L’evoluzione dei controller Pt.2 – gli anni 2000

I controller, dagli arcade alle console casalinghe, hanno fatto tanta strada, passando da controlli digitali a controlli analogici in grado di permettere movimenti a 360°. Quali altre sorprese attendevano i giocatori al volgere del millennio? Controller di precisione assoluta, con un design futuristico e funzioni all’avanguardia? Vediamolo insieme in questo nuovo articolo a continuazione del primo che vi invitiamo a leggere prima di questo.

La generazione 128-bit – la generazione X

Sega, dopo il fallimento del Saturn in Nord-America ed Europa, era decisa a lanciare una nuova macchina da gioco che spezzasse totalmente col passato e per farlo aveva bisogno anche di un controller che offrisse ai giocatori un nuovo modo di giocare i titoli SEGA. Il bianco controller del Dreamcast, che si rifaceva al 3D Pad del Saturn, non sembrava affatto un prodotto SEGA: la disposizione a sei tasti frontali fu abbandonata in favore del layout a rombo, dunque con quattro colorati tasti frontali come PlayStation e Super Nintendo, ma con i classici trigger analogici del precedente pad. Questo controller è in definitiva molto comodo, più piccolo rispetto al suo antenato, anche se non risulta il massimo per lunghe sessioni di gioco: al di là della strana scelta di far passare il cavo dalla parte bassa del controller e non da sopra, fu montata una levetta analogica convessa che, in assenza di una gommina come nel Dual Shock, scivola facilmente dalla pressione del pollice del giocatore, soprattutto quando la mano comincia a sudare dopo lunghe sessioni di gioco; in aggiunta a tutto questo, qualora ci serva, il controller del Dreamcast monta una croce direzionale rialzata, realizzata con plastica durissima e stranamente “iper-spigolosa”, un calvario per chi vuole giocare con gli eccellenti picchiaduro ospitati nell’ultima console SEGA. Tuttavia il nuovo controller per Dreamcast presentava anche due slot, quello frontale indicato per inserire la VMU, ovvero una piccola memory card dotata di un piccolo schermo a cristalli liquidi; non tutti i giochi sfruttarono questa caratteristica (molti giochi mostravano semplicemente il logo del gioco in esecuzione) ma altri invece, come Skies of Arcadia e Sonic Adventure 2, riuscirono a creare una sorta di interazione col gameplay in corso. Nell’altro slot i giocatori avrebbero potuto inserire  il Rumble Pack, più indicato visto che, nonostante possa accogliere una seconda VMU, non è possibile vedere il secondo schermo. Nonostante tutto, parte dell’abbandono dello sviluppo su Dreamcast è dovuto in parte anche al controller: che possa piacere o meno, la verità è che il controller presenta soltanto sei tasti quando PlayStation 2 e Xbox ne presentavano otto e dunque, ammesso che fosse possibile fare dei porting dedicati per Dreamcast, era impossibile per la console accogliere dei giochi che sfruttassero più comandi di quelli previsti. Il controller per Dreamcast non è assolutamente pessimo ma sicuramente SEGA avrebbe potuto fare di meglio.

Cos’è? È un meteorite? Un aquila? Un U.F.O.? No! È il cosiddetto “Duke“, il controller originale della prima Xbox! Questo titanico controller, all’apparenza, sembra presentare un layout a rombo come quello PlayStation o Dreamcast (vista anche la vicinanza fra SEGA e Microsoft in quel preciso periodo) ma in realtà, presenta invece il layout a sei tasti simili ai controller di Mega Drive e Saturn ma disposti in verticale! Non tutti capirono questo sistema e il tutto risultava abbastanza scomodo e poco risoluto. Il controller fu nominato “errore dell’anno 2001” da Game Informer,  ma Microsoft aveva un asso nella manica: il “Duke” fu messo in bundle con la console in tutto il mondo con l’eccezione del Giappone. Per quello specifico mercato Microsoft disegnò un controller che potesse meglio accomodare le più piccole mani dei giocatori giapponesi e così, su richiesta dei fan, il “Duke” fu presto sostituito dal migliore controller “S“. Con questo controller, il cui nome in codice era Akebono (fu il primo lottatore di sumo non giapponese a raggiungere il rank di Yokozuna), i giocatori ebbero in mano un controller veramente di qualità anche se non poteva essere considerato realmente uno dei migliori: fu scelto un più semplice layout a rombo preciso, come quello del DualShock, ma i tasti “bianco” e “nero” finirono in basso a destra dal set principale (i tasti colorati), rendendo il tutto poco comodo, specialmente quando quei tasti servissero immediatamente. I giocatori Xbox dovevano ancora attendere una generazione affinché ricevessero uno dei migliori controller mai realizzati. Il “Duke” però, fra amore e odio, lasciò comunque una qualche traccia nel cuore dei giocatori, tanto che l’anno scorso Hyperkin rilasciò una riproduzione ufficiale di questo strano controller per PC e Xbox One!

In questo rinascimento dei controller anche Nintendo decise di sperimentare con il joypad da lanciare con la successiva console. Il controller per il GameCube è all’apparenza molto strano ma una volta fatto il callo con le prime sessioni di gioco ve ne innamorerete! Il controller si accomoda perfettamente alla forma della mano, offrendo una saldissima presa, ma sarà l’anomala disposizione dei tasti la vera protagonista: al centro troveremo un bel tastone “A”, mentre alla destra, alla sinistra e al di sopra di questo tasto principale, ci saranno i tasti, rispettivamente, “B”, “X” e “Y”, tutti con una forma diversa. Questa scelta fu presa per permettere al pollice, impegnato principalmente col tasto “A”, di raggiungere tutti i tasti attorno, ma principalmente, secondo Shigeru Miyamoto, per permettere una migliore memorizzazione dei tasti del pad. Insieme a questi tre tasti ne troviamo tasti dorsali e una levetta “C” (in sostituzione dei tasti “C” del Nintendo 64) per un totale di sette tasti. Anche questo controller, come quello per Dreamcast, soffriva per un tasto in meno ma a differenza della sfortunata console SEGA, tramite alcuni stratagemmi, riuscirono ad aggiudicarsi dei buoni e gettonati porting dell’epoca anche con quello strano controller.
Più in là Nintendo produsse per GameCube il Wavebird, il primo controller wireless prodotto da un first party dai tempi di Atari. Il controller, che funzionava con le frequenze radio, mancava della funzione rumble ma risolveva in prima persona il problema dei cavi per terra, avviando così il trend, nella generazione successiva, di includere un controller wireless incluso con la console.
Un po’ come il DualShock, questo controller non ne ha mai voluto sapere di morire o passare di moda, tanto è vero che a tutt’oggi è considerato la quintessenza per giocare a qualsiasi gioco della serie Super Smash Bros.; a testimonianza di ciò esistono le “re-release” di questo particolare controller, nonché il Pro Controller PowerA (ufficialmente licenziato) per Nintendo Switch che aggiunge i tasti “home“, “” e “+” e un dorsale sul lato sinistro del controller (ovvero l’ottavo tasto mancante nell’originale).

“Se qualcosa funziona, non aggiustarla”: come anticipato nella prima parte, fu questa invece la filosofia di Sony per questa generazione. Il DualShock 2 rimase quasi lo stesso, implementando principalmente i tasti analogici per tutti i tasti frontali e dorsali, offrendo ancora più precisione del già precisissimo DualShock. PlayStation 2 è la console più venduta di tutti i tempi e un controller così funzionale è a testimonianza della qualità di questa superba macchina da gioco.

Eccellenza e motion control

Prima di introdurre il trend dei motion control, che molto caratterizzò questa generazione, vorremo prima ammirare il fantastico controller per Xbox 360. Questa volta Microsoft si superò consegnando una versione rivisitata del controller “S“, con una presa migliorata, un layout a diamante, permettendo al pollice di raggiungere i tasti con più facilità, quattro tasti dorsali come il DualShock, eliminando i tasti “bianco” e “nero“, e un bel “tastone” home che permetteva anche di avviare la console come un telecomando. La ciliegina sulla torta fu rappresentata dal jack per l’auricolare in bundle con la console in modo da connettere i giocatori online via chat vocale; una feature che diventerà obbligatoria dopo questa generazione. Questo controller diventò in poco tempo anche il controller non ufficiale della scena PC proprio per la sua incredibile versatilità e maneggevolezza e ancora oggi, per chi lo possiede sente il bisogno di acquistare la nuova versione per Xbox One, viene ancora utilizzato da moltissimi giocatori per PC di tutto il mondo. I primi controller in bundle con la console avevano la tendenza, dopo un po’ di usi, al drifting, ovvero un input fasullo dovuto ad alcuni residui di polvere del componente della levetta;  come la non compatibilità con gli HD-DVD e il “red ring of death“, il drifting fu il risultato della scelta di lanciare la console in fretta e furia ma fortunatamente tutti i problemi relativi ai primi lotti di console furono piano piano debellati, dunque anche i controller successivi al lancio, nonché quelli in bundle con i modelli “slim” e “S“, riscontrarono meno problemi di drifting.

