Uncharted: 10 anni di avventure

Il 2007 è stato un anno importante per la storia dei videogame: dopo aver prodotto note saghe di successo del calibro di Crash Bandicoot e Jak and Daxter, Naughty Dog abbandona i platform e si butta sulla pura avventura.
È così che 10 anni fa vede la luce in esclusiva per Playstation 3 Uncharted: Drake’s Fortune, primo capitolo di una serie destinata a entrare negli anni nel cuore degli appassionati. Ambientato in Sud America, il gioco introduce per la prima volta il protagonista Nathan Drake, discendente del corsaro inglese Sir Francis Drake e cacciatore di tesori, che qui andrà alla ricerca della mitica città di El Dorado. Ad accompagnarlo ci saranno due personaggi di cui la saga non farà mai a meno, la giornalista Elena Fisher e Victor Sullivan, amico di vecchia data e mentore di Nate.
I due saranno presenti anche nel secondo capitolo Among Thieves, Il Covo dei Ladri, che vedrà i protagonisti andare alla ricerca della mitica Shambhala dopo averci trasportato un po’ in giro per il mondo, dalla Turchia al Tibet passando per il Borneo per poi finire in Nepal: i nostri eroi verranno aiutati da un altro personaggio destinato a entrare nella storia della saga, la fascinosa ladra Chloe Frazer, che troveremo anche in Uncharted 3: Drake’s Deception, L’inganno di Drake. Anche qui si toccano vari punti del globo terrestre, e per la prima volta si arriva al centro dell’Europa, da Londra sino a un castello francese, per poi spostarsi di nuovo a est dove Nate passerà in rassegna Syria e Yemen prima di ritrovarsi nel deserto del Rub’ al Khali, per giungere infine alla mitica città di Ubar.
I tre titoli presentano un gameplay praticamente uguale, fatto di scalate, sparatorie con svariati nemici su schermo (comandati dal super cattivo che concorre alla nostra ricerca) e risoluzione di enigmi che danno a Uncharted il sapore del grande classico d’avventura, unendo azione, spettacolo e cinematiche in una storia curata e ben narrata.
Nello stesso anno, come gioco di lancio in esclusiva per la nuova handheld Sony, PSVita, viene messo sul mercato Uncharted: L’abisso d’oro, spin-off che racconta della ricerca della Città d’Oro e che vede i personaggi di Jason Dante e Marisa Chase nella loro unica apparizione. Ambientato prima di Drake’s Fortune, Golden Abyss è un capitolo che molti fan non possessori di Vita vorrebbero oggi su console e che non sfigura rispetto alla serie principale
Proprio la trilogia, uscita interamente in esclusiva su Playstation 3, ha un riscontro tale che non poteva essere assente su Playstation 4 e, nel 2015, a 4 anni dall’uscita del terzo capitolo, Uncharted arriva in una collection che raccoglie tutti e tre i capitoli.
È soltanto un modo per ingannare l’attesa: Drake ritorna infatti su PS4 dopo 5 anni di silenzio con un capitolo finale del tutto inedito: Uncharted 4: Fine di un Ladro è un titolo che viene salutato con gioia e clamore dei fan, arrivando a vendere quasi 10 milioni di copie in soli 18 mesi, un risultato straordinario se si pensa che gli altri titoli pare abbiano venduto più di 28 milioni di copie in un lasso di tempo molto maggiore. Oltre a essere l’ultimo della serie, stando a quanto detto da Naughty Dog, il quarto capitolo rivela una sorpresa per tutti gli appassionati: Nathan Drake ha infatti un fratello che credeva perso da tempo immemore e che qui ricompare per chiedere il suo aiuto e trascinarlo in una nuova avventura, che lo porterà dall’Italia, alla Scozia, all’Oceano indiano sino al Madagascar. Se il gameplay pare non godere di particolari innovazioni (si registra il cambio di qualche tasto sul controller e l’introduzione di oggetti come il rampino, il chiodo da scalata e un verricello montato sulla jeep d’esplorazione che poco aggiungono alle dinamiche di gioco), il titolo è salutato dagli esperti come un capolavoro di tecnica, arrivando a essere definito dagli specialisti di Digital Foundry come “A technical masterpiece” grazie a una qualità dell’immagine eccellente, con aliasing degli shader praticamente inesistente, un rendering dei personaggi superiore a quello di molti titoli tripla A, passaggi a sequenze d’intermezzo in tempo reale che fanno a meno di file video pre-renderizzati senza appesantire il tutto, scenari straordinariamente vividi e animazioni facciali notevolmente migliorate.
Alcuni mesi dopo, Naughty Dog rilascia un DLC che ha tutte le caratteristiche di un titolo autonomo: Uncharted: The Lost Legacy è lo spin-off che dà infatti spazio alle quote rosa Chloe Frazer e Nadine Ross, e che non sfigura dinanzi agli altri capitoli di una serie che, con i suoi oltre 41 milioni di copie vendute, si attesta come una delle saghe di maggior successo della nostra epoca, che colma il vuoto lasciato nel cinema da grandi classici come Indiana Jones, e che testimonia il grande potenziale narrativo di un mezzo come il videogame, capace di raccontare storie con forza e dignità decisamente non minori ai propri omologhi della settima arte.




Star Wars: Episodio VIII – Gli Ultimi Jedi

L‘annuncio di una nuova trilogia per una delle saghe più famose di sempre, Star Wars, ha lasciato interdetti molti, probabilmente perché Episodio VI riusciva già a chiudere perfettamente il cerchio su tutte le vicende, riportando equilibrio nella Forza.
Cosa si poteva raccontare, quindi, cosa approfondire? Inizialmente la risposta – saggia – è stata “prequel”: sia in ambito videoludico che cinematografico si è cercato di approfondire tematiche e motivazioni che avrebbero portato agli eventi che tanto bene conosciamo, oppure lo studio di capitoli di intermezzo, capaci di fare da collante tra i vari episodi. Il successo di Rogue One è probabilmente dovuto a questo. Adesso, Episodio VII ed Episodio VIII, tuttavia, pur essendo buoni film se presi singolarmente, forse faticano a giustificare le nuove storie e il prossimo Episodio IX, ma soprattutto, il rispetto della continuity.

Dunque, Episodio VIII: Gli Ultimi Jedi, si presenta come un film d’intermezzo che, come L’Impero Colpisce Ancora, segue la tradizione, avvalorandosi di toni più cupi rispetto al predecessore. Se questa situazione era ampiamente prevedibile, meno lo è stato l’inserirsi nel contesto creato con Il Risveglio della Forza e men che meno con il resto della saga. È un film difficile da collocare: è un buon film di intrattenimento, capace di regalare scorci memorabili, ma anche di affossare quanto di buono iniziato col prequel e fin troppo conclusivo per essere un episodio che sta nel mezzo.
J.J. Abrams resta come produttore, passando la regia nelle mani di Rian Johnson, che non vanta grandissima esperienza, avendo diretto soltanto una manciata di film, tra cui Looper. Nonostante ciò, riesce a fare un buon lavoro, riuscendo a far trasparire i conflitti interiori dei personaggi interessati con lenti primi piani, in cerca di dettagli significativi, con cui lo spettatore può facilmente interfacciarsi. Non mancano i momenti davvero spettacolari, presenti soprattutto nella seconda parte del film, con ottime trovate stilistiche in grado di farvi esaltare come nei migliori momenti della saga. La CGI, ormai parte integrante di qualsiasi film di fantascienza, riveste un ruolo chiave in diverse situazioni risultando davvero ben messa in scena nella maggior parte delle situazioni, siano esse battaglie o singoli personaggi, anche se con quest’ultimi con alti e bassi. Si cerca sempre il dettaglio, non solo poligonale, ma soprattutto cromatico: The Last Jedi, probabilmente, è il film con la migliore fotografia della saga. A cura di Steve Yedlin, le scene a più ampio respiro saranno una vera gioia per gli occhi, non solo sui paesaggi e vari ambienti, come potreste aspettarvi, ma anche nello spazio aperto, con momenti davvero suggestivi e che sicuramente entreranno con forza nella memoria degli appassionati.
Quindi visivamente il film funziona. Purtroppo però, un lungometraggio è costituito anche da altre cose che hanno una “discreta” rilevanza, come la sceneggiatura e di conseguenza l’utilizzo dei personaggi.
La gestione dei ritmi è il problema più grande del film: Episodio VIII è il titolo dalla maggiore durata dell’intera saga (quasi due ore e mezza) e in alcuni frangenti, si sente. Il film sembra essere diviso a metà, di cui la prima parte povera di eventi veramente rilevanti, dando la sensazione di far veramente fatica a carburare. La seconda parte invece è pura azione, a tratti forse un po’ troppo frenetica, ma che riesce nel suo intento, ovvero intrattenere. C’è da segnale che anche all’interno delle menzionate due parti si avvertono questi “su e giù” senza una vera amalgama.

