Se mi ami, non morire

Quello della migrazione è oggi un tema particolarmente caldo nel nostro paese, da anni migliaia di uomini provenienti soprattutto dal Nordafrica sbarcano sulle coste del meridione d’Italia sperando in punto di partenza per una nuova vita che spesso andrà oltre il paese d’attracco, verso altre destinazioni europee. La questione è talmente grande che ha generato speculazioni economiche, schieramenti ideologici contrapposti e non pochi problemi dal punto di vista della gestione dell’emergenza. Il problema si è posto soprattutto negli ultimi anni, ma in realtà è una questione antica: le migrazioni sono iniziate con la storia umana e non sono mai terminate. Non vedere il quadro globale del tema è figlio di un atteggiamento NIMBY, proprio di chi non sia abituato a buttare l’occhio oltre il proprio cortile. Per questo opere come Se mi ami non morire, esperienza mobile uscita da neanche un anno, risultano importanti nel panorama odierno.

Bury me, my love

Il titolo italiano è figlio di una trasposizione non letterale del ben più forte Bury me, my love, titolo che richiama senza perifrasi due elementi centrali di questa storia: amore e morte, o meglio l’allontanamento dai propri cari per trovare una via di salvezza e il costante pericolo di non farcela e di perire durante un viaggio lungo, clandestino e pericoloso. L’impianto del gioco è completamente text-based: vedremo la storia dalla prospettiva di Majd, restando in contatto costante con la moglie Nour per il suo intero viaggio dalla Siria alla volta della Germania. Il viaggio può andare o meno a buon fine, sono disponibili 19 finali diversi con esiti più o meno felici che restituiscono bene il senso dell’aleatorietà del destino di un essere umano che si incammini in un simile percorso. L’interazione è semplicissima, basata sulla scelta multipla fra varie delle opzioni di dialogo disponibili all’interno del titolo. A volte si tratterà di semplici consigli, osservazioni o scherzi con Nour, ma vi saranno delle scelte decisive, dove Majd indicherà alla moglie cosa fare. I dialoghi selezionati saranno in tal caso quelli che determineranno il percorso della nostra consorte, che si troverà a dover scegliere fra più di un itinerario, nel corso del quale incontrerà ostacoli di ogni tipo, trovandosi a sfuggire ai controlli, a dover nascondersi, talvolta a scegliere se aiutare o meno chi è in difficoltà, affrontandone di volta in volta le conseguenze.

Non ci resta che piangere

La scrittura di Bury me, my love risponde a criteri di stretto realismo: i nostri personaggi sono due siriani di buona cultura, con sogni, aspirazioni e sentimenti comuni. Più la storia si dipana attraverso i loro dialoghi via sms, più ci rendiamo conto di quanto i protagonisti siano simili a noi, nel loro umano vivere i sentimenti e le relazioni, e più rimaniamo atterriti dalla distanza abissale fra la loro normalità quotidiana, fatta di bombe e continue emergenze, e la nostra, fatta di problemi che si rimpiccioliscono di fronte agli scenari di guerra attraversati nel titolo. Perché Nour passa da uno scenario bellico all’altro, da Damasco a Beirut passando per Aleppo si manifesta un mondo da noi lontano, le cui immagini passano spesso distrattamente davanti ai nostri occhi nei tre minuti di un servizio al telegiornale. A queste storie se ne accompagnano altre che non sentiamo ai notiziari, come il passaggio per il confine serbo-ungherese o quello fra Ventimiglia e Mentone, ogni nazione è un limite da superare per giungere all’agognata meta, quella che per molti di loro rappresenta la fine della guerra sempiterna e il passo verso una nuova esistenza. Nell’ombra queste zone grigie c’è il tempo per i “mi manchi”, per ricordarsi a vicenda il proprio amore, per esprimere dolore e preoccupazioni e narrare storie, come quella della coppia di anziani e delle loro 2 figlie:

«C’era una volta una coppia di anziani, che avevano due figlie. Entrambe erano sposate: la maggiore a un fattore, la più piccola a un vasaio. Ed entrambe vivevano nei villaggi circostanti. Un bel giorno, l’anziana disse al marito: “È da molto tempo che le nostre figlie non vengono a trovarci. Mi chiedo se stiano bene. Va a trovarle tu, e quando tornerai mi dirai cosa hai visto.” Così l’anziano salì in groppa al suo asino, e si diresse verso il villaggio in cui viveva la figlia più grande.
“Figlia mia, come stai?” le chiese
“Caro padre, guardate a est: cosa vedete?”
“Campi arati”, rispose lui.
“Guardate a ovest, a nord, a sud: cosa vedete?”
“Campi arati”, rispose lui di nuovo
“Questi sono i nostri campi. Sono tutto ciò che abbiamo, ed è dei loro frutti che viviamo. Se non piove il raccolto sarà perduto, e noi saremo rovinati. Se vi preoccupate per me, padre, pregate il cielo che cada la pioggia.”
L’anziano uomo si rimise in viaggio, pregando Dio che mandasse la pioggia. Preghiera dopo preghiera, raggiunse il secondo villaggio dove viveva la figlia minore.
“Figlia mia, come stai” le chiese
“Caro padre, guardate a est: cosa vedete?”
“Terreni argillosi.”, rispose lui.
“Guardate a ovest, a nord, a sud: cosa vedete?”
“Terreni argillosi.”
“Questa è la nostra argilla. È tutto ciò che abbiamo, ed è con l’argilla che viviamo. Se piove, l’argilla andrà perduta, e noi saremo rovinati. Se vi preoccupate per me, padre, pregate il cielo che non cada la pioggia.”
L’anziano uomo si rimise in viaggio, pregando Dio che non mandasse la pioggia. Una volta tornato a casa, si diresse verso la moglie.
“Allora, come stanno le nostre figlie?” chiese lei.
Ed egli gli rispose triste: “Se piovesse, non ci rimarrebbe altro che piangere.  Se non piovesse, comunque non ci rimarrebbe altro che piangere.”»