Tuttavia, durante questa generazione non fu di certo questo controller a rubare la scena. Era il 2005, durante il periodo dell’E3, quando un trailer mostrò le capacità dello stranissimo controller per l’allora Nintendo Revolution (senza alcun video di gameplay, giusto per dare un ulteriore senso di mistero), in seguito divenuto Wii: la gente che lo utilizzava imitava azioni di ogni tipo, dal brandire uno spada e uno scudo, illuminare una stanza a mo’ di torcia, dirigere un’orchestra, ma anche azioni più comuni come tagliare ingredienti o pescare. In molti storsero il naso di fronte a questo controller a forma di telecomando ma la verità fu che il Wii Remote (o Wiimote) divenne ben presto, in un epoca in cui i tasti d’azione nei controlli erano otto (dieci se contiamo la pressione delle levette), un controller incredibilmente facile da utilizzare grazie ai suoi motion control. Persino genitori e nonni di tutto il mondo finirono per aver giocato, almeno una volta nella vita, a titoli come Wii Sport, Wii Play e molti altri titoli! Sebbene i titoli party erano quelli in cui era coinvolto più movimento, nonché i migliaia di titoli “shovel-ware” che finirono per riempire il catalogo dei giochi ufficiali Wii, non bisogna dimenticare titoli come The Legend of Zelda: Twilight Princess, Super Mario Galaxy, Metroid Prime 3, Mario Kart Wii, Disaster: Day of Crisis, Mad World o No More Heroes in cui il Wiimote aggiunse realmente un layer di profondità finora inesplorato. Il dominio motion control arrivò e tramontò col Wii ma è bene ricordare che fu un periodo molto particolare, tanto che arrivò a influenzare in un qualche modo anche la generazione successiva: ne sono ovvi esempi gli attuali controller DualShock 4 e Nintendo Switch, nonché il gamepad per Wii U (di cui parleremo più avanti).
Impatto a parte, cosa offre un Wiimote? In alto, insieme al pulsante power, troviamo un D-pad che, nonostante la strana posizione, funge perfettamente come un menù rapido in giochi come The Legend of Zelda: Twilight Princess e come metodo di controllo principale se utilizzato in orizzontale, diventando a tutti gli effetti un controller a là Nintendo Entertainment System visti anche i tasti “1” e “2” sull’altra estremità del controller, diventando un controller perfetto per i giochi platform 2D nonché gli stessi giochi per NES presenti nel catalogo della Virtual Console. Preso in verticale, esattamente sulla linea del pollice e indice troveremo un tasto grande “A” e un grilletto “B“, pronti immediatamente per l’uso mentre, sulla metà, troveremo invece i tasti home, “+” e “” (da questa generazione i veri sostituti dei tasti start e select); proprio sotto al tasto home, inoltre, vi è un piccolo speaker che riprodurrà alcuni effetti sonori dal gioco in esecuzione. Tuttavia un Wiimote, soprattutto se si vogliono giocare i giochi più belli, non è niente senza un Nunchuck, l’espansione naturale di questo controller: questa impugnatura offre al giocatore una buonissima levetta analogica e due ulteriori tasti, “C” e “Z“, sulla parte alta dell’impugnatura da premere con l’indice. I tasti effettivi, dunque sono sei (quattro se contiamo che “1” e “2” sono difficilmente raggiungibili in modalità Nunchuck), ma è chiaro che tutto ciò che viene a mancare viene compensato dai movimenti e dalle azioni da compiere, sia con il Wiimote che col Nunchuck, anch’esso parte dei motion control. Al lancio il Wiimote, che funge anche da puntatore (dunque un vero e proprio mouse), doveva includere sia accelerometro, che registra principalmente i movimenti, e un giroscopio che ne registra invece la posizione ma alla fine venne incluso solo il primo; più tardi fu rilasciato il Wii Motion Plus, un accessorio (una sorta di cubo) che ultimò definitivamente il controller per questa generazione aggiungendo il giroscopio, ma in seguito i futuri Wiimote furono costruiti con entrambi i componenti all’interno, rinominando il tutto in Wii Remote Plus. L’esperienza dei controlli per Wii furono strani e, tutto sommato, passeggeri ma i motion control sono a tutt’oggi presenti, in misure più o meno incisive (ma sicuramente meno presenti) a seconda dei giochi, come in Splatoon 2 o Super Mario Odyssey.

Per il resto Nintendo offrì un ulteriore controller a otto tasti rinominato Classic Controller, simile a un controller per Super Nintendo, per giocare al meglio i giochi della Virtual Console, specialmente quelli post-NES. Il Classic Controller Pro, che aggiunse principalmente due maniglie (a là DualShock) per una migliore presa, fu invece il metodo principale per giocare a giochi come Goldeneye 007 (2010) o Samurai Warrior 3 (tanto che venne incluso in bundle), sottolineando invece come i motion control, spesso, risultavano superflui e quanto invece servisse un controller semplice per godersi al meglio alcuni titoli.

L’annuncio del Wiimote colse tutti di sorpresa e fra quelli c’erano anche i concorrenti Microsoft e Sony. La prima lasciò perdere totalmente, almeno per l’inizio, in quanto investire immediatamente avrebbe rappresentato un rischio inutile, senza contare il fare la figura dei copioni, e poi l’analizzare con pazienza il trend dei motion control avrebbe permesso lo sviluppo di un set più originale e avanzato; ovviamente stiamo parlando del Kinect ma qui eviteremo di parlarne in quanto, essendo, sì, un metodo di controllo ma non un controller vero e proprio, non c’è nulla da “tenere in mano” e pertanto rimanderemo questa conversazione a qualche altro articolo. Sony invece cominciò a correre ai ripari in quanto, nonostante le critiche mosse al Wiimote, i motion control erano visti come la prossima grande cosa. Inoltre in pochi sanno che Sony aveva il DualShock 3 pronto sin dal lancio ma una causa legale contro la Immersion Corporation, proprio per la feature del rumble, li spinsero a togliere la vibrazione in favore dei motion control per offrire qualcosa di nuovo. Il Sixaxis fu annunciato otto mesi dopo l’annuncio del Wii Remote e in molti videro uno strafalcione del concetto offerto da Nintendo; il tutto fu aggravato non solo dal fatto che durante l’E3 del 2006 Warhawk fu l’unico gioco per PlayStation 3 a mostrare le capacità del Sixaxis ma gli sviluppatori alla Incognito Entertainment si lamentarono del fatto che il controller Sony arrivò soltanto 10 giorni prima dell’evento. PlayStation 3 fu lanciata fra il 2006 e il 2007 (in Europa) e agli imbarazzanti prezzo di lancio fu incluso un controller sconclusionato, le cui motion feature venivano utilizzate pochissimo, senza vibrazione e anche troppo leggero (dunque prono alla rottura in caso di caduta). Ciò che è peggio è che Phil Harrison, l’allora presidente della Sony Worldwide Studios, ebbe da dire che il rumble era una feature obsoleta e che il motion control era il futuro (senza contare che il Wiimote, seppur senza giroscopio, aveva motion control e vibrazione). I problemi per Sony finirono fra il 2007 e il 2008 quando il più efficiente e iconico DualShock 3, che (come abbiamo scritto nel precedente articolo) implementò i grilletti e la tecnologia wireless con batteria al litio ricaricabile, sostituì definitivamente il Sixaxis, finendo così la motion-avventura per Sony… o così sembrava!

La tecnologia Sixaxis finì direttamente all’interno di PS Vita, mentre su PlayStation 3, intenti e decisi a rilasciare un vero e proprio motion control, Sony rilasciò il PlayStation Move. Nonostante ancora scelsero di copiare direttamente ciò che faceva Nintendo, il nuovo controller Sony risultò ben costruito ed ebbe, fra alti e bassi, un buon successo: nonostante i movimenti potevano sostituire l’ausilio di qualche tasto, furono inclusi tutti i tasti di un DualShock intorno al controller e i primi giochi dedicati al Move, che dovevano essere giocati con la nuova ridisegnata Eye-toy, mostrarono degnamente il potenziale di questi controller. PlayStation Move, durante l’era della PlayStation 3, non ebbe il successo sperato ma questi furono interamente implementati per l’utilizzo di PlayStation VR, e dunque ancora oggi utilizzati dai giocatori di tutto il mondo.

(Nota: il Sixaxis non è presente in questa galleria in quanto differisce soltanto per la scritta “DualShock 3” sul lato alto del controller. Al di là dei motion control, che ovviamente in foto non si vedono, i due controller sono esteticamente identici.)

La mid-gen e i controller odierni

Con Wii Nintendo riuscì ad avvicinare molti casual gamer allontanando però molti hardcore gamer che nel frattempo, intenti a provare il gaming in HD, si spostarono verso Xbox 360 e PlayStation 3. Wii U fu rivelata durante l’E3 del 2011 e con essa il proprio “tablet controller”. Dopo una creativa disposizione dei tasti su Gamecube e un accantonamento generale durante la precedente generazione, Wii U proponeva un ritorno alle origini con una disposizione di tasti più vicina al Classic Controller Pro per Wii, un giroscopio e un touch screen per, letteralmente, vedere i giochi da una prospettiva totalmente diversa; insieme a tutto questo fu incluso un microfono, degli speaker e una telecamerina sulla parte alta dello schermo, dando come l’impressione che fosse una specie di Nintendo DS fisso. Nonostante le premesse, in pochi riuscirono a immaginare realmente un utilizzo innovativo del touchscreen, col risultato che pochissimi giochi sfruttarono al 100% le sue caratteristiche, come Pikmin 3, Splatoon ma soprattutto Super Mario Maker; insieme al controller, ad affondare fu l’intero sistema in quanto i developer difficilmente trovavano un vero utilizzo per il tablet controller, ma ciò che è peggio è che il pubblico non capì realmente cosa fosse il Wii U (un’espansione del Wii? una nuova console? Ne parleremo qualche altra volta).
In tutta questa grande confusione, il nuovo controller non sembrava piacere a tutti: c’era a chi piaceva e c’era chi lo odiava, e fra quelli c’erano sicuramente gli hardcore gamer, proprio quelli che la compagnia di Kyoto sperava di richiamare a sé. Fortunatamente per Nintendo, che si assicurò in ogni caso di rendere i precedenti Wiimote compatibili per il nuovo sistema, lanciò con la console anche il più versatile Pro Controller, molto più simile a un controller per Xbox 360. La particolarità di questo controller, come per il tablet, sta principalmente nel fatto di avere le levette analogiche allineate, entrambi sopra la parte inferiore in cui vi è il D-pad e i quattro tasti principali; in tutto questo, come ormai tutti i controller di quest’epoca, vi sono quattro tasti dorsali di cui due trigger. Il Pro Controller fu indubbiamente una mossa verso la direzione giusta ma, come sappiamo, non bastò per far spiccare Wii U fra Xbox One e PlayStation 4 lanciate l’anno successivo. L’esperienza di Wii U, anche in ambito di sistema di controllo, fu di grande aiuto in seguito per coniare Nintendo Switch.

Il nuovo controller per la Xbox One è una vera e propria evoluzione del già ottimo controller per Xbox 360, riportando in auge tutto ciò che rese grandioso il precedente controller, migliorandolo in maniera esponenziale. In seguito, Microsoft rilasciò anche l’Elite Wireless Controller con la quale, grazie a un kit dedicato, è possibile personalizzare il proprio controller con tasti programmabili sul dorso e anche sostituire levette e D-pad, offrendo un grado di personalizzazione mai visto in ambito controller.

Sony invece, forse anche un po’ a malincuore, sostituì l’ormai vecchio design del DualShock con uno nuovo più rotondeggiante, moderno e realmente all’avanguardia. Insieme alle novità del touch pad, dei sensori di movimento correttamente implementati e il led sul dorso del controller, il nuovo controller della PlayStation 4 si adatta ai tempi moderni offrendo al giocatore un immediato tasto share con la quale è possibile caricare sui social network i momenti salienti del proprio gameplay. In quanto a precisione, il controller per PS4 ha un retaggio che va indietro sino al primo DualShock, il che è senza dubbio un sinonimo di garanzia in quanto qualità dell’immissione degli input di gioco.

