Game Jam: The Movie

Uno dei concetti alla base della game theory, e del gioco sin dai primordi, è quello di sfida: che ci sia o meno dello storytelling dietro un’attività ludica, è la volontà di superamento dell’ostacolo a muovere l’engagement. La motivazione generata dalla gara e da una meta da raggiungere incrementa il potenziale creativo e l’ingegno, ed è per questo che oggi metodi come la gamification trovano considerevole spazio anche in ambienti business, per assolvere a finalità che con il puro entertainment non hanno nulla a che fare.
Un altro concetto non meno importante alla base del gioco è quello di cooperazione: seppur meno irrinunciabile rispetto al primo (giocare in single player è un’attività nata ben prima dei solitari con le carte), l’attività in co-op è alla base delle attività ludiche di gruppo, degli sport di squadra e di buona parte del gaming moderno, e oggi ne sono studiati i benefici in termini di team building soprattutto nei contesti aziendali.
Non deve stupire, quindi, se uno dei momenti di maggior creatività nella produzione videoludica odierna sia rintracciabile nelle Game Jam. Nate come forma specialistica degli hackaton (dall’unione dei termini “hack” e “maraton”, maratone dedicate in cui vari sviluppatori univano le forze per trovare soluzioni comuni e innovative, come fu il primo caso di hackaton che unì vari sviluppatori in ambiente OpenBSD), le Game Jam sono sessioni collettive di professionisti o appassionati dotati di  capacità tecniche e creative che, richiamando il concetto musicale di jam session, si trovano a mettere insieme le proprie competenze per creare un videogame in un lasso determinato di tempo.
Negli anni, queste manifestazioni che hanno raccolto team di sviluppo in ogni dove sono cresciute al punto da richiamare migliaia di partecipanti, aspiranti developer con idee alla base o semplicemente gente che voleva mettersi alla prova. Nelle Game Jam si sono alternati grandi fallimenti e idee geniali, sviluppatori che riuscivano a concretizzare idee straordinarie in un tempo brevissimo e altri che invece non riuscivano a finire il progetto iniziato. Spesso i team hanno già una coesione di base, ma non è raro trovare gente che unisca le forze in vista di una singola jam senza aver mai lavorato assieme, solo perché ci sono le giuste competenze da unire e provare può valerne la pena.

Le game jam hanno prodotto veri e propri obbrobri accanto a giochi interessanti fino a titoli che poi sono approdati sui principali store mondiali: non si può non pensare a SuperHot, la cui idea vide luce durante la 7 Day First Person Shooter Game Jam (7DFPS) prima di approdare su Greenlight e diventare il gioco straordinario che è oggi, vantando anche una versione VR su tutte le principali piattaforme di gioco.
Le Game Jam sono state anche culla di idee bizzarre come Surgeon Simulatorcreato durante la Global Game Jam 2013, o Goat Simulator, ideato invece durante una jam interna di Coffee Stain Studios, che avevano appena finito lo sviluppo di Sanctum 2: lo avrebbero mai detto che simulare la vita di una capra gli avrebbe fruttato 12 milioni di dollari contro gli appena 2 entrati con ogni capitolo di Sanctum? Non è strano che quindi appuntamenti come la Global Game Jam, Indie Game Jam, Ludum Dare e Nordic Game Jam siano diventati importanti banchi di prova per sviluppatori indipendenti, ma anche momenti  interessanti per i grossi publisher.

Piccoli universi con una vita limitata, nei quali si concentrano ogni volta storie, idee, creatività e sinergie che vale la pena raccontare.
A farlo sono stati Scott Conditt e Jeremy Tremp, registi, e anche produttori con la loro CineForge Media, di Game Jam: The Movie, documentario che narra in meno di un’ora il lavoro di 12 team in gara per un premio durante i due giorni di una Game Jam.
Uscito nel marzo 2018, il documentario distribuito da Devolver Digital Films è diviso in due parti: la prima si concentra sulla vera e propria Game Jam, con interviste agli sviluppatori e un focus sul loro lavoro. Emerge quel senso della sfida che mette in moto la creatività durante queste manifestazioni, l’ansia di non farcela, la paura di non finire in tempo. Ma è anche il momento in cui il brainstorming produce il massimo, dove le varie competenze si fondono e dove, dall’intersezione di concetti di game design a concept di visual art e intelligenti soluzioni  di coding, arrivano le idee dalle quali nascono i giochi. I team si mettono a nudo e non nascondono timori e a volte un senso di inadeguatezza, ma esce fuori inevitabilmente anche il narcisismo di ognuno, il compiacimento riguardo un’idea di base che sembra azzeccata e su cui è possibile fare del proprio meglio, la volontà di puntare sulle proprie abilità migliori, chi in quella di creare efficaci ambienti in VR chi invece nell’abilità nel sound design.
La seconda parte segue invece i soli team vincitori della Game Jam, i due che si sono meritati il passaggio all’IndieCade. Si tratta di un percorso interessante per chi non abbia mai visto come funziona la long road di un videogame verso la pubblicazione, emerge l’importanza di aver un buon publisher perché il gioco emerga dal mare magnum degli indie game quotidianamente rilasciati sul mercato e quindi è messo in luce il peso di un buon pitch con chi dovrebbe comprare l’idea: gli sviluppatori, tutti giovanissimi e spesso non forti di grandi doti comunicative o di marketing, hanno l’occasione di esporre i propri lavori ad aziende del calibro Sony e Oculus, e devono  farlo in soli 5 minuti. 300 secondi, una media che si ripete ovunque, di certo non solo all’IndieCade, chi frequenta questi eventi lo sa bene. I grossi publisher sono in cerca di prodotti di loro interesse, ma sanno che ne troveranno ogni volta 1 su 500, bene che vada: vale la regola della prima pagina che attuava Aldo Busi quando selezionava i romanzi per Mondadori, se la prima pagina non funzionava il testo veniva scartato. Il metodo non era forse efficace, ma di certo risulta  e risultava efficiente e, piaccia o meno, è così che funziona il mercato, al punto che l’incaricato di Cartoon Network spiega che incontrare gli sviluppatori è importante al pari del gioco: su un prodotto, del resto, il publisher vuole sempre avere una voce in capitolo, e avere a che fare con lavoratori affidabili, elastici e disponibili a effettuare variazioni per la miglior riuscita del prodotto sul mercato diventa fondamentale. Probabilmente per questo il team di Terrasect è riuscito poi a pubblicare il proprio Wizards: 1984, prodotto VR ancora presente sugli store mobile: il gioco era inizialmente concepito in maniera diversa, sono state necessarie varie modifiche sostanziali perché il publisher accettasse di distribuirlo.
In entrambe le fasi, il Virgilio d’eccezione è Jess Conditt, sorella di uno dei registi e Senior Editor di Engadget, che ha il compito di spiegare i retroscena dell’indie development e di chiarire alcuni aspetti che altrimenti risulterebbero meno intellegibili ai non addetti ai lavori.

