento dei prezzi dei primi computer per uso casalingo furono le cause per cui le console dedicate ai videogiochi stavano per diventare una meteora nella storia dei prodotti di consumo. La crisi portò anche alla chiusura di Atari Inc., fautrice della diffusione del medium, che avrebbe potuto scongiurare forse lo sfacelo uscendo dall’imminente fallimento a testa alta. Reduce da un buon successo in Giappone, Nintendo voleva che Atari diffondesse in Occidente (a cominciare dagli USA) la propria nuovissima console, il Famicom, ma ciò che poteva essere una storia a lieto fine si concluse con l’abbandono del progetto, portando quasi a una battaglia legale fra tre compagnie. Questa è la storia del mai uscito Atari Nintendo Entertainment System.

Un buon affare

Negli Stati Uniti, Atari era semplicemente sinonimo di videogioco. Nonostante la crisi che stava per prendere piede, la società fondata da Nolan Bushnell (e poi acquisita da Warner Communications) era ancora tra i leader indiscussi e il loro brand era una vera e propria garanzia in termini di qualità. Nel frattempo Nintendo dominava nell’arcade con Donkey Kong ma era intenta a entrare nelle case dei giocatori con una console proprietaria che svilupparono dall’inizio degli anni ’80; il solo insuccesso di Radar Scope del 1979 nelle sale giochi americane (di cui abbiamo parlato nel nostro articolo Super Mario History) portò Nintendo a essere cauta, capendo che il successo arcade dovuto a Donkey Kong non era sufficiente per lanciare una console in quel territorio. Avevano bisogno di una figura oltreoceano in grado di vendere la loro nuova macchina che il visionario Hiroshi Yamauchi vedeva come la migliore console mai creata (ricordiamo che la console era pronta ma non ancora in vendita) e che sarebbe rimasta immune alla crisi del 1983. Nintendo considerò prima una partnership con Coleco, alla quale cedettero la licenza per sviluppare Donkey Kong per le console, ma Yamauchi si ricredette presto chiedendo a Howard Lincoln, già a l’epoca chairman di Nintendo of America, di contattare Atari per stipulare un accordo. Il CEO della compagnia di Kyoto, nonostante conoscesse la situazione del mercato in Nord America, credeva nel brand Atari in quanto, nonostante la concorrenza spietata nel settore, la storica società spiccava ancora all’interno del mercato videoludico, e una partnership avrebbe significato sfruttare il loro canale di distribuzione e la notorietà del marchio, sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo. Nell’aprile del 1983, dopo una chiamata telefonica, Howard Lincoln e Minoru Arakawa andarono al quartier generale di Atari per parlare con Ray Kassar, allora presidente, e con avvocati e programmatori per rispondere a tutte le domande riguardanti il Famicom. L’occasione sembrava essere una manna dal cielo per la compagnia americana che, nel frattempo, si trovava in cattive acque: la grafica e le potenzialità dell’Atari 2600 erano datate, l’Atari 5200 rimaneva in magazzino, le vendite di E.T. the Extra-Terrestrial avevano comportato gravi perdite e nel frattempo si avviavano i progetti (insieme alla General Computer)  dell’Atari 7800 con le poche risorse finanziarie rimaste. L’accordo con Nintendo, permetteva ad Atari di avere ben due console per cui, se una falliva potevano rifarsi con l’altra. Non avendo nulla da perdere Skip Paul, vice presidente della compagnia americana e altri legali di Atari volarono a Kyoto insieme a Howard Lincoln e Minoru Arakawa nel maggio 1983 per incontrare Hiroshi Yamauchi, parlare degli accordi commerciali e provare il Famicom.
Una volta lì scoprirono l’offerta di Nintendo che per Atari risultava abbastanza vantaggiosa:

  • Nintendo avrebbe costruito, assemblato, testato le schede madri del Famicom per poi venderle ad Atari per 5.300 Yen a pezzo.
  • Nintendo avrebbe prodotto i giochi su richiesta di Atari per poi cederglieli assemblati e senza etichetta per 1.500 Yen a cartuccia (con un ordine minimo di 100.000 unità).
  • Atari avrebbe dovuto iniziare con un ordine di due milioni di schede madri per Famicom: un milione sarebbero state destinate ai territori NTSC, 700.000 nei territori PAL e 300.000 in quelli SECAM.
  • Atari si sarebbe impegnata a dare a Nintendo, alla firma del contratto, 5 milioni di dollari per pagamenti futuri e altri 3.5 milioni per avviare lo sviluppo del primi prototipi PAL e SECAM.
  • Per venire incontro alle richieste del FCC (Federal Communications Commission) negli Stati Uniti, Nintendo avrebbe dovuto apportare delle modifiche tecniche alle schede madri originali per soddisfare requisiti di potenza elettrica; per questi motivi le schede per il mercato americano sarebbero state fisicamente diverse da quelle del Famicom. Atari si doveva impegnare a creare un nuovo design estetico per accomodare la forma delle nuove schede madri.
  • Il contratto avrebbe avuto una durata di quattro anni, al termine dei quali sarebbe potuto essere rinnovato.