Ma cosa racconta questa nuova trilogia? A questo punto è una bella domanda. I pochi spunti interessanti di Episodio VII, come le origini di Rey, la fine di Luke e il rinnovato Impero del Primo Ordine, in questo episodio vengono tutti risolti in maniera fin troppo sbrigativa, lasciando lo spettatore – che nel frattempo aveva cominciato a farsi delle idee – con un pugno di mosche. Tutto il pathos e le dietrologie pensate fino a questo momento risultano pura fantasia, elaborazioni contorte scaturite dalla base dei vari episodi della saga. L’ultimo capitolo, a dir la verità, lancia alcune frecce dal suo arco come la visione della guerra da un altro punto di vista e il conflitto interiore che uno Jedi o un Sith devono sopportare. Se c’è un merito – narrativamente parlando – di questo titolo, è l’aver portato lo spettatore nella cosiddetta “zona grigia della Forza”, un limbo nel quale i protagonisti sono costretti vivere, ma che purtroppo viene solo abbozzato. Se i temi precedenti sono stati risolti con facilità estrema e quelli nuovi sono appunto solamente abbozzati, è la mancanza  di risposte alle tante domande – che nel frattempo ci eravamo posti – che lascia di più l’amaro in bocca: cos’è il Primo Ordine? Chi è il Leader Supremo Snoke (l’unico e il solo Andy Serkis)? probabilmente nessuno lo saprà mai.
Ma veniamo ai nostri cari personaggi, partendo dal dualismo labile che si presenta per tutto il film: Rey (Daisy Ridley) e Ben Solo, in arte Kylo Ren (Adam Driver). Uno degli elementi riusciti del film è la loro evoluzione – forse un po’ troppo frettolosa – ma capace di instillare dubbi sulla loro natura negli spettatori. Buone prove attoriali poi, riesco a farci empatizzare con i due protagonisti, regalandoci due tra i personaggi più complessi dell’intera saga.
Punto centrale della narrazione non poteva che essere Luke Skywalker (Mark Hamill) – incredibilmente somigliante a Tyrion Lannister – terribilmente combattuto e che si evolverà, sino al climax finale. Il personaggio di Luke risulta controverso: lontano da quanto visto sul finire di Episodio VI, lo Jedi risulta un personaggio che sotto certi aspetti aspetti delude sia i protagonisti che il pubblico. Veniamo a conoscenza anche delle motivazioni, ma probabilmente si poteva, anzi, si doveva fare di più. Le note positive sui personaggi di concludono con il personaggio interpretato da Benicio del Toro, DJ, che fa la sua ottima figura ma che risulta, purtroppo, uno dei nuovi personaggi peggio sfruttati. Ha il merito di portare una ventata di realtà alla decennale guerra che continuiamo a vedere ma, ad un certo punto sembra soffrire di schizofrenia: soffre di questa patologia evidentemente anche  Amilyn Holdo (Laura Dern) e alcuni personaggi secondari mentre altri, tra cui Finn (John Boyega), vengono completamente dimenticati, o per lo meno immersi in storyline dalla dubbia utilità. La scrittura, dunque, è un altro elemento altalenante del film: se da un lato riesce a piazzare colpi di scena ben gestiti, dall’altro lascia perplessi, a cominciare dalla gestione mal curata di alcuni personaggi.
Concludiamo con Carrie Fisher: ha fatto uno strano effetto sapere che questa è la sua ultima apparizione. Non ha mai vantato grandi doti recitative ed Episodio VIII di certo non è il film che ci farà cambiare idea, ma la sua assenza si farà sentire, soprattutto in prospettiva per Episodio IX.

Che cosa racconta Star Wars? Dopo aver visto Gli Ultimi Jedi, si fa un po’ di fatica a capirlo. Nonostante i buoni spunti e il cercare di portare una ventata di aria fresca alla saga, si sente la reale mancanza di giustificazioni narrative a vantaggio di quelle commerciali. Alla fine ci si ritrova sempre al punto di partenza, con la strana sensazione di non aver imparato nulla di nuovo dal finale di Episodio VI, concludendo molte storyline che potrebbe rendere questo episodio addirittura conclusivo. Non stiamo parlando di un brutto film, tutt’altro, ma forse, a questo punto, ci si aspetterebbe qualcosa in più.




Top 7: I migliori videogame a tema Star Wars

Episodio VIII è appena uscito ma ricordiamo che la saga di Star Wars non è solo cinema: decine e decine di videogame dedicati a questo franchise si sono fatti strada, e alcuni di loro sono veri e propri capolavori da affiancare ai capitoli cinematografici. Vediamo quindi assieme quali sono i migliori:

#7 LEGO Star Wars: La Saga Completa – Traveller’s Tale (2007)

Iniziamo questa top con un titolo sorprendente. Forse l’utilizzo dei LEGO come protagonisti può far storcere il naso ai puristi, pensando che titoli come questo siano solo dedicati a un pubblico infantile. Niente di più sbagliato, in quanto, lo stile leggero che riesce a ripercorrere i sei capitoli della saga, riesce a intrattenere come pochi e con un gameplay che riesce a trarre il meglio da ogni personaggio utilizzabile. Insomma, non giudicate il libro dalla copertina.

#6 Star Wars: Battlefront II – DICE (2017)

Questo titolo ultimamente è nell’occhio del ciclone per via di un multiplayer segnato profondamente dalle microtransazioni, e ne prendiamo atto. Ma queste polemiche hanno spostato il focus dall’ottima direzione intrapresa dal sequel di EA, con una storia che crea un ottimo connubio tra mondo videoludico e cinematografico. Lo spettacolare comparto tecnico riesce a restituire poi battaglie come non se ne sono mai viste.

#5 Star Wars: Il Potere della Forza – LucasArts (2008)

Utilizzare i poteri della Forza, per spazzare via decine di Stormtrooper oppure, far precipitare uno Star Destroyer da chilometri di distanza, non è una cosa che capita tutti i giorni. L’apprendista segreto di Darth Vader, StarKiller (nome che è tutto un programma), sarà perno centrale di vicende non banali, incastonandosi tra Episodio III ed Episodio IV. Pur non essendo un gioco perfetto è comunque qualcosa di nuovo ed elettrizzante che un buon fan di Star Wars apprezzerà sicuramente.

#4 Star Wars: TIE Fighter – Totally Games (1994)

Uno dei migliori titoli dedicati a questa saga è un simulatore di volo, anzi, IL simulatore di volo: TIE Fighter, seguito di Star Wars: X-Wing, realizza i nostra sogni, facendoci entrare in campo nelle guerre spaziali più spettacolari. Quasi tutti gli elementi della nostra astronave sono configurabili, dalla potenza del motore agli scudi, scalando, con le nostre vittorie, le gerarchie militari, diventando il pilota numero uno dell’Impero.

#3 Star Wars: The Old Republic – Bioware (2011)

Il MMO della casa che ha dato i natali a Mass Effect e Dragon Age, ci porta in una galassia più antica, quando ancora le vicende cinematografiche appaiono come un lontano futuro. Tutto è incentrato sulla libertà d’approccio alla narrazione, che si presenta profonda e che ben si amalgama al contesto.

#2 Star Wars: Dark Forces – LucasArts (1995)

Un vero e proprio punto di riferimento per gli FPS dedicati a Guerre Stellari è Dark Force che, ispirandosi al DOOM di id Software, riesce addirittura a migliorane alcuni aspetti, diventando uno dei migliori sparattutto dell’epoca. L’introduzione di una nuova storia e personaggi inediti hanno dato il via al cosiddetto Universo Espanso che tanto familiare ci appare in questi ultimi anni.

#1 Star Wars: Knights of the Old Republic – Bioware (2003)

Al primo posto non poteva che trovarsi un vero capolavoro di Bioware, capace di porsi come vero e proprio prequel di Episodio IV. Come da tradizione della software house esploreremo una galassia viva, tanti retroscena e le motivazioni che hanno portato agli eventi di nostra conoscenza. Anche i personaggi con cui vivremo questa avventura saranno speciali, ricchi di carisma e con un ampio background narrativo. Star Wars: Knights of the Old Republic è un titolo da non farsi scappare da chi ama le storie di una galassia lontana lontana.