Un documentario breve ma di certo interesse nel suo raccontare un percorso che oggi riguarda tutti gli sviluppatori non affermati, e che in questi anni è diventato rilevante nell’industry, dato il crescente peso degli indie game sul mercato videoludico.
E che non dà spazio soltanto ai vincitori: alcuni lavori che trovano voce solo nella prima parte del film andrebbero tenuti d’occhio e con loro alcuni giovanissimi developer che dimostrano di avere un a buona base di idee. Del resto, la storia del settore ci ricorda che anche quando i risultati non sono immediati, in certi casi si può intravedere già del talento su cui investire.
A tal proposito, mi pare utile ricordare in chiusura quel che fecero Edmund McMillen e Tyler Glaiel alla Global Game Jam Creators del 2009. I creatori di Super Meat Boy all’epoca si limitarono a creare un idle clicker dal titolo AVGM (Abusive Video Game Manipulation), gioco che oggi può essere recuperato nella The Basement Collection che raccoglie i lavori del primo McMillen e il cui gameplay consiste soltanto nel premere un interruttore per spegnere e accendere la luce in una stanza vuota, con l’obiettivo di ottenere ogni volta nuovi oggetti dopo un certo numero di click. Il gioco è semplicissimo ma, come ha spiegato lo stesso McMillen, nasceva da un esigenza di risposta a un certo tipo di prodotti quelli che creano nel giocatore l’esigenza della ripetizione di determinati comportamenti, che si traducono in tempo investito per ottenere degli item digitali, in una “manipolazione della volontà” che induce, infine, a spendere denaro per risparmiare quel tempo e ottenere gli stessi vantaggi.
Vi ricorda qualcosa? McMillen analizzava questo fenomeno già quasi un decennio fa, e ha definito infatti AVGM come «a commentary on the formula that’s used in most massively multiplayer RPGs and a lot of online games that are on Facebook and stuff like that like Pet Society and Farmville – especially Farmville – where you are basically rewarded with digital items for time spent and clicks».
Una realizzazione semplice di un’idea intelligente e reazionaria, insomma, ideale per i tempi brevi di una Game Jam, e non è un caso, infatti, che gli oggetti che appaiono su schermo siano sempre raccapriccianti.

E un simile esempio di creatività, libera, riottosa e provocatoria, ci pare già abbastanza per poter auspicare che il mondo delle Game Jam continui a crescere e proliferare, portando sempre più autori indipendenti all’attenzione dei moderni videogiocatori.




Reverse: God of War al contrario

Reverse è una nuova rubrica ricavata da un’idea presa in prestito da un format dello Zoo di 105 di qualche anno fa. Prendete il vostro videogioco preferito e immaginatene la trama partendo dalla fine. Un Benjamin Button delle trame videoludiche, insomma, con alto contenuto di spoiler, che troverete da qui in poi.
L’uscita del nuovo God of War pare l’occasione ideale per esordire ripercorrendo a ritroso la saga, che ha al centro le vicende di Kratos, il quale, pur di vincere una battaglia, fu disposto a dare la sua anima ad Ares, il Dio della Guerra. Questo finì per consumarlo gradualmente, portandolo a uccidere sua moglie e sua figlia, atto che mise le basi per la sua sete di vendetta verso Ares, del quale prese il posto dopo averlo ucciso.
Storia bella, anche se forse un po’ banale, ma che ha decisamente segnato un’epoca, portando il concetto di epicità nei videogame a livelli mai visti. Ma proviamo a leggerla al contrario:

Kratos, il Dio della guerra, decide di alzarsi dal trono per noia, facendo lo stesso giochetto del Principe cerca moglie: vuole essere accettato per quello che è realmente e non come Dio. A un certo punto esce dal mare, con le sue spade che si trasformano senza motivo, trovandosi improvvisamente nel tempio dell’Oracolo di Atene. Una luce lo pervade, agglomerandosi e trasformandosi in un tizio con i capelli di fuoco e una lunga spada conficcata in gola. Kratos decide di estrarla e i due cominciano a lottare, forse perché il Dio è stato disturbato nel suo sonno.
A un certo punto Kratos ne ha abbastanza e decide di punto in bianco di chiudere il Vaso di Pandora e di riportarlo al proprio posto. La via più breve è morire: quindi, si infila  in una tomba per raggiungere l’Ade. Al suo risveglio, sente un leggero bruciore allo stomaco, forse a causa di qualcosa che ha mangiato la sera prima, ma più probabilmente a causa del palo conficcato nel suo ventre. Gentilmente delle arpie riportano il vaso ai suoi piedi e il tizio con i capelli di fuoco contro cui aveva lottato poco prima riesce a togliere il palo da Kratos con la sola forza del pensiero. Il Dio guerriero così è libero di recarsi in varie stanze camminando in stile “Moonwalker” e a riportare il vaso al suo posto. Nel frattempo tornano in vita bestie e mostri di vario tipo, fioccando direttamente dalle mani o dalle spade del protagonista, forse divenuto più magnanimo nel corso dell’avventura.
Scendendo dal Titano Crono, Kratos trova una fanciulla ignuda ad Atene, ma è così indispettito dal suo petto a bassa definizione che la appende in alto dandola in pasto alle arpie. Continuando a camminare col moonwalk, si ritrova su una nave in pieno Mar Egeo, dove salva l’Idra dai pericolosissimi alberi dell’imbarcazione e salva a sua volta un uomo dallo stomaco della bestia con la sola forza del pensiero.
Dopo aver passato “una notte da chimere” con un paio di procaci ancelle, vede improvvisamente il suo corpo sbiancarsi e dalle sue lame comparire una bambina e una donna, della quale si innamora all’istante, senonché un’orda di Barbari interrompe il suo sogno d’amore.

Il suo desiderio è però ormai esaudito, Kratos è stato finalmente accettato come umano, ma c’è un’ultima cosa da fare: sconfiggere i Barbari. Per non rendere le cose troppo facili, decide di restituire la testa al loro Re e di farsi togliere le Spade del Caos e, cavalcando al contrario, farà capire a entrambi gli schieramenti che la guerra è inutile, convincendoli a tornare tutti a casa. Nel finale, riabbraccia la donna e la figlia, abbandonando per sempre le ire e i tumulti di un Dio della guerra.

Non trovate che sia più bella così? Basta solo invertire il punto di vista per creare storie totalmente nuove. God of War è solo il primo di una lunga lista ma, se vi è piaciuta (o se non vi è piaciuta), fatecelo sapere.




God of War: Vita e Morte di un Deicida

Lira incontrollabile, la sete di vendetta e il sacrificio, sono tre delle innumerevoli sfaccettature di Kratos, la personificazione della potenza e della rabbia, protagonista di una delle saghe che è entrata con prepotenza nell’Olimpo dei videogiochi. In questo articolo ripercorreremo le vicende del “fu” Dio della Guerra, dai concept sino all’imminente God of War su PlayStation 4. Attenzione a possibili spoiler.

Sviluppato da Sony Santa Monica, God of War ebbe una gestazione particolare e il cui successo fu del tutto inaspettato. God of War non fu il primo progetto di Santa Monica: tutto iniziò con un gioco meno ambizioso ma capace di dare i primi asset ed esperienza al team che avrebbe realizzato il noto titolo d’ambientazione mitologia, Kinetica. Fu proprio uno degli sviluppatori di Kinetica, David Jaffe, a divenire capo del nuovo team che, ispirandosi a titoli come Ico e Devil May Cry volle portare sulla nuova console Sony qualcosa che non si era mai visto e dal tono epico. Due aspetti erano fondamentali: il contesto e il protagonista. L’ambientazione scelta fu quella della antica Grecia, con quell’immancabile epica che permetteva di prendere innumerevoli spunti sia dal punto vista dei nemici, della trama e delle sezioni platform. Se questa fu relativamente semplice, la scelta del protagonista non lo fu altrettanto: il team di sviluppo era deciso a creare un personaggio originale, carismatico e brutale ma lontano dagli stilemi dell’epica classica. Furono passati in rassegna diversi modelli, come soldati con maschere ma abbastanza anonimi, guerrieri dalla spiccata vena africana fino a un personaggio che portava sulle spalle un bimbo o un cane, ma anche qui nulla di fatto, grazie a Zeus. Fu così deciso di realizzare un personaggio a torso nudo e che al posto dell’armatura avrebbe avuto un grosso tatuaggio per dare un tocco di colore. Inizialmente blu, il tattoo divenne rosso dopo che fu notata un’eccessiva somiglianza con un personaggio di Diablo II. Anche le armi hanno caratteristiche particolari: sono due lame, denominate Spade del Chaos, fuse con una lunga catena direttamente sulle braccia del protagonista, per gentile concessione di Ares. A questo punto manca solo il nome: visto che nella mitologia greca spesso ogni personaggio personificava una qualità (una virtù o un vizio), al personaggio in questione fu affibbiata la Potenza, che in greco antico si traduce appunto con Kratos (Κράτος). Il corpo bianco di Kratos è dovuto alle ceneri della moglie e della figlia da lui uccise mentre si trovava sotto il controllo di Ares, e attaccate per sempre alla sua pelle – di base scura –, attraverso una maledizione dell’Oracolo della sua stessa città.