Nour dà allora a Majd l’unica risposta possibile: «Majd, ho una brutta notizia: non ci resta che piangere»

Amara terra mia

Il sentimento della coppia di anziani è quello che, in misura diversa deve provare qualunque genitore che veda il proprio figlio costretto ad andar via dalla propria terra per trovare migliori condizioni di vita nell’impossibilità di ottenerle nel luogo natio. La situazione riguarda coloro che vanno via dal Meridione, chi va via dall’Italia, chi passi da un continente all’altro. Non è meno doloroso andar via per trovare lavoro o per realizzarsi professionalmente, pur essendo minore l’urgenza rispetto a chi scappi da una guerra, come Nour. Eppure lei e suo marito non rinunciano alla propria umanità, messi di fronte all’emergenza si trovano a dover prendere decisioni umane e a scambiarsi affetti e a compiere azioni quotidiane, le stesse che farebbe chiunque con uno smartphone. Bury me, my love si compone di una grafica semplice, l’interfaccia di base è quella di un’app di messaggistica. Quel che si aggiunge su schermo sono le foto inviate, dai selfie alle immagini dei luoghi attraversati, che restituiscono attraverso semplici disegni lo stato delle città e delle persone, dando al titolo una maggior vitalità ed eleganza, e soprattutto spezzano un ritmo che rischia di farsi monotono riducendosi al solo scambio testuale. L’opera non è infatti arricchita da alcun effetto sonoro diverso da quello di una semplice app di sms, né è presente una soundtrack: se da un lato questa scelta conferisce realismo, dall’altra rischia di appiattire l’esperienza, che non sempre mantiene la sua carica emotiva. Proprio a favore del realismo è la possibilità di scegliere fra due modalità di fruizione, quella immediata o quella “real-time”, dove nella prima si ha modo di fruire dello scambio in maniera consecutiva, mentre nella seconda si segue il tempo reale di Nour: in quest’ultimo caso la simulazione durerà qualche giorno, con notifiche che arriveranno sullo smartphone con il distacco temporale effettivo con il quale Majd sente la propria consorte (la quale a volte avrà il cellulare scarico, altre volte non potrà scrivere per le ragioni più disparate). Quest’ultima modalità è consigliata certamente a chi voglia vivere un’esperienza più vicina alla realtà, magari ritrovandosi ogni tanto a guardare lo schermo e ad attendere un sms chiedendosi frattanto: «Cosa starà facendo Nour? Starà ancora bene?»

Incontro d’amore in un paese di guerra

Sviluppato da The Pixel Hunt, in collaborazione con Figs e ARTE France, Bury me, My love è stato distribuito da Playdius Entertainment nell’ottobre 2017 su iOS e Android.
L’idea di un’app per far vivere l’esperienza di chi fugga dalla guerra e avvicinare a queste tematiche è ottima, la narrazione è ben gestita, la scrittura si fa raramente pesante e i contenuti sono davvero buoni. La stessa idea di fornire una mappa consultabile sulla quale vedere le tappe passate in rassegna da Nour nel corso del proprio viaggio, con relative informazioni sui luoghi riguardo guerra e politiche migratorie, è ottima e offre un buon valore aggiunto al racconto.
Il limite ravvisabile in quest’esperienza riguarda il livello di engagement ottenibile con una simile operazione: l’app è proposta all’abbordabile prezzo di circa 3 €, ma quel che manca è qualcosa che vada oltre la semplice narrazione, qualcosa che porti il titolo oltre il mero confine simulativo-esperienziale e metta in gioco degli elementi di gaming. La “gamification” di questo tipo di esperienza (anche tramite elementi semplici come puzzle, enigmi, indovinelli di base o forme di mini-game elementari tirando in ballo un’altra interfaccia, magari rendendo parzialmente esplorabile lo smartphone di Majd) avrebbe aiutato non poco ad arricchire un titolo che rischia di strozzarsi in termini di ritmo, non bastando i pur belli innesti grafici che restituiscono la porzione di mondo attraversata da Nour. Un elemento non poco penalizzante, che rende difficile collocare il titolo nell’ambito strettamente videoludico, essendo la componente gaming ridotta ai minimi termini.
Ciò nonostante, Bury me, my love rimane un’esperienza da affrontare e da diffondere, se non altro per il suo valore divulgativo e sensibilizzante, e per il suo essere un unicum, in un panorama in cui l’esigenza di sensibilizzazione nei confronti dei rifugiati e migranti va di pari passo con il bisogno di informazione riguardo le condizioni in cui certi esseri umani vivono in determinati paesi del mondo odierno. Per ricordarci ancora una volta il nostro bisogno di restare umani.




Apocalipsis: Harry at the End of the World

«Ciò che è fatto per amore è sempre al di là del bene e del male». Oltre la stregoneria, oltre la negromanzia, oltre quanto sosteneva probabilmente lo stesso Friedrich Nietzsche, al quale – da filosofo dell’irrazionalismo, teorico dell’Oltreuomo, “soltanto pazzo, soltanto poeta” – credo non sarebbe dispiaciuto l’immaginario fantastico , visionario, eppur così intriso di logica, di Apocalipsis: Harry at the End of the World. Il lavoro dei polacchi Punch Punk Games è un piccolo gioiellino che inserisce meccaniche, enigmi e dinamiche propri dei punta e clicca di Amanita Design in un mondo di stampo medievale arcano e trasfigurato.

L’amore alla fine del mondo

Siamo nel XV secolo, il Medioevo è alla fine, il fervore religioso no. La caccia alle streghe è nel pieno del suo fulgore e miete vittime condannando a morte presunte seguaci del Demonio: Zula ha solo la colpa di seguire il tracciato di una stella cadente credendo a un’antica leggenda che le avrebbe garantito l’eterno amore. ma che invece le assicura la morte dopo che il fatto viene direttamente collegato alla diffusione di una mortale pestilenza diffusasi pochi giorni dopo la caduta dell’astro. È al fianco del corpo penzolante dell’amore perduto che comincia l’avventura di Harry, in un viaggio che lo vedrà addentrarsi nei territori del Diavolo per riportare in vita la propria amata. Fra uno scenario e l’altro, il nostro protagonista partirà per mari, affronterà creature fantastiche attraverso vari scenari e dovrà risolvere numerosi enigmi fino ad arrivare al Regno dei Morti, dove saranno disponibili due finali alternativi.
Il gameplay è quello classico di questo genere di punta e clicca improntati agli enigmi, con un’interfaccia contestuale che permette un numero minimo di azioni, che qui consisteranno essenzialmente nell’utilizzo di alcuni elementi, da un lato, e nella raccolta, dall’altro, di oggetti raggruppati in un inventario a pergamena che si dipanerà in orizzontale, rendendo sempre visibili i vari item che raccoglieremo per andare avanti nella nostra inesorabile catabasi.