Seven Sisters

Arriva nelle sale italiane Seven Sisters, un fantastico film dalle influenze cyberpunk e dagli scenari futuristici che richiamano opere come Brazil, Il Quinto ElementoBlade Runner. La sceneggiatura di questa pellicola ha una storia abbastanza travagliata: scritta da Max Botkin nel 2001, Seven Sister, che ai tempi vedeva in realtà dei protagonisti uomini, non arrivò mai a trovare un produttore e finì per diventare una delle sceneggiature più belle mai scritte ma al contempo per molto tempo mai arrivate su grande schermo. In anni recenti, Tommy Wirkola, regista di alcuni film bizzarri come Hansel e Gretel: Cacciatori di Streghe, Dead Snow e Dead Snow: Red vs. Dead, ha ripescato la sceneggiatura e ne ha traslato la storia al femminile; la protagonista Noomi Rapace – che abbiamo visto in Sherlock Holmes: A Game of Shadows e in Prometheus di Ridley Scott – fu chiamata per il ruolo e ha dato vita, insieme ad altri attori di altissimo calibro come Willem Dafoe e Glenn Close, a questa bellissima storia futuristica affascinante, distopica e a tratti claustrofobica.

Anni di catastrofi e disastri naturali provocano disordine e carestie in tutto il mondo, ma la scienza arriva in soccorso alle crisi alimentari e, grazie a sofisticate tecniche scientifiche, gli scaffali dei supermercati tornano riforniti e colmi per venire incontro alle domande dei consumatori. Tuttavia l’alterazione della natura provoca negli umani alterazioni di DNA e, come conseguenza, si assiste a una crescita di malformazioni ma soprattutto dei parti plurigemellari. La popolazione aumenta a dismisura e, per non cadere ancora una volta nelle recenti crisi, viene applicata la legge del figlio unico; dal 2043 tutti i nascituri saranno figli unici, le nascite tracciate con un braccialetto elettronico e, nel caso di gravidanze indesiderate o parti gemellari, i secondi nati, intorno al loro settimo anno d’età, prenderanno parte al programma di crio-sonno, programma che li indurrà in uno stato onirico per anni per essere poi reimmessi nella società appena la demografia lo consentirà, godendo se non altro di una società più avanzata, tecnologica e migliorata. Intorno a questo periodo, una donna che risponde al nome di Karen Settman, dà alla luce sette gemelle, tutte identiche fra loro come delle gocce d’acqua, morendo durante il parto. Terrence Settman, il padre interpretato da Willem Dafoe, decide di adottare le sette bambine, visto che la donna non era più in buoni rapporti col marito, e di chiamarle come i giorni della settimana. Più in là scopriremo che Terrence aveva deciso di non rivelare le nascite al Child Allocation Bureau e così, con particolare ingegno, riuscì a mascherare le sette ragazze dietro adun’unica identità, ovvero quella di Karen Settman, la loro madre, facendole uscire di casa una alla volta a seconda del nome corrispondente al giorno della settimana. Le sette sorelle Settman (chissà che non sia un caso che si chiamino proprio Sett-man) hanno vissuto per anni dietro l’identità di Karen Settman ma sono a un punto in cui le loro personalità cominciano a emergere e la vita dietro a un’unica identità comincia a pesare ad alcune di loro; la maschera di Karen regge, ma è fragile, un’identità composta da sette personalità ma senza che una prevalga o abbia una volontà vera e propria, una vita di regole, precauzioni, prevenzioni, continui voltarsi le spalle e report a fine giornata per far sì che il resto delle sorelle apprenda ciò che la “sorella del giorno” ha vissuto per poter dare credibilità all’identità di Karen Settman. Per quanto queste si lamentino e condannino il sistema che le costringe a questa vita, non possono far molto, se non continuare a far finta di essere la Karen Settman che il governo conosce; in fondo Karen lavora in una banca e tecnicamente non le manca niente ma la sua vita è finta e ciò è sentito in maniera particolare da Giovedì, la più irrequieta ed eversiva delle sette sorelle, probabilmente la più diversa e che non vuole più accettare compromessi (se non altro nominata secondo il giorno dedicato a Giove, irrequieto e funesto Dio della guerra). Non è certamente per nulla facile fare quello che ha fatto Noomi Rapace che ha interpretato tutte e sette le sorelle Settman, grazie a un ingegnoso uso dei green screen, controfigure e a una recitazione profonda per ognuna delle protagoniste. L’attrice svedese, a detta sua, si è divertita un sacco nei ruoli delle sorelle Settman, si è preparata per cinque mesi per le parti parlando un sacco di volte sia allo specchio che rispondendo a battute immaginarie nella quotidianità; l’impegno dell’attrice è evidente e i suoi sette ruoli sono restituiti con classe, distintamente e senza alcuna sbavatura. Ci sono tratti distintivi che spiccano per ogni ragazza, come la noncuranza di Sabato, la particolare bontà di Domenica e l’insicurezza di Martedì e Venerdì, ma ci sono anche tratti comuni a tutte le ragazze, come la compassione, la bontà d’animo e l’aiutarsi a vicenda l’un l’altra. Decisivo invece è stato l’utilizzo del green screen che ha permesso la realizzazione di scene così delicate, in cui la protagonista non doveva solamente rispondere alle sue stesse battute ma farlo con precisione e cura, guardando ad esempio nella direzione giusta o attendere il momento esatto per rispondere alla battuta di una sorella che aveva interpretato precedentemente. Non dimentichiamo inoltre la prestanza fisica dell’attrice che, parallelamente alle sue doti recitative, ha dovuto prepararsi fisicamente a delle scene d’azione infuocate, che per fortuna non scadono mai nell’assurdo per fini di mera spettacolarità.

Il film, sia tramite i dialoghi che con le scene d’azione, riesce molto bene a restituire quel senso di claustrofobia e persecuzione di un regime totalitario pronto a sopprimere qualsiasi cosa vada contro le loro regole: i cattivi sembrano agire per il meglio ma ciò che può sembrare il bene di tutti è in realtà una maschera per nascondere ciò che si cela veramente dietro “la sicurezza” e “l’ordine” che il Governo in carica propaganda. Nicolette Caymam, il capo del C.A.B. interpretata da Gleen Close, è infatti una persona costretta a essere gelida, pronta a tenere in mano la situazione e a tenere nascosta tutta la verità sulla propria candidatura ma che, in fondo, è dispiaciuta di non trovare altra alternativa per il bene dell’umanità, e, per quanto la legge del figlio unico possa sembrare anche a lei una barbarie, sa che questa è l’unica soluzione per tenere a freno quell’ondata demografica che non sembra fermarsi.
La fotografia è molto curata, in grado di restituire quel senso di grandezza che di fa sentire piccolo di fronte una città immensa, fra strade affollate e caotiche che quasi non fanno respirare. Tuttavia le ambientazioni, seppur molto belle e ben curate, sono un po’ noiose, già viste, nulla che ci faccia restare a bocca aperta o ci entusiasmi come in Blade Runner 2049. Le scenografie sono piene di strumentazioni ipertecnologiche che si fondono perfettamente agli ambienti e regalano alle scene della luce propria che accentua ancora di più il rapporto tecnologia-uomo ma, anche qui, nulla che non abbiamo già visto in recenti film. La colonna di Christian Wibe non è niente male, si adatta bene a ogni scena, non sfora mai oltre il rappresentato ed è sempre in tono con ciò che vediamo, anche se anche qui, come già per il comparto grafico, non riusciamo a gridare al capolavoro, per quanto belle le melodie che fanno da sfondo alla storia non offrono alcuna sonorità originale: si tenta, come in molti altri film, di travolgere lo spettatore con suoni forti e pomposi, ma alle musiche di questo film manca un timbro che possa conferir loro unicità e distinzione e questo stampo sonoro, comincia a stancare.

Insomma, Seven Sisters – il cui titolo al di fuori di Italia e Francia è What happened to Monday – sembra a primo acchito un film atto ad attrarre i fan dei superhero movie pieni di azione e di effetti speciali all’avanguardia ma in realtà è così: nonostante la grande produzione possa metterlo accanto ai film più frenetici di oggi, Seven Sisters regala una visione profonda allo spettatore, un’opera che va vista e commentata, una storia che può essere letta e vissuta da più punti di vista e che, attraverso ognuno di questi, può fornire una visione diversa di ogni situazione rappresentata. Seven Sisters è sicuramente un film per gli amanti del cyberpunk, e dunque di film come Blade Runner, Brazil, Strange DaysIl Quinto Elemento ma anche I Figli degli Uomini; è un film con un contenuto molto solido che offre solide riflessioni, tante prospettive e che pone questioni su diversi temi quali l’amore per la vita, la libertà d’opinione, la vita in tempi critici e se e in che misura anche in questi casi il fine possa davvero giustificare i mezzi. Le visual e le musiche di questo film sono molto belle ma, come già ribadito, non raggiungono particolari picchi emozionali né si stagliano nell’immaginario dello spettatore; il film risulta vagamente approssimativo in questi aspetti e anche un po’ piatto. Tanti, troppi elementi già visti, possibilmente fatti anche meglio, ma triti. In compenso, il film offre una storia veramente bella da godere e tanti spunti per un bel dibattito post visione con gli amici, ed è certamente un’opera da vedere perché non lascerà alcuno indifferente alla sua visione.