L’inizio della fine

Dopo tre anni intensi di sviluppo venne presentato finalmente il nuovo titolo: God of War. Il gioco si apre con il potente Kratos, pronto a gettarsi dalla montagna più alta della Grecia. Ma le vicende interessate cominciano tre settimane prima. Kratos è tormentato dai molti mali che ha causato, ma soprattutto uno gli impedisce di dormir bene la notte: l’aver ucciso sua moglie e sua figlia, nonostante in quel momento fosse sotto l’influsso di Ares, è il suo peccato più grande. Proprio il Dio della Guerra sarà il principale antagonista del primo capitolo e darà filo da torcere al nostro paladino. Molti saranno i momenti esaltanti e ci troveremo a interagire con molti degli Dei che abbiamo studiato a scuola – o che, al limite, abbiamo visto in Pollon : Zeus, Artemide, Ade, Poseidone e Atena consegneranno a Kratos i loro poteri, tornando molto utili durante il corso del gioco, soprattutto una volta circondati da orde di nemici. Ares è ormai nemico dell’Olimpo e del mondo intero e sarà proprio Kratos a sconfiggerlo in una boss fight ben coreografata. Nonostante la vittoria, Kratos non avrà pace, succedendo ad Ares come nuovo Dio della guerra.
God of War fu un successo su vasta scala, apprezzatissimo dalla critica e amato dal pubblico, e dalla sua uscita costituì uno dei pilastri del grande tempio Sony. Tanta sana violenza viene immersa in un contesto – quello della mitologia greca – assolutamente originale e credibile e con una trama che a poco a poco lascia intravedere tutti gli aspetti del mondo di gioco e di Kratos, un antieroe che all’inizio faremo fatica a comprendere ma che col tempo impareremo ad apprezzare. Era dai tempi di Devil May Cry che non si vedeva un hack ‘n slash di tale potenza, perfetto sotto tutti i punti di vista e originale grazie all’impiego delle Spade del Caos e dei vari poteri messi a disposizione dagli Dei, il tutto contornato da una reattività dei comandi fuori scala. Oltre ai combattimenti, erano in scena anche sezioni platform e qualche puzzle ambientale da risolvere; un esempio su tutti è quello del Tempio di Pandora. Importante è anche la possibilità di potenziare Kratos e le sue armi, dando così un forte senso di crescita all’interno del gioco.
God of War ha anche il merito di aver sdoganato i quick time event, trasformando l’eliminazione dei nemici e soprattutto dei boss in scene altamente coreografiche e suggestive, e la particolarità della telecamera fissa, perfetta in tutte le situazioni e che in un gioco del genere fa davvero la differenza, essendo gestita direttamente dal motore di gioco, dando sempre il punto di vista migliore e rendendo l’azione cinematografica e adrenalinica.
Sul piano tecnico, GoW era quanto di più bello visto su PlayStation 2: modellazione certosina di personaggi principali e comprimari così come gli ambienti di gioco, tutti ricchi di dettagli e accompagnati da ottimi filtri, e soprattutto senza caricamenti di sorta. Ottimi particellari ed effetti speciali sono arricchiti da un comparto artistico d’eccezione e da un comparto sonoro perfetto sia nelle musiche che nel doppiaggio.
God of War rimane senza dubbio uno dei migliori videogiochi della storia. Allo Spike Video Game Award 2005 ha ricevuto il premio “Gioco d’azione dell’anno” e David Jaffe, il suo creatore, ha ricevuto il premio “Sviluppatore dell’anno“. Cominciarono anche a farsi vivi rumor su un lungometraggio cinematografico, ma non si ebbero più notizie.

Non solo monolite

Sorpresi? Esiste anche un God of War per smartphone denominato Betrayal, che cronologicamente si interpone tra Chains of Olympus e il secondo capitolo. Kratos, ormai vero e proprio Dio della Guerra, conquista, grazie al suo esercito spartano. Una volta giunto al suo prossimo obbiettivo, Rodi, viene fermato da Argo, un mostro mandato dalla regina degli Dei, Era, per dissuaderne i piani di conquista. Kratos, lo imprigiona senza ucciderlo, ma la bestia troverà comunque la morte per mano di un misterioso assassino. Kratos darà la caccia a quest’individuo in lungo e in largo senza riuscire a prenderlo. Il piano prevedeva di screditare Kratos agli occhi degli Olimpici, cosa che accade comunque per la stessa mano del nostro eroe, il quale uccide il nipote di Zeus, Ceryx (anche figlio di Hermes). Sarà proprio in questo momento che a Kratos verrà affibbiato il titolo di “uccisore degli Dei“, ponendo le basi per la guerra totale che si scatenerà di lì a poco.
La caratteristica di Betrayal è la sua grafica 2D e il suo essere più un platform game che altro. I combattimenti sono presenti ma ovviamente non hanno nulla a che vedere con quanto visto su console. Essendo un titolo per cellulari si son dovuti fare dei sacrifici, a cominciare dal sistema di controllo – in certi casi fastidioso – fino al comparto tecnico e sonoro. Resta un buon titolo, ma ovviamente i God of War a cui si riferisce il grande pubblico e la critica sono ben altri.

La maledizione di Kratos

Lo sviluppo di God of War II era ampiamente previsto, e la palla passò da David Jaffe al responsabile delle animazioni, Cory Barlog, aprendo anche di fatto la leggenda della “maledizione di God of War”: un nuovo capitolo, un nuovo producer. Il team era diviso in due: chi voleva sviluppare il titolo sulla nuova e più potente console (PlayStation 3), e chi voleva sfruttare al massimo l’ampio numero di unita vendute di PS2. Fu Yoshida, presidente Worldwide di Sony, a prendere la decisione: God of War II fu sviluppato su PlayStation 2.
Le vicende si aprono sempre a Rodi, con Kratos, nelle vesti di Dio della guerra che porta distruzione nella città con lo scopo di conquistarla. Un’aquila appare dal nulla dando vita al Colosso che sarà il nostro super avversario nella prima parte del gioco. L’unico mezzo per sconfiggerlo è la Spada dell’Olimpo, una potentissima arma forgiata da Zeus per sconfiggere i Titani anni addietro. Grazie a essa Kratos configgerà il Colosso di Rodi ma, nel farlo, perderà tutti i suoi poteri, tornando mortale. L’aquila si rivela essere Zeus stesso, che uccide Kratos portando così ordine nel caos. Ma il nostro eroe troverà soccorso nei Titani, che l’aiuteranno a compiere la sua vendetta ai confini del tempo e dello spazio. Solo la sequenza finale vale il prezzo d’acquisto del titolo.
Il secondo capitolo rappresenta un affinamento di quanto visto in precedenza: il sistema di combattimento è rimasto pressoché invariato nella forma ma con un miglioramento della risposta ai comandi e feeling con armi. Le nuove armi e magie rappresentano le vere novità in ambito di gameplay, cosi come il Vello d’Oro, capace di respingere gli attacchi se usato con il giusto tempismo, e le Ali di Icaro, che permette di coprire grandi distanze e modi più fantasiosi di uccidere i nemici. Anche la trama risulta meglio raccontata, grazie anche a bellissime cutscene in CGI, ricca di colpi di scena e momenti drammatici, arricchita da molte più boss fight e con una durata maggiore. Il comparto tecnico è eccezionale, probabilmente la produzione migliore su PlayStation 2, con ottime texture e, in generale, una pulizia maggiore rispetto al primo capitolo. Sempre nel 2007, God of War II vinse i Premi Bafta come Technical Achievement e Story and Character.