Catabasi

Dall’Odissea all’Eneide passando per Orfeo ed Euridice, il viaggio sino al cuore dell’Ade ha alle spalle una mitologia antica, che affonda le radici sin nella cultura mesopotamica, dove già Nergal, da semplice araldo, discende negli Inferi prima di diventarne egli stesso il sovrano. Non sembra un caso che la voce narrante del gioco sia stata affidata alla cupezza tonale di Adam ‘Nergal’ Darski, graffiante voce della band black-death metal polacca Behemoth, appropriatissimo nel dar tono alla narrazione durante le cut-scene che ricostruiscono l’antefatto tramite una felice combinazione di voce fuori campo e iconiche rappresentazioni degli accadimenti mostrate nell’ovale dell’occhio del protagonista. Un perno di un comparto sonoro ben curato, dove i composer Agim Dzeljilji e Urszula Izak tengono bene in conto dell’ambientazione oscillando fra le sonorità classiche ispirate alla Danse Macabre di Camille Saint-Saëns e alla cupezza gotica degli stessi Behemoth, ma mantenendo costante un impianto più vicino al sinfonico attualizzato sul piano sonoro. Gli SFX sono ridotti al minimo, scandendo soprattutto gli effetti delle azioni del nostro Harry, e chiudendo appropriatamente il cerchio di un comparto audio che ben si sposa con lo splendido art-style.
Dal punto di vista grafico, Apocalipsis è infatti un vero gioiellino: il lavoro dell’art director Zuzanna Łąpieś  miscela felicemente le grandi ispirazioni gotiche a cavallo tra Medioevo e Rinascimento, da Michael Wolgemut a Holbein Il Giovane passando per Jost de Negker fino ad Albrecht Dürer, il cui stile è probabilmente la principale ispirazione sul piano visivo. Non si tratta della stessa operazione di Four Last Things, dove il lavoro è interamente affidato a un sapiente collage e cut-up di opere reali, ma di una reinterpretazione originale, che va dalla creazione ex-novo di paesaggi e soggetti alla trasposizioni di creature tratte dai bestiari medievali (Raimondo Lullo veglia su quest’opera) sino alla reinvenzione di classici della pittura classica, come vediamo nella riproposizione della stampa I pesci grandi mangiano i pesci piccoli di Pieter Bruegel il Vecchio.
In un videogame equilibrato in tutte le sue parti, un simile art-style diventa certamente l’elemento degno di nota, atto a valorizzare il ricco simbolismo su cui il game designer Krzysztof Grudziński ha voluto porre l’accento nel corso della storia.

Il Diavolo, probabilmente

Apocalipsis: Harry at The End of The World è una Nekyia che porta in vita creature d’altro tempo e fantasmi che albergano nelle profondità dell’animo umano: perdere la persona cara può equivalere alla fine del mondo, ci avverte subito la voce di Nergal all’inizio della storia, e quel mondo si è pronti anche a distruggerlo per amore.
Il titolo di Punch Punk Games è senza dubbio armonicamente architettato, con una colonna sonora appropriata e un art-style straordinario a sostegno di una storia solida, dalla buona scrittura, che non eccelle però nella sua progressione narrativa. In particolare nella prima parte, alcune sequenze rischiano di risultare fra loro slegate, sottraendo al giocatore parte dell’immersione nel cuore di questa fiaba nera, e affievolendo l’empatia verso il tormento di Harry, ovattandolo. Le sequenze belliche (dal cannone alla corsa in fuga dai colpi d’artiglieria) risultano in parte avulse dal contesto e rischiano di restar fine a se stesse, come del resto alcuni enigmi che non sembrano dialogare con la narrazione. Quello degli enigmi è un altro aspetto in cui il gioco mostra di non disancorarsi dalla medietà, proponendo mini-giochi in gran parte già visti e raccattati dal grande calderone dei comuni puzzle game. Il riferimento a opere come Samorost 2 Machinarium è lampante, ma manca molto di quell’originalità e di quei guizzi enigmistici.
Ciononostante, Apocalipsis: Harry at The End of The World è un titolo assolutamente da consigliare, vuoi per un prezzo di lancio di 7 € più che congruo per le circa 3 ore di (buon) gioco, vuoi per un art-style che da solo vale già il prezzo del biglietto. Chi abbia già apprezzato questo titolo, potrà inoltre vivere l’antefatto nel DLC Apocalipsis: One Night in the Woods, pubblicato dal distributore Klabater lo scorso agosto su Steam, e dove si vestiranno i panni di Zula, della quale si potrà scoprire l’oscura verità su quella notte passata nel bosco.




The Low Road

1976. La giovane Noomi Kovacs, diplomata al LeCarré Institute for Exceptional Spies viene assunta nella divisione Intelligence della Penderbrook Motors, che presiede alla protezione di importanti segreti industriali (e alla corrispettiva sottrazione ai concorrenti). Noomi è talentuosa e intelligente tanto quanto impaziente, e vuole mettersi alla prova sul campo ma, come ogni nuova leva, viene relegata a compiti di poco conto dal suo supervisore, Barry “Turn” Turner, ex agente governativo dall’oscuro passato. Un’interessante missione è alle porte, l’obiettivo è il recupero di un geniale progettista misteriosamente scomparso nel quartier generale della REV Inc., ma Noomi non è la prima scelta, anzi: il suo capo le dice a chiare lettere che manderebbe lei solo se non ci fosse proprio nessun altro. Ed è così che la nostra agente vedrà profilarsi il suo primo obiettivo personale: fare in modo che ciò accada.

A hard road

Prima di addentrarci nei dettagli del gioco, è bene ripercorrerne lo sviluppo: il lavoro su The Low Road inizia nel 2014 da un’idea dell’allora CEO di Xgen Studios, Skye Boyes e dell’Art Director Scott Carmichael, con l’intento di creare qualcosa di completamente diverso dal precedente Super Motherload.
Viene fatto un investimento in know-how di genere con l’assunzione di Jed Lang come Lead Programmer e Leif Oleson-Cormack come Narrative Designer, e nel 2015 lo studio ottiene il supporto economico del Canada Media Fund. Tutto sembra andare per il meglio, quando il progetto subisce un improvviso stop a causa della prematura scomparsa di Skye Boyes a soli 33 anni, a seguito di un arresto cardiaco.
Superato lo shock e con il lutto nel cuore, il team si rimette al lavoro con al comando la moglie di Boyes, Kaelyn, che lavora assieme al gruppo per portare a termine The Low Road, il quale viene finalmente rilasciato nel luglio 2017 per PC, Mac e Linux, fino ad arrivare la scorsa estate su Nintendo Switch. La versione che abbiamo provato tiene conto della classica combo mouse-tastiera, come si addice a un amante della prima ora delle avventure grafiche punta e clicca.