Wargames: l’uso militare dei videogame

«Le tecnologie che hanno dato forma alla nostra cultura sono sempre state sviluppate dalla guerra». Così scrive Ed Halter in From Sun Tzu to Xbox per spiegare come negli anni ’50 i primi super computer venivano utilizzati per i calcoli dei dati balistici per il lancio dei missili. Questi, prima dell’avvento dei computer, venivano fatti a mano e sembra abbastanza assurdo come una cosa così utile come un computer, sognato per ere ed ere dagli uomini, possa essere usato per generare conflitti. L’esercito americano contribuì ancora alla creazione dell’Electronic Numerical Integrator and Computer (ENIAC) che servì per gestire i calcoli per la detonazione della bomba ad idrogeno ma ancora i computer e l’elettronica in generale non erano ancora a disposizione di tutti. Negli anni ’70, ma più concretamente negli anni ’80, ci fu il boom delle arcade e l’arrivo dell’Atari 2600 nelle case degli americani. L’elettronica, anche se per scopi ludici, cominciava a essere alla portata di tutti e l’esercito, alla ricerca di nuovi metodi di addestramento e reclutamento, cominciò a cercare in questi software un qualcosa da poter sfruttare a loro vantaggio. Nel 1980 Battlezone di Atari uscì nelle sale giochi: diversamente dal tema sci-fi già visto in Space Invaders o in Galaxian, quest’ultimo più un simulatore che ci metteva alla guida di un carro armato. L’ambiente circostante era reso in 3D grazie ad un particolare uso della grafica vettoriale, molto innovativo per i tempi, e il tutto era visibile solamente attraverso il periscopio presente nel cabinato, il che rendeva l’immersione ancora più realistica. L’esercito americano ci vide bene e allora decise di trasformare il popolare cabinato in uno strumento di addestramento per le reclute; il simulatore di battaglia su carro armato fu trasformato in The Bradley Trainer, una versione rivisitata del popolare cabinato con dei controlli più realistici e più complessi, adatti dunque alla simulazione di battaglia, dei cambiamenti nel gameplay quali l’aggiunta di alcuni bersagli ed una rotazione più realistica attraverso un volante. The Bradley Trainer non fu mai rilasciato al pubblico e si dice siano esistiti solamente due esemplari di questo gioco: uno è andato perduto, l’altro è oggi parte della collezione privata di Scott Evans che, racconta, lo trovò fra i rifiuti nel retro della Midway Games.

Nel 1993, con la fine della guerra del Golfo, il governo americano fece dei drastici tagli al budget dell’esercito: i Marine temevano di perdere le risorse necessarie per allenare le proprie reclute. L’esercito vide in Doom, il popolarissimo first person shooter della ID Software che impazzava fra i giovani, una possibilità per simulare il combattimento e offrire un campo virtuale sulla quale esercitarsi; George Romero, creatore di Doom, aveva rivelato inoltre in un’intervista che i giocatori, qualora fossero stati in possesso delle abilità necessarie, erano liberi di modificare il gioco a loro piacimento. La Marine Corps Modeling and Simulation Management Office (MCMSMO) chiese e ottenne una copia commerciale di Doom e da lì sviluppò la mod che finì col diventare Marine Doom. In termini grafici la mod non era molto diversa dall’originale ma il centro del gioco stava nella collaborazione fra i giocatori, collegati in lan nella stessa stanza, e dunque nel raggiungimento dell’obbiettivo comune, come l’irruzione in un forte nemico o il salvataggio di degli ostaggi in un ambasciata straniera. La collaborazione era imperativa: infatti, prima di cominciare una missione, era importante stabilire chi fosse il caposquadra, i fucilieri e il mitragliere; in questo modo non si insegnavano solamente le tattiche e la cooperazione durante la battaglia ma anche come agire in base al proprio ruolo all’interno della squadra. La mod fu installata in ogni computer dei Marine in modo da estendere l’addestramento al di fuori dal campo di battaglia ma anche per svagare durante le ore libere; Marine Doom, anche se non fu usato come mezzo di reclutamento e propaganda, fu un ottimo mezzo per l’addestramento bellico e una mod ben riuscita tanto che, in seguito, questa fu adattata per Doom 2 e rilasciata al pubblico per l’aggiornamento 1.9.

L’attacco alle Twin Towers del 2001, una delle tragedie umane che più scossero il mondo, portò l’esercito americano a una nuova corsa alle armi e una nuova campagna di reclutamento. Poco dopo l’attacco, l’esercito cominciò una nuova campagna per il reclutamento nelle forze armate americane ma non sembrava andare benissimo. Le nuove campagne erano invasive e i giovani non volevano essere per niente risucchiati al loro interno. L’esercito a quel punto, per promuovere la vita all’interno dell’esercito produsse America’s Army: questo videogioco fu rilasciato gratuitamente il 4 Luglio 2002, anniversario dell’indipendenza americana, sia come download su internet sia come copia fisica (bastava andare in un centro di reclutamento nelle proprie città per ottenere il disco gratuitamente) e ben presto si costruì attorno una larga fanbase. America’s Army non era infatti il solito gioco sparatutto in cui i giocatori si incontravano e si giocava squadra contro squadra senza degli schemi ben precisi: in questo titolo, prima di potersi gettare nella mischia, era necessario seguire il campo di addestramento per ottenere le basi del combattimento per far sì di non girare a vuoto sulla mappa ed essere sempre d’aiuto ai propri compagni. Finito l’addestramento base era ancora necessario seguire dei corsi specifici per ottenere una specializzazione nel campo di battaglia, delle vere e proprie lezioni senza le quali non si poteva scendere in campo: i giocatori potevano specializzarsi nell’uso di delle armi specifiche, come i fucili d’assalto, le mitragliatrici o i fucili di precisione, oppure potevano specializzarsi nelle tecniche di primo soccorso ed essere comunque un pilastro portante della squadra. Così come in Marine Doom, era importantissimo capire i ruoli nel campo di battaglia e realizzare che ogni elemento è indispensabile per la squadra. Inoltre, differentemente dagli altri titoli FPS, l’obiettivo principale della missione che non era sempre l’eliminazione della squadra avversaria ma anche altri come il salvataggio degli ostaggi o la liberazione di dei civili o l’espugnazione di un forte nemico, anche ottenendo più punti facendo meno vittime possibili. I giocatori negli FPS spesso, specialmente in mancanza di comunicazione, sono dei cani sciolti e così come si gioca senza tattica si gioca anche senza conseguenze; durante un momento difficile, come quando si sta per perdere, i giocatori perdono la pazienza e tal volte, i più sciocchi, fanno vittime anche all’interno della propria squadra. Anche se non si muore effettivamente nel gioco, America’s Army punisce il giocatore di fronte l’ammutinamento o in presenza di comportamenti poco ortodossi: è possibile finire in carcere, che risponderebbe alla sospensione temporanea dell’account, o persino la cancellazione se questi comportamenti sono ripetuti più e più volte. America’s Army è stato accolto positivamente da critica e giocatori tanto che la serie dura a tutt’oggi; l’ultimo titolo della saga è America’s Army: Proving Grounds uscito originariamente su PC e da poco arrivato anche su PS4, confermando così l’amore dei fan verso questa serie videoludica spesso sottovalutata. Tuttavia non mancano le critiche da parte di gente contraria a mettere giovani sotto i 18 anni di fronte a uno strumento di reclutamento come America’s Army, teorici dei media e persino il gruppo dei veterani per la pace che non solo vedono l’esercito americano “arrivato alla frutta” in quanto propaganda bellica ma anche di come questo titolo fallisca ad evidenziare cosa sia veramente importante all’interno di un esercito; per quanto le armi possano essere affascinanti e il combattimento, dietro uno schermo, divertente ci si dimentica che un esercito debba portare l’ordine e la pace ed un videogioco, seppur senza conseguenze, ha sempre come fulcro la competizione fra i giocatori.