La natura ibrida di Nintendo Switch ha invece portato al concepimento di un controller formato da due pezzi, simile nell’esecuzione al Wiimote e il suo Nunchuck ma ben lontano dal suo concetto interamente focalizzato nei motion control. I due Joy-Con, sia in modalità portatile che in modalità fissa, offriranno al giocatore la tipica disposizione a diamante ormai tipica dei controller Nintendo, mentre le levette, a differenza del gamepad per Wii U o del suo Pro Controller, stavolta si presentano disallineate per permettere tramite un solo set di Joycon la possibilità di giocare in due giocatori semplicemente tenendo il controller in orizzontale; in tutto questo i controller sono stati muniti di accelerometro, giroscopio e la nuovissima feature HD Rumble, un particolare tipo di vibrazione in grado dare un layer ancora più profondo di realismo (tipico è l’esempio delle biglie in 1 2 Switch). I Joy-Con, purtroppo, si sono resi protagonisti di uno spiacevole malfunzionamento, ovvero quello del drifting dopo circa un anno assiduo di gameplay ma Nintendo, per fronteggiare il problema, si è offerta di riparare i Joy-Con anche dopo il superamento della data di garanzia.
Nel caso voleste evitare il problema del drifting, nonché prendere in mano un controller più tradizionale, allora vi converrà passare al più preciso Pro Controller che offre le stesse feature dei Joy-Con (persino il riconoscimento degli Amiibo) ma con una presa decisamente più comoda e rilassata. In più è presente un D-pad in quanto scartata nei Joy-Con per permettere due pezzi perfettamente speculari e che si prestassero al gioco in due giocatori. Se non vuoi essere considerato un principiante a vita allora ti converrà passare al Pro Controller stasera stesso!

Futuro?

Finisce così la nostra strada che ci ha portato dai joystick ai joypad ma ovviamente, nonostante gli headset VR e chissà quali future diavolerie, i controller saranno destinati ad accompagnare per sempre il giocatore. Quali saranno le future innovazioni per i controlli? Come si controlleranno i videogiochi di prossima generazione? E in tutto questo: qual è il vostro preferito? Fatecelo sapere nei commenti!




L’evoluzione dei controller Pt.1 – Dal digitale all’analogico

Da giocatori ci concentriamo spesso su tanti aspetti dei videogiochi: grafica, artwork, sonoro, storia, contenuti extra e molto altro, ma ciò che li lega realmente è la giocabilità. E cosa detta la giocabilità? Qual è quella bacchetta che dirige quella sinfonia rappresentata dal gioco? Ovviamente è il controller, un accessorio fondamentale per godersi appieno gli infuocati gameplay di moltissimi videgame. Facendo eccezione della cara accoppiata “mouse e tastiera“, entità indissolubile dalle postazioni PC, daremo uno sguardo ai controller first party delle console con la quale sono stati lanciati, dalla comodità alle innovazioni apportate, nonché eventuali evoluzioni come il passaggio dal controller originale PlayStation al Dual Shock.

Dal Joystick al D-pad

In principio c’erano le arcade e i loro ingombranti cabinati diedero una soluzione tanto facile quanto intuitiva. Il piano di controllo presentava solitamente uno stick e dei tasti per eseguire delle azioni, come sparare in giochi come Berserk e Space Invaders o saltare in Donkey Kong. I videogiochi dei tempi erano molto semplici e spesso e volentieri era molto raro trovarne uno che usasse più di un tasto. Nonostante tutto, i primi produttori di console ebbero parecchia difficoltà a tradurre quel set di controlli in un qualcosa di casalingo e a basso costo (proprio per questi  motivi gli arcade stick, come il controller base del Neo Geo, costano parecchio). Il Fairchild Channel F, lanciato nel 1976, si avvicinò parecchio al set da salagiochi, incorporando direzione e azione (nonché anche rotazione) sullo stesso stick, ma fu il controller dell’Atari 2600, rilasciata l’anno successivo, a restituire più fedelmente l’esperienza arcade in quanto più semplice e intuitivo. Anche soltanto vedendo in fotografia si riesce tranquillamente a immaginare l’impugnatura del contoller: la mano sinistra finisce per gestire lo stick mentre la mano destra si occupa di tener saldo il controller e con il pollice premere il tasto rosso che si andrà a posizionare perfettamente sotto di esso. La semplice impugnatura permise a chiunque di capire come funzionassero gli all’ora nuovi videogiochi e furono mosse del genere che portarono l’Atari 2600 di diventare la più venduta macchina da gioco della cosiddetta seconda generazione di console. Lo stile “joystick” fu emulato immediatamente, come dimostrano i controller base per Magnavox Odyssey² (punto cardine del nostro ultimo articolo), Colecovision e Commodore 64, ma la vera sorpresa è che questo set, nonostante la rivoluzione del D-pad e delle levette analogiche (di cui ovviamente parleremo più avanti), è sopravvissuto fino a oggi, principalmente come flight stick usati solitamente nei simulatori di volo per PC.
Va inoltre ricordato che Atari fu anche la prima compagnia a offrire dei controller wireless (radio) first party; più in là vennero prodotti controller wireless per tutte le console ma fu solo tanti anni dopo, col Nintendo Gamecube, che una compagnia first party prese in considerazione di produrre controller wireless per la propria console.

Parallelamente allo stile “Joystick“, anche nelle arcade apparvero giochi che sfruttavano quattro tasti disposti a croce che in un qualche modo indicavano la possibilità di eseguire qualcosa di direzionato: è il caso di Vanguard, famosissima prima hit della SNK, la cui navicella pilotata poteva sparare in quattro direzioni (ricordiamo che è possibile provare Vanguard nella SNK 40th Anniversary Collection). Il controller dell’Intellivision (di cui parlammo nel nostro vecchio articolo delle impressioni a caldo dell’Intellivision Amico) anticipò il concetto del D-pad con il suo strano dischetto metallico girevole in grado di registrare ben 16 direzioni ma il risultato non fu dei migliori in quanto concepito come una sorta di sostituto dello stick, dunque messo in alto nel controller, e perciò risulto scomodo e poco intuitivo.
In Giappone intanto un giovane Gunpei Yokoi, tornando a casa dal lavoro, vide un signore giochicchiare sulla metropolitana con la sua calcolatrice tascabile spingendo tasti a caso. Da quell’immagine il geniale inventore visionò un videogioco che fosse portatile, tascabile e possibilmente costruito con la stessa tecnologia della calcolatrice. Quello che ne venne fuori furono i primissimi Game & Watch, la prima incursione di Nintendo nel campo dei videogiochi portatili (la prima in assoluto fu la MB Microvision) e questo stesso concetto si evolverà in futuro nello stravolgente Game Boy. A ogni modo, i Game & Watch presentavano spesso metodi di controllo sempre diversi, a seconda del gioco, ma fu nel 1982 che il D-pad, come vera e propria crocetta direzionale, fece la sua prima apparizione nel Game & Watch di Donkey Kong, appartenente alla serie Vertical Multi Screen (a sua volta, questi particolari modelli con due schermi, apribili a conchiglia, ispireranno invece la creazione del Nintendo DS… vedi un po’!).

I Game & Watch erano piccoli e la loro tecnologia poteva permettere soltanto gameplay semplici e passeggeri, perciò il D-pad, per quanto innovativo, non veniva usato costantemente per questi portatili. Fu invece col Famicom che il D-pad prese piede e divenne un punto di riferimento per tutti i controller a venire: lo stile “Joystick” fu messo da parte per il nuovo modello “Joypad” in cui il controller passò da una presa verticale a una orizzontale che permetteva i movimenti con il pollice della sinistra e le azioni, una in più rispetto al controller di Atari, con quello della mano destra. Nintendo stava per lanciare il Famicom con tasti quadrati e di gomma ma poco prima del lancio il design dei controller fu cambiato in favore dei più classici tasti rotondi e di plastica, da sempre i più indicati in quanto quelli in gomma sono proni al deterioramento e spesso finiscono per funzionare sempre con più difficoltà (gli stessi tasti start e select dei controller Nintendo pre-N64 finivano per deteriorarsi). Con questo design furono girate le primissime pubblicità del Famicom: notate bene la forma dei tasti.

I controller del Famicom fuorono saldati all’interno della console e nel secondo controller i tasti start e select furono scartati in favore del microfono, caratteristica poco utilizzata ma che comunque diede un certo grado di innovazione, tanto che fece ritorno molti anni dopo col Nintendo DS. Il Famicom arrivò qualche anno dopo in America, Europa e Australia col nuovo nome Nintendo Entertainment System: oltre al nome fu rinnovato l’aspetto generale della console, più simile a un dispositivo HI-FI da mettere nello stesso mobile in cui venivano messi videoregistratori, mangianastri e giradischi, e ovviamente i controller, stavolta staccabili, con i cavi che uscivano dal lato lungo alto dei pad (e non dai lati corti come nel Famicom), più tozzi, senza la feature del microfono e con un nuovo design più serioso e futuristico.

Questo modello fu subito imitato da SEGA e Atari con le loro console Master System, terzo re-design della serie SG-1000, e Atari 7800 che rimpiazzarono loro vecchi joystick con dei joypad (Atari lanciò i suoi nuovi joypad soltanto in Europa). Il design del D-pad Nintendo era (ed è a tutt’oggi) un marchio registrato così i concorrenti aggiunsero una specie di dischetto nei loro controlli direzionali, una buona soluzione per evitare ripercussioni legali da parte di Nintendo. I loro nuovi controller furono tanto comodi quanto la loro controparte ma, per quanto il tasto start fu incorporato nei tasti d’azione, per mettere in pausa il gioco bisognava avvicinarsi alla console per premere l’apposito tasto per fermare il gameplay se si voleva fare una capatina in bagno.

La generazione 16-bit

Ad aprire le danze per le console di nuova generazione fu NEC con il suo PC-Engine (o Turbografx-16 negli Stati Uniti). Il controller in bundle con la console non portava alcuna innovazione, il suo design era pressappoco identico a quello del Famicom/NES, ovvero una croce direzionali, due tasti azione e due tasti menù; tuttavia, a rendere unico questo controller erano le sue levette per regolare il turbo, feature solitamente trovata in molti controller di terze parti qui invece inserite in un controller first party, probabilmente l’unico in tutta la storia dei videogiochi.

SEGA Mega Drive, o Genesis in Nord-America, arrivò in Giappone nell’Ottobre del 1988. Con il rinnovato hardware arrivò un nuovo precisissimo e più grande controller: la croce direzionale fu incastrata in un dischetto e il controller presentò un tasto d’azione in più e un tasto start di plastica al di sopra della stringa dei tre; questo controller fu inoltre il primo ad abbandonare il design quadrato “a telecomando” in favore del più moderno e comodo design tondeggiante, decisamente più ergonomico.

Nel 1990 Nintendo rispose al Mega Drive con il Super Famicom, la loro nuova macchina 16-bit (per vedere tutti i risvolti della grande console war dei 16 bit vi consigliamo di leggere questo articolo). Come Sega, Nintendo accompagnò il nuovo hardware con un nuovo rinnovato controller: anche la compagnia di Kyoto optò per un design più curvo ma aggiunse alla stringa dei due tasti d’azione del Famicom/NES un ulteriore stringa di due tasti al di sopra della prima, avviando così il trend del layout a diamante/romboidale, il tutto un po’ più obliquo rispetto al precedente controller i cui due tasti erano perfettamente orizzontali; in aggiunta alla nuova stringa doppia vennero anche aggiunti i due tasti dorsali “L” e “R” posizionati sul bordo alto del controller dove poggiavano naturalmente le dita indice di entrambe le mani, offrendo così al giocatore un controller a 6 tasti molto intuitivo e per nulla complicato.

