Top 7: I peggiori porting della storia

Probabilmente diamo fin troppo per scontato, a volte, che un titolo che funziona perfettamente su una macchina debba avere gli stessi risultati su un’altra. Purtroppo molte volte non è così: i porting, spesso appaltati a terzi, risultano in vari casi mal gestiti, indispettendo l’utenza. Vediamo insieme i 7 peggiori risultati.

#7 Bayonetta (PS3)

Bayonetta fu un fulmine a ciel sereno, approdando su Xbox 360, in tutta la sua micidiale bellezza. Ma quando fu il turno della console Sony, le cose non andarono nel verso giusto: risoluzione non all’altezza della controparte Microsoft e problemi di frame rate impallidivano se confrontati con tempi di caricamento su PS3 così tanto lunghi che sarebbe stato possibile giocare un altro gioco al suo interno.
Il porting, affidato a Nex Entertainment, famosi per aver realizzato Resident EVIL: Code Veronica, fu una scelta azzardata, e il risultato ha semplicemente confermato le aspettative.

#6 GTA IV (PC)

Ci sono videogiochi che ancora oggi faticano a dare il loro massimo. GTA IV è arrivato nel 2008 con tantissimi problemi, a cominciare da requisiti di sistema fin troppo elevati, glitch di varia natura, eccessivi problemi di frame rate, caricamenti biblici tanto altro.

#5 Rime (Switch)

Un pessimo porting fresco fresco per la neonata Nintendo Switch. Tutti pregustavamo l’uscita di un titolo che ben si sposava allo stile della “Grande N” ma, evidentemente, l’abbiamo dato un po’ troppo per scontato. I problemi  sono tanti, a cominciare da eccessivi cali di frame rate, bug e compenetrazioni, comandi che rispondono a targhe alterne e via dicendo. Probabilmente una delle più grosse delusioni del 2017.

#4 Dark Souls (PC)

From Software non è rinomata per la qualità dei suoi porting su personal computer e tutto ebbe inizio dal primo capitolo della celebre saga di Miyazaki: Dark Souls. Il titolo si presentò con una risoluzione bloccata a 720p e devastanti problemi di frame rate, risolti da una singola persona con una patch amatoriale di qualche Mb. Ancora oggi la software house, non sembra aver imparato la lezione.

#3 Resident EVIL 4 (PC)

I giapponesi e i PC sono probabilmente la coppia peggio assortita al mondo. Un’altra vittima è stato il povero Resident EVIL 4, afflitto dai peggiori problemi del mondo, a partire dal rendering, e la fantasiosa gestione delle luci e delle ombre. Inoltre, mancava anche il supporto al mouse… questo sconosciuto. Proprio questo faceva pendant con controlli inutilmente complicati e alla quale SourseNext, che si occupo del porting, non seppe porre rimedio.

#2 Pac-Man (Atari 2600)

Stiamo probabilmente parlando di uno dei videogiochi più importanti della storia, famoso in tutto il globo e pietra miliare delle sale giochi, a partire dagli anni ’80. Immaginate quindi l’euforia della popolazione alla notizia che questo titolo sarebbe stato giocabile comodamente a casa, grazie ad Atari.
Sei settimane. È bastato così poco tempo per rendere Pac-Man semplicemente un’altra cosa con cambiamenti grafici e di gameplay di certo peso come i fantasmi, presenti soltanto uno alla volta.

#1 Metal Gear Solid 2: Son of Liberty (PC)

Un’accozzaglia di scelte sbagliate e un inno alla negligenza. MGS 2 lo conosciamo un po’ tutti e c’è il serio rischio che si cada nella retorica. Fortunatamente in pochi l’hanno giocato su PC, assistendo a bug di un certo livello, da sembrare arte contemporanea fino alla ciliegina sulla torta: in Metal Gear Solid 2 era presente un livello particolare, con sezioni sensibili alla pressione e ben gestite dal Dualshock PlayStation 2. Immaginate la situazione con una tastiera… ingiocabile.
Il tutto per un peso complessivo di ben 7GB, in un mondo dove la normalità era di circa 1,5.




It (2017)

Per anni i clown sono stati considerati tra le figure più spaventose e inquietanti in assoluto, soprattutto nell’immaginario dei bambini. Apparentemente senza ragione: in fondo, i clown, specialmente nei più tranquilli quartieri americani, erano quelli chiamati a rallegrare le feste di compleanno dei più piccoli. Nonostante la fiducia e i bei momenti passati in compagnia dei pagliacci, c’era sempre qualche bimbo che si allontanava o si metteva a piangere alla vista di queste persone truccate intente a intrattenere il pubblico con scenette comiche e semplici trucchetti atti a strappar qualche risata.
La miniserie televisiva It del 1990, tratta dall’omonimo romanzo di Steven King, giocava in parte su questo aspetto: la paura del clown. Ovviamente, It è un pagliaccio che appare per portarti con sé, una figura che vuole la tua pelle e che, prima di farlo, ti spaventa a morte. Queste le basi per il personaggio del clown ma cosa intendiamo per “spaventare a morte”? It è un personaggio che uccide: i più ingenui soprattutto, attratti nella sua sfera di fiducia, una volta regalata qualche risata, come una mosca che si avvicini alla pianta carnivora per i suoi feromoni.
È proprio questa la particolarità di Pennywise, nome del clown di kinghiana memoria: il fatto di mettere una paura proporzionata alla fiducia che gli daresti. A oggi questa miniserie viene considerata da alcuni come un prodotto invecchiato male, frutto del suo tempo, ma che ebbe un impatto culturale senza precedenti; It, riconfezionato successivamente come un film, è diventato qualcosa di sacro, uno dei film più terrificanti di sempre colpevole anche per aver alimentato ancora di più la paura dei clown nei bimbi di tutto il mondo. It è apparso nelle classifiche dei film più spaventosi di tutti i tempi e, a oggi, ha lasciato un ricordo molto vivo nelle persone che videro la serie (anche se in Italia uscì con un ritardo di tre anni). L’It del secolo scorso, nonostante diverse critiche su internet, ha mantenuto quest’aura fino a oggi, con l’uscita del nuovo film di Andrés Muschetti. Chi da bambino abbia visto It ha atteso con impazienza questo remake che oggi permette anche ai nuovi appassionati di conoscere la storia di Pennywise, il clown ballerino, e dei ragazzi di Derry, raccontata con mezzi più attuali e uno storytelling più moderno. Inoltre, il nuovo film si può permettere di essere più fedele al libro e mostrare alcune scene che ai tempi, per via dei controlli sui contenuti televisivi nelle TV americane, vennero smorzate per la troppa violenza presente nel romanzo.