Con America’s Army l’esercito poteva vantarsi di preparare i giocatori per il campo di battaglia e la vita militare ma lo stesso non si poteva dire per alcune situazioni: l’esercito, così come i veterani per la pace ci ricordano, dev’essere un corpo che deve portare ordine e sempre pronto a servire il più debole ed ascoltare i civili. Con l’arrivo della guerra in Iraq i soldati dovevano essere pronti a trattare con i civili in quanto le differenze culturali sono parecchie e bisognava dare un’immagine del esercito più positiva possibile. Gli eserciti non sono estranei a queste prassi: sin dalla seconda guerra mondiale, l’esercito ha sempre messo su dei brevi corsi intensivi per la lingua e lezioni di cultura e di comportamentismo per mettere i soldati in condizione di comunicare con i civili o mandare segnali di soccorso. Cambiano i mezzi ma non la sostanza: Tactical Iraqi, incluso nella piattaforma per militari DARWARS, includeva delle lezioni di lingua araba (con le sfumature irachene) utili per i soldati e, una volta finiti i corsi, si potevano mettere in atto non solo le capacità linguistiche ma anche i comportamenti da adottare in presenza di civili e dunque rendere la comunicazione più rispettosa e pacifica possibile. Si veniva messi difronte a diverse situazioni in 3D, conversazioni con gente di tutte l’età ed estrazione sociale e perciò bisognava comportarsi di conseguenza: ad esempio, in presenza di adulti bisognava sempre togliersi occhiali e cappello prima di parlare (non farlo sarebbe stato poco rispettoso) e mai fare il gesto del pollice in su, in Medio-Oriente considerato un segno di mancanza di rispetto e maleducazione. Con i più piccoli era invece necessario abbassarsi e ci si poteva permettersi giusto un po’ più scherzosi, e così via.

Gli Stati Uniti non furono gli unici a utilizzare i videogiochi come mezzo di propaganda: in Siria infatti è stato sviluppato Under Siege, un titolo ambientato nella seconda intifada e in cui si può combattere a fianco dell’esercito della liberazione palestinese e dunque contro le forze armate israelite. Similarmente, in Iran è stato sviluppato Special Operation 85, dove si vestono i panni dell’agente segreto Bahram Nasseri per liberare due ingegneri nucleari imprigionati in Israele. Caso invece molto simile ad America’s Army è invece Glorious Mission, titolo che promuove la vita e l’arruolamento nell’esercito della liberazione popolare cinese. Quest’ultimo titolo può vantarsi di avere una vastissima utenza di 300 milioni di giocatori, un numero che surclassa i 13 milioni di America’s Army, e che, come la controparte americana, ha generato altre controversie. Secondo i media russi i nemici presenti nel gioco somigliano molto a dei soldati americani; di tutta risposta un rappresentante del Ministero della Difesa cinese ha risposto che lo sviluppo del gioco non è una propaganda di odio verso nessun paese e che i media dovrebbero astenersi da ogni qualsiasi assurda speculazione.

Il mercato è pieno di titoli di combattimento simulato. A detta di alcuni veterani dell’Iraq, Call of Duty: Black Ops 2 e Modern Warfare sono i giochi che meglio restituiscono l’esperienza della guerriglia in quanto, nelle battaglie, è possibile attuare sia degli approcci sia furtivi che approcci di impatto; gli stessi istruttori consigliano di giocare a questi titoli per estendere l’addestramento e provare nuove tattiche di battaglia. Tuttavia, sempre a detta degli stessi veterani, può dubitarsi dell’efficacia di questi come mezzi di reclutamento in quanto i giocatori non saranno mai veramente preparati per i traumi della guerra: l’istinto di sopravvivenza, la violenza o perdere i propri compagni sono cose che non si imparano di fronte ad un computer. Inoltre non ci sono mai delle vere conseguenze a delle azioni sbagliate: sparare ad un civile, fallire una missione non comporta nessun problema se non perdere punteggio nella graduatoria del gioco. Un soldato, riguardo agli FPS, pare abbia detto: «Nei videogiochi, quando perdi un avatar ricominci. Nella vita reale, quando qualcuno muore l’hai perso per sempre. Da sopravvissuto lo devi seppellire, e dopo devi anche chiamare sua moglie.». Questi meccanismi logorano non solo i familiari delle vittime nei combattimenti a fuoco ma chi sopravvive dovrà fare i conti con queste esperienze per sempre.

La realtà virtuale arriva in soccorso persino per risolvere questi problemi: SimCoach ci mette di fronte a un avatar 3D che aiuterà a superare lo stress post traumatico e la depressione solita nei veterani di ritorno a casa; il programma si pone come un luogo sicuro, un posto dove si può parlare in totale tranquillità dei propri problemi una volta tornati a casa. SimCoach offre all’utente delle risposte basate sulle esperienze di altri veterani e familiari che hanno vissuto e sopportato queste terribili esperienze e, digitando in un corretto inglese, il coach potrà aiutarci a superare i nostri problemi personali e sociali. Software come questo ci ricordano che è molto meglio impugnare i controller che le armi vere e proprie e che se proprio si vuol far la guerra è meglio farla dal divano di casa nostra.




Sonorità Videoludiche – I Chip sonori e il loro utilizzo

Fin dai tempi antichi, l’uomo ha compreso di poter sfruttare i suoni come forma espressiva, e allo stesso modo i suoni dei primi computer provenivano esattamente dal cuore delle macchine. Modelli come l’Apple ][ e i primi IBM erano dotati di altoparlanti direttamente collegati alla CPU, della quale venivano “temporizzati” gli impulsi per trasformarli in toni. Questo metodo in realtà poteva permettere di riprodurre qualsiasi suono affinché un file sonoro compatibile entrasse nel media fisico; tuttavia, quando questi dovevano essere riprodotti durante un gioco, interrompevano il gameplay poiché la CPU doveva impegnarsi esclusivamente per riprodurre quello specifico suono.

L’arrivo dei chip sonori

Col passare del tempo e con l’avanzare della tecnologia il carico delle CPU di computer e console venne definitivamente alleggerito grazie all’uso di chip sonori dedicati per riprodurre la musica. Le istruzioni musicali che provenivano dal media fisico anziché finire sulla CPU finivano nel chip sonoro dedicato che era in sé come una specie di band che “suonava lo spartito” che gli veniva mandato; le istruzioni provenienti dal media fisico includevano i toni, le durate e il canale da far suonare e, una volta passate dal chip, avrebbero prodotto la musica da incanalare negli altoparlanti. All’interno del chip erano presenti i canali per le forme d’onda, ovvero le voci del chip. Ogni chip aveva pregi e difetti, ovvero forme d’onda diverse, numero di canali, polifonia, assegnabilità, ecc… le caratteristiche dei singoli chip davano al sistema (o arcade board) una sfumatura diversa che serviva a rendere ancora più caratteristico un sistema, dando dunque una voce diversa rispetto le altre scelte sul mercato. L’APU, chip sonoro del NES, aveva cinque canali: due per le onde quadre, le cui ampiezze potevano essere modificate, uno per l’onda triangolare, usata solitamente per i bassi, un generatore di rumore bianco, usato per le percussioni, e un ultimo canale per i campionamenti. Ad occhio potrebbe sembrare che il SID del Commodore 64, che aveva solo tre canali, era un chip inferiore ma invece aveva caratteristiche che l’APU poteva solo sognarsi. A questi tre canali potevano essere assegnati quattro tipi di onde diverse (quadra, triangolare, a dente di sega e rumore bianco) che potevano addirittura essere riassegnate durante un brano, dando l’impressione vi fossero più di 3 voci; l’APU, seppur grazie ai due canali di onda quadra poteva dar l’impressione della polifonia, non poteva fare nulla del genere, i canali erano fissi e le voci erano sempre quelle. Tuttavia era possibile montare nelle cartucce del Nes dei chip aggiuntivi per dare ai giochi un suono diverso: ne sono testimoni giochi come Gimmick! di Sunsoft, che montava il suo FME-7, Castlevania III con il suo VRC6 che metteva ben 3 canali in più e Lagrange Point, uscito solo in Giappone, che montava il chip VRC7, sviluppato da Konami stesso, che emulava la sintesi FM già presente in sala giochi. Spesso nei dibattiti Sega Master System vs NES viene tirato fuori l’argomento “chip sonoro”. La console 8-bit di casa Sega, anche se mostrava una grafica ben più avanzata rispetto alla controparte Nintendo, era azzoppata da un chip sonoro obsoleto, il Texas Instruments SN76489 dai 3 canali di onde quadre più uno di generatore di rumore bianco , che per questioni di programmazione e compatibilità Sega si portava dietro dal Sega SG-1000, la loro vera prima console rilasciata nel 1983; questa console fu costruita con un hardware simile ai computer MSX e al ColecoVision per facilitare la programmazione dei porting ma, evidentemente, Sega puntò sul cavallo sbagliato. L’uscita del Sega Mark III in Giappone, divenuto poi Master System nel resto del mondo, doveva permettere la retrocompatibilità con le vecchie cartucce delle precedenti incarnazioni e perciò non si poté permettere un chip sonoro più moderno; tuttavia Sega, più in là, rilasciò solamente in Giappone l’add-on FM Sound Unit che aggiungeva ben 9 canali e una qualità di suono senza paragoni, basata appunto sulla sintesi FM, processo che permette una modifica sostanziale alla forma d’onda di base. La ricerca di un suono più elaborato dimostrava come i giocatori, insieme al comparto grafico, desideravano un sonoro sempre più realistico e, a partire dal rilascio del FM Sound Unit per il Sega Master System, si andò sempre avanti alla ricerca del suono perfetto.