Nonostante SEGA fosse il leader del mercato, il Mega Drive aveva solo tre tasti d’azione, tre in meno rispetto al Super Famicom/Super Nintendo  e la loro mancanza si sentiva principalmente per i super popolari Street Fighter II e Mortal Kombat che sfruttavano un set di sei tasti: per Street Fighter II: Special Champion Edition, la seconda versione del picchiaduro Capcom scelta come base per il porting per SEGA Mega Drive, bisognava alternare pugni e calci premendo il tasto start (togliendo al giocatore qualsivoglia possibilità di mettere il gioco in pausa) mentre per il porting di Mortal Kombat il tasto start fu impiegato per la parata dando al giocatore uno strano metodo per alternare pugno forte e pugno debole. SEGA più in là non poté fare altro che lanciare un nuovo controller a sei tasti, diversamente da quello Nintendo disposti a stringhe di tre uno sopra l’altro. Se non altro questo controller ricalcava perfettamente il set di tasti di Street Fighter II in Arcade e molti giocatori, ancora oggi, preferiscono questo specifico set per i tornei dei più recenti capitoli. Tuttavia SEGA dovette rinnovare il proprio controller mentre Nintendo rimase con lo stesso set dal lancio fino alla fine del ciclo vitale del Super Famicom/Super Nintendo, offrendo dunque un efficiente controller sin dall’inizio.

Il layout a tre tasti proposto da SEGA, sia a doppia stringa che a singola stringa, fu comunque ritenuto molto comodo e, così come la libreria dei giochi di Mega Drive e Super Nintendo, la disposizione dei tasti diventò anch’essa un motivo di preferenza. A testimonianza della sua comodità ne sono controller per Atari Jaguar e quello per 3DO che alla stringa di tre tasti, ne aggiunse due  dorsali e un tasto menù in più. Quest’ultimo controller è famoso per aver incluso, nel pad stesso, una porta per il multigiocatore (permettendo dunque, potenzialmente, a un infinito numero di giocatori di partecipare a un gioco multiplayer!) e un jack per gli auricolari, qui usato per ascoltare il sonoro ma che verrà ripreso, anni più tardi, per permettere ai giocatori di comunicare in ambiente online in controller come quello per Xbox e Dual Shock 3. Anche NEC utilizzò questo layout per lanciare il suo controller a sei tasti da lanciare col porting di Street Fighter II: Champion Edition per PC-Engine e lo stesso design (anzi, lo stesso controller) fu messo in bundle col PC-FX, suo successore meno fortunato.

La generazione 32/64-bit e l’arrivo degli analog stick

Ad avviare le danze per la nuova generazione fu SEGA che con il suo Saturn lanciò il suo nuovo controller che si rifaceva al Mega Drive: fu diminuita la corsa dei tasti per una maggiore precisione nei controlli e ne furono aggiunti due  dorsali per un totale di otto, a oggi il numero essenziale per ogni buon controller che si rispetti. In Nord-America ed Europa i controller che arrivarono avevano dimensioni diverse da quelli del Giappone: il design era sostanzialmente più massiccio e in molti lo trovarono scomodo; pertanto SEGA più in là sostituì i controller in bundle con la console con i più piccoli, comodi e leggeri controller destinati al Sol-Levante, stavolta di colore nero lucido come il design per la console in Nord-America e Europa. Questo controller non portò grandi innovazioni ma è a oggi uno dei più comodi e belli mai realizzati.

Come oggi si sa, PlayStation nacque da un accordo fallito fra Sony e Nintendo e il suo controller ne riflette le conseguenze: la disposizione dei tasti si rifà a quella del Super Nintendo, una forma a rombo più retta e per niente inclinata, con l’aggiunta di due tasti dorsali extra, facendo partecipare anche le dita medie di entrambe le mani al gameplay. Il controller Sony aggiunse due impugnature al di sotto del pad per una presa ancora più comoda e solida, l’ideale soprattutto per chi non avesse mai preso in mano un controller. Teiyu Goto, il suo designer, ebbe la geniale idea di utilizzare simboli, anziché lettere, che rappresentassero funzioni universali per qualsiasi videogioco:

  • Il triangolo verde rappresenta il punto di vista: alla punta del triangolo ci sarebbe la testa mentre la sua area rappresenta il suo campo visivo;
  • Il quadrato rosa rappresenta un foglio di carta: questo tasto sarebbe dovuto servire a richiamare i menù o i documenti;
  • La croce e il cerchio, rispettivamente blu e rosso, rappresentano il “no” e il ““: questi tasti sarebbero dovuti servire per prendere decisioni.

Anche se questo schema non fu mai assoluto, la disposizione dei simboli risultò molto intuitiva e fu molto facile memorizzare questo nuovo layout di tasti.

Tuttavia, la vera rivoluzione fu lanciata col controller Nintendo 64, il primo a includere (dal lancio) una vera levetta analogica, per un totale controllo dei movimenti a 360°. Il tridente, come spesso chiamato dagli appassionati, presentava una disposizione di tasti frontali con i due grossi “B” e “A” uno sopra l’altro e un set di tasti “Cdisposti a croce accanto ai primi due, dando al giocatore una disposizione simile a quella del Saturn ma chiaramente con funzioni diverse: i tasti “C“, di colore giallo, servivano a dare al giocatore un primordiale controllo dual analog in modo da offrire al giocatore un sistema per controllare la telecamera in giochi 3D come Super Mario 64 o Banjo Kazooie o mirare in sparatutto come Quake e Goldeneye 007. In quanto a dorsali il controller ne offriva tre ma, non ci si trovava mai con un gioco che sfruttasse tutti e nove i tasti, bensì sempre con otto: dietro l’impugnatura della levetta analogica si trova il tasto “Z” e pertanto, qualora il giocatore dovesse usare questa impugnatura, non gli verrà mai richiesto di premere il tasto “L” che si trova al di sopra dell’impugnatura col D-pad.
Nonostante in molti non trovassero ergonomico questo controller (in molti ancora oggi lo impugnano in maniera sbagliata) esso rappresentò il punto di svolta per tutti i controller a venire e, come risultato, Sony e SEGA dovettero rivisitare i propri mentre, Nintendo, ancora una volta, rimase con lo stesso pad dal lancio fino alla fine del suo ciclo vitale.

Chiusa una porta si apre un portone e infatti Sony rilasciò il più completo controller DualShock, con due levette analogiche per permettere tutto ciò che offriva  il rivale del N64, e l’innovativa funzione rumble inclusa all’interno del controller, a differenza del controller Nintendo a cui serviva attaccare il rumble pak. In aggiunta a queste feature innovative, le levette analogiche reagivano alla pressione esattamente come dei tasti, diventando ufficialmente “L3” e “R3“. Molti titoli furono ripubblicati per offrire i nuovi controlli analogici, come Resident Evil: Director’s Cut Dual Shock Ver., ma le future pubblicazioni si concentrarono nell’offrire sia il controllo analogico che il controllo tramite D-pad che, nonostante la coesistenza, cominciava a cedere il passo a questo nuovo tipo di controlli.
Il nuovo controller Sony fu così efficiente che il design generale, fra la prima PlayStation e la terza, subì pochissime rivisitazioni, offrendo al giocatore una presa e un controllo vicino alla perfezione: per la successiva generazione Sony cambiò i tasti digitali in tasti analogici, che ovviamente reagiscono alla quantità di pressione applicata, mentre su PlayStation 3 furono implementati i trigger analogici e resero l’intero controller wireless, con la possibilità di ricaricare la batteria a litio via USB. Alla fine il controller cambiò radicalmente soltanto con l’arrivo di PlayStation 4, con la quale fu implementato il piccolo led per identificare il giocatore, il touch pad e accelerometro a tre assi e giroscopio a tre assi, migliorando e implementando correttamente quello che non riuscirono a consegnare con il controller Sixaxis (di cui parleremo più avanti).

SEGA dal canto suo aggiornò il suo sistema di controllo con il nuovo e rinnovato 3D Pad, un controller decisamente più grande rispetto al modello base. Incluso in bundle con Nights into Dreams…, il 3D Pad può sembrare un controller scomodo e ingombrante ma in realtà è invece risulta ergonomico offrendo una presa più rilassata, particolarmente efficiente in giochi picchiaduro come Vampire Warriors: Darkstalkers’ RevengeStreet Fighter Alpha 2 o Virtua Fighter 2. Sebbene non abbia la funzione rumble e i controlli analogici non siano stati implementati per tutti i giochi a venire, il 3D pad fu invece il primo controller a implementare i Trigger analogici dorsali, caratteristica fondamentale di ogni buon controller per console o computer.

Col cambio della prospettiva, dai giochi 2D a quelli 3D, cambiarono anche i controller che da questo punto in poi, non sarebbero mai più stati gli stessi. Mutano i giochi, mutano i controller. Come sarebbero stati i controller successivi? Aspettate il prossimo articolo e continueremo a ripercorrere l’evoluzione dei controller fino al giorno d’oggi!




Atari Jaguar: quando la potenza non è tutto

Atari: il marchio che introdusse i videogiochi al mondo negli anni ’80, un tempo magico, in cui la grafica e il suono venivano compensati con l’immaginazione del singolo giocatore. Come sappiamo e abbiamo accennato anche in un nostro precedente articolo, Atari godeva di grandissima fama, tanto da essere sinonimo di videogioco, ma la crisi del 1983 portò alla chiusura di Atari.Inc e il suo marchio cadde nell’oscurità, per sempre eclissato da Nintendo. Sotto la leadership di Jack Tramiel, fondatore di Commodore che acquistò i suoi asset hardware per poi rilanciarli sotto il nuovo brand Atari Corporation, la compagnia si rialzò in piedi con lancio di Atari 7800; sebbene la console non costituì un fallimento, grazie anche alla deliziosa feature della retrocompatibilità con Atari 2600, questa non riusciva a reggere il confronto con Nintendo a livello di marketing, software e supporto di terze parti, neppure con il computer/console Atari XEGS, rimanendo di conseguenza una console di nicchia e per pochi appassionati. Nel 1989 Atari lanciò Lynx, la prima console portatile a colori e con display retroilluminato, un anno prima del più aggressivo Sega Game Gear che presentava più o meno le stesse caratteristiche. Ancora una volta, nonostante le sue ottime capacità, la nuova console Atari (che cominciò il nuovo trend interno di chiamare le proprie console con nomi di specie feline) non ebbe lo stesso supporto del Nintendo Gameboy e Sega Game Gear, finendo dunque per rappresentare la nicchia. Vale ricordare però che il Lynx, come l’Atari 7800 e i computer XEGS e ST, erano molto popolari in Europa, specialmente in Regno Unito che rappresentò, in un certo senso, il nuovo core-market dell’azienda. Dopo il 1992 Atari, che fermò la produzione del 7800, non aveva più nulla sul fronte delle console casalinghe, mentre nel frattempo Nintendo e Sega se le davano di santa ragione “a colpi di bit”. Con l’arrivo di Sega Mega Drive (o Genesis in Nord America) i giocatori vennero messi di fronte alla nuova parolina “bit”, un termine che in realtà nessuno sapeva cosa significasse realmente ma stava a sottolineare, in un qualche modo, la potenza hardware di una determinata console o computer. Grazie “all’esposizione dei bit” Sega potè accaparrarsi un netto vantaggio contro il Nintendo Entertainment System con i suoi 16bit, otto in più rispetto alla controparte, ma con l’arrivo del Super Nintendo la guerra, da lì in poi, fu combattuta ad armi pari.
Atari, visto anche che il Turbografx 16 di NEC non decollava al di fuori del Giappone (dove si chiama PC Engine), capì che bastava “averlo grosso” per vincere la partita… Il numero dei bit – maliziosi che non siete altro –! In questo scenario Atari avviò ben due progetti capitanati dall’esperienza di alcuni ingegneri provenienti dal Regno Unito, uno che avrebbe permesso di sbaragliare la competizione corrente e un altro per la generazione futura, visto che la successiva generazione di console cominciava a prendere qualche sembianza; questa è la storia dell’Atari Jaguar, una console che più di tutti ricordò ai giocatori che la potenza non è tutto.