Il brand ebbe un tale successo da essere trasposto, sotto forma di prequel, nella portatile Sony: PSP. Con il sottotitolo Chains of Olympusil God of War su handheld avrebbe raccontato quanto accaduto prima degli eventi di nostra conoscenza, fornendo uno sguardo più ampio su Kratos. Sviluppato da Ready at Down (sviluppatore che vanta anche il discusso The Order 1886), questo titolo mostra tutte le potenzialità della portatile Sony, toccando vette d’eccellenza un po’ dappertutto. Il motore base è quello utilizzato per Dexter ma è servito un aggiornamento apposito del firmware di PSP per far fruttare tutte le idee che aveva in serbo il team di sviluppo.
Qui si assisterà al piano – un po’ contorto, a dir la verità – di Persefone in cerca di vendetta nei confronti di Ade, reo di averla imprigionata, e degli Dei, che non avevano in alcun modo interferito. Il suo obbiettivo è quello di distruggere il pilastro che sorregge la Terra grazie al potere di Elios, grazie anche all’allontanamento di Kratos verso i Campi Elisi, dove il nostro protagonista, rinunciando alla malvagità e i suoi poteri, ha potuto finalmente ricongiungersi alla figlia. Kratos, compiendo una difficile scelta, riuscirà a fermare Persefone e a portare di nuovo la luce nel mondo.
Il team di Ready at Down è riuscito a trasporre un titolo perfetto anche sulla console portatile, a cominciare dal comparto tecnico, impressionante visto il contesto, aiutato sicuramente dallo schermo più piccolo per la pura resa grafica. Gli ambienti, le animazioni e tutto il resto è da primato, portando la PSP ad avere una sua killer application. Anche i comandi, sulla cui resa si temeva non poco, sono stati adattati regalando quasi le stesse sensazioni del DualShock. Ovviamente, rispetto ai titoli principali, questo capitolo ha qualche mancanza, come la durata della campagna tra le 6-8 ore, puzzle e boss più semplici, ma il tutto è comunque rigiocabile per sbloccare i numerosi extra.
È presente anche una specie di trollata: sul libretto d’istruzioni figura un invito a cercare le cosiddette Urne del Potere, in grado di conferire poteri inauditi e difficili da trovare. Peccato solo che nel frattempo gli sviluppatori decisero di eliminarle dal gioco completo per cui, chi non era a conoscenza di ciò, probabilmente ha vagato in cerca di urne che effettivamente non erano presenti.
In ogni caso, Chains of Olimpus fu il gioco piu venduto e con i voti piu alti presente su PSP.

Niente sarà più come prima

Nuovo God of War, nuovo producer, dicevamo: si passa da Cory Barlog a Stig Asmussen, l’art director di God of War II. Siamo al primo salto generazionale per questo franchise, approdando, nel 2010 su PlayStation 3, God of War III, in grado di mostrare tutta la sua potenza in una delle sezioni introduttive migliori di sempre.
Il Monte Olimpo è assediato da Kratos e dai Titani; Poseidone sarà il primo Dio a cadere per mano del deicida ma, subito dopo, Zeus, ricordandosi improvvisamente del suo ruolo, usa tutto il suo potere per ostacolare la scalata del Titano Gaia e il nostro pelatissimo eroe. Proprio quando Kratos si appresta a chiedere aiuto capisce di essere stato una pedina in mano dei Titani, interessati solo alla loro volta vendetta nei confronti degli Dei. Kratos partirà alla ricerca della sua doppia vendetta, eliminando chiunque si opponga alla sua strada, siano essi Dei o Titani, fino allo scontro finale con Zeus che vedrà il protagonista redimersi utilizzando il vero potere del Vaso di Pandora, utilizzato nel primo capitolo per sconfiggere Ares. Si scoprirà come e quando gli Dei divennero malvagi, pieni di istinti omicidi nei confronti di Kratos, e i veri piani di Atena.

Con il terzo capitolo, visto anche un nuovo e più potente hardware, si vantano diverse novità anche dal punto di vista del gameplay. Innanzi tutto magie e armi non sono più elementi separati: ogni arma infatti possiede la sua magia intrinseca, selezionabile grazie alla croce direzionale, con la quale è possibile cambiare arma rapidamente, continuando così le combo senza interruzioni. Inoltre, sono state modificate anche  postura e animazioni del protagonista e l’introduzione di una barra apposita per l’utilizzo di alcuni oggetti come l’Arco di Apollo e gli Stivali di Hermes, oltre che un maggior numero e varietà di nemici.
A livello tecnico è essenzialmente un capolavoro, capace di lasciare sbalorditi ancora oggi nonostante siano passati otto anni. L’utilizzo del nuovo hardware ha permesso un boost spaventoso in tutti gli aspetti del gioco regalando una perla di pregevole fattura. Come detto, è la prima ora di gioco che risulta assolutamente straordinaria e picco più alto di tutta la produzione, difficilmente replicabile. In quell’ora di gioco si è avvolti da God of War alla massima potenza.
Oltre all’eccezionale comparto tecnico non si è badato a spese anche nel sonoro, che si fregia di ben quattro compositori differenti, che sono riusciti ad arrangiare brani dal tono epico in grado di esaltare ogni situazione possibile. Assolutamente impeccabili.
Durante lo sviluppo molte idee furono scartate come una modalità multiplayer o la possibilità di utilizzare gli Stivali di Hermes per correre sui muri alla stessa maniera di Prince of Persia.