Perfezionamento e declino

Fu sulla base della sintesi FM che Sega diede voce al Mega Drive grazie al chip YM2612 di Yamaha. Fra gli anni 80 e 90 Yamaha produsse svariati chip sonori che vennero montate sia in computer e console che nelle loro tastiere dando alla musica, sia in ambito videoludico che in ambito pop, un timbro riconoscibilissimo e ben distinto. Fra le tastiere, usate appunto nella musica pop, possiamo ricordare il famosissimo Yamaha DX7, che si pose nel mercato come il primo sintetizzatore digitale, e le orecchie più allenate potranno trovare una certa similitudine con i suoni presenti nel Mega Drive. Tuttavia, nelle band, questi facevano il lavoro di uno strumento solo ma in ambito videoludico questi chip dovevano compiere il ruolo di un intera band! I diversi chip Yamaha furono montati nei Nec PC-8801 e PC-9801, Neo Geo AES, Sharp X68000 e usate come base per la produzione delle schede Sound Blaster per i PC. La storia volle che il creatore della Playstation Ken Kutaragi, vedendo sua figlia giocare con il Famicom, pensò di poter creare un chip sonoro superiore; così, prima in segreto e poi con l’aiuto di Sony, creo un chip sonoro in grado di restituire al pubblico una fedeltà sonora senza precedenti. Sony sviluppò per Nintendo il chip S-SMP che diede un netto punto a favore alla grande N contro la rivale Sega. Il chip si basava sulla sintesi in PCM, ovvero (mantenendoci in un linguaggio alla portata di tutti) tramite la creazione di onde digitali tramite un particolare processo di campionamento; in questo modo il Super Nintendo poté riprodurre dei suoni molto realistici, suoni che neppure i PC con le Sound Blaster potevano permettersi. La tecnologia del chip sonoro tuttavia era destinata a scomparire ed essere sostituita dalla più conveniente e potente tecnologia del Compact Disc: non solo le linee di programmazioni per i giochi potevano essere scritte in un media ben più grandi di una cartuccia ROM ma rimanevano ettari di spazio per incidere delle tracce musicali ed inserire veri e propri filmati. Grazie al CD la musica, anziché essere programmata dal PC, poteva essere tranquillamente registrata in uno studio di registrazione con strumenti veri ed in seguito essere incisa nel disco insieme al gioco vero e proprio ed eventuali filmati. Tuttavia i chip sonori continuarono ad esistere nelle console portatili dei tempi, dai più famosi Game Boy e Game Boy Advance, ai più di nicchia Sega Game Gear, Neo Geo Pocket e Bandai WonderSwan.

La vita dei chip sonori sembrava finita e, come le musicassette, potevano essere dimenticati e lasciati ad ammuffire fino alla loro decomposizione ma, inaspettatamente, questi chip furono utilizzati per diversi scopi, addirittura in mondi ben più vasti della scena videoludica. Di questo ce ne parlera Gabriele Sciarratta nella parte 2.




Top 7: Le migliori idee regalo per questo Natale

Come ogni anno scatta il periodo del “che cosa regalo a Natale”. Noi di GameCompass vi veniamo in soccorso, dando qualche dritta su idee regalo dedicate ai gamer. Del resto, tra amici e famiglia, chi non ne ha uno accanto!?

#7 TV 4K HDR

Grazie a console sempre più preformanti l’era del 4K si appresta a esplodere e monitor o TV con questa tecnologia, unita all’HDR, diventano essenziali per godere al meglio di quanto offerto da un film o videogame. Samsung, LG e Sony sono da preferire, stando attenti alla scelta dei pollici e alla frequenza di aggiornamento. Ormai questi prodotti posso trovarsi anche intorno ai 500€ e non mancano forti sconti sconti da poter sfruttare per strappare l’occasione della vita.

#6 Gadget

Un vero gamer che si rispetti deve essere circondato da una serie di gadget che, magari non hanno una reale utilità, ma che vengono usati come elementi in grado di affermare la propria natura in questa società diversificata. Ecco quindi lo spuntare di Action Figures dedicate agli eroi delle nostre serie preferite, libri e fumetti che ripercorrono o approfondiscono le lore, soundtrack ma anche vestiario, tazze, lampade fino alla biancheria intima, da sfoggiare nelle occasioni speciali.

#5 Controller

“La potenza è nulla senza controller”. Questa – all’incirca – si rivela sempre una frase attuale in quanto un buon sistema di controllo garantisce al giocatore migliori feedback e vantaggi nel campo del multiplayer. Uno su tutti è il Controller Elite Xbox, una macchina perfetta a livello qualitativo e personalizzabile in tutti i suoi aspetti. Costa un po’ ma sono soldi ben spesi. Ottimi anche le versioni avanzate dei controller PS4 e le versioni speciali curati da Razer mentre, per chi ama i picchiaduro, un buon Arcade Stic, come i Mad Catz, è un acquisto imprescindibile.

#4 Mini Console

Il 2017 è stato anche l’anno delle Mini Console che puntando sulla nostalgia sono riuscite a conquistare una buona fetta di mercato. Nintendo con le sue NES e SNES Mini, che hanno aperto la strada, seguite da SEGA e la sua Megadrive, permettono di rivivere le gesta passate quando le uniche preoccupazioni erano con chi andare a giocare nel pomeriggio.

#3 Headset

L’audio nei videogames è una componente essenziale e, per chi non ha a disposizione un impianto surround di alto livello, può tranquillamente ripiegare su Headset di qualità. La parte del leone la fa Logitec con G430, le migliori per rapporto qualità/prezzo. Alzando un po’ l’asticella possiamo trovare le Kingston HyperX Cloud II, con ottima qualità costruttiva che la rende estremamente leggera ed ergonomica. Tra le migliori sul mercato, SteelSeries Arctis 7 è un prodotto pensato per i gamer più esigenti e che contano su un design estremamente elegante e pulito rispetto alla concorrenza.

#2 Console

È vero. Probabilmente ci troviamo a cavallo tra due generazione ma questo “stare nel mezzo” può essere sfruttato per usufruire di grandi occasioni. Playstation 4 Standard, così come Xbox One S si trovano intorno ai 200€, risultando comunque attuali visto i recenti aggiornamenti. Nintendo Switch è la console più ricercata mentre, per chi è molto generoso, può spingersi verso console più performanti, partendo da PS4 Pro che, in bundle con un videogioco, è possibile acquistarla ad un prezzo più che ragionevole. Xbox One X è la nuova arrivata e la più costosa ma può contare su una maggiore potenza e un supporto totale al 4K, siano essi giochi o Bluray.

#1 Videogames

È stato un anno ricco di soddisfazioni in ambito videoludico, anche per l’ingresso in scena di Nintendo. Imprescindibile per quest’ultima sono Zelda: Breath to the Wild e Super Mario Odyssey. Per le restanti console si possono trovare titoli di alto livello a basso prezzo: un esempio su tutti è Prey, titolo passato un po’ in sordina ma che può contare su un ottimo impianto narrativo. Project CARS 2 è perfetto per gli amanti dei motori come FIFA 18 per chi ama il calcio. Da non dimenticare titoli come Wolfenstein II, NIER Automata o Persona 5, in grado di intrattenere come pochi.




Sonorità videoludiche – La Chiptune

La rivoluzione parte dal basso: in molti casi questa frase rappresenta solamente un modo di dire, ma nel 1985 non devono averla pensata così sviluppatori del calibro di Rob Hubbard e Martin Galway o programmatori in erba come il tedesco Chris Hülsbeck. All’epoca questi tre uomini erano persone qualunque, ora invece sono compositori universalmente celebrati come i padrini della musica chiptune.