(Jaguar, Jaguar, JAGUARRRRRRRRRRR!!)

Sete di conquista

Prima di parlare del Jaguar bisogna parlare del Panther, la console 32bit che avrebbe dovuto competere originariamente contro Super Nintendo e Sega Genesis. Il progetto originale risale nel 1988 anno in cui Atari, spinta dal voler riconquistare il cuore dei giocatori di tutto il mondo, avviò il progetto di un prototipo utilizzando la tecnologia di un Atari XEGS e la scheda video del Atari Transputer Workstation. Lo sviluppo andava bene ma i progressi non entusiasmavano nessuno all’interno dell’azienda; Richard Miller, vicepresidente di Atari Corporation (che fonderà più in là la VM Labs che ha portato il mondo il Nuon), andò a chiedere aiuto alla Flare Technolgy, una piccola compagnia inglese fondata da tre ex ingegneri di Sinclair Research, ovvero Martin Brennan, Ben Chese, che andò a lavorare più in là con Argonaut Games alla quale si deve il chip FX montato nelle cartucce dei giochi 3D dello SNES come Star Fox e Stunt Race, e John Mathieson, suo ex collega e amico. Flare era nota per aver prodotto il chip Flare 1 montato in alcune schede arcade ma soprattutto nel Konix Multisystem, console 100% inglese che fu cancellata per diversi motivi: il chip poteva permettere uno scaling mai visto prima, ancora più veloce di quello nell’Atari ST. Atari diede dei fondi a Flare per migliorare il chip esistente e inserirlo nel Panther e avviare parallelamente il progetto del chip Flare 2, che sarebbe stato parte dell’Atari Jaguar.
Grazie al supporto di Atari, Flare potè cominciare lo sviluppo di una nuova console 32bit contenente il nuovo chip migliorato, che venne chiamato Panther come l’automobile della moglie di Martin Brennan (la Panther Kalista) e, presto, la denominazione del chip finì per rinominare l’intero progetto e il prodotto definitivo. In tutto questo, con due progetti avviati, Atari sperava prima di mettere in difficoltà la competizione corrente col Panther e poi, successivamente, lanciare il Jaguar con i suoi 64bit, anticipando la prossima generazione e porsi dunque come la più potente (visto che si vociferava già delle console 32bit). Il Panther era quasi pronto ma i suoi dev kit, da distribuire agli sviluppatori, non funzionavano una volta assemblati; Atari avrebbe dovuto investire ulteriori risorse per risolvere questo problema ma per sua fortuna lo sviluppo del Jaguar era in netto anticipo e perciò si deliberò nel non continuare a produrre il progetto 32bit. Al Consumer Electronic Show del 1991 Atari annunciò la cancellazione del Panther ma in compenso annunciò quella del Jaguar che sarebbe stato pronto per il 1993, un predatore pronto a fare a brandelli la concorrenza e riconquistare il suo trono all’interno del mercato dei videogiochi.

Dall’annuncio al lancio

L’annuncio a sorpresa al CES del 1991 non solo infiammò la stampa ma convinse anche i giocatori; il Jaguar si poneva sia come una console più potente di SNES e Mega Drive che una console di prossima generazione in grado di competere, persino superare, le future rivali 3DO, Sega 32X, Saturn e PlayStation. In tutto questo Atari riuscì anche ad accaparrarsi degli ottimi 3rd party come Micro Prose, Virgin Interactive, Gremlin Graphics, Activision, InterplayUbisoft, che lanciò proprio nel Jaguar il primo Rayman, e molti altri. Per tutto il 1993 Atari svelò a poco a poco le specifiche della console e futuri add-on come il Jaguar CD, un headset VR e un modem per il gioco in rete (questi due prodotti non uscirono mai), il tutto fino all’uscita su tutto il suolo americano previsto per il primissimo 1994. Nel Novembre del 1993 furono inviate 50.000 unità fra New York e San Francisco in test market e i risultati furono strabilianti: la console andò sold out in un giorno e poco dopo i pre-order in Europa toccarono le 2 milioni di unità. Arrivati a questo punto IBM, che produceva i componenti della console, si ritrovò con le spalle al muro non potendo soddisfare una domanda così grossa e così Atari, contro il suo stesso interesse, decise di concentrarsi sul mercato americano, accantonando il mercato dove andavano più forti; di conseguenza, al lancio, in Gran Bretagna arrivarono solamente 2.500 unità.
Ciononostante, per Atari le cose stavano girando per il verso giusto: insieme all’eccellente test market a New York e San Francisco, il Jaguar vinse nel Gennaio del 1994 il premio il “best new game system” su Videogame Magazine, “best new hardware system” su Game Informer e “technical achievement of the year” su DieHard GameFan. I più tecnici furono certamente attratti dalle potenti qualità del Jaguar: la console di base era in grado di creare oggetti 3D con texture, poteva produrre sprite alti 1000 pixel, era possibile cambiare la risoluzione nei background 2D (in modo da poter rendere, per esempio, meno visibile un layer più lontano, creando un ottimo effetto di profondità) e ostentava effetti luce e altri effetti speciali veramente all’avanguardia.
La console attrasse inizialmente una base di giocatori di tutto rispetto grazie sia a un’aggressiva campagna di marketing, il cui slogan principale era “do the math” (più o meno “fai i conti”, in quanto le pubblicità sottolineavano il “gap dei bit” fra il Jaguar e le restanti console), e una buona linea di titoli di lancio e altri che arrivarono man mano; dopo gli iniziali Cybermorph, Raiden e Evolution: Dino Dude arrivarono l’incredibile Tempest 2000, Wolfenstein 3D e Doom, i cui porting erano i più belli e i più vicini al PC (ai tempi) e Alien vs Predator che diventò la killer app del sistema. In aggiunta a tutto questo, a metà del 1994 Atari vinse una causa legale contro Sega per violazione di brevetto: la compagnia giapponese dovette pagare alla compagnia di Jack Tramiel 50 milioni di dollari in spese giudiziarie, fu costretta ad acquistare azioni Atari per 40 milioni e rilasciare alcuni giochi esclusivi Sega su Atari Jaguar (che non uscirono mai). Jaguar aveva tutte le carte in tavola per diventare un competitor importante nel mercato ma Atari non aveva fatto i conti con il nemico numero uno della macchina: la sua stessa scheda madre.

(Il controller del Jaguar, come quello del ColecoVision e Intellivision, aveva un tastierino numerico sulla quale era possibile attaccare degli overlay. È stato, probabilmente, l’ultimo controller con una tale feature.)

Tom & Jerry

Sin dal lancio i giocatori si accorsero che Cybermorph, che era uno shooter sulla falsariga di Star Fox ma presentava una struttura più aperta, era molto più avanzato di Raiden e Evolution: Dino Dudes e che questi due  sembravano dei normalissimi giochi 16 bit. Col tempo, nonostante la console ricevette tanti grandi titoli, i giocatori si accorsero che qualcosa andava storto e che non tutti i giochi sfruttavano le vere capacità dell’Atari Jaguar. Si dice appunto che questa console è in realtà una console 32+32bit e che dunque non è una vera macchina 64bit; ma qual è la verità?
Il cuore della macchina era un processore Motorola 68000 ma in realtà era supportato da altri due processori RISC chiamati “Tom” e “Jerry“: Tom si occupava di tutto il piano grafico, dunque era la GPU e generava gli oggetti in 3D, mentre Jerry si occupava del comparto sonoro, dunque processava i segnali audio e gli effetti sonori. In pratica i programmatori dovevano programmare grafica e sonoro separatamente su quei due chip in modo che venissero mandati al Motorola 68000 che avrebbe processato il tutto e “generato” il gioco al giocatore; John Mathisen descrisse il chip principale come un project manager, che non fa nessun effettivo lavoro ma è lì per dire a tutti cosa fare. Programmare sul Motorola 68000 era molto più facile visto che era un chip montato nei primi computer Macintosh, il Commodore Amiga, l’Atari ST e persino il Sega Mega Drive; per venire in contro alle date di scadenza, visto che il sistema Tom & Jerry non era chiaro a tutti, i giochi venivano programmati direttamente sul Motorola 68000 in quanto molti programmatori avevano già programmato per quel determinato chip, e perciò molti dei giochi vennero fuori con una veste tutt’altro che 64bit, alcuni porting erano persino più carenti delle controparti 16bit. La credibilità del Jaguar si sgretolava piano piano e, contrariamente alle previsioni di Jack Tramiel che si aspettava almeno 500.000 unità vendute in un anno, alla fine del 1994 i dati di vendita riportarono solamente circa 100.000 unità. Adesso per Atari arrivava l’anno 1995, anno in cui il Jaguar sarebbe dovuto entrare in competizione con Sega Saturn e Sony PlayStation.