Ascensione e declino

Sempre nel 2010 arriva un altro capitolo per PSP, ancora una volta realizzato da Ready at DownGhost of sparta, cronologicamente posto tra il primo God of War e God of War: Betrayal. Qui entrano in scena la madre di Kratos e il fratello, Deimos, apparsi in una visione del neo Dio della Guerra molto sofferenti. Kratos cercherà di trovare spiegazioni nella Città di Atlantide, eretta in nome di Poseidone e culla della conoscenza umana. Durante il suo pellegrinaggio verso il tempio del Dio dei Mari, Kratos “ritroverà” sua madre e avrà varie informazioni sul fratello, scoprendo che è stato rapito da Atena ed Elios per via di una profezia che narrava di come un uomo con la faccia dipinta avrebbe posto fine agli Olimpici. Essendo Deimos l’unico con queste caratteristiche, viene rapito causando anche la famosa cicatrice di Kratos sull’occhio. Deimos è prigioniero di Tanatos, il Dio della Morte, e, dopo una bellissima  e coreografica boss fight in coop, e una volta “uccisa” la Morte, Kratos diventa un vero “Distruttore dei Mondi” – una sorta di Robert Oppenhaimer  ma con la faccia dipinta–. Nel frattempo scopriamo anche che il padre di Kratos è Zeus.
Ghost of sparta rappresenta il canto del cigno di PSP, una gioia per gli occhi sia dal punto di vista meramente tecnico che artistico, anche se purtroppo non raggiunge le cifre di vendite degli altri capitoli.
Questo capitolo e Chains of olympus furono poi rimasterizzati nella Origin Collection per PS3.

Nuovo God of War, nuovo producer, come da tradizione: la palla passa da Stig Asmussen a Todd Papy. Arriviamo all’utimo God of War uscito finora, Ascension, un prequel di tutto quanto visto fino a questo momento.
Avendo tradito il patto siglato con Ares, Kratos è prigioniero di tre Furie, esseri impegnati nel “gestire” traditori e colpevoli.  In questo meno riuscito capitolo, vediamo Kratos agli inizi, subito dopo aver siglato il patto con Ares e tormentato in maniera violenta dalle visioni. Kratos verrà aiutato da un’altra Furia, Orkos, che, resosi conto della crudeltà del patto, aiuterà il protagonista fino al sacrificio finale che renderà finalmente Kratos libero.
Ascension non vanta una trama che lascia il segno: sì, è ben raccontata, ma avara di colpi di scena risultando piuttosto prevedibile. Ovviamente il comparto tecnico anche qui è fuori scala, nonostante PS3 sia ormai sul viale del tramonto, con qualche piccola innovazione dal punto di vista del gameplay come avvenuta sul tasto cerchio del pad, non più adibito alle prese ma alle armi secondarie, che è possibile raccogliere durante il gioco. Anche i diversi amuleti, che potremmo utilizzare lungo il corso dell’avventura, diventano fondamentali ai fini del gameplay: quello di Uroboro, per esempio, permetterà di distruggere o ricostruire elementi dello scenario, mentre quello di Orkos permetterà di sdoppiarsi. Tutte ciò regala una boccata d’aria fresca alle sezioni platform, molto lunghe e costruite sulla base dei suggerimenti degli sviluppatori di Uncharted. Ma la vera novità è il comparto multiplayer, sia competitivo che cooperativo: una volta scelto il personaggio ci verrà richiesto a quale divinità votarci, avendo così da parte di queste un potere unico. Le modalità di gioco sono molte e permettono una buona progressione. Forse il multiplayer risulta a conti fatti un po’ forzato, visto che il franchise ha sempre puntato forte sul single player, ma è anche vero che David Jaffe ha sempre desiderato includere una modalità cooperativa sin dal primo capitolo, modalità che fu sempre scartata poiché Kratos rischiava di essere snaturato.
In Ascension, sono presenti tante novità ma, complice una trama non particolarmente ispirata ed elementi che sanno di già visto, questo God of War risulta il meno riuscito dell’intera saga.

Sei davvero tu?

Siamo nel 2018 e come al solito tocca a un nuovo producer, ma questa volta a una vecchia conoscenza: Cory Barlog è pronto a rilanciarsi con un nuovo capitolo dal semplice titolo di God of War che sposta parecchi focus su altrettanti elementi. Si passa infattidalla mitologia greca a quella norrena, in un futuro in cui Kratos ha ormai una certa età, prendendosi cura di Atreus, suo figlio. Cambiano completamente anche il combat system e il sistema di telecamere, non più fisso, ma spostato direttamente alle spalle del protagonista. Tutti questi cambiamenti rendono questo God of War effettivamente un altro gioco e difficilmente paragonabile ai titoli precedenti ma, da quanto abbiamo potuto vedere, di qualità sembra essercene tanta e non vediamo l’ora di reimpersonare la Potenza, ancora una volta.

Dopo sei giochi, uno mobile, un romanzo, una serie a fumetti, un lungometraggio sempre in cantiere, remastered e un nuovo capitolo pronto a stravolgere tutto, con Kratos apparso un po’ in giro in diversi altri media, ci si rende conto di quanto God of War sia entrato nella storia di questo mondo. Pensate che tra i piani di Santa Monica la serie doveva concludersi con il secondo capitolo, quando Kratos, dopo aver sterminato gli Dei greci avrebbe continuato la sua caccia ad altre deità di altre mitologie come quella nordica e addirittura quella cristiana. Infatti, riferimenti in tal senso, sono presenti in God of War II, in un dipinto che raffigurava i Tre Magi e un’arma, chiamata Lancia del Destino, come quella che trafisse Gesù crocifisso. Dopo tutto ciò, Kratos sarebbe diventato la Morte in persona, con le sue due lame che sarebbero diventate una falce, appunto come quella della morte.
Il nuovo Kratos è ora pronto a sfidare gli dèi nordici, e non più da solo.