Ma cos’è la chiptune? Banalmente si potrebbe dire che è «un genere di musica creato usando i chip sonori di computer e console degli anni ‘80/primi anni ‘90», ma in realtà è qualcosa di più: la chiptune è sì un genere musicale che affonda le sue radici nel retrocomputing, ma è anche un movimento artistico che prende a pieni mani dalla filosofia fai-da-te tipica del punk.

Difatti, nella storia del genere, non è una novità leggere di gente che ha creato o che crea tutt’ora dei software musicali da zero: è l’esempio del succitato Chris Hülsbeck, che nel 1986 pubblicò su una rivista tedesca Soundmonitor, programma che aveva creato nel tempo libero. Oppure di Karsten Obarski, che nel 1987 creò il software Ultimate Soundtracker per Commodore Amiga, dando il via all’introduzione delle cacktro (ovvero le intro di giochi e programmi crackati) e successivamente alla cosiddetta demoscene, un vero e proprio genere artistico in tutto e per tutto che usava l’Amiga per creare opere degne del MOMA di New York.

Nonostante veri compositori del calibro di Koji KondoNobuo Uematsu Yuzo Koshiro, autori rispettivamente delle musiche di Super MarioFinal Fantasy e Streets of Rage, che vennero assunti da case come Nintendo e Sega per creare opere leggendarie, oggi portate sui palchi da tutto il mondo con progetti rock-opera come Video Game Music dell’americano Tommy Tallarico o da esibizioni orchestrali, la chiptune continua a restare un fenomeno soprattutto underground, anche se negli ultimi anni è stata spesso omaggiata da artisti del mainstream musicale come il canadese Deadmau5 (che proviene della demoscene!), 50 Cent o Kesha. La diffusione di internet è stata fondamentale per il genere, dando il via alla creazione di siti e forum come 8bitcollective o micromusic.net e case discografiche che danno spazio agli artisti della scena, come la Bleepstreet Records, o che si occupano di celebrare le grandi colonne sonore videoludiche del passato: è il caso della Data Discs Records di Londra, che si occupa della stampa in vinile di musiche tratte da Streets of Rage, Shenmue, Super Hang-On, Outrun e molti altri.

Ai giorni nostri, la creazione e l’esplosione degli indie game ha suggellato un matrimonio pressoché perfetto con la musica chiptune: non è più una novità trovare una colonna sonora realizzata con un Game Boy in giochi come VVVVVV e Super Hexagon di Terry Cavanagh, con due meravigliose OST realizzate rispettivamente dallo svedese Magnus “SoulEye” Pålsson e dalla nordirlandese Chipzel, oppure su hit come Shovel Knight, dove domina la splendida colonna sonora realizzata dall’americano Jake Kaufman, già autore delle musiche della serie Shantae e di un’altra hit indie come Crypt of the Necrodancer. Per non parlare dell’ottimo lavoro di band come Amanaguchi, autori delle musiche del celebratissimo beat ‘em up a scorrimento orizzontale basato sulla serie a fumetti di Scott Pilgrim.

E l’Italia? Nel nostro paese la scena è molto giovane, ma ben attiva, in primis nell’area milanese dove troviamo due nomi grossi come Arottenbit e Kenobit, autori di infuocate esibizioni live a base di Game Boy e creatori di eventi come le serate di Milano Chiptune Underground, serate dall’attitudine punk che piano piano vanno diffondendosi in tutto il resto dello stivale. Ma occhio ad altri artisti come 0r4, Pablito El Drito o Luke McQueen, quest’ultimo mago della sintesi FM del Mega Drive, e autore delle musiche di Xydonia, shoot ‘em up a scorrimento orizzontale 100% made in Italy realizzato da Breaking Bytes.

La chiptune avrà magari poca storia dalla sua, essendo un genere musicale molto giovane: d’altronde, sono passati più di trent’anni dagli sperimenti sonori su Commodore 64 dei vari Galway, Hubbard e dei fratelli Follin, ma le attende un futuro radioso grazie alla scena indie, alle netlabel presenti su internet e ai servizi di streaming musicale come Bandcamp e in generale a chi va a concerti dei musicisti della scena, che sia un locale underground oppure una fiera del fumetto come Lucca Comics (nell’edizione di quest’anno si è proprio esibito Kenobit nello stage di Red Bull!). Per quanto sia un genere musicale che affonda le radici nella nostalgia dei bei tempi andati a base di pane e NES, la chiptune è molto di più: è ricerca, è sperimentazione, è voglia di spaccare il mondo.




Justice League

Ci siamo. Il progetto Justice League è completo. O almeno è così che dovrebbe essere. Finalmente abbiamo l’opportunità di vedere la Lega della Giustizia in tutto il suo splendore e, – diciamocela tutta – non vedevamo l’ora. Come accaduto per Avengers, anche qui, sin da piccoli, non abbiamo fatto altro che immaginare come sarebbe stato un lungometraggio con protagonisti gli eroi DC, immaginando quale delle tante storie sarebbe stata scelta, chi il villain e così via. Purtroppo negli ultimi anni questo hype ha cominciato a venir meno, vuoi per un discreto Men of Steel, o un imbarazzante Batman Vs. Superman, un mediocre Suicide Squad e un’accettabile Wonder Woman, finendo con l’arrivare di un Justice League che si presenta come un cinecomic dalle fragili basi e con due facce della stessa medaglia.

Il progetto Justice League ha incontrato una serie di difficoltà, la principale delle quali fu l’abbandono di Zack Snyder nel bel mezzo delle riprese per un grave lutto. La palla è dunque passata a Joss Whedon, regista dei due Avengers di casa Marvel. Non c’è bisogno che vi dica come le visioni dei due registi siano praticamente in antitesi: se Snyder predilige una fotografia desaturata e toni cupi e drammatici, Whedon si lancia in pellicole che per certi aspetti tendono alla commedia, preferendo colori sgargianti. In un modo o nell’altro, entrambi sanno fare il loro mestiere, sanno certo tenere in mano una cinepresa e hanno idee chiare sul progetto. Ma i problemi di Justice League partono proprio da qui: visioni, così diverse, di intendere in cinefumetto, rendono questo film letteralmente “lunatico”, passando a fasi alterne da momenti puramente drammatici a momenti goliardici in cui nessuno sembra prendersi sul serio. Il risultato è una concreta difficoltà a entrare nel mood del film, rimasto in un limbo che, invece di portare a una profondità di trama e personaggi, finisce per essere dimenticabile. Questa dualità si percepisce anche nella caratterizzazione dei personaggi, con scene completamente riscritte da zero, e adattate per l’occasione, e per le soundtrack composte da Junkie XL, dopo che Hans Zimmer decise – forse saggiamente – di lasciare il progetto. Proprio con l’ingresso di Whedon, anche Junkie venne sostituito con  Danny Elfman, storico compositore che, nel 1989, si occupò di realizzare la colonna sonora del Batman di Tim Burton. Questo triplo passaggio di consegne non ha fatto altro che gettare altra confusione sul comparto sonoro, con musiche che a volte, seguendo i toni diversi del film, vanno in contrasto tra loro. Non stiamo certo parlando di pessime musiche, ma è l’amalgama che proprio non funziona.
Non manca nemmeno l’infatuazione amorosa di turno: se state pensando qualcosa legata a Wonder Woman e qualche eroe del gruppo vi sbagliate di grosso. Bruce Wayne e Clark Kent divengono veri rivali di Ennis Del Mar e Jack Twist ne I segreti di Brokeback Mountain.
Ovviamente l’ormai famosa dualità si può intravedere anche per la regia, buona in generale nei diversi frangenti, tranne per alcune scene d’azione, in cui si fatica davvero a capire cosa stia succedendo. Non mancano scene di forte impatto e alcune buone idee ma è troppo poco per avvicinare questo film alla sufficienza, anche perché, i problemi (gravi) sono altri.