Il film ci racconta della storia del club dei perdenti, composto da Bill, Mike, Ben, Beverly, Eddie, Richie e Stan, combriccola di reietti intenta a scoprire cosa c’è dietro alle sparizioni dei bambini di Derry. L’evento che scatena l’indagine è però la scomparsa di Georgie, fratellino di Bill, uscito durante una giornata piovosa per giocare con la barchetta di carta che il fratello maggiore aveva realizzato appositamente per lui. I ragazzi si imbattono in strani incontri in cui le loro paure più profonde prendono vita e fanno la scoperta di certi eventi tragici avvenuti a Derry, il tutto con intervalli ciclici di 27 anni. Di tutte queste vicende avremo sempre un’ottima visione d’insieme, tutto ci viene raccontato con un pacing costante che restituisce sia il background dei membri del club sia i tasselli principali della storia senza interruzioni particolari. Un chiaro punto a favore di questo remake è quello di riuscire a presentare le storie dei protagonisti senza scadere negli odiosissimi flashback della miniserie tv e senza che la narrazione si interrompa. I ragazzi sono tutti degli ottimi attori e sanno esattamente come accentuare le personalità dei personaggi del romanzo, personalità che in fondo dovranno pesare poi ai fini della trama: il lutto di Bill, di cui veste i panni Jaeden Lieberher, l’istinto di sopravvivenza di Mike (Chosen Jacobs), il disagio di Beverly e Ben interpretati rispettivamente da Sophia Lillis e Jeremy Ray Taylor: per tutti It è la prima produzione importante. Discorso che non può applicarsi per Finn Wolfhard che semplicemente sfonda lo schermo interpretando Richie, il ragazzo con gli occhiali: complice anche l’esperienza fatta sul set di Stranger Things, risulta il migliore dei ragazzi, simpatico, inadeguatamente volgare, sempre presente anche se con fare goffo e adorabilmente codardo. È impossibile non innamorarsi della sua interpretazione. Questa nuova trasposizione sul grande schermo, visto che lo abbiamo citato, prende sicuramente molto dalla succitata serie tv Netflix, che l’anno scorso è letteralmente esplosa (e la cui seconda serie è stata lanciata lo scorso 27 Ottobre) lanciando un revival anni ’80 di grande successo; la sceneggiatura è intrisa dello stesso  spirito di collaborazione dei personaggi e di quell’atmosfera vintage e gli scenografi non hanno certamente perso tempo a riempire i set con oggetti tipici di quei anni tra merendine, poster, musicassette e persino il cabinato di Street Fighter (il primo) che appare nella sala giochi locale. La scenografia è inoltre accompagnata da una eccellente fotografia che trae il meglio degli ambienti film: dalle scuole affollate, ai laghi soleggiati, dalle fetide fognature alla bizzarra casa andata in fiamme. Il film di Muschietti, insomma, come Stranger Things, ci porta indietro di qualche decennio avvalendosi di mezzi moderni, di una fotografia ben curata e di effetti speciali niente male, anche se a volte la computer grafica risulta un po’ troppo invasiva e, al solito, facilmente individuabile. Il nuovo clown, interpretato da Bill Skarsgård, purtroppo si pone in maniera troppo paurosa senza un vero comportamento da clown, distruggendo in un certo senso la vera e propria particolarità di It, ovvero quel ricevere l’attenzione dal bambino-vittima per poi ucciderlo brutalmente. La magia che Tim Curry donava alla miniserie originale era proprio quella di avere quel fare goffo tipico di un clown, essere inadeguato e mettere paura quando meno lo si aspettava; questo nuovo It invece risulta decisamente scontato. Il suo unico obbiettivo è quello di mettere paura, uccidere ed essere sconfinatamente cattivo, senza che ci sia alcuna sfumatura che possa dare un tratto originale al personaggio del pagliaccio assassino. È un clown deteriormente figlio di questi tempi, e lo si può notare da vari jumpscare poco convincenti, molti disturbati da una colonna sonora che si intromette violentemente, smontando lentamente il build-up che dovrebbe portarci alla fine a sobbalzare dalla poltrona o a volte talmente forte da distruggere qualsiasi effetto sorpresa. In poche parole, capiremo sempre che qualcosa di orrendo sta per accadere. È un vero peccato perché la soundtrack di Benjamin Wallfisch è veramente deliziosa: delicata e leggera nei momenti più introspettivi che riguardano i ragazzi, brutale quando il clown è in azione. Il vero problema è – strano a dirsi – semplicemente il volume, e il modo con cui spesso la musica arriva a “invadere” certe scene, colpa da non attribuire al compositore. Inoltre, sempre per ricordare che siamo negli anni ’80, alcune volte sembra che il film voglia mostrare di essere “così figo” da non riuscire a contenersi: onestamente, anche se possono strappare qualche sorriso, ci è difficile capire il perché delle urla in slow motion durante la scena della battaglia di sassi, o di quei forzati primi piani sul poster dei New Kids on the Block nella camera di Ben Hanscom. È normale che un film come It debba dare un attimo di tregua agli spettatori ma non sembra questo essere il metodo migliore.

La nuova trasposizione cinematografica di It è dunque certamente ben riuscita: la storia fila e non annoia, gli effetti speciali sono molto belli, la fotografia è ben curata e la colonna sonora ben composta. Ha tutti gli elementi per renderlo un bel film, pur tuttavia non essendo esente da difetti che non possono essere messi da tralasciati. Il film manca purtroppo di carattere e, se oggi giudichiamo la miniserie un prodotto figlio del suo tempo, con tutti i limiti che ciò comporta, il destino di questo film potrebbe non essere tanto diverso. Ha certamente delle caratteristiche che oggi lo rendono un ottimo prodotto ma, col passare del tempo, probabilmente, le stesse cose che oggi sono punti di forza saranno le stesse che lo faranno sembrare un film datato. Oggi, e sicuramente per il futuro, questa pellicola rappresenta certamente la migliore alternativa di fronte alla tediosa miniserie, anche per la maggiore fedeltà al romanzo, ma la presenza di Tim Curry nell’originale era un valore aggiunto di cui il film di oggi non gode, ed è un elemento non da poco che ha contribuito a imprimere nella mente dei più l’immagine di It fino ad oggi, ed è quella che probabilmente resterà anche in futuro; questa pellicola non farà certo dimenticare una miniserie che ci ha regalato dei bellissimi momenti (o meglio, spaventi) che meritano di essere ricordati ma, se siete alla ricerca di qualcosa di più moderno e più fruibile, apprezzerete questo film. Se siete pronti per un nuovo incubo, addentratevi pure in sala.




Racing Game: dal concept al prodotto finale.

Le grandi software house del settore motoristico continuano a sviluppare racing game sempre più evoluti che si battono per accaparrarsi, anno dopo anno, il primato di miglior gioco di guida simulativo. Ma il percorso per lo sviluppo di un gioco di qualità non è affatto semplice. Vediamolo insieme.

Ogni motoristico che si rispetti deve avere innanzitutto una propria dimensione sulla quale poi gettare le fondamenta, poiché sin dall’inizio bisognerà avere ben chiara la direzione da seguire per la linea di sviluppo del titolo: arcade, simulativo o ibrido?

Una volta scelta l’impostazione, si inizierà a progettare quello che sarà il vero e proprio contenuto del gioco. La fisica è normalmente legata al comportamento delle vetture su diversi tipi di terreno oppure ad altri particolari tipi di variabili dinamiche, caratteristiche che oggi giorno sono sempre più ricercate e, di conseguenza, oggetto di critica se mancanti o mal congegnate. Non sono queste però a determinare necessariamente la natura di un racing game. Di fatto esistono simulativi senza danni alle vetture o arcade con danni alle vetture ultra realistici.