Con questi termini, Nintendo contava di piazzare 100.000 unità nei negozi  con l’aiuto di Atari per il 31 agosto di quell’anno insieme a quattro giochi, in modo che la console potesse diventare popolare entro Natale. D’altro canto Atari, pur introducendo un concorrente sul proprio mercato di riferimento, avrebbe beneficiato delle vendite dal lato publisher: la strategia si sarebbe rivelata un win-win in ogni caso. In tutto questo, durante le negoziazioni, Hiroshi Yamauchi entrava e usciva continuamente dalla sala del meeting; Howard Lincoln spiegò ai rappresentanti Atari che il CEO giapponese era una persona molto impaziente e che, se avessero esitato, avrebbero potuto perdere l’occasione per collaborare con Nintendo (in realtà pare fosse una tattica che Yamauchi metteva spesso in atto per mettere pressione agli investitori). Skip Paul andò in un’altra stanza per chiamare Ray Kassar e riferirgli i termini degli accordi. Al suo ritorno chiese a Lincoln di preparare i contratti: l’accordo era quasi concluso. La firma sarebbe avvenuta il mese successivo al Consumers Electronic Show di Chicago, dove Nintendo e Atari avrebbero tenuto il loro prossimo meeting.

La disastrosa fine

Hiroshi Yamauchi, Minoru Arakawa e Howard Lincoln arrivarono al CES, ma furono accolti con ostilità. I responsabili Atari avevano infatti visto nello stand di Coleco una nuova versione di Donkey Kong da commercializzare sul computer Adam. Secondo un accordo precedente, Atari aveva la licenza esclusiva per sviluppare il popolare gioco arcade per i computer, mentre a Coleco spettava la produzione per le console. Atari accusò Nintendo di tradimento ed erano pronti a far causa tirandosi fuori dall’accordo del Famicom. Quel pomeriggio il CEO di Coleco, Arnold Greenberg, fu invitato nella suite dell’albergo del CEO di Nintendo per trovare uno Yamauchi furioso che lo accusava di aver distrutto un accordo da milioni di dollari con Atari.
Il libro Game Over di David Sheff (dalla quale sono state prese buona parte delle fonti per questo articolo) racconta che il CEO americano si difese dicendo che l’Adam era un’espansione del Colecovision e che la versione mostrata nel loro stand girava anche sulla console base. Al presidente giapponese non bastarono le scuse di Arnold Greenberg e lo invitò a non vendere quella specifica versione o altrimenti avrebbero fatto causa fino a farli chiudere. Dal lato Atari, si preparava un altro terremoto, con Ray Kassar costretto a dare le dimissioni dalla posizione di presidente il mese successivo anche per la cattiva gestione di questo caso, che si sommava alle perdite derivanti dai progetti di E.T. e Pac-Man, il cui porting su console era stato sovrastimato: a dar il colpo finale ai rapporti fra Kassar e Steve Ross, presidente di Warner Communications, fu una pesante accusa di insider trading derivante da una vendita di 5.000 delle azioni in suo possesso avvenuta 20 minuti prima che Atari annunciasse il bilancio annuale, che registrava perdite per 536 milioni di dollari. A settembre, dunque, Nintendo, Atari e Coleco si riunirono per rivedere gli accordi sulla distribuzione di Donkey Kong, ma nonostante i progressi fatti col meeting, l’accordo fra Nintendo e Atari saltò definitivamente. Tuttavia, fra i mesi del CES e della riunione a settembre, per Atari Inc. cominciò la spirale di eventi che portò alla sua chiusura: nell’arco di un anno erano stati persi, come detto, più di 500 milioni di dollari, un quarto dei dipendenti si ritrovò senza lavoro, i giochi vennero venduti per un decimo del loro prezzo originale; Warner Communications, proprietaria di Atari, prese un duro colpo in borsa, molti progetti furono cancellati e altrettanti uffici chiusi. In seguito Atari Inc. chiuse i battenti e gli asset hardware furono comprati da Jack Tramiel, fondatore della Commodore, che la riorganizzò in Atari Corporation; come conseguenza, la divisione software, Atari Games, fu venduta e gestita da Namco e l’Atari 7800 uscì nei negozi solamente nel 1986, con un anno di ritardo rispetto al Nintendo Entertainment System.
Col tempo si fecero avanti diversi rumor riguardanti l’accordo fra le due compagnie: un avvocato della Warner Communications informò alcuni dirigenti Nintendo che Atari non aveva abbastanza soldi per comprare la licenza del Famicom e che i loro veri obiettivi nei negoziati erano tenerli fuori dai mercati al di fuori del Giappone e imparare qualcosa di nuovo in termini di tecnologia e marketing; sarebbe per questo motivo che l’Atari 7800 risultò la console più potente fra le due. Per quanto una tale affermazione possa avere delle basi, è difficile sostenere che Atari non volesse fare affari con Nintendo: di recente è stato ritrovato un prototipo di Joust, il primo gioco programmato da Satoru Iwata per NES, risalente al 1983, titolo che non arrivò sulla console nipponica prima del 1987.
A ogni modo, il mancato accordo fra le due compagnie è stato decisamente un bene per la compagnia giapponese: Nintendo, col tempo, ha potuto studiare meglio il mercato americano e nel 1985 ha rilasciato il suo NES con risultati strabilianti. La chiave per entrare sul mercato fu trovata con un semplice stratagemma: passare dai negozi di elettronica a quelli di giocattoli. Ma questa è una storia a parte, che racconteremo magari un’altra volta. Per ricordare però il successo del NES basta guardare i numeri: la console giapponese raggiunse il milione (e cento) di unità in un solo anno, l’Atari 7800 in un arco di tempo che va dal 1986 al 1988. Atari invece rimase sola e, nonostante una buona linea di computer e console hit or miss, non riuscì più a conquistare la fiducia dei consumatori, non la stessa dei tempi dell’Atari 2600. Probabilmente l’accordo non avrebbe beneficiato nessuno dei due.

(La curiosa immaginazione di un utente su internet)