 




Sega History

Come Nintendo, le radici di Sega si pongono in un epoca pre-gaming. Contrariamente a quanto si possa pensare, Sega era all’inizio una compagnia americana: fu fondata negli anni ’50 a Honolulu e il suo obbiettivo era provvedere all’intrattenimento dei militari dell’esercito americano. I loro prodotti principali erano slot machine, cabine fotografiche ma soprattutto giochi elettromeccanici. In uno scenario in cui ancora i videogiochi su schermo non esistevano Sega, negli anni ’60, produsse Periscope, un gioco elettromeccanico considerato da molti un pilastro sul quale si sarebbe costruita intorno l’intera scena arcade. Periscope, insieme ad altri titoli come Duck Hunt e Missile, attrassero l’interesse di un gruppo di investitori giapponesi che presto investirono nella compagnia e comprarono grossa parte degli asset.

L’era arcade e il Master System

Arrivano gli anni 80 e si assiste al boom delle arcade e di Atari nel mercato casalingo. Sega, visto il successo con i giochi elettromeccanici, decide di entrare nel mercato dei giochi elettronici, e comincia rilasciare i suoi primi giochi quali Head On, Monaco Gp, Zaxxon e Pengo che si rivelano, sia nelle arcade che nelle console casalinghe, dei veri successi commerciali. Sega, sin dagli inizi, dimostrò di essere una vera e propria pioniera dell’innovazione: in un periodo in cui Pac Man, Centipede e Galaga spopolavano, Sega era già all’opera con gli scaling, in Buck Rogers: Planet of Zoom, e persino con i Laserdisc, anticipando l’uscita di Dragon’s Lair con Astron Belt in tutto il mondo (tranne negli Stati Uniti, dove il popolarissimo gioco con i disegni di Don Bluth arrivò per primo). L’investimento sui videogiochi si rivelò vincente, ma il mercato, come crebbe a dismisura in pochi anni, crollò improvvisamente; la crisi dei videogame del 1983 prese piede ma Sega, nonostante alcuni dipendenti se ne tirassero fuori, decise di sfruttare la propria popolarità nell’arcade per rilanciare il mercato dei videogiochi. L’impresa non era assurda: i cabinati Sega andavano fortissimo nelle sale arcade e i loro giochi erano anche molto popolari nel mercato casalingo, ma purtroppo un gigante sfruttava una popolarità ben più grande di quella loro. Nintendo cavalcava infatti l’onda del successo con Donkey Kong dal 1981, e il lancio del Famicom nel 15 Luglio del 1983 in Giappone oscurò del tutto il lanciò del Sega l’SG-1000, lanciato lo stesso esatto giorno. Il Sega SG-1000 era un sistema valido ma semplicemente era una console che non poteva minimamente competere col Famicom: la console era molto simile al Colecovision, più vecchia della controparte Nintendo, e ovviamente presentava caratteristiche più datate, come il sonoro del Texas Instrument SN76489 e l’incapacità di produrre uno scrolling fluido come poi Super Mario Bros. dimostrò. Dopo alcuni restyling con i SG-1000 II e SC-3000, quest’ultimo un vero e proprio computer, Sega capì che non poteva competere contro Nintendo con un sistema inferiore, così la compagnia aggiornò l’hardware della propra console definitivamente e, nel 1985, rilasciò finalmente il Sega SG-1000 Mark III, ovvero il Master System prima in Giappone e poi, l’anno successivo, nel resto del mondo. Il Mark III offriva una CPU, GPU e RAM migliori del modello precedente e ciò significava ben 32 colori visualizzabili da una palette di 64 e un’azione più veloce su schermo; tuttavia la console fu azzoppata drasticamente dal suo chip sonoro che rimase lo stesso per garantire la compatibilità dei giochi del vecchio catalogo in Giappone. Sega, più in là, solo in Giappone, rilasciò l’add-on FM Sound Unit che offriva al giocatore un range di suoni superiori al chip sonoro di base, dunque un suono ben superiore alla controparte Nintendo. La console Sega offriva un catalogo di giochi veramente interessante come Alex Kidd, Wonder Boy, Phantasy Star, Operation Wolf, ma ritagliarsi una fetta in quel mercato dominato da Nintendo era un impresa ardua; in Nord America Nintendo, firmando con le case produttive americane, si assicurava anche l’esclusiva per la propria console lasciando dunque il Master System con i soli Activision e Parker Brothers. La morsa di Nintendo sul mercato nordamericano spinse Sega a puntare su altri continenti, come l’Europa e il Sud America, dove riuscì addirittura a superare il Nes; specialmente in Brasile, il Master System divenne sinonimo di videogioco, e Tec Toy, la compagnia dietro la distribuzione della console, produce tuttoggi la console Sega vendendo approssimativamente circa 100.000 console l’anno. I propositi per una nuova console c’erano e fu su queste conquiste che Sega decise di lanciare una console in grado di superare Nintendo una volta e per tutte.