Il Canto della Missione

Ma ritorniamo alla storia narrata: abbiamo detto che Noomi Kovacs si troverà a fare di tutto per avere assegnata la sua prima missione. Come in ogni adventure game, bisognerà compiere una sequenza di azioni per arrivare al risultato finale. Prima di portare però a termine questo primo obiettivo, la nostra protagonista si ritrova a dover fare una telefonata di prova su incarico di Turn. Viene così introdotta una delle particolarità del titolo, una meccanica quantomeno singolare nell’ambito di  un punta e clicca: la prospettiva cambia, dallo scorrimento orizzontale in stile platform che caratterizza The Low Road si passa a una visuale in prima persona con in primo piano le mani del nostro personaggio, che dovremo muovere con il mouse. La prima prova di questo tipo consiste in una conversazione telefonica (che può produrre svariati esiti) durante la quale dovremo fornire le migliori risposte all’interlocutore basandoci su informazioni presenti in documenti consultabili dentro a un fascicolo. Un’idea intelligente, che spezza l’univocità del gameplay tipica delle dinamiche punta e clicca. Si trovano circa una quindicina di questi momenti in tutto il gioco, mini-game di vario genere che non sempre risultano adeguatamente elaborati, e che avrebbero potuto compensare alla quasi totale mancanza di difficoltà del titolo sul piano degli enigmi: è quasi impossibile rimanere arenati in The Low Road e, se questo agevola la fruizione della narrativa, d’altro canto toglie un po’ di mordente a un gioco che esigerebbe un livello di sfida maggiore. Quando l’architettura del design fa della narrazione la colonna portante (come accade nei titoli Telltale e Quantic Dream, per citare gli esempi più noti), la scrittura necessita di un maggior grado di cura sul piano contenutistico e di un ritmo di racconto che vada di pari passo con le esigenze narrative. The Low Road gode globalmente di una buona scrittura, incarnata in un efficace uso dell’ironia, in dialoghi ben pensati, alcuni dei quali davvero divertenti come lo scambio di battute in rima con Hab (che fa da prodromo a una vera e propria sfida di rima baciata svolta in una modalità picchiaduro che ricorda da vicino Oh…Sir! The Insult Simulator) o alcuni siparietti grotteschi che stimolano una storia globalmente solida, che risulta godibile e diramata pur non riservando momenti di stupore: è infatti utile anche fallire in determinati frangenti, e vedere quali futuri sono riservati ai personaggi dopo quel singolo (falso) game over. Il racconto, in questo caso, sfuma nel nero ed è affidato a semplici scritte che raccontano un finale alternativo ma “parziale”, perché un “forward” da videoregistratore ci riporterà immediatamente al punto in cui avevamo perso, dandoci la possibilità di effettuare scelte alternative, fino a imbroccare quella corretta. I finali possibili in The Low Road sono effettivamente due, e il bivio si presenterà nell’ultimo scenario, che sarà possibile ripercorrere soltanto a seguito di un salvataggio.

Imperfect Spies

In termini di gameplayThe Low Road è quanto di più essenziale ci si possa aspettare da un titolo del genere: privo di qualsiasi interfaccia di scelta con azioni contestuali effettuabili tramite un semplice click del mouse, ci si servirà del tasto destro per l’analisi degli oggetti e del tasto sinistro per le azioni vere e proprie. Il puntatore cambia aspetto e forma ogni qualvolta sarà possibile interagire con un oggetto, che a sua volta verrà messo in rilievo rispetto al background. Proprio nell’interazione con gli oggetti circostanti si può ravvisare uno dei limiti del titolo: sempre per una scelta di game design, si è optato per asciugare il più possibile le interazioni, a favore di quelle con elementi che risultino funzionali alla risoluzione degli enigmi. Se questa è una scelta in favore della snellezza e del ritmo, d’altro canto rischia di lasciare il quadro narrativo un po’ spoglio. In un titolo del genere, l’analisi degli “elementi inutili” da parte di un personaggio ha una funzione ben precisa, quel che risulta dalle interazioni può contribuire a dare forza al contesto o caratterizzare di rimando alcuni personaggi o ambienti, o ancora può aumentare la carica ironica o poetica, o epica, o altro relativo al messaggio veicolato dal gioco, in relazione alla prospettiva e al feel che si vuole restituire all’utente. Questo tipo di interazioni sono qui portate ai minimi termini, e spesso è un peccato, specie davanti a scenari così belli e ricchi di dettagli.
Lo stile grafico è infatti uno degli aspetti più ammirevoli del gioco: ispirandosi alle illustrazioni “gouache“, Scott Carmichael mette in scena ambienti e personaggi di grande godibilità, più improntati allo stile utilizzato da moderni illustratori, fumettisti e cartoonisti che ai pittori classici, creando un ottimo effetto visivo, elegante e vivido al contempo, con un equilibrio non facile fra l’altro da raggiungere, dovendo rendere credibili le animazioni quasi da luna park di personaggi che si muovono come burattini. Ma tutto è così ben realizzato che la credibilità della finzione scenica non vacilla, risultando anche le dinamiche d’animazione perfettamente in linea con l’art-style e con i toni improntati al “comedy”.
A tutto ciò fa da sfondo il comparto sonoro di Eric Cheng, con buoni effetti e un’ottima soundtrack sospesa tra sonorità british e accenti psichedelici che riportano all’epoca di riferimento senza risultare marcatamente retrò. Sarebbe stato un lavoro perfetto sul piano audio se non fosse inficiato da alcuni doppiaggi che, seppur buoni, hanno alcune fastidiose sbavature in termini di resa, tra echi e riverberi poco gradevoli. Roba da poco, comunque, che non rende meno buona un’operazione globalmente di rilievo.

Si vive solo due volte

The Low Road è un titolo lontano dall’essere perfetto, ma è un’avventura grafica degna di essere giocata: una buona scrittura, che non sottovaluta un efficace equilibrio di trama e ironia, valorizzata da un ottimo comparto grafico e da una colonna sonora ben curata, a cui si aggiungono una varietà di mini-game che fanno da valido contraltare a enigmi non impegnativi ma funzionali a entrambi i finali della storia. Il cui risultato è globalmente più che positivo.
Se esiste un paradiso per i creatori di avventure grafiche, Skye Boyes, alla cui memoria il gioco è dedicato, avrà giocato con gusto a The Low Road, e da qualche parte sorride soddisfatto del risultato dei ragazzi di Xgen Studios, che hanno affrontato con successo il banco di prova del primo punta e clicca della loro storia di development.