(I due grossi chip sulla sinistra sono Tom e Jerry, mentre il chip più grosso sulla destra è il Motorola 68000)

La seconda fase

Al CES del Gennaio 1995 Atari comincia l’anno nuovo col botto: vengono annunciate le date di uscita e il prezzo per il Jaguar CD, insieme all’annuncio di dei dischi proprietari dalla capienza di 790Mb, Jaglink, che premette di collegare due Jaguar, per il VR headset (annunciato per il Natale ma mai uscito) e per moltissimi giochi. Due mesi dopo viene annunciato un price drop di 149,99$ e Atari dedide di non sviluppare molti dei suoi prodotti: la produzione di XEGS, ST e Falcon si fermano sin da subito mentre il Lynx verrà abbandonato alla fine del 1995. Era chiaro, a quel punto, che Atari era pronta a tutto pur di vendere il Jaguar. Sam Tramiel, figlio di Jack che prese le redini di Atari alla fine degli anni ’80, per fronteggiare l’imminente uscita di Sega Saturn e Sony PlayStation, si rese disponibile per molte interviste al fine di promuovere la loro console casalinga ma a molti sembrava che si stesse arrampicando sugli specchi: ad Aprile, su Next Generation Magazine, disse che Saturn e PlayStation erano destinate a fallire per il loro prezzo (che a lui sembrava esorbitante), mentre a Luglio, nella medesima rivista, dichiarò che il Jaguar aveva venduto 150.000 unità, che il 50% degli utenti Jaguar avrebbe comprato il Jaguar CD, che “l’interno del Saturn era un casino”, ignorando il proprio complicato sistema Tom & Jerry e che il Jaguar presentava le stesse caratteristiche, se non più potente, del Saturn e poco più debole di PlayStation (mentre in reltà la console Sega era, su carta, più potente di della console Sony!).
Le affermazioni di Sam Tramiel gli si rivoltarono contro quando prima Sega Saturn e poi Sony PlayStation superarono di molto, già nel periodo di lancio, le vendite complessive di Jaguar di un anno di attività; persino 3DO, rimasta inizialmente indietro, superò la console Atari con 500.000 unità vendute. In tutto questo, i giochi promessi al CES 1995 tardavano ad arrivare e l’accordo con Sega, per la perdita di quel caso giudiziario, non uscirono mai. Nell’Ottobre del ’95, un mese dopo l’uscita del Jaguar CD, Atari decise di destinare meno risorse al Jaguar, tentando di reinvestire ciò che è rimasto nella produzione hardware e software PC; successivamente, a Novembre, venne chiuso lo studio Atari che produceva i giochi first party e nel natale del 1995 il Jaguar fu venduto per 99,99$, l’ultimo e definitivo price drop. Come se non bastasse, Sam Tramiel subì un lieve attacco di cuore che costrinse il padre Jack di nuovo alla direzione dell’azienda che aveva comprato dalla Warner Communication.

Dalla chiusura alla seconda vita di Jaguar

Nel Gennaio 1996 furono riportati i disastrosi dati di vendita di Atari Corporation: l’azienda fatturò solamente 14.6 milioni di dollari, significativamente meno dei 38.7 milioni del 1994, mentre nell’anno trascorso furono venduti solamente 125.000 unità, decisamente meno rispetto a quanto dichiarato da Sam Tramiel su Next Generation Magazine; a tutto questo si aggiungevano 100.000 unità invendute e solo 3.000 unità vendute in Giappone, dove fu distribuito in pochissimi negozi. Sebbene nel 1996 alcuni giochi continuavano a uscire, la produzione di Atari Jaguar terminò di lì a poco. Atari Corporation, in Aprile, si fuse con JT Storage e più tardi, nel 1998, vendettero il nome ad Hasbro.
Contrariamente a ogni aspettativa, la sfortunata console riemerse dal dimenticatoio: nel Maggio 1999 Hasbro non rinnovò la licenza sull’Atari Jaguar, facendo ricadere i diritti sul dominio pubblico; da quel momento in poi, qualsiasi sviluppatore, grande o piccolo, è libero di produrre e vendere un gioco per Jaguar senza il permesso di Hasbro. Furono rilasciati subito tre giochi precedentemente cancellati, uno dei quali della Midway e ancora oggi, l’Atari Jaguar è casa di una scena homebrew veramente vasta; l’ultimo titolo uscito per la console è stato Fast Food 64, rilasciato il 23 Giugno del 2017. Dal 2001 al 2007 i rimanenti Jaguar sono stati venduti dalla catena di negozi inglese Game per 30£, fino al price drop finale di 9,99£. E ancora, come se non bastasse, lo stampo industriale per creare la console esterna è stato usato dalla compagnia Imagin per creare un utensile per dentisti e riutilizzata di nuovo per il gaming nel fornire il design esterno della console cancellata Retro VGS/Coleco Chameleon. Che dire? È una bestia che proprio non ne vuole sapere di morire!

(Un video dell’utente bframe che ci mostra tutti i giochi dell’Atari Jaguar)

Mamma, possiamo tenerlo?

Come abbiamo accennato, Atari Jaguar è di dominio pubblico e perciò abbiamo tutto il diritto di emulare la console e i giochi. Tuttavia, al di là dei recenti sviluppi sull’emulazione, stando a molti utenti l’emulazione di Jaguar è ancora un po’ carente e spesso e volentieri molti giochi presentano bug o si bloccano improvvisamente (e non è un problema relativo ai PC). Dunque l’alternativa, visto che ancora nessuno ha prodotto un sistema clone (e Polymega non ha annunciato un modulo dedicato), è proprio quella di comprare un Atari Jaguar originale. Anche se i prezzi sono un po’ più alti del loro prezzo originale, bisogna dire che per una console che ha venduto meno di 300.000 unità è un prezzo equo; andare a caccia dei videogiochi, dunque delle orrende cartucce (in senso buono) con la maniglia in alto, è un discorso a parte in quanto dipende sempre dalla reputazione di un gioco e dalla tiratura e come abbiamo visto, contrariamente a ciò che si possa pensare, ce ne sono tanti. Assicuratevi che la console vi arrivi con il suo cablaggio proprietario per montarlo alla TV via RCA. Discorso a parte va fatto per il Jaguar CD: questo particolare add-on, a differenza dei più comuni Sega CD o PC-Engine CD, è famoso per essere particolarmente fragile ed è facile incappare in uno dei tanti Jaguar CD non funzionanti e, se lo collegherete alla TV, ve lo farà sapere con la famosa “red screen of death” che indica un problema di comunicazione fra la base e l’add-on; come se non bastasse, l’add-on è ancora più raro della console in sé e perciò rischiate di sprecare oltre 200€ per un Jaguar CD morto. È un acquisto che va fatto molto attentamente, anche per la base, ma se state attenti e siete interessati alla sua particolare libreria di giochi potrete portare a casa una gran bella console che ha detto molto e, sorprendentemente, ha ancora molto da dire!




Atari Entertainment System: storia di un accordo andato a male

A molti giocatori ormai è nota, grazie ad articoli e documentari, la storia del crollo del mercato dei videogiochi del 1983 in Nord America: troppe console da gioco, “deflazione” di software videoludici, molti dei quali di bassissima qualità e l’abbassamento dei prezzi dei primi computer per uso casalingo furono le cause per cui le console dedicate ai videogiochi stavano per diventare una meteora nella storia dei prodotti di consumo. La crisi portò anche alla chiusura di Atari Inc., fautrice della diffusione del medium, che avrebbe potuto scongiurare forse lo sfacelo uscendo dall’imminente fallimento a testa alta. Reduce da un buon successo in Giappone, Nintendo voleva che Atari diffondesse in Occidente (a cominciare dagli USA) la propria nuovissima console, il Famicom, ma ciò che poteva essere una storia a lieto fine si concluse con l’abbandono del progetto, portando quasi a una battaglia legale fra tre compagnie. Questa è la storia del mai uscito Atari Nintendo Entertainment System.

Un buon affare

Negli Stati Uniti, Atari era semplicemente sinonimo di videogioco. Nonostante la crisi che stava per prendere piede, la società fondata da Nolan Bushnell (e poi acquisita da Warner Communications) era ancora tra i leader indiscussi e il loro brand era una vera e propria garanzia in termini di qualità. Nel frattempo Nintendo dominava nell’arcade con Donkey Kong ma era intenta a entrare nelle case dei giocatori con una console proprietaria che svilupparono dall’inizio degli anni ’80; il solo insuccesso di Radar Scope del 1979 nelle sale giochi americane (di cui abbiamo parlato nel nostro articolo Super Mario History) portò Nintendo a essere cauta, capendo che il successo arcade dovuto a Donkey Kong non era sufficiente per lanciare una console in quel territorio. Avevano bisogno di una figura oltreoceano in grado di vendere la loro nuova macchina che il visionario Hiroshi Yamauchi vedeva come la migliore console mai creata (ricordiamo che la console era pronta ma non ancora in vendita) e che sarebbe rimasta immune alla crisi del 1983. Nintendo considerò prima una partnership con Coleco, alla quale cedettero la licenza per sviluppare Donkey Kong per le console, ma Yamauchi si ricredette presto chiedendo a Howard Lincoln, già a l’epoca chairman di Nintendo of America, di contattare Atari per stipulare un accordo. Il CEO della compagnia di Kyoto, nonostante conoscesse la situazione del mercato in Nord America, credeva nel brand Atari in quanto, nonostante la concorrenza spietata nel settore, la storica società spiccava ancora all’interno del mercato videoludico, e una partnership avrebbe significato sfruttare il loro canale di distribuzione e la notorietà del marchio, sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo. Nell’aprile del 1983, dopo una chiamata telefonica, Howard Lincoln e Minoru Arakawa andarono al quartier generale di Atari per parlare con Ray Kassar, allora presidente, e con avvocati e programmatori per rispondere a tutte le domande riguardanti il Famicom. L’occasione sembrava essere una manna dal cielo per la compagnia americana che, nel frattempo, si trovava in cattive acque: la grafica e le potenzialità dell’Atari 2600 erano datate, l’Atari 5200 rimaneva in magazzino, le vendite di E.T. the Extra-Terrestrial avevano comportato gravi perdite e nel frattempo si avviavano i progetti (insieme alla General Computer)  dell’Atari 7800 con le poche risorse finanziarie rimaste. L’accordo con Nintendo, permetteva ad Atari di avere ben due console per cui, se una falliva potevano rifarsi con l’altra. Non avendo nulla da perdere Skip Paul, vice presidente della compagnia americana e altri legali di Atari volarono a Kyoto insieme a Howard Lincoln e Minoru Arakawa nel maggio 1983 per incontrare Hiroshi Yamauchi, parlare degli accordi commerciali e provare il Famicom.
Una volta lì scoprirono l’offerta di Nintendo che per Atari risultava abbastanza vantaggiosa:

  • Nintendo avrebbe costruito, assemblato, testato le schede madri del Famicom per poi venderle ad Atari per 5.300 Yen a pezzo.
  • Nintendo avrebbe prodotto i giochi su richiesta di Atari per poi cederglieli assemblati e senza etichetta per 1.500 Yen a cartuccia (con un ordine minimo di 100.000 unità).
  • Atari avrebbe dovuto iniziare con un ordine di due milioni di schede madri per Famicom: un milione sarebbero state destinate ai territori NTSC, 700.000 nei territori PAL e 300.000 in quelli SECAM.
  • Atari si sarebbe impegnata a dare a Nintendo, alla firma del contratto, 5 milioni di dollari per pagamenti futuri e altri 3.5 milioni per avviare lo sviluppo del primi prototipi PAL e SECAM.
  • Per venire incontro alle richieste del FCC (Federal Communications Commission) negli Stati Uniti, Nintendo avrebbe dovuto apportare delle modifiche tecniche alle schede madri originali per soddisfare requisiti di potenza elettrica; per questi motivi le schede per il mercato americano sarebbero state fisicamente diverse da quelle del Famicom. Atari si doveva impegnare a creare un nuovo design estetico per accomodare la forma delle nuove schede madri.
  • Il contratto avrebbe avuto una durata di quattro anni, al termine dei quali sarebbe potuto essere rinnovato.