Abbiamo dunque detto che il film soffre di parecchi problemi, ma non sono nemmeno paragonabili a quello della caratterizzazione dei personaggi. Al contrario per quanto avvenuto con il primo Avengers, in cui ogni protagonista ha avuto il suo film stand alone (per Iron Man addirittura due), in Justice League troviamo un gruppo in cui solo Wonder Woman e Superman hanno avuto il loro momento di gloria. La bellissima Gal Gadot, pur non vantando grandi doti recitative, riesce a fare il suo, portando un personaggio con cui è facile interfacciarsi, rimanendo ancorata alla caratterizzazione figlia del suo lungometraggio. Il kryptoniano (Henry Cavill) invece è il superman che abbiamo desiderato subito dopo l’adattamento di Snyder: un personaggio solare, così come abbiamo imparato a conoscerlo in questi anni. Le note positive sui personaggi ci concludono con Cyborg (Ray Fisher), qui nella sua prima apparizione, e che riesce a ritagliarsi il suo spazio, con un discreto background narrativo ed elemento centrale della narrazione. Le perplessità scaturite dai primi trailer sulla realizzazione grafica del suo corpo cibernetico fortunatamente vengono cancellate, presentandosi come un personaggio con una buona presenza scenica e incuriosendo il pubblico per un eventuale film a lui dedicato.
Tutto il contrario invece per Steppenwolf, il villain del film. Forse era più lecito aspettarsi Darkseid, uno dei cattivi principali delle serie DC ma evidentemente gli sceneggiatori hanno optato per un nemico meno ingombrante dal punto di vista narrativo. Il risultato è un antagonista assolutamente privo di carisma e non aiuta di certo la sua realizzazione completamente in CGI: veramente brutto a vedersi, lasciando perplessi sul perché di questa scelta. Steppenwolf (Ciarán Hinds) è di natura umanoide per cui utilizzare un attore reale, con la sua bella armatura e un po’ di make-up, non vedo personalmente come avrebbe potuto essere peggio di un personaggio digitale.
Ma nemmeno lui riesce a toccare le vette della mal caratterizzazione. Partiamo da Barry Allen, in arte Flash. Anche per lui è la prima apparizione e il suo ruolo è chiaro fin da subito: il comic relief. Traendo probabilmente ispirazione dal Peter Parker di Spider-Man Homecoming,  Ezra Miller ne diventa parodia, un ragazzino con battute fuori luogo e a tratti fastidioso. Poi c’è anche la questione grafica: sappiamo tutti – tranne chi ha realizzato il film evidentemente – che il simbolo del corridore più veloce al mondo è un lampo giallo. Qui i suoi lampi sono blu.
Anche Aquaman fa la stessa fine.  Jason Momoa interpreta un misto tra Jason Momoa e Khal Drogo de Il Trono di Spade, con in mano un forchettone. Pur essendo la sua prima apparizione non sappiamo nulla di più rispetto a quanto già sapevamo sulle sue origini, anche se, la sua presenza scenica e sicuramente d’impatto. Del resto è Khal Drogo.
Dulcis in fundo, Batman. Probabilmente la peggior trasposizione cinematografica del Cavaliere Oscuro finora, il personaggio di Ben Affleck è letteralmente inutile. Un uomo che, a detta sua, ha come unico potere quello della ricchezza, finisce col diventare un Tony Stark mal riuscito, trovandosi in continua difficoltà per tutta la durata del film. Conosciamo tutti Batman, il più grande detective al mondo, dotato di grande intelligenza e tra i migliori combattenti dell’universo DC. Qui non c’è nulla di tutto questo. Bruce Wayne è semplicemente qualcuno che, in mancanza di armi (provate voi ad associare Batman e armi), è preso in contropiede, lasciandosi in balia degli eventi. E questo porta a un’altro problema del film. La Justice League dovrebbe essere un’amalgama perfetta, in cui ognuno può sfruttare le sue doti uniche per risolvere diverse situazioni e vincendo battaglie con il gioco di squadra. La Justice League cinematografica è “Supermancentrica”: tutto ruota attorno al kryptoniano, l’unico in grado di far realmente qualcosa, assieme a Cyborg, ovviamente.
La mazzata finale la danno il montaggio, realizzato in maniera discutibile e che lascia intravedere le difficoltà di un progetto partito male e finito peggio, e la CGi, davvero pessima per la maggior parte del film, col la chicca dei baffi di Henry Cavill (nel frattempo impegnato a girare un’altra pellicola) coperti digitalmente.

Cosa resta quindi? Poco, davvero poco. Justice League paga per tutte le scelte sbagliate intraprese finora e per una gestione difficoltosa. Tralasciando qualche buona idea e un paio di scene davvero niente male, il resto è solo un’accozzaglia di scene prive di amalgama e riempite da personaggi che faticano ad uscire dallo schermo, almeno per i giusti motivi. Probabilmente l’unico modo di salvare il progetto è fare un reset totale, così come avvenne nel 1985 per mettere ordine tra le infinite storie parallele dell’universo DC. Una Crisi delle Terre Infinite in salsa cinematografica, per dare un colpo di spugna, e far finta di aver visto delle storie di un mondo parallelo che non ci appartiene.
Nel frattempo, potrete rifarvi gli occhi grazie al mondo videoludico: la serie Arkham dedicata a Batman e gli Injustice, firmati NetherRealm Studios, vi faranno scoprire come una buona scrittura possa valorizzare le già ottime storie del DC Universe.




Top 5: le migliori uscite di Novembre 2017

Siamo ormai arrivati alle battute finali e fra poco potremmo tirare le somme di questo 2017 videoludico. Nel frattempo, vediamo quali sono stati i cinque migliori giochi di Novembre, selezionati dalla redazione.

Al quinto posto troviamo l’ultima trasposizione di una saga decennale: Football Manager 2018 rappresenta la summa di tutte le ultime novità apportate, avvicinandosi il più possibile a diventare un vero e proprio manager calcistico. Essere un Sabatini o un Mirabelli dipende solo da voi.

Al quarto posto la nuova avventura grafica THQ, Black Mirror: Lontana dalla tematiche dall’omonima serie tv con cui non condivide nulla, è caratterizzata da una forte tendenza al tetro, riprendendo quanto visto nel capitolo originale del 2003. Il remake non riesce a centrare l’obbiettivo fino in fondo, ma con qualche spunto interessante riuscirà a intrattenere il giocatore quanto basta.

Al terzo posto abbiamo il ritorno del Call of Duty vecchia scuola, quindi abbandono di jet-pack e armi laser per portarci alla riscoperta delle battaglie decisive durante la Seconda Guerra Mondiale. Una narrazione che cerca di raggiungere i fasti di film o serie TV quali Salvate il Soldato Ryan o Band of Brothers, e che ci riesce purtroppo solo in alcuni frangenti, ma resta comunque un ottimo ritorno per tutti i fan della serie.

Al secondo posto abbiamo Star Wars: Battlefront II. Il secondo capitolo di Guerre Stellari ha avuto un inizio di mercato tribolato, al punto da dover ritirare le tanto criticate microtransazioni ma ciò nonostante rimane uno dei migliori titoli dedicati alla celebre saga. L’introduzione poi di una campagna single player che va ad intersecarsi tra Episodio VII ed Episodio VIII riesce a unire efficacemente il mondo videoludico e cinematografico, inserendosi efficacemente nel contesto dell’Universo Espanso.

E al primo posto una remastered: Rockstar Games ci aveva deliziato con il suo L.A. Noire, un poliziesco ambientato in una Los Angeles del dopoguerra, con un ottima MotionScan in grado di ricreare alla perfezione le movenze degli attori. Adesso è disponibile per le nuove console con tutti i miglioramenti tecnici del caso, diventando quindi una buona occasione di rispolverare un classico della vecchia generazione.

Ed ecco di seguito le classifiche parziali per ogni redattore:Andrea Celauro

  1. Star Wars Battlefront 2
  2. L.A. Noire
  3. Super Lucky’s Tale
  4. Football Manager 2018
  5. Lego Marvel super heroes 2

Calogero Fucà

  1. Call of Duty: WW2
  2. Star Wars Battlefront 2
  3. Need for Speed Payback
  4. L.A. Noire
  5. Sonic Forces

Dario Gangi

  1. Call of Duty: WW2
  2. Star Wars Battlefront 2
  3. L.A. Noire
  4. Black Mirror
  5. Lego Marvel Super Heroes 2

Gero Micciché

  1. L.A. Noire
  2. Star Wars: Battlefront II
  3. Call of duty: WWII
  4. Football Manager 2018
  5. Lego Marvel Super Heroes 2

Marcello Ribuffo

  1. Star Wars: Battlefront II
  2. Call of Duty: WWII
  3. Football Manager 2018
  4. Need for Speed: Payback
  5. Black Mirror

Gabriele Sciarratta

  1. Football Manager 2018
  2. L.A. Noire
  3. Pokémon Ultrasole e Ultraluna
  4. Super Lucky’s Tale
  5. Lego Marvel Super Heroes 2

Gabriele Tinaglia

  1. Black mirror
  2. Star Wars Battlefront 2
  3. L.A Noire
  4. Super Lucky’s Tale
  5. Call Of Duty: WW2

Vincenzo Zambuto

  1. Call of Duty: WW2
  2. L.A. Noire
  3. Need for Speed Payback
  4. Star Wars Battlefront 2
  5. Super Lucky’s Tale

La classifica finale vede dunque:

  1. L.A. Noire
  2. Star Wars: Battlefront II
  3. Call of Duty: WWII
  4. Black Mirror
  5. Football Manager 2018