Detective Gallo

Non di rado, di questi tempi, si sente esprimere a un amico, a un collega o a un avventore qualunque la voglia di andare via da questo paese, vuoi per il poco lavoro, le troppe tasse, i populisti, i terrapiattisti, i no-vax, la disillusione galoppante, va a sapere.  C’è sfiducia nell’Italia, e soprattutto poca stima verso gli italiani. Non che sia un discorso a me incomprensibile, a volte mi sento così anch’io. Quando ho giocato a Detective Gallo, dell’italianissima Footprints, ho provato infatti un senso di piccolo conforto.
Il mio primo incontro con il pingue pennuto avviene nel 2016, in un angolo della Milan Games Week riservato ai soli sviluppatori indie italiani (grazie, AESVI). I giochi erano tanti, e pure interessanti, ma dove volete che cada l’attenzione di uno cresciuto a pane e avventure grafiche? Non solo ho provato il gioco, ma ho scambiato anche due chiacchiere con le due menti creative che hanno presieduto alla sua creazione, i fratelli Francesco (programmatore, nonché script e UI developer) e Maurizio De Angelis (Art director, animator e story editor). Ne era venuta fuori un’intervista interessante andata in onda durante uno speciale su Teleacras, e che poi fu persa assieme ad altri file a causa di un “Millennium bug” che affettò i server dell’emittente in quei giorni, prima che ne venisse effettuato il backup. Un vero e proprio delitto. Un caso forse buono per il Detective Gallo. Che però, almeno in questa interessantissima avventura grafica, ha ben altro di cui occuparsi.

Prima l’uovo o il Gallo?

Ma facciamo un passo indietro: sappiamo che creare un videogame non è facile, tantomeno in un paese come il nostro. Vale quindi la pena raccontare un po’ la gestazione di questo progetto. Prima del gallo, del resto, deve nascere l’uovo. E l’uovo è stato deposto nel 2015, anno di rilascio della prima build del gioco, covato poi assieme all’attuale publisher, Adventure Productions, che ha dato al progetto motivi e sostanza per continuare. Si è arrivati così al crowfunding nella seconda metà del 2016, con una campagna su Eppela che ha fruttato circa 15.500 €, permettendo di lavorare su cutscene, animazioni, localizzazione in altre lingue e un doppiaggio italiano e inglese tuttora presente nel titolo. Il gioco è stato quest’anno rilasciato dapprima per PC e successivamente anche su PS4 e Nintendo Switch, dove è stato distribuito da MixedBag, che ne ha curato anche il porting su console lavorando su Unity partendo dall’engine originario del gioco, Adventure Game Studio. Oggi il titolo sta registrando un buon apprezzamento di critica e pubblico, ed è quasi una storia da fiaba per i developer di Detective Gallo, che hanno messo su non solo un’avventura grafica di grande equilibrio, ma anche trainata da una storia molto ben curata, che vede al centro un protagonista di un certo appeal e ben caratterizzato che andiamo a conoscere subito.

Le 3 P

Professionista, polemico e puntiglioso: chi avrebbe il coraggio di mettersi contro il Detective Gallo? Forse nessuno, tranne un serial killer di piante che semina il terrore fra i proprietari di vegetali della città. Il più sconvolto dalla vicenda è il ricco e stralunato Phil Cloro, botanofilo incallito che dà inizio all’avventura portando il Nostro nella propria villa per constatare lo sterminio di massa delle sue piante rare (un vero e proprio botanicidio) e incaricandolo di scoprire l’efferato autore di simili delitti a fronte di un cospicuo compenso. Detective Gallo ha un vero esperto in materia ad affiancarlo, l’assistente Spina, un fiero e acuminato cactus nano, personaggi non giocabile che diverrà silenzioso contraltare delle arzigogolate deduzioni e convinzioni espresse in un susseguirsi di regole etiche che compongono la singolare weltanschauung dell’investigatore.
Si intuisce bene già da queste scelte la portata di ironia trasfigurante di quest’avventura grafica, che si arricchisce di personaggi caratteristici quali la venditrice di caramelle Candy Bop, eternamente innamorata di Detective Gallo, il baby teppista, il commerciante, il taxista (con la sua singolare evoluzione spirituale), fino all’informatore che non vedremo mai ma di cui emerge nitida la caratterizzazione attraverso i soli dialoghi telefonici intercorsi con l’investigatore.
Insomma, un approccio del tutto “comedy” che si intesse in una struttura narrativa da noir investigativo. Quando si approcciano i generi (non solo videoludici), il rischio di scivolare nel banale del canone è grosso, e i ragazzi Footprint Games mostrano di esserne consapevoli. Detective Gallo gioca bene con i cliché, occhieggia al meta, indulge al citazionismo e non nasconde le influenze alla base dell’opera, e riuscire a fare tutto ciò senza banalizzare è il primo grande merito dei fratelli De Angelis. L’altro è quello di aver curato egregiamente la scrittura: la storia assume un tono umoristico ma non superficiale, apprezzabile da un pubblico eterogeneo per età e cultura, con linee di testo che non sforano i limiti del politicamente corretto senza però risultare rattenute. Equilibrio e qualità, insomma, si ha la sensazione di star leggendo quella che è una storia Disney per toni, scrittura (una scrittura ibridata con l’umorismo delle vecchie avventure della fine dello scorso secolo) e anche nel finale, dove si è messi davanti a un coup de théâtre che fa sorridere. Una simile storia non sfigurerebbe nella collana Disney noir, sia in ragione dei contenuti, sia, come è chiaro già a un primo sguardo, grazie al proprio art-style.