Con questi termini, Nintendo contava di piazzare 100.000 unità nei negozi  con l’aiuto di Atari per il 31 agosto di quell’anno insieme a quattro giochi, in modo che la console potesse diventare popolare entro Natale. D’altro canto Atari, pur introducendo un concorrente sul proprio mercato di riferimento, avrebbe beneficiato delle vendite dal lato publisher: la strategia si sarebbe rivelata un win-win in ogni caso. In tutto questo, durante le negoziazioni, Hiroshi Yamauchi entrava e usciva continuamente dalla sala del meeting; Howard Lincoln spiegò ai rappresentanti Atari che il CEO giapponese era una persona molto impaziente e che, se avessero esitato, avrebbero potuto perdere l’occasione per collaborare con Nintendo (in realtà pare fosse una tattica che Yamauchi metteva spesso in atto per mettere pressione agli investitori). Skip Paul andò in un’altra stanza per chiamare Ray Kassar e riferirgli i termini degli accordi. Al suo ritorno chiese a Lincoln di preparare i contratti: l’accordo era quasi concluso. La firma sarebbe avvenuta il mese successivo al Consumers Electronic Show di Chicago, dove Nintendo e Atari avrebbero tenuto il loro prossimo meeting.

La disastrosa fine

Hiroshi Yamauchi, Minoru Arakawa e Howard Lincoln arrivarono al CES, ma furono accolti con ostilità. I responsabili Atari avevano infatti visto nello stand di Coleco una nuova versione di Donkey Kong da commercializzare sul computer Adam. Secondo un accordo precedente, Atari aveva la licenza esclusiva per sviluppare il popolare gioco arcade per i computer, mentre a Coleco spettava la produzione per le console. Atari accusò Nintendo di tradimento ed erano pronti a far causa tirandosi fuori dall’accordo del Famicom. Quel pomeriggio il CEO di Coleco, Arnold Greenberg, fu invitato nella suite dell’albergo del CEO di Nintendo per trovare uno Yamauchi furioso che lo accusava di aver distrutto un accordo da milioni di dollari con Atari.
Il libro Game Over di David Sheff (dalla quale sono state prese buona parte delle fonti per questo articolo) racconta che il CEO americano si difese dicendo che l’Adam era un’espansione del Colecovision e che la versione mostrata nel loro stand girava anche sulla console base. Al presidente giapponese non bastarono le scuse di Arnold Greenberg e lo invitò a non vendere quella specifica versione o altrimenti avrebbero fatto causa fino a farli chiudere. Dal lato Atari, si preparava un altro terremoto, con Ray Kassar costretto a dare le dimissioni dalla posizione di presidente il mese successivo anche per la cattiva gestione di questo caso, che si sommava alle perdite derivanti dai progetti di E.T. e Pac-Man, il cui porting su console era stato sovrastimato: a dar il colpo finale ai rapporti fra Kassar e Steve Ross, presidente di Warner Communications, fu una pesante accusa di insider trading derivante da una vendita di 5.000 delle azioni in suo possesso avvenuta 20 minuti prima che Atari annunciasse il bilancio annuale, che registrava perdite per 536 milioni di dollari. A settembre, dunque, Nintendo, Atari e Coleco si riunirono per rivedere gli accordi sulla distribuzione di Donkey Kong, ma nonostante i progressi fatti col meeting, l’accordo fra Nintendo e Atari saltò definitivamente. Tuttavia, fra i mesi del CES e della riunione a settembre, per Atari Inc. cominciò la spirale di eventi che portò alla sua chiusura: nell’arco di un anno erano stati persi, come detto, più di 500 milioni di dollari, un quarto dei dipendenti si ritrovò senza lavoro, i giochi vennero venduti per un decimo del loro prezzo originale; Warner Communications, proprietaria di Atari, prese un duro colpo in borsa, molti progetti furono cancellati e altrettanti uffici chiusi. In seguito Atari Inc. chiuse i battenti e gli asset hardware furono comprati da Jack Tramiel, fondatore della Commodore, che la riorganizzò in Atari Corporation; come conseguenza, la divisione software, Atari Games, fu venduta e gestita da Namco e l’Atari 7800 uscì nei negozi solamente nel 1986, con un anno di ritardo rispetto al Nintendo Entertainment System.
Col tempo si fecero avanti diversi rumor riguardanti l’accordo fra le due compagnie: un avvocato della Warner Communications informò alcuni dirigenti Nintendo che Atari non aveva abbastanza soldi per comprare la licenza del Famicom e che i loro veri obiettivi nei negoziati erano tenerli fuori dai mercati al di fuori del Giappone e imparare qualcosa di nuovo in termini di tecnologia e marketing; sarebbe per questo motivo che l’Atari 7800 risultò la console più potente fra le due. Per quanto una tale affermazione possa avere delle basi, è difficile sostenere che Atari non volesse fare affari con Nintendo: di recente è stato ritrovato un prototipo di Joust, il primo gioco programmato da Satoru Iwata per NES, risalente al 1983, titolo che non arrivò sulla console nipponica prima del 1987.
A ogni modo, il mancato accordo fra le due compagnie è stato decisamente un bene per la compagnia giapponese: Nintendo, col tempo, ha potuto studiare meglio il mercato americano e nel 1985 ha rilasciato il suo NES con risultati strabilianti. La chiave per entrare sul mercato fu trovata con un semplice stratagemma: passare dai negozi di elettronica a quelli di giocattoli. Ma questa è una storia a parte, che racconteremo magari un’altra volta. Per ricordare però il successo del NES basta guardare i numeri: la console giapponese raggiunse il milione (e cento) di unità in un solo anno, l’Atari 7800 in un arco di tempo che va dal 1986 al 1988. Atari invece rimase sola e, nonostante una buona linea di computer e console hit or miss, non riuscì più a conquistare la fiducia dei consumatori, non la stessa dei tempi dell’Atari 2600. Probabilmente l’accordo non avrebbe beneficiato nessuno dei due.

(La curiosa immaginazione di un utente su internet)



Annunciata la data d’apertura dei preordini di Ataribox

Dopo una lunga ed estenuante attesa, il team di Atari ha finalmente annunciato la data d’apertura dei preordini della loro nuovissima console. Ataribox sarà disponibile in prevendita dal 14 Dicembre 2017, e uscirà in doppia versione, una standard e una limitata in legno. Per chi non conoscesse le sue specifiche tecniche le troverà riportate qui. Infine, come riportato nel comunicato ufficiale, chi si iscriverà alla waitlist riceverà degli sconti limitati ed esclusivi.




Il vademecum del buon collezionista

Immettersi nel mondo del retrogaming è più o meno semplice, e divertente e impiegherà piccola parte del vostro denaro ma si deve cominciare per prima cosa col valutare lo spazio che potrete dedicare in casa per le diverse console e il tipo di televisore che volete utilizzare. Quando si collezionano degli oggetti qualunque è sempre bello mostrarli a tutti e dunque un bel mobile a scomparti, come il Kallax o l’Expedit di Ikea, è quello che vi serve. In questo modo eviterete (o per lo meno nasconderete) il disordine coi cavi che andranno a finire tutti nella stessa tv. Degli splitter RCA vi saranno utilissimi in quanto i televisori, sia nuovi che vecchi, non hanno molti ingressi RCA o Scart e dunque, a meno che non vogliate attaccare e staccare le prese per i segnali video di ogni console ogni volta che cambierete sistema, un oggetto del genere vi semplificherà la vita. Parlando di cavi è importante evitare di tenere diverse console alla stessa presa di corrente; quando non si usano, è consigliabile tenere le console staccate o sistemare più ciabatte e tenere accesa solo quella contenente la presa della console che vogliamo andare ad utilizzare. Adesso – e da qui si capisce se siamo dei “collezionisti puristi” o meno – bisogna scegliere il tipo di televisore che vogliamo utilizzare per giocare con le nostre console retrò. Comprare un televisore dedicato può essere ovviamente una scelta saggia ma, per non spendere altri soldi, valutate bene quelli che avete già o valutate se riuscite a recuperare qualche vecchio televisore dal vostro garage. La scelta su dove attaccare questi sistemi cade chiaramente su due opzioni: i televisori a tubo catodico o i più nuovi schermi piatti ad alta definizione. Con i televisori a tubo catodico è possibile ricostruire l’esperienza retrò in tutto e per tutto, in quanto i vecchi giochi venivano sviluppati tenendo conto di questi, i quali purtroppo sono ingombranti e il segnale, in Italia, viene trasmesso a 50HZ; ciò significa che potrete collegare alla televisione solamente console PAL a meno che non compriate dei cavi Scart appositi per le console NTSC, se deciderete di prenderle. I televisori a schermo piatto eliminano del tutto questo problema ma l’immagine viene schiacciata nel formato 16:9 e l’altissima definizione del televisore ingrandirà ogni singolo pixel. A questo punto vi converrà comprare un upscaler come il Framemeister, che vi permetterà anche di visualizzare l’immagine con diverse opzioni, o comprare delle nuove retroconsole apposite come il Retron 5, che riesce a leggere le cartucce di ben 5 sistemi, la AVS di retro USB o il Retro Duo (che pur non avendo l’uscita HDMI si comporta molto bene con questo tipo di televisori). Queste console vi permetteranno di giocare con le cartucce originali dei vecchi sistemi ma, se siete interessati a giocare con  pochi titoli, le alternative plug ‘n play, che trasmettono in HDMI e non, possono rivelarsi un’ottima soluzione; potrete scegliere fra i più recenti Nes Classic Mini, Snes Classic Mini, Atari Flashback 8 gold, Coleco Flashback, Sega Genesis Flashback e molte altre. La strada di quelli che scelgono le plug ‘n play finisce qua ma, se siete fra quelli che vogliono collezionare gli hardware originali, allora potrete addentrarvi in questa nuova avventura alla scoperta di tesori, rarità, colpi di fortuna e follie!