Per avere un buon gioco di corse, sarà fondamentale fare affidamento su un buon motore grafico: le grosse software house ne sviluppano spesso uno proprietario, creato apposta per le esigenze del gioco. Al motore grafico, che sarà ovviamente responsabile di buona parte della qualità finale del titolo, andrà affiancato un minuzioso studio di tutte le variabili dinamiche, come l’aerodinamica dei veicoli in diverse condizioni, il clima variabile, l’usura delle gomme e altre caratteristiche che andranno poi ad arricchire l’esperienza di gioco: una fisica il più reale possibile diventa oggi uno dei punti di forza. Un’altra delle caratteristiche imprescindibili per i racing game di ultima generazione è sicuramente la qualità grafica. Lavoro che ultimamente si è raddoppiato, soprattutto per i modellatori 3D, anche a causa della tanto chiacchierata “visuale dall’abitacolo”, nella quale il giocatore va alla ricerca anche dei minimi dettagli, dalle cromature dei bocchettoni dell’aria, alle manopole del climatizzatore, oltre che a un cruscotto con tanto di contagiri e tachimetro realmente funzionali. Il numero di poligoni delle vetture, dapprima molto basso, adesso è diventato diametralmente opposto: si cerca la perfezione in ogni dettaglio, dai bulloni di un cerchio in lega sino all’interno dei fari, dotati di lampade e luci a led. Il team al contempo si occuperà delle texture, necessariamente di alta qualità, sia per quanto riguarda le vetture, soprattutto nella visuale interna ove prevista, che per quel che riguarda tutto il contorno di copertoni, asfalto, cordoli, erba, terra, alberi e montagne. Una volta terminato il modello 3D, non rimarrà che completarlo applicando, grazie al motore grafico per l’appunto, diversi shader per ottenere delle superfici sempre più realistiche. Il comparto sonoro, non meno importante dei precedenti, viene registrato per ogni singola auto in modo da risultare il più fedele possibile all’originale e in seguito modulato in base anche alle diverse visuali di gioco: per esempio quella interna al casco, nella quale avremo un suono ovattato e sordo che ci restituirà una sensazione molto realistica alla guida. Le vetture virtuali vengono successivamente testate con speciali postazioni di simulazione di guida, spesso anche facendo affidamento a veri piloti professionisti, anche per poter usufruire di un parere professionale sulla fisica delle automobili in modo da limare dove possibile eventuali incoerenze tra realtà e simulazione.

Ma l’elemento che più attrae i veri amanti del genere sono le costosissime licenze ufficiali delle auto, che non sempre vengono rilasciate con facilità. Nel caso di alcuni racing game quali Ridge Racer, Split Second, Burnout e simili, lo sviluppatore ha deciso deliberatamente di creare modelli di automobili e moto partendo da zero, trovandosi così anche a dover fronteggiare un minor investimento iniziale.

Che i giocatori adesso siano “viziati” dall’alta qualità dei titoli è un dato di fatto: si è raggiunto uno standard molto alto dal quale è ormai difficile tornare indietro, ed è forse proprio per questo che la scelta di investire nello sviluppo di un racing game competitivo è valutata con molta attenzione e cautela da ogni grosso developer presente sul mercato.




Top 7: al volante dei migliori racing game

Ci troviamo in un bel periodo: Project CARS, Forza Motorsport e Gran Turismo ci regalano l’imbarazzo della scelta, e mai come ora tutti i titoli motoristici hanno raggiunto questo livello qualitativo. Ma è davvero così? Quali sono davvero i migliori racing game? Scopriamolo insieme.

7. Assetto Corsa (2014)

Nonostante sia appena entrato tra i grandi del settore, il simulatore italiano ha già la sua grande dose di appassionati, e si può ben capire il perché: Kunos ha lavorato strenuamente alla raccolta dei dati reali di ogni vettura e questo, unito alla scansione precisa dei circuiti, rendono Assetto Corsa il simulatore di guida più preciso sul mercato. Ha molto carisma e questo ha spinto alcune case come Ferrari, Porsche e Lamborghini, a proporre la prova dei suoi modelli reali attraverso questo titolo.

6. Project Gotham 4 (2007)

Oltre ai Forza Motorsport, Microsoft poteva vantarsi anche della serie Project Gotham Racing che con il quarto capitolo ha raggiunto la piena maturità. Oltre a essere tecnicamente eccelso, l’ingresso delle moto ha segnato profondamente il titolo, portando una varietà difficilmente riscontrabile nella concorrenza.  Meteo dinamico, 130 vetture perfettamente riprodotte e diverse innovazioni per il multiplayer hanno portato Project Gotham a essere uno dei migliori esponenti dell’epoca.

5. Need for Speed: underground 2 (2004)

Se c’è un videogioco che i fan richiedono a gran voce a Electronic Arts è un remake di Underground 2, probabilmente uno dei migliori titoli arcade usciti finora. Il titolo era contraddistinto da un incredibile varietà e libertà essendo a conti fatti un open world con la possibilità di poter modificare le proprie auto in ogni singolo dettaglio. È un titolo che ha influenzato molto il panorama automobilistico nel settore tuning, contribuendo a espandere quanto si era visto col primo Fast and Furious.

4. Colin McRea Rally (1998)

Colin McRea Rally ha certamente segnato un’epoca, facendo saggiare a tutti i videogiocatori degli anni novanta lo spirito dei rally, derapate in mezzo al fango e salti spettacolari. Tutto questo dall’interno dell’abitacolo, una vera gioia per gli occhi e che spingevano questo titolo ai vertici della qualità tecnica. Anche la supervisione del compianto Colin McRea è stata fondamentale, portandolo il più vicino possibile alla controparte reale. Si doveva faticare tanto per portare l’auto al limite, redendo questo titolo più vicino al simulativo che all’arcade, e, per l’epoca, era una novità.

3. TOCA Race Driver (2002)

Prima di Grid, Codemasters ci dilettava con la serie TOCA, una delle migliori serie automobilistiche mai create. Il Race Driver, targato 2012, ha avuto il merito di rendere la carriera qualcosa di nuovo, inserendo una vera e propria trama, dove impersoneremo Ryan McKane che, dopo un grave trauma, cercherà di scalare le vette del motorsport. Tutto era stato costruito con minuzia, diventando un prodotto dalla qualità invidiabile e mettendo delle basi importanti per i successivi racing games.

2. Forza Motorsport 7 (2017)

L’ultima fatica di Turn10 approda su una nuova generazione di console con risultati strabilianti. Tecnicamente il titolo non ha nulla da eccepire, mostrando i muscoli in tutte le condizioni climatiche. La ricerca del dettaglio è maniacale, creando vetture che sfiorano il fotorealismo. Grande varietà, e soprattutto una modalità multiplayer tra le migliori presenti, rendono Forza 7 la summa di tutto il meglio che i racing game Xbox abbiano prodotto.

1. Gran Turismo 2 (1999)

Se Gran Turismo ha lanciato i racing games moderni, è con il secondo capitolo che ha posto le basi per tutti i titoli di guida che conosciamo oggi.
650 Vetture e così tante piste, non si erano mai viste prima, con così tante cose da fare che i giochi moderni impallidiscono. Era la killer application per eccellenza, con la sua suddivisione in due CD di cui uno interamente dedicato a eventi singoli e split-screen e l’altro dedicato interamente alla modalità Gran Turismo. È la pietra di paragone della nostra infanzia e il principio di tutto.