Storie di Paperi

Difficile non pensare agli albi di Topolino, a Mega 2000, a TopomisteryDetective Gallo ha quello stile visivo interamente incentrato sull’universo tanto caro a Don Rosa e Carl Barks. Non sono presenti altre figure zoomorfe, soltanto degli amabili pennuti coi loro becchi di forma varia, dal sardonico sorriso del commerciante alla tonda e bonaria Candy Bop sino al nerboruto e duro proprietario della discarica, senza dimenticare il nostro scontroso protagonista.
Gli scenari sono armonicamente deformati, ricordandoci gli ambienti di alcuni classici della LucasArts come Day of The Tentacle Sam ‘n Max; proprio da quest’ultima iconica avventura grafica sembrano provenire non poche ispirazioni, a partire da quella che è l’atmosfera di fondo del gioco (in merito alla quale si vede chiara anche l’influenza di avventure come Tony Tough Discworld) sino ad alcuni scenari, su tutti quello onirico e surreale in cui Detective Gallo si troverà a dover estorcere preziose informazioni a un personaggio, che ricorda concettualmente il Mistery Vortex dell’avventura di Steve Purcell. Oltre a risultare visivamente bello ed efficace in fase di gioco, lo scenario della dimensione del sogno contribuisce anche a rompere una monotonia che la scarsa varietà di ambientazioni rischia alla lunga di creare, che è uno dei pochi difetti del gioco (pur risultando una buona idea in termini di design, i cartelli direzionali in ogni scenario non sarebbero necessari) alla pari di alcuni enigmi che potevano essere meglio congegnati: difficilmente un utente avvezzo alle avventure grafiche si troverà bloccato, i puzzle sono abbordabili ma non per questo semplificati, il punto debole di alcuni (davvero pochi, in verità) sta nella mancanza di una ferrea consecutio di indizi atti a condurre alla soluzione, ma si tratta di eccezioni ampiamente compensate dal resto delle quest che invece tengono ben presenti questi pattern, e che assicurano un buon livello d’impegno e un ritmo di gioco che non si spegne praticamente mai.
In questo aiuta anche non poco la scelta intelligente di alcune meccaniche: i game designer hanno optato per una grande semplicità di interazione portando al minimo il concetto di “interfaccia ad azioni contestuali“, e che ci vedrà utilizzare i tasti sinistro e destro del mouse rispettivamente per compiere azioni e analizzare ambiente e oggetti, in linea di massima. Questa scelta, assieme alla facoltà di saltare i dialoghi e alla possibilità di intuire quelli già affrontati, alla facoltà di vedere tutti gli hotspot disponibili su schermo premendo la barra spaziatrice e alla “courtesy option” che permette di andare direttamente allo scenario con un semplice doppio click nella direzione prescelta, massimizza la godibilità del titolo e riduce al minimo i tempi morti.
A far da adeguato contorno a tutto ciò c’è la colonna sonora di Gennaro Nocerino che restituisce molto bene le atmosfere da noir investigativo, mantenendosi su stilemi classici ma non stantii, ed elaborando melodie sospese tra il serio e il dilettevole, che contribuiscono a dar ritmo e leggerezza alle sequenze di gioco senza mai astrarre il giocatore dal contesto, e contribuendo a un comparto sonoro di ottimo livello, che unisce SFX appropriati a un doppiaggio di tutto rispetto, dove la voce del Detective Gallo (interpretato in italiano da Federico Maggiore, che dà voce anche a Skinny di The Wardrobe, gioco distribuito dallo stesso publisher e di cui si trova un easter egg) conferisce carattere al protagonista, non sfigurando affatto con l’omologo inglese assieme a tutto il resto del cast.

Potenziale seriale

L’opera prima di Footprints porta a casa un risultato il cui equilibrio non è affatto scontato, né facilmente raggiungibile: una storia godibile e dal buon ritmo, che riesce sorprendentemente a capovolgersi anche quando sembra aver imboccato una soluzione narrativa banale, personaggi  ben caratterizzati, un art-style straordinariamente curato, che sbava solo in alcune animazioni di certo migliorabili, una soundtrack appropriata, enigmi di medio impegno che seguono un’adeguata curva di difficoltà crescente, il tutto incastonato in un sistema di gioco intelligente, semplice ed efficace. Se, oltre a enigmi più elaborati, avessimo avuto una maggior varietà di ambientazioni, Detective Gallo sarebbe un gioco davvero senza sbavature.
Si può poi discutere, sul piano narrativo, della bontà o meno della soluzione finale che, se da un lato può sembrare un po’ facilona, dall’altro ha i connotati rocamboleschi e leggeri delle storie disneyane, e risulta certamente in linea con l’intero mood del gioco, contribuendo all’armonia globale dell’opera.
Se la limitatezza delle ambientazioni deriva certamente dalle risorse disponibili, sul resto si può benissimo lavorare, le basi ci sono tutte, anche per fare di Detective Gallo un personaggio seriale. Il potenziale del personaggio c’è, il talento dei creatori pure: perché non provarci?




Thimbleweed Park

Accendere lo schermo e ritrovarsi improvvisamente negli anni ’80 non appare più strano in un’epoca in cui vari campi dell’arte e della creatività si alimentano di revival. Il meccanismo della nostalgia ha portato alla produzione di svariate retroconsole (non ultima il Super Nintendo Classic Mini e l’ultimissimo Commodore 64), al successo di serie tv come Stranger Things, al ritorno di brand come AlienGhostbusters, Blade Runner e l’anno prossimo potremmo aspettarci un ragionevole successo di Ready, Player One, film a firma Steven Spielberg tratto dal best seller di Ernest Cline interamente improntato su riferimenti anni ’80: quale miglior momento per tornare con un’avventura grafica old style, in pixel art e ambientata, fra l’altro, nei rombanti eighties? Detta così, la nuova opera di Ron Gilbert potrebbe suonare come una grossa furbata, ammiccante a nostalgici e a vecchi fan lucasiani, e uscita nel miglior momento possibile. Ma è davvero questo Thimbleweed Park?

Back to the Mansion

Per i giocatori meno giovani (e per i più giovani che amano studiare un po’ di storia tra retrogaming e vecchie avventure grafiche), le texture e i personaggi sono un diretto richiamo a un unico titolo, quel Maniac Mansion capostipite dei moderni adventure game e pietra miliare del passaggio dall’avventura testuale a quella grafica. Uscito nel 1987 su Commodore 64Maniac Mansion fu una novità assoluta nel mercato videoludico, per l’originalità della storia narrata (una straordinaria parodia di un b-movie horror, con tanto di teenager per protagonisti), per la possibilità di manovrare 3 personaggi in parallelo, per quell’umorismo grottesco e debordante che sarà il marchio di fabbrica dei titoli della LucasFilm Games (poi LucasArts) a venire ma soprattutto perché finalmente “vestiva” ciò che fino a quel momento era stato solo un nudo susseguirsi di linee di testo. Non la prima avventura grafica della storia, ma certamente la prima di successo, al punto da meritarsi un porting su NES, territorio – quello delle console – nel quale il genere languiva. A distanza di 30 anni, gli stessi creatori di Maniac MansionRon Gilbert e Gary Winnick, hanno deciso di celebrare l’anniversario riportandoci indietro nel tempo, proprio in quel 1987 in cui uscì la loro prima, celebratissima avventura grafica.