Alla ricerca del gaming perduto

Innanzitutto, prima di spendere ingenti quantità di denaro per oggetti come 3DO e simili, verificate se avete ancora qualche vecchia console messa da parte oppure chiedete ai vostri amici se hanno (e se vogliono darvi) qualche vecchia console che hanno messo da qualche parte in cantina. Fare sbarazzi nei magazzini è divertente e avventuroso e trovare i pezzi promessi dopo ore e ore a cercare fra degli scatoloni pieni di vecchi telefoni e decorazioni di natale fuori moda vi farà sentire come Indiana Jones all’inizio de I Predatori dell’Arca Perduta. Non tutti i vostri amici saranno disposti a darvi i loro pezzi ma potrete comunque acquistare i vecchie console e giochi in diversi modi. Girare per i piccoli o grandi mercatini dell’usato cittadini è un bel passatempo che vi permetterà di trovare i pezzi più comuni e, con tanta fortuna, persino le cose più rare; sono vendute solitamente da persone che semplicemente se ne vogliono liberare e quindi non vi chiederanno molto. Quando trovate un pezzo raro ricordate di contenervi; tenete sempre un atteggiamento freddo e distaccato e non spiegate la storia di un pezzo raro a un venditore, altrimenti questo potrebbe aumentare il prezzo di ciò che vi stanno vendendo. Tuttavia spiegare la storia di qualche pezzo alcune volte può aiutarvi ad abbassarlo. Vi faccio un esempio: esistono due tipi di Master System, il primo ha l’uscita A/V, lo slot per i giochi su card proprietarie, più resistente e, ai fini del collezionismo, più bello; il secondo è più piccolo, con il gioco Alex Kidd in Miracle World montato al suo interno, ma senza l’uscita A/V e, tutto sommato, più economico in termini di qualità. Se qualcuno sta tentando di vendervi un Master System II a un prezzo che non vi piace fategli presente questi fatti,  ditegli che ha meno feature rispetto al primo modello; se glielo mettete a paragone è possibile che vi abbasserà un po’ il prezzo. Ad ogni modo, se trovate quello che cercate, assicuratevi che funzioni, se si tratta di console verificate che vi diano cavi, joypad e possibilmente qualche gioco e, se qualcosa ancora non vi convince, come l’aspetto e le condizioni generali, allora negoziate; ricordate sempre di spendere la cifra che avete in mente per qualcosa, e che siete riusciti a formarvi dopo accurate ricerche. Tanti venditori, anche online, sono in grado di far passare l’oggetto più comune per una rarità perciò fate sempre delle apposite indagini sulla tiratura, sull’anno di pubblicazione, capite anche se è un pezzo che in passato ha venduto bene oppure no e date sempre uno sguardo su Ebay per capire più o meno qual è il prezzo medio. Se i mercatini e i piccoli negozi che vendono alcuni pezzi retrò non vi bastano più e cercate dei pezzi più specifici per la vostra collezione allora converrà spostare la vostra ricerca su internet. Su siti come Subito.it è possibile trovare venditori che cedono pezzi più o meno agli stessi prezzi di un mercatino e dunque, anche lì, è possibile incappare in qualche insaputa rarità, ma Ebay è un sito più appropriato, dove si trova spesso gente più dedita al retrogaming e che conosce bene gli oggetti che sta trattando. Qui è possibile trovare molti più oggetti, rari e non, ma bisogna sapersi difendere dalle fregature, sia per gli oggetti che vi stanno vendendo sia perché non vedrete mai in faccia il venditore con la quale state trattando. Assicuratevi che il venditore abbia buoni feedback, instaurate con lui una buona comunicazione utilizzando esclusivamente la messaggistica di Ebay (perché potrà essere controllata dai responsabili del sito in caso di controversie), chiedete sempre al venditore foto dei pezzi funzionanti, di offrire l’imballaggio più sicuro e di farvi avere il codice della spedizione il prima possibile. Il più delle volte si tratta sempre di venditori affidabili ma, si sa, su internet la sicurezza non è mai troppa. Non dimenticate inoltre di fare tutto questo specialmente se siete voi a vendere, solamente mettete prezzi onesti, comportatevi sempre come se l’acquirente foste voi e se mettete la possibilità di spedizione in tutto il mondo sappiate in anticipo i prezzi delle spedizioni di questi ultimi e siate sicuri delle vostre capacità in inglese.

Quanto spendere

Ciò che fa un prezzo nel mercato del retrogaming non è solamente il risultato delle ricerche su quel determinato pezzo ma anche le sue condizioni e insieme a cosa è venduto. I pezzi senza scatola né manuale, detti “loose“, costano sempre poco ma è vi consigliamo di non superare mai la soglia dei 70/80€ (30/40€ per i giochi); i pezzi boxati costano decisamente di più ma, per un prezzo maggiore, riuscirete a ottenere manuali e scatola, il tutto quasi sempre in condizioni ottime. Tuttavia è possibile recuperare le scatole e manuali in un secondo momento in quanto non è cosa rara che si trovino su Ebay annunci di questo tipo. Dipende sempre da voi: preferite solamente avere il gioco e godervi solamente l’esperienza videoludica o vi piace avere il pacco completo? I pezzi rari sono dei veri e propri investimenti dunque valutate sempre al meglio prima di prendere tali decisioni. I giochi rari valgono tanto, ma sono veramente dei bei giochi? Alcune volte collezionisti di tutto il mondo hanno speso tonnellate di soldi per titoli per Nes come Flintstones: Surprise at Dinosaur Peak, Rodland o Ducktales 2 che sono, sì, dei bei giochi ma valgono il prezzo che hanno su Ebay? Figuriamoci poi quei collezionisti che spendono ancora più soldi per titoli come Cheetamen 2 per Nes, Super Bowling per Nintendo 64 che sono dei giochi sostanzialmente brutti! È anche vero che ci sono tanti titoli per cui si sarebbe veramente disposti a pagare quelle cifre assurde come per  Earthbound e Chrono Trigger per Snes, Conker’s Bad Fur Day per Nintendo 64, Radiant Silvergun e Panzer Dragoon Saga per Sega Saturn e Ikaruga per Dreamcast. Ricordatevi solamente che il prezzo che un pezzo raggiunge su internet non equivale alla bellezza del gioco e che ci sono tanti bei giochi rari quanti brutti o per cui non ne vale la pena. Se non siete interessati al valore del gioco ma alla sua fruizione è comunque sempre possibile giocare allo stesso gioco in altri modi: magari è presente in altre console, accorpati in collezioni varie o persino in media più recenti. Per i videogiochi rari si hanno comunque delle alternative che permetteranno ai giocatori più squattrinati di provare questi giochi senza doverci spendere un capitale; stesso discorso non si può fare invece con le console rare: queste difficilmente scendono di prezzo e il loro acquisto va sempre fatto in base alla libreria di giochi presente. Se ci sono almeno una ventina di titoli che vi interessano fate pure, altrimenti non ne vale assolutamente la pena. Inoltre, alcune console si rompono facilmente e senza un appropriato imballaggio finiranno col rompersi durante il tragitto e difficilmente potranno essere riparate. Fare l’acquisto di una console rara dipende molto dai vostri gusti videoludici ma, se siete fan di certi giochi, allora console come il Sega Dreamcast, il 3DO ed il Neo Geo AES sono hardware che fanno decisamente per voi. Ci sono console rare come il Sega Dreamcast e il Sega Saturn che lo sono perché l’utenza che un tempo le comprò, piccola rispetto le loro concorrenti, non le ha messe più in circolo e quindi è più difficile trovarle; tuttavia i giochi hanno prezzi più umani perché le tirature venivano fatte per l’utenza che era comunque buona e dunque c’è una buona diffusione. Stesso discorso invece non può essere fatta per altre console come l’Atari Jaguar o il Neo Geo AES che sono console la cui utenza era molto bassa, dunque i giochi sono molto più difficili da trovare ed ovviamente più costosi. Vale dunque la pena comprare certe console? Alcune, anche se rare, costano comunque meno delle console moderne ma di più di altre retro; quindi spesso sì. Prima che i prezzi si gonfino, vi consigliamo di mettere le mani su tutto ciò che c’è di Sega; le loro 4 console, ovvero Master System, Mega Drive, Saturn e Dreamcast, sono console superbe, hanno un prezzo accessibile e se c’è qualcosa da imparare dal passato lo si può imparare dai loro giochi stupendi come Alex Kidd in Miracle World, Fantasy Zone, Operation Wolf, Alien Syndrome, Rastan, Phantasy Star, i titoli di Sonic, Golden Axe, Outrun, Toejam and Earl, le serie di Streets of Rage, Thunder Force, Panzer Dragoon, Nights… into dreams, i picchiaduro Capcom che su Saturn e Dreamcast godettero dei migliori porting dalle arcade, Jet Set Radio, Soul Calibur, Resident Evil: Code Veronica, Shenmue, e la lista potrebbe non finire mai. Se volete invece andare alla scoperta dell’origine dei videogiochi e collezionare i titoli che hanno fatto da base al gaming fino a oggi, allora non vi resta che prendere un Atari 2600, il cui prezzo è relativamente basso, e andare alla volta di titoli come Combat, Missile Command, Asteroids, i titoli di Swordquest, Yars’ Revenge, Pitfall, Breakout e molti altri. Se vi piacciono anche i titoli particolari è consigliabile un 3DO che ad oggi costa giusto una frazione di quello che costava ai tempi; qui è possibile trovare ottimi porting dal PC come Myst, Another World, Flashback: the quest for identity e Alone in the Dark, i primi lavori della Crystal Dynamics come Crash’n Burn e Total Eclipse, Way of the Warrior della Naughty Dog, l’ottimo porting di Road Rash e il primo Need For Speed. Queste console, e sicuramente molte altre, meritano di essere riscoperte ma pensateci due volte prima di comprare pezzi come il Nintendo Virtual Boy, la Game.Com di Tiger, l’Atari Jaguar o il Sega 32X; se siete interessati ad alcuni giochi su queste console e avete tanti soldi da spendere allora fate pure!

Cura e manutenzione

Divertitevi tantissimo a creare la vostra macchina del tempo personalizzata ma non dimenticate mai che avete a che fare con hardware e software datati e questi necessitano cure e pulizie particolari. Le vostre console vintage sono come dei bambini: sono delicati, bisogna tenerli d’occhio e tal volta fanno anche i capricci., dunque dobbiamo fare il meglio per far sì che non gli succeda nulla. Non muovetele troppo, fate in modo che non prendano urti di nessun tipo, non tenetele accese per troppo tempo o, come già ribadito, tutte attaccate alla stessa presa di corrente, pulite di tanto in tanto i pin di cartucce e slot con cotton-fioc imbevuti di giusto una punta di soluzione pulente per vetri o a base di alcol e, quando non le usate, mettete sopra un panno per tenerle lontane dalla polvere. Bisogna riservare tanta cura anche i controller che, come spesso capita, è possibile che perdano la sensibilità dei tasti Start e Select che solitamente, per alcuni controller, venivano realizzati in gomma; ci toccherà allora smontare i controller e pulire i contatti sulla scheda madre del controller con un cotton-fioc e soluzione pulente, esattamente come se fossero dei pin per delle cartucce. Se qualcosa sembra non funzionare più ricordate che è possibile trovare su internet pezzi di ricambio per console e controller e videoguide su come sostituirli. Il retrogaming è una passione che chiede tanto denaro e cura, ma è un hobby che vi darà la possibilità di costruire una vera e propria sala giochi del passato in casa vostra, vi farà riscoprire titoli validissimi del passato e soprattutto regalerà a voi e ai vostri amici delle serate indimenticabili fra multiplayer infuocati, luci al neon e console ingiallite!