The peak of popularity

Come già scritto in La Grande Guerra: Sega Genesis vs Super Nintendo, Sega lanciò così nel 1989 il Sega Mega Drive (o Genesis in Nord America), hardware basato sul sistema arcade Sega System 16; in questo modo Sega riuscì a ottenere un vero e proprio vantaggio contro Nintendo. Il nuovo sistema prometteva una grafica superiore al Nes, un migliore sonoro ottenuto dalla sintesi FM, e una giocabilità comparabile alla qualità arcade. Questa fu la prima strategia adottata da Sega per vendere il suo Genesis: portare i titoli da sala giochi a casa e superare il muro che separava il mercato casalingo dal mercato arcade. La strategia all’inizio sembrò andar bene, spinta anche dal fatto che la console, al lancio, fu venduta in bundle con Altered Beast, un gioco arcade niente male e in grado di sottolineare la differenza fra il Nes e il Genesis. Tuttavia i giocatori non erano ancora convinti della nuova macchina a 16 bit di Sega: l’uscita di Super Mario Bros. 3 fece capire a Sega come i giocatori fossero ancora attratti dall’ormai vecchio Nes e, anche se le arcade erano ancora il punto di riferimento tecnologico per la comparazione degli hardware, questi non servivano a nulla se un gioco casalingo, seppur con una grafica mediocre, si rivelava divertente e adatto alle case. Tuttavia, già a questo punto, il Genesis aveva comunque una solida fanbase: nonostante Super Mario fosse insuperabile in casa propria (Giappone), non si può negare che la linea di titoli iniziale del Genesis era comunque competitiva. Non dimentichiamo anche che molte third parties cominciavano a interessarsi alla nuova console Sega per via delle sue caratteristiche superiori e in cerca di nuovi accordi commerciali meno rigidi di quelli di Nintendo; già nel 1989 Capcom mise sulla nuova piattaforma Sega il suo Ghouls ’n Ghosts, sequel di Ghost and Goblin, sorprendendosi della facilità di programmazione sulla console, di quanto fosse bello sviluppare per unmercato casalingo di giochi così simili alle arcade e compiacendosi perciò di quanto fosse buono il loro nuovo accordo con Sega. Il coinvolgimento di molte celebrità sportive, come il pugile James “Buster” Douglas, il giocatore di football Joe Montana, il golfista Arnold Palmer, aveva già attirato a sé una fascia poco considerata nella vita del Nes, ovvero gli appassionati dei giochi sportivi, e sottolineò come il Genesis potesse puntare a una fascia di pubblico più adulta. Michael Jackson: Moonwalker fu uno dei titoli più discussi e diede al Genesis una attitude che la console mantenne per tutto il suo ciclo vitale. La discussione sulla qualità della libreria di titoli rispetto alla concorrente giaceva spesso su un punto morto: il Genesis aveva 16 bit, il Nes solo 8. Con l’assunzione di Tom Kalinske nel 1990 come CEO di Sega of America furono lanciate in TV delle nuove pubblicità aggressive e dirette a Nintendo che miravano a sottolineare l’arretratezza tecnologica del Nes. Il nuovo slogan «Genesis does what Nintendon’t» parlava chiaro e la console si aprì verso quella fascia di pubblico cresciuta sì col Nes, ma che ormai era grande e andava al liceo. Il Genesis poteva dar loro giochi sportivi, giochi d’azione, giochi puzzle, porting dei giochi presenti in arcade, in poche parole giochi adatti alla loro personalità. L’ultima cosa che mancava era una mascotte in grado di poter competere con Mario, icona dei videogiochi e che sembrava essere imbattibile. Kalinske aveva bisogno di un personaggio non solo carismatico ma che rappresentasse anche la cultura giovanile dei tempi e che potesse dare a Nintendo il colpo di grazia. In Giappone Yuji Naka, ispirato dalla propria capacità di completare ripetutamente e velocemente il primo livello di Super Mario Bros, voleva creare un gioco veloce, pieno di azione e mozzafiato. Il personaggio di questo gioco sarebbe stato destinato a diventare la nuova mascotte Sega e, dopo tante bozze, la scelta cadde su un insolito porcospino: gli fu dato un bel colore blu cobalto, una schiena spinosa che si rifacesse le capigliature mohawk in voga in quegli anni, delle scarpette rosse in contrasto con il blu e soprattutto un caratterino frizzante e “figo”. Sonic The Hedgehog incorporò tutti questi aspetti già dal primo titolo, che fu subito messo in bundle con la console: il suo arrivo sul mercato scosse il mondo. Il nuovo bundle del 1991, lanciato  con un price drop visto che la console era già sul mercato da due anni, fu un successo strepitoso e il cammino di Sonic verso la gloria era solo all’inizio. In questo contesto, Nintendo rilasciò il Super Nintendo in bundle con Super Mario World e, anche se non ebbe il successo sperato e molti giocatori erano in favore di Sega, Kalinske sapeva di avere la console più debole, e non voleva assolutamente che il Sega Genesis si rivelasse un fuoco di paglia; così corse ai ripari e tentò di capire come vendere la propria console nonostante concorresse con un’altra più potente. Si decise di far leva sull’unico vero punto a favore del Genesis contro lo Snes, un punto non da poco: il processore di 7.6 MHz contro quello di 3.7MHz dello Snes, e su questo fu costruita tutta la nuova campagna pubblicitaria di Sega. Le nuove pubblicità parlavano di un fantomatico “blast processing”: non era altro che un modo per sottolineare la più rapida velocità di calcolo del Sega Genesis, ma fu una parola così “cool”, studiata appositamente per essere utilizzata fra i giovani durante i dibattiti sulla console migliore senza necessariamente puntare sui fatti matematici, che funzionò. La pubblicità ebbe successo e servì non solo a infuocare il dibattito, ma anche a infuocare la competizione fra le due compagnie, intente a dare il massimo. Nel Gennaio del 1992 ,Sega aveva in mano il 65% del mercato dei videogiochi: per la prima volta Nintendo non era più sovrana del mercato videoludico ma questo servì alla grande N per ripensarsi e prepararsi a stracciare la competizione. Sega, per