Welcome to Thimbleweed Park

Ed eccoci dunque catapultati negli anni ’80 nell’amena cittadina di Thimbleweed Park, a vestire inizialmente i panni degli agenti Ray e Reyes, incaricati dal FBI di indagare su un cadavere riverso nel guado di un fiume. Ovviamente l’obiettivo sarà quello di raccogliere prove e interrogare gli abitanti del piccolo paese – ormai spopolato – per trovare il colpevole di quel che è un evidente un omicidio: ci sono le premesse del più classico dei racconti investigativi “made in U.S.A.”, e in effetti l’intento parodistico ha come target proprio storie di questo genere. Non è un caso che la coppia di agenti richiami la fisicità di Mulder e Scully di X-Files e che Thimbleweed Park sembri a tratti una grottesca Twin Peaks (le battute sul “bistrot” e sulle sue presunte prelibatezze, l’incendio alla fabbrica di cuscini, principale azienda della città, che ricorda da vicino quello della segheria; e poi, scusate, mi consentite di non considerare totalmente casuali le iniziali “TP”?). Apparirà subito chiaro – leggendo i loro block notes – che Ray e Reyes nascondono ben altri obiettivi. Nel loro peregrinare all’interno della cittadina, gli agenti entreranno in contatto con vari personaggi, tre dei quali – oltre loro – saranno sotto il diretto controllo del giocatore.

Personaggi in cerca di soluzione

Ed è qui che entrano in scena Ransome il Clown, il fantasma Franklyn e la supernerd Delores: il primo vittima di una maledizione che gli impedisce di togliersi il trucco di scena, il secondo condannato a vagare fra i piani dell’hotel del paese, e la terza tornata a Thimbleweed Park a seguito della morte del nonno Chuck (il nome vi richiama alla mente qualche villain dell’universo Lucas?), fratello di Franklyn (che, sì, è il padre di Delores), proprietario della fabbrica di cuscini e storico plenipotenziario del paese, onnipresente nei dialoghi con gli abitanti, dai quali si potranno trarre informazioni utili per il proseguimento della storia e per la soluzione di vari enigmi. Se i personaggi principali hanno caratteristiche marcate e tratti ben definiti che esprimono bene l’attenzione di Gilbert e Winnick nel delineare a fondo ogni character, questa si vede ancor di più nella cura dei NPC che – dalle sorelle Pigeon Brothers ai complottisti della radio, fino al polimorfo personaggio dello sceriffo-concierge-medico legale, una delle figure più riuscite di tutto il gioco – ci regala maschere straordinarie capaci di caricare ulteriormente il già grottesco e suggestivo quadro d’insieme, contribuendo in maniera decisiva a innalzare il ritmo di gioco e a rendere memorabile il deforme affresco della piccola cittadina americana.

Piccoli enigmi e grandi citazioni

Chi abbia già giocato alle avventure grafiche della Lucas non potrà non aver notato le numerose citazioni presenti in Thimbleweed Park, che spaziano da Maniac Mansion – della quale ritroviamo parte della villa, con l’orologio a pendolo all’ingresso e il salone munito di scala a chiocciola col cartello “out of order” – a Zak McKracken and the Alien Mindbenders (a citare entrambi i titoli basta una motosega) passando per The Secret of Monkey Island, i cui rimandi sono numerosissimi, non ultima la testa del navigatore, che tornerà anche qui utile in uno degli enigmi del gioco.
A proposito di quest’ultimi, pur non essendo proibitivi, non sempre i puzzle presenti risultano semplicissimi. Certo, saranno più avvantaggiati i giocatori avvezzi alle dinamiche dei punta e clicca di casa Lucas, i quali raramente ponevano quesiti risolvibili secondo i dettami logici dei classici puzzle ma, al contrario, costringevano al pensiero laterale, a grossi sforzi immaginativi, basandosi a volte su giochi di parole spesso di difficile adattamento sul piano linguistico (vedi gli enigmi della “red herring” e della “monkey wrench” proprio in The Secret of Monkey Island) e mettendo il giocatore a volte in condizione di dover tentare ogni combinazione possibile pur di andare avanti. I giusti indizi per risolvere ogni enigma non mancano ma, per chi volesse sforzarsi un po’ meno, è possibile selezionare una modalità facilitata, scremata dagli enigmi più ostici (ma mi sento di sconsigliarla).
Tornando in tema di citazioni, Gilbert e Winnick hanno messo in Thimbleweed Park un  bel po’ di autobiografia: il personaggio che più rappresenta gli autori è certamente Delores, che non a caso rappresenta una figura centrale nella storia. Delores riesce a realizzare il sogno di diventare una sviluppatrice di videogame, ed è chiaro come dalla sua scelta scaturisca, oltre alla rabbia del nonno che arriva a diseredarla, il disprezzo degli altri familiari (la sorella in primis) e lo scherno della gente comune. C’è un po’ della visione diffusa della società del tempo che sorrideva a chi dicesse di occuparsi di videogame (oggi va un po’ meglio, ma i passi da fare sono ancora tanti), ma ci sono anche chiari riferimenti gli albori della carriera di Gilbert, dal Graphics Basic, estensione per Basic creata nel 1983 con Tom McFarlane, al fantomatico developer MMucasFlem al quale Delores invia la propria candidatura.
Le citazioni non sono state colte né gradite dall’utenza più giovane e, nell’ultimo aggiornamento, assieme a una sala giochi con vari coin-op giocabili, Terrible Toybox ha aggiunto l’opzione “Citazioni Fastidiose“, attivabile da chi voglia fruire dei numerosi tributi all’universo Lucas presenti nel titolo.