L’impatto dei calcistici sul calcio reale

Ottenere un realismo sempre maggiore in una simulazione sportiva è uno dei pallini degli sviluppatori di videogame sin dagli albori: ogni anno i risultati sono sempre migliori nei vari generi e discipline, e il gioco del calcio è uno degli sport nel quale sono stati certamente raggiunti traguardi ragguardevoli.
Serie come Fifa e Pro Evolution Soccer sono ormai le più consolidate: da più di due decenni Electronic Arts e Konami si contendono il titolo di miglior calcistico dell’anno, lasciando a Football Manager spesso il titolo di miglior gestionale.
La serie FIFA ha venduto più di 150 milioni di copie in tutto il mondo, risultando a oggi il più vasto franchise videoludico di genere sportivo della storia, e superando il diretto concorrente giapponese, le cui vendite si attestano comunque attorno al centinaio di milioni, stando ai dati più recenti: il manageriale di Addictive Games è invece uno dei più venduti su piattaforma PC.

Ma non sono soltanto i giocatori e gli appassionati di calcio a decretare il successo dei calcistici: Zlatan Ibrahimovic ha dichiarato che, a inizio carriera, era capace di giocare a certi titoli anche per 10 ore di fila e di aver spesso individuato su console soluzioni che ha poi applicato sul campo, metodo che, secondo il difensore tedesco Mats Hummels, applicherebbero anche altri colleghi. L’allenatore Alex Wenger definisce “giocatore da Playstation” lo stesso Leo Messi, il quale è anche un utente della piattaforma Sony, come testimonia l’ex compagno di squadra Victor Vázquez che nelle giovanili lo vedeva giocare per almeno tre ore di fila, nelle pause. Non si potrà dar torto allora ad Andrea Pirlo quando afferma che «dopo la ruota, la PlayStation è la migliore invenzione di tutti i tempi», arrivando a sintetizzare in positivo con il nome della console Sony il modo di impostare e vedere il calcio di Josep Guardiola nella sua carriera di allenatore.
Un fan dei gestionali pare essere invece il centrocampista francese Paul Pogba, avvistato ad allenare il Chelsea in Football Manager durante la Coppa del Mondo 2014.

Ma questo forte impatto dei videogame nel calcio non si ferma ai soli giocatori, anzi, un’influenza significativa si registra proprio fuori dal campo. Società come Opta, azienda leader mondiale nella raccolta ed elaborazione in diretta di dati sportivi, hanno dovuto la loro crescita anche al successo di titoli come Football Manager, che dei dati in ambito calcistico ha fatto la spina dorsale del gioco, e la cui popolarità è cresciuta in parallelo al sempre maggior uso dei numeri nel calcio. Le stesse società hanno negli anni formato analisti e scout di dati che sono passati poi a lavorare per importanti squadre di calcio, e società di analisi come ProZone hanno cominciato addirittura a combinare i propri dati con quelli di Football Manager per i propri programmi di scouting.
Ovviamente l’impatto non poteva non estendersi anche al pubblico del calcio giocato: Pro Evolution Soccer ha contribuito ad aumentare il numero degli appassionati di questo sport in Giappone mentre la serie Fifa ha fatto proseliti con un impatto positivo sul soccer americano, portando in parallelo la crescita del franchising con quella dello sport negli Stati Uniti. Da un sondaggio è emerso che gli americani che si definiscono tifosi di calcio sono cresciuti costantemente dal 2009 a oggi, soprattutto nella fascia tra i 12 e i 17 anni, periodo in cui è aumentata anche la popolarità di Fifa. L’aumento degli appassionati di calcio negli Stati Uniti è stato di ben il 35% soltanto dal 2010 al 2012, raggiungendo i 2,6 milioni di persone. Oltre un terzo degli utenti che hanno acquistato Fifa si è appassionata al calcio dopo aver giocato alla sua trasposizione videoludica e a giovarne è stato anche lo sport in Tv che, secondo una ricerca Nielsen, ha visto accrescere da 5 a 12 il numero di canali USA che mandano in onda partite di calcio e ha portato i fan statunitensi della Premier League a circa 30 milioni.

Se in Germania si sperimenta già da qualche anno Helix, simulatore nel quale i calciatori sono sottoposti a un trainer cognitivo di stampo videoludico per svilupparne le “funzioni decisionali”, significa che il rapporto tra calcio e videogame e destinato a durare, e chissà che non diventi sempre più rilevante.




Top 5: I migliori giochi di calcio

Viviamo un’epoca di duopolio targato FIFA e Pro Evolution Soccer, il cui lotta, si manifesta sempre in maniera accesa tra i sostenitori di uno o dell’altro titolo. Ma la storia del calcio nei videogiochi ha visto susseguirsi una miriade di alternative ai due, a volte con ottimi risultati.

Al quinto posto troviamo il titolo di calcio definitivo per AmigaSensible World of Soccer fu un titolo rivoluzionario con tantissime squadre e giocatori presenti, con tanto di valutazione, in grado di diversificarne le caratteristiche. Possiamo considerarlo l’antesignano dei giochi di calcio moderni.

Al quarto posto troviamo un altro titolo per Amiga e primo gioco di calcio di massa: Kick Off 2. Molti concorrenti copiarono letteralmente il lavoro ideato da Dino Dini, diventando un esempio e aprendo la strada a molte innovazioni come l’Aftertouch, ovvero la simulazione del tiro ad effetto.

Al terzo posto abbiamo Fifa 98: Road to World Cup, titolo Electronic Arts che ebbe un successo strepitoso (forse il primo della serie) e subito associato a Song 2, celebre canzone dei Blur FIFA 98 permise a tutti noi di partecipare alla Coppa del Mondo di Calcio, in Francia, offrendo tantissime squadre nazionali, con cui seguire il sogno di alzare il trofeo più prestigioso.

Al secondo posto troviamo Pro Evolution Soccer 6 che, dopo le ottime basi poste col quinto capitolo, è riuscito a portare un’esperienza calcistica ricca sotto tutti i punti di vista. Un ritmo di gioco più lento ha permesso di creare azioni di gioco più ragionate e, come modalità, una Master League completa e varia, ha riempito i cuori di tutti gli appassionati.

E il vincitore della nostra top è FIFA 12, gioco che ha sancito una volta per tutte la vittoria sul concorrente. L’ingresso in campo del Player Impact Engine ha segnato un radicale cambiamento nelle dinamiche delle partite e se aggiungiamo altre novità come il Tactical Defending, che ha cambiato per sempre il modo di porsi alla fase difensiva, capiamo come FIFA 12 sia un titolo che ha stravolto le regole del calcio digitale.




La fine di Kinect e alcuni esperimenti interessanti

Dopo ormai sette anni di vita e circa 35 milioni di unità vendute, la produzione di Kinect, la telecamera Microsoft capace di rilevare il movimento, è stata terminata. La distribuzione di Kinect iniziò nel 2010 come periferica per Xbox 360, che ebbe finalmente modo di gareggiare insieme a PS3 e Wii per il miglior sistema di motion tracking. Con l’arrivo di Xbox One, il device fu incluso nell’acquisto della console, offrendo, oltre a una serie di giochi creati ad hoc, la possibilità di comandare il gioco in remoto grazie al riconoscimento della voce e dei movimenti del corpo.
Ma la vita di Kinect nella current gen è durata poco: solo due anni più tardi, un aggiornamento eliminò questa funzione, poiché l’effettivo utilizzo da parte dei giocatori non giustificava gli investimenti per mantenerla. Il Kinect Team si iniziò quindi a concentrare su prodotti diversi e più innovativi, come Cortana e Windows Hello.
Durante questi sette anni, però, Kinect non è stato messo in un angolo a prendere polvere: diverse persone hanno cercato usi alternativi all’interno di numerosi campi, alcuni dei quali assolutamente impensabili per una periferica di gioco; dall’arte alla musica, dall’applicazione militare a quella archeologica. Questi esperimenti si rivelarono talvolta apparentemente senza senso, altre volte utili  e divertenti.

Vasca da bagno touchscreen

Il proiettore Aquatop, creato dai ricercatori del Koike Laboratory alla Tokyo University of Electro-Communications, grazie a speciali sali da bagno e a un Kinect, trasformava una vasca da bagno in una superficie touchscreen colorata, che dava la possibilità a chiunque vi immergesse le mani dentro di manipolare immagini e giocare ad alcuni giochi semplicemente pizzicando e spostando l’acqua.

Specchio peloso

Si può ben dire che questo sia il lato artistico del Kinect: l’artista newyorkese Daniel Rozin ebbe l’idea di creare uno “specchio” fatto da circa un migliaio di pon pon bianchi e neri e sfruttava il motion tracking del Kinect per catturare i movimenti delle persone.

Il paese del sostenibile

Nel 2015, il  New York Hall of Science ospitò un evento piuttosto particolare: venne creata al suo interno, grazie all’utilizzo di una dozzina di telecamere, una grande foresta virtuale, creata apposta per aiutare i bambini a capire i principi cardini della sostenibilità. L’intero spazio era diviso in sei biomi diversi, tra cui una cascata alta 12 metri e dei tronchi “mobili” sul pavimento.

Suonare un organo a tubo a 4 piani

Quando si dice che il nuovo incontra il vecchio: il compositore Chris Vik ebbe l’eccentrica ma anche geniale idea di collegare un Kinect a un organo di più di 80 anni di età, avendo così la possibilità di suonarlo senza toccare alcun tasto.
Questo video mostra sia la fase di realizzazione che il progetto vero e proprio in funzione.

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Scannerizzare ossa di dinosauro

Questa fu sicuramente una delle applicazioni più utili: lo scorso luglio, degli scienziati ebbero la necessità di scannerizzare il teschio di un tirannosauro, ma la loro attrezzatura era troppo grande per entrare all’interno della mascella. Ecco che venne in loro aiuto il sottilissimo Kinect: spendendo migliaia di dollari in meno rispetto alla classica attrezzatura, fu possibile analizzare il fossile.

Concerto dei Nine Inch Nails

Il capogruppo della band, Trent Reznor e il suo direttore artistico Rob Sheridan hanno saputo conciliare la carriera musicale con il loro essere nerd. Durante un concerto nel 2013 venne utilizzato un Kinect per tracciare i movimenti del leader dei Nine Inch Nails che, proiettati verso una serie di schermi luminosi, creavano una sagoma distorta e mobile dell’artista.

Sorveglianza del confine coreano

Certe volte le idee degli asiatici lasciano veramente senza parole: Jae Kwan Ko, un programmatore autodidatta sud-coreano, pensò bene di usare la periferica Microsoft per sorvegliare il confine tra Corea del Nord e Corea del Sud, ed era persino capace di capire se ciò che veniva ripreso era una persona o un animale. Davvero un colpo da maestro.

RoomAlive

RoomAlive era un progetto della stessa Microsoft che aveva come obiettivo quello di trasformare le stanze in ambientazioni in stile Star Trek grazie a degli ologrammi interattivi proiettati su muri e pavimenti. Ma, per quanto ambizioso e con molto lavoro dietro, RoomAlive non venne mai rilasciato.

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Microtransazioni: quel che l’industry ha imparato dal mobile

Secondo il Global Games Market Report, le 25 più grosse aziende del settore videoludico hanno conseguito ricavi per 41,4 miliardi di dollari solo nella prima metà del 2017, registrando un incremento del 20% rispetto allo stesso periodo del 2016. Secondo stesso report stilato dalla società di ricerca Newzoo, il mercato mondiale dei videogame racimolerà quest’anno circa 109 miliardi di dollari totali, di cui 46,1 saranno imputabili al mercato mobile. Non a caso, l’azienda con i maggiori ricavi del settore è il colosso cinese Tencent, che nel trimestre aprile-giugno del 2017 ha registrato un aumento del 70% dei ricavi derivanti dai giochi su smartphone.

Ma come fanno i titoli sui nostri cellulari a generare introiti di questa portata? La ragioni sono molteplici: la praticità di poter giocare ovunque un titolo facilmente scaricabile da uno store e la maggiore potenza di calcolo degli odierni smartphone incentivano gli utenti all’acquisto, ma non è esattamente questo a far la differenza. I giochi di maggior successo sono infatti liberamente scaricabili e conseguono ingenti guadagni con i cosiddetti acquisti in-game: basti pensare che titoli come Arena of Valor, altrove meglio noto come Honor of Kings, che nel primo quadrimestre del 2017 avrebbe generato un flusso di denaro pari a 875 milioni di dollari, secondo la società di ricerca Quartz, e avrebbe fruttato a Tencent 150 milioni di dollari nel solo mese di giugno, per rendersi conto della portata del fenomeno. A numeri così grandi, corrisponde spesso un’ampia platea di utenti, e infatti il titolo conta 55 milioni di giocatori nella sola Cina, più di un quarto dell’intero globo, dove ne conterebbe circa 200 milioni, superando di gran lunga fenomeni del calibro di Pokémon GO.

Si penserà che sia un numero di utenti così alto a spendere in proporzione in modo da determinare ricavi così ampi. Ma i maggiori introiti di un gioco mobile sono invece de da un numero assai limitato di utenti.
Una ricerca SWRVE del 2014 sottolineava come la metà degli introiti di un gioco mobile con microtransazioni sia determinata da circa 10% degli utenti, i quali, secondo un’indagine Optimove, arriverebbero in certi casi a generare addirittura il 75% degli introiti di un social game. Ma il dato più interessante riguarda il fatto che il 30% dei ricavi totali sarebbe generato in particolare dall’1% degli utenti. Questi “high spender” vengono classificati con il nome di “Whale”, e sono coloro che portano i guadagni più interessanti a un titolo free to play. La loro individuazione cambia da società a società: il developer di social game 5th Planet Games, classifica come “Whale” gli utenti che spendono almeno 100 dollari al mese, mentre Facebook li individua a partire da 25 dollari al mese. Robert Winkler, Chief Executive di 5th Planet Games, aveva rivelato che il 40% del titolo Clash of the Dragons proveniva dal 2% di giocatori che erano arrivati a spendere più di 1000 $ al mese.

Anche fra gli utenti “Whale”, le modalità di acquisto cambiano da giocatore a giocare, ma veder spendere cifre da capogiro come quelle appena dette non è affatto la regola: DeltaDNA ha infatti tracciato nel 2015 un milione di “high spender” su mobile scoprendo che più della metà di essi non aveva mai effettuato un acquisto superiore ai 50 $.
È ovvio che le società del settore siano adesso molto attente a questi particolari giocatori, arrivando a classificare, oltre alle “Whale”,  altre tipologie di utenti target minori come Dolphin, Minnow e così via.
I metodi messi in atto per attrarli sono molteplici, e passano certamente attraverso le dinamiche e gli effetti dell’esperienza di gioco, quell’altalena fra frustrazione e appagamento che dirige il flusso del gameplay, e la creazione di una community attiva, che stimoli sentimenti di collaborazione, da un lato, e di competizione dall’altro, generando nell’utente il bisogno di acquistare per crescere all’interno del gioco.
Ovviamente è necessario distinguere i titoli che prevedono microtransazioni e la presenza di loot box come complemento del gioco da quelli meramente “pay to win“, dove acquistare diventa necessario ai fini di un avanzamento verso la vittoria.Quello degli acquisti in-game sembra comunque un piatto troppo ricco perché gli sviluppatori non ne siano interessati: la società di ricerca SuperData ha infatti stimato che 4 miliardi dei 7,8 previsti come ricavi del mercato digitale su console per il 2017 proverranno proprio da DLC e microtransazioni, più del 50% di quelli totali. Del resto, se si calcola che il popolare Overwatch ha conseguito finora ricavi su console per un totale di 61 miliardi solo tra pacchetti che comprendono mappe e outfit di personaggi, è comprensibile che gli sviluppatori vogliano seguire la tendenza.
Il mercato mobile, insomma, ha insegnato tanto, ma i grossi produttori di videogame su console e PC hanno già imparato benissimo.




Il vademecum del buon collezionista

Immettersi nel mondo del retrogaming è più o meno semplice, e divertente e impiegherà piccola parte del vostro denaro ma si deve cominciare per prima cosa col valutare lo spazio che potrete dedicare in casa per le diverse console e il tipo di televisore che volete utilizzare. Quando si collezionano degli oggetti qualunque è sempre bello mostrarli a tutti e dunque un bel mobile a scomparti, come il Kallax o l’Expedit di Ikea, è quello che vi serve. In questo modo eviterete (o per lo meno nasconderete) il disordine coi cavi che andranno a finire tutti nella stessa tv. Degli splitter RCA vi saranno utilissimi in quanto i televisori, sia nuovi che vecchi, non hanno molti ingressi RCA o Scart e dunque, a meno che non vogliate attaccare e staccare le prese per i segnali video di ogni console ogni volta che cambierete sistema, un oggetto del genere vi semplificherà la vita. Parlando di cavi è importante evitare di tenere diverse console alla stessa presa di corrente; quando non si usano, è consigliabile tenere le console staccate o sistemare più ciabatte e tenere accesa solo quella contenente la presa della console che vogliamo andare ad utilizzare. Adesso – e da qui si capisce se siamo dei “collezionisti puristi” o meno – bisogna scegliere il tipo di televisore che vogliamo utilizzare per giocare con le nostre console retrò. Comprare un televisore dedicato può essere ovviamente una scelta saggia ma, per non spendere altri soldi, valutate bene quelli che avete già o valutate se riuscite a recuperare qualche vecchio televisore dal vostro garage. La scelta su dove attaccare questi sistemi cade chiaramente su due opzioni: i televisori a tubo catodico o i più nuovi schermi piatti ad alta definizione. Con i televisori a tubo catodico è possibile ricostruire l’esperienza retrò in tutto e per tutto, in quanto i vecchi giochi venivano sviluppati tenendo conto di questi, i quali purtroppo sono ingombranti e il segnale, in Italia, viene trasmesso a 50HZ; ciò significa che potrete collegare alla televisione solamente console PAL a meno che non compriate dei cavi Scart appositi per le console NTSC, se deciderete di prenderle. I televisori a schermo piatto eliminano del tutto questo problema ma l’immagine viene schiacciata nel formato 16:9 e l’altissima definizione del televisore ingrandirà ogni singolo pixel. A questo punto vi converrà comprare un upscaler come il Framemeister, che vi permetterà anche di visualizzare l’immagine con diverse opzioni, o comprare delle nuove retroconsole apposite come il Retron 5, che riesce a leggere le cartucce di ben 5 sistemi, la AVS di retro USB o il Retro Duo (che pur non avendo l’uscita HDMI si comporta molto bene con questo tipo di televisori). Queste console vi permetteranno di giocare con le cartucce originali dei vecchi sistemi ma, se siete interessati a giocare con  pochi titoli, le alternative plug ‘n play, che trasmettono in HDMI e non, possono rivelarsi un’ottima soluzione; potrete scegliere fra i più recenti Nes Classic Mini, Snes Classic Mini, Atari Flashback 8 gold, Coleco Flashback, Sega Genesis Flashback e molte altre. La strada di quelli che scelgono le plug ‘n play finisce qua ma, se siete fra quelli che vogliono collezionare gli hardware originali, allora potrete addentrarvi in questa nuova avventura alla scoperta di tesori, rarità, colpi di fortuna e follie!

Alla ricerca del gaming perduto

Innanzitutto, prima di spendere ingenti quantità di denaro per oggetti come 3DO e simili, verificate se avete ancora qualche vecchia console messa da parte oppure chiedete ai vostri amici se hanno (e se vogliono darvi) qualche vecchia console che hanno messo da qualche parte in cantina. Fare sbarazzi nei magazzini è divertente e avventuroso e trovare i pezzi promessi dopo ore e ore a cercare fra degli scatoloni pieni di vecchi telefoni e decorazioni di natale fuori moda vi farà sentire come Indiana Jones all’inizio de I Predatori dell’Arca Perduta. Non tutti i vostri amici saranno disposti a darvi i loro pezzi ma potrete comunque acquistare i vecchie console e giochi in diversi modi. Girare per i piccoli o grandi mercatini dell’usato cittadini è un bel passatempo che vi permetterà di trovare i pezzi più comuni e, con tanta fortuna, persino le cose più rare; sono vendute solitamente da persone che semplicemente se ne vogliono liberare e quindi non vi chiederanno molto. Quando trovate un pezzo raro ricordate di contenervi; tenete sempre un atteggiamento freddo e distaccato e non spiegate la storia di un pezzo raro a un venditore, altrimenti questo potrebbe aumentare il prezzo di ciò che vi stanno vendendo. Tuttavia spiegare la storia di qualche pezzo alcune volte può aiutarvi ad abbassarlo. Vi faccio un esempio: esistono due tipi di Master System, il primo ha l’uscita A/V, lo slot per i giochi su card proprietarie, più resistente e, ai fini del collezionismo, più bello; il secondo è più piccolo, con il gioco Alex Kidd in Miracle World montato al suo interno, ma senza l’uscita A/V e, tutto sommato, più economico in termini di qualità. Se qualcuno sta tentando di vendervi un Master System II a un prezzo che non vi piace fategli presente questi fatti,  ditegli che ha meno feature rispetto al primo modello; se glielo mettete a paragone è possibile che vi abbasserà un po’ il prezzo. Ad ogni modo, se trovate quello che cercate, assicuratevi che funzioni, se si tratta di console verificate che vi diano cavi, joypad e possibilmente qualche gioco e, se qualcosa ancora non vi convince, come l’aspetto e le condizioni generali, allora negoziate; ricordate sempre di spendere la cifra che avete in mente per qualcosa, e che siete riusciti a formarvi dopo accurate ricerche. Tanti venditori, anche online, sono in grado di far passare l’oggetto più comune per una rarità perciò fate sempre delle apposite indagini sulla tiratura, sull’anno di pubblicazione, capite anche se è un pezzo che in passato ha venduto bene oppure no e date sempre uno sguardo su Ebay per capire più o meno qual è il prezzo medio. Se i mercatini e i piccoli negozi che vendono alcuni pezzi retrò non vi bastano più e cercate dei pezzi più specifici per la vostra collezione allora converrà spostare la vostra ricerca su internet. Su siti come Subito.it è possibile trovare venditori che cedono pezzi più o meno agli stessi prezzi di un mercatino e dunque, anche lì, è possibile incappare in qualche insaputa rarità, ma Ebay è un sito più appropriato, dove si trova spesso gente più dedita al retrogaming e che conosce bene gli oggetti che sta trattando. Qui è possibile trovare molti più oggetti, rari e non, ma bisogna sapersi difendere dalle fregature, sia per gli oggetti che vi stanno vendendo sia perché non vedrete mai in faccia il venditore con la quale state trattando. Assicuratevi che il venditore abbia buoni feedback, instaurate con lui una buona comunicazione utilizzando esclusivamente la messaggistica di Ebay (perché potrà essere controllata dai responsabili del sito in caso di controversie), chiedete sempre al venditore foto dei pezzi funzionanti, di offrire l’imballaggio più sicuro e di farvi avere il codice della spedizione il prima possibile. Il più delle volte si tratta sempre di venditori affidabili ma, si sa, su internet la sicurezza non è mai troppa. Non dimenticate inoltre di fare tutto questo specialmente se siete voi a vendere, solamente mettete prezzi onesti, comportatevi sempre come se l’acquirente foste voi e se mettete la possibilità di spedizione in tutto il mondo sappiate in anticipo i prezzi delle spedizioni di questi ultimi e siate sicuri delle vostre capacità in inglese.

Quanto spendere

Ciò che fa un prezzo nel mercato del retrogaming non è solamente il risultato delle ricerche su quel determinato pezzo ma anche le sue condizioni e insieme a cosa è venduto. I pezzi senza scatola né manuale, detti “loose“, costano sempre poco ma è vi consigliamo di non superare mai la soglia dei 70/80€ (30/40€ per i giochi); i pezzi boxati costano decisamente di più ma, per un prezzo maggiore, riuscirete a ottenere manuali e scatola, il tutto quasi sempre in condizioni ottime. Tuttavia è possibile recuperare le scatole e manuali in un secondo momento in quanto non è cosa rara che si trovino su Ebay annunci di questo tipo. Dipende sempre da voi: preferite solamente avere il gioco e godervi solamente l’esperienza videoludica o vi piace avere il pacco completo? I pezzi rari sono dei veri e propri investimenti dunque valutate sempre al meglio prima di prendere tali decisioni. I giochi rari valgono tanto, ma sono veramente dei bei giochi? Alcune volte collezionisti di tutto il mondo hanno speso tonnellate di soldi per titoli per Nes come Flintstones: Surprise at Dinosaur Peak, Rodland o Ducktales 2 che sono, sì, dei bei giochi ma valgono il prezzo che hanno su Ebay? Figuriamoci poi quei collezionisti che spendono ancora più soldi per titoli come Cheetamen 2 per Nes, Super Bowling per Nintendo 64 che sono dei giochi sostanzialmente brutti! È anche vero che ci sono tanti titoli per cui si sarebbe veramente disposti a pagare quelle cifre assurde come per  Earthbound e Chrono Trigger per Snes, Conker’s Bad Fur Day per Nintendo 64, Radiant Silvergun e Panzer Dragoon Saga per Sega Saturn e Ikaruga per Dreamcast. Ricordatevi solamente che il prezzo che un pezzo raggiunge su internet non equivale alla bellezza del gioco e che ci sono tanti bei giochi rari quanti brutti o per cui non ne vale la pena. Se non siete interessati al valore del gioco ma alla sua fruizione è comunque sempre possibile giocare allo stesso gioco in altri modi: magari è presente in altre console, accorpati in collezioni varie o persino in media più recenti. Per i videogiochi rari si hanno comunque delle alternative che permetteranno ai giocatori più squattrinati di provare questi giochi senza doverci spendere un capitale; stesso discorso non si può fare invece con le console rare: queste difficilmente scendono di prezzo e il loro acquisto va sempre fatto in base alla libreria di giochi presente. Se ci sono almeno una ventina di titoli che vi interessano fate pure, altrimenti non ne vale assolutamente la pena. Inoltre, alcune console si rompono facilmente e senza un appropriato imballaggio finiranno col rompersi durante il tragitto e difficilmente potranno essere riparate. Fare l’acquisto di una console rara dipende molto dai vostri gusti videoludici ma, se siete fan di certi giochi, allora console come il Sega Dreamcast, il 3DO ed il Neo Geo AES sono hardware che fanno decisamente per voi. Ci sono console rare come il Sega Dreamcast e il Sega Saturn che lo sono perché l’utenza che un tempo le comprò, piccola rispetto le loro concorrenti, non le ha messe più in circolo e quindi è più difficile trovarle; tuttavia i giochi hanno prezzi più umani perché le tirature venivano fatte per l’utenza che era comunque buona e dunque c’è una buona diffusione. Stesso discorso invece non può essere fatta per altre console come l’Atari Jaguar o il Neo Geo AES che sono console la cui utenza era molto bassa, dunque i giochi sono molto più difficili da trovare ed ovviamente più costosi. Vale dunque la pena comprare certe console? Alcune, anche se rare, costano comunque meno delle console moderne ma di più di altre retro; quindi spesso sì. Prima che i prezzi si gonfino, vi consigliamo di mettere le mani su tutto ciò che c’è di Sega; le loro 4 console, ovvero Master System, Mega Drive, Saturn e Dreamcast, sono console superbe, hanno un prezzo accessibile e se c’è qualcosa da imparare dal passato lo si può imparare dai loro giochi stupendi come Alex Kidd in Miracle World, Fantasy Zone, Operation Wolf, Alien Syndrome, Rastan, Phantasy Star, i titoli di Sonic, Golden Axe, Outrun, Toejam and Earl, le serie di Streets of Rage, Thunder Force, Panzer Dragoon, Nights… into dreams, i picchiaduro Capcom che su Saturn e Dreamcast godettero dei migliori porting dalle arcade, Jet Set Radio, Soul Calibur, Resident Evil: Code Veronica, Shenmue, e la lista potrebbe non finire mai. Se volete invece andare alla scoperta dell’origine dei videogiochi e collezionare i titoli che hanno fatto da base al gaming fino a oggi, allora non vi resta che prendere un Atari 2600, il cui prezzo è relativamente basso, e andare alla volta di titoli come Combat, Missile Command, Asteroids, i titoli di Swordquest, Yars’ Revenge, Pitfall, Breakout e molti altri. Se vi piacciono anche i titoli particolari è consigliabile un 3DO che ad oggi costa giusto una frazione di quello che costava ai tempi; qui è possibile trovare ottimi porting dal PC come Myst, Another World, Flashback: the quest for identity e Alone in the Dark, i primi lavori della Crystal Dynamics come Crash’n Burn e Total Eclipse, Way of the Warrior della Naughty Dog, l’ottimo porting di Road Rash e il primo Need For Speed. Queste console, e sicuramente molte altre, meritano di essere riscoperte ma pensateci due volte prima di comprare pezzi come il Nintendo Virtual Boy, la Game.Com di Tiger, l’Atari Jaguar o il Sega 32X; se siete interessati ad alcuni giochi su queste console e avete tanti soldi da spendere allora fate pure!

Cura e manutenzione

Divertitevi tantissimo a creare la vostra macchina del tempo personalizzata ma non dimenticate mai che avete a che fare con hardware e software datati e questi necessitano cure e pulizie particolari. Le vostre console vintage sono come dei bambini: sono delicati, bisogna tenerli d’occhio e tal volta fanno anche i capricci., dunque dobbiamo fare il meglio per far sì che non gli succeda nulla. Non muovetele troppo, fate in modo che non prendano urti di nessun tipo, non tenetele accese per troppo tempo o, come già ribadito, tutte attaccate alla stessa presa di corrente, pulite di tanto in tanto i pin di cartucce e slot con cotton-fioc imbevuti di giusto una punta di soluzione pulente per vetri o a base di alcol e, quando non le usate, mettete sopra un panno per tenerle lontane dalla polvere. Bisogna riservare tanta cura anche i controller che, come spesso capita, è possibile che perdano la sensibilità dei tasti Start e Select che solitamente, per alcuni controller, venivano realizzati in gomma; ci toccherà allora smontare i controller e pulire i contatti sulla scheda madre del controller con un cotton-fioc e soluzione pulente, esattamente come se fossero dei pin per delle cartucce. Se qualcosa sembra non funzionare più ricordate che è possibile trovare su internet pezzi di ricambio per console e controller e videoguide su come sostituirli. Il retrogaming è una passione che chiede tanto denaro e cura, ma è un hobby che vi darà la possibilità di costruire una vera e propria sala giochi del passato in casa vostra, vi farà riscoprire titoli validissimi del passato e soprattutto regalerà a voi e ai vostri amici delle serate indimenticabili fra multiplayer infuocati, luci al neon e console ingiallite!




Mother!

Confesso di essermi recato al cinema un po’ prevenuto: da un lato il recente Noah non aveva offerto il meglio di Darren Aronofsky dal punto di vista narrativo; di Mother!, inoltre, si parlava come di un’opera dal forte carattere simbolico, e questo mi ricordava l’operazione di The Fountain, piena di buone idee e basata su ottime premesse, ma che metteva insieme un quadro non privo di falle che ne indeboliva il messaggio. I fischi di Venezia, infine, erano stati così clamorosi da farmi temere il peggio. Ma si tratta di Aronofsky, appunto, vedere Mother! è quasi un dovere culturale, lo stesso che si ha verso tutti i registi rilevanti del nostro tempo.
Ed ecco che allora mi ritrovo al cinema Anteo di Milano, locus amenus in cui è possibile godersi la versione in lingua originale, che anche in questo caso risulta particolarmente importante per valutare la recitazione degli attori.

Home Invasion

Fin dai primi minuti si intuisce che non sarà una passeggiata: l’oscurità che avvolge ogni cosa si dirada dando luce alle pareti, al mobilio, agli ambienti della casa in cui è interamente ambientato il film. Un’ombra minaccia lo stato di quiete di quel piccolo Eden abitato dai nostri protagonisti, ma non sappiamo ancora di cosa si tratti.
Capiamo ben presto che Javier Bardem è uno scrittore che sta attraversando un momento di crisi creativa, e che Jennifer Lawrence è la sua amorevole e devota compagna, pronta a servirlo e ad accontentarlo il più possibile pur di garantirne l’equilibrio umorale e di agevolare il ritorno della sua vena creativa. E per questo accetta senza batter ciglio che il marito voglia ospitare per la notte uno sconosciuto (impersonato da Ed Harris) che sbuca improvvisamente una sera in casa loro, al quale dal giorno dopo si unirà la moglie, una straordinaria e cinica Michelle Pfeiffer (qui probabilmente in una delle sue migliori prove attoriali).
È l’ingresso di un corpo estraneo, l’apertura di una falla che causerà un’irrimediabile emorragia: gli eventi precipitano, la gente in casa aumenta, dando vita a un home invasion di proporzioni colossali.

Parabole Bibliche

Il film è studiato per generare costante fastidio: vedere la Lawrence accettare impotente la noncuranza del compagno nei confronti della furia distruttrice della folla che a poco a poco invade la sua casa è irritante, e questa sensazione si acuisce con l’avanzare del film, in un climax di frame caotici ed eccessivi che rendono la visione un’esperienza davvero disturbante.
Il messaggio alla fine emerge davvero potente: e questo anche prescindendo dalla morale che Aronofsky ha inteso instillare. Per abitudine non leggo quasi nulla su un film, preferisco accogliere quel che il regista decide di rappresentare: nel caso di Mother!, avevo dato una mia interpretazione, più orientata a puntare il dito verso il narcisismo e il solipsismo dell’artista, talmente compreso nella propria vocazione creativa da distruggere e fagocitare indirettamente chi gli sta accanto, il tutto condito da evidenti parabole bibliche.

Dopo il settimo giorno

Dopo aver letto la spiegazione di Aronofsky, ritengo che la mia interpretazione rimanga comunque coerente, ma è meglio soffermarsi qui su quel che effettivamente intendeva rappresentare il regista.
Eviterò gli spoiler ma, chi abbia intenzione di vedere il film senza alcuna anticipazione e voglia provare a comprendere da sé, è meglio che salti questa parte.
Il film è un’allegoria del rapporto uomo-natura: la casa è un Eden, dicevo, rappresentazione di un Mondo in cui una Lawrence-Madre Natura (Mother, appunto) mette costantemente in ordine ogni cosa per regalare bellezza alla propria dimora. Bardem è chiaramente Dio, creatore, padre e soprattutto anima aperta a ogni essere vivente che bussi alla propria porta: un’apertura che, unita a un infinito narcisismo e al bisogno di essere adorato dalle folle, dà il via libera a un’umanità rappresentata in questo film peggio che in qualunque film bellico.
La simbologia e i riferimenti a certi passi della Bibbia (dalla Genesi ad Adamo ed Eva, qui rappresentati da Harris e Pfeiffer, passando per Caino e Abele fino al Diluvio Universale e al sacrificio del corpo di Cristo) sono invece palesi, come chiaro è l’attacco nei confronti di un’umanità vorace, sorda e inarrestabile, la cui violenza viene rappresentata in una straordinaria sequenza di 5 minuti convulsi e veementi che vanno dritti in faccia allo spettatore.

Maschere nude

Buona parte delle critiche sul film fanno sorridere: alcuni rimarcano una recitazione che risulterebbe artefatta, quando questa è invece per scelta smodatamente teatrale; non si è davanti a un’opera cinematografica ma a una rappresentazione da Teatro dell’Assurdo, e gli attori (straordinari, in verità) ne osservano rispettosamente i dettami in un film parossistico ed estremamente corporeo sul piano recitativo. Questo viene confermato dai titoli di coda, nei quali i personaggi non sono richiamati per nome, ma semplicemente come “Him”, “Mother”, “Man”, “Epicureus” e così via, rivelandoci un proscenio di maschere antiche in preda a un feroce baccanale.

Caotica palingenesi

Mother! di Aronofsky è un film pazzesco, girato con coraggio come un’opera teatrale, capace di coniugare Artaud e Buñuel in un simbolismo esasperato ma ferreo, in una critica feroce all’umanità, un attacco surrealista all’egotismo e al divismo dell’intera specie. Una bibbia moderna su pellicola (si fa per dire) che è compendio degli eccessi dell’intera storia umana, un film che mischia Roman Polanski (e non soltanto Rosemary’s Baby, ma soprattutto Repulsione Cul-de-sac) e le dinamiche più estreme degli home invasion in un’allegoria dalla straordinaria potenza visiva. Il richiamo più diretto è proprio Buñuel con il suo L’Angelo Sterminatore, ma qui siamo davanti a un’operazione molto più cruenta, in un’escalation di caos e violenza famelica in cui nessuno ha scampo, sino alla palingenesi finale.
La domanda che rimane dopo la visione di Mother! è: ma, a Venezia, cosa hanno visto?