Modernità eighties

Dal punto di vista visivoThimbleweed Park centra perfettamente il punto, unendo un art-style che richiama le avventure grafiche di fine anni ’80 (una su tutte, dicevamo, Maniac Mansion) ma che serba la sua attualità, offrendo ambienti e paesaggi che riescono a essere evocativi di un’epoca passata ma mai vetusti o polverosi, trasportando il giocatore in un altro tempo senza mai dargli la sensazione di essere alle prese con un prodotto figlio del retrogaming, e restituendo anzi un senso di forte modernità nonostante l’impianto grafico old style interamente in pixel-art.
Non può dirsi diversamente riguardo la colonna sonora, nella quale Steve Kirk riesce a compendiare ed enfatizzare il mood delle varie sequenze, chiudendo il cerchio di ogni ambientazione, mischiando sintetizzatori e strumenti classici (addirittura un Theremin) e alternando musiche d’ambiente a ritmiche proprie del rock progressivo. L’effetto ottenuto è quello che dicevamo prima, un retrò che conserva la sua modernità, in questo caso amplificando l’aura di mistero nel dipanarsi della storia, con il plusvalore di rafforzare “l’idea” di ogni ambiente attraversato dal giocatore: i suoni tenui del jingle che fa da sottofondo al Quickie Pal o il tema che suona all’ascensore dell’Edmond Hotel ne sono pregevoli esempli. Ma Kirk si mostra versatile anche nel dar voce al pezzo di Razor and the Scummettes (rock band capitanata dall’omonimo personaggio di Maniac Mansion, Razor appunto), dando prova di gran capacità mimetica nell’elaborazione di un tappeto sonoro steso sotto gli strani accadimenti della rocambolesca Thimbleweed Park, e non facendo per niente rimpiangere il MIDI delle colonne sonore dell’epoca.
Un paio di parole sui vari porting: per scrivere questa recensione, abbiamo interamente giocato la versione per PC in occasione della release del gioco a marzo  2017 (prima, quindi, dei vari aggiornamenti che abbiamo già citato) e rigiocato interamente quella per PS4 a settembre 2017; abbiamo inoltre testato quella per iPad, uscita sempre a settembre 2017; si attendeva per il 3 ottobre la release su Android, che sancirà la presenza di Thimbleweed Park su tutte le principali piattaforme disponibili adatte al gaming, ma Ron Gilbert ne ha annunciato il rinvio.
Le versioni differiscono fra loro quasi esclusivamente sul piano dei controlli, dove la prima (per PC) è ovviamente la più classica e anche la più congeniale al genere punta e clicca: giochi di questo tipo sono stati pensati prevedendo mouse e tastiera tra le mani del player e l’ultimo lavoro di Gilbert non fa eccezione, sancendo però un passo avanti in termini di tempistiche di gioco, fluidità e movimenti, e dunque di gameplay. I percorsi dei personaggi sono ottimizzati in modo da sottoporre il giocatore al minor numero di movimenti “inutili”, e consentendogli di giungere al punto di arrivo nel minor tempo. Su questo non fa eccezione la versione per PS4, la quale ha una minor rapidità di navigazione, ma marginale, tanto da non inficiarne l’esperienza. I tasti direzionali permettono di spostare il cursore e di selezionare i verbi d’azione da correlare agli oggetti presenti nell’inventario o nello scenario per muovere i personaggi e interagire con l’ambiente. Tramite il tasto X si potranno compiere le azioni e accelerare la velocità di movimento del personaggio, mentre il tasto quadrato permette di compiere le azioni che vengono suggerite su schermo. I tasti dorsali (L1 e R1) agevolano il passaggio fra i vari punti di interazione all’interno di ogni scenario, mentre L2 e R2 ci permetteranno di switchare comodamente fra tutti e cinque i personaggi. Scorrendo il dito sul tasto touch-pad potremo inoltre muovere il cursore come se avessimo un mouse, ma alla lunga questa opzione risulta poco comoda.
La versione mobile del gioco risulta altresì maneggevole e funzionale, lasciando invariata l’interfaccia e con il surplus di poter fare a meno del cursore: per spostarsi basterà ovviamente toccare il punto di destinazione, così come per utilizzare oggetti (cliccando sul verbo e poi sull’oggetto). Anche la scelta dei personaggi giocabili e la selezione dei dialoghi è facilitata dall’approccio interamente touch dei punta e clicca, che su mobile sembrano trovare una declinazione ideale, potendo far a meno del puntamento e consentendo al giocatore di cliccare direttamente la propria scelta, rendendo superfluo l’utilizzo di controller, mouse e tastiera che sarà reso possibile nella versione Android.

Come scrivere un Adventure Game

Nel suo storico microsaggio Why Adventure Games Suck, scritto nel 1989 e rivisto nel 2004, Ron Gilbert scriveva:

«One of the most important keys to drama is timing. Anyone who has designed a story game knows that the player rarely does anything at the right time or in the right order. If we let the game run on a clock that is independent from the player’s actions, we are going to be guaranteed that few things will happen with dramatic timing.»

Quello dell’equilibrio dei tempi drammatici è uno degli aspetti su cui il Grumpy Gamer (storico nickname di Gilbert, Ndr) si è sempre incaponito, e che ha caratterizzato negli anni la sua cifra di narratore, prima che di game designer.
Da questo punto di vista, Thimbleweed Park è un modello di arte del racconto videoludico, con tempi narrativi calibrati e un ritmo di gioco che non incespica, dove si gode di una storia scritta splendidamente. I dialoghi sono sulla falsariga dei grandi giochi Lucas, ma con ulteriori passi avanti sul piano stilistico, con una forza che Fabio “Kenobit” Bortolotti ha reso egregiamente in italiano, anche in situazioni impervie come quella di dover rendere intellegibile nella nostra lingua lo scozzese stretto del personaggio di Doug, trasposto in abruzzese, o quella di restituire al meglio l’irriverenza sboccata di Ransome Il Clown.
Non si parla soltanto dell’umorismo lucasiano di cui sono intrise le numerosissime linee di testo: la storia di Thimbleweed Park è figlia di una grande operazione metatestuale, che ci offre maschere vive nei suoi cinque personaggi in cerca di espiazione:  Franklyn, dal temperamento mite, dalla personalità debole ed estremamente remissivo, Ransome, sprezzante, cinico e sboccato, Ray, nella sua durezza e caparbietà, Reyes, un po’ tonto e risoluto, e Delores, tenace, idealista e controcorrente come dovrebbe essere un vero game designer.
È il percorso di una catarsi, quello dei protagonisti del Teatro dell’Assurdo di Thimbleweed Park, ognuno animato dalla propria singolare ricerca; una catarsi probabilmente impossibile all’interno della finzione videoludica, almeno finché il computer che le dà vita resta acceso, sembra dirci Gilbert dai meandri del wireframe, elaborando una storia che certamente ricorderemo.
Thimbleweed Park è un capolavoro di metaletterarietà che sul finale tocca picchi esistenziali come pochi, non meno di quanto lo fu (esistenzialista e metaletterario) quello di Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge, unendo in un’armonia singolare il grottesco e il drammatico, il demenziale e il serioso in un’opera che è certamente una delle migliori produzioni di Ron Gilbert in tutta la sua carriera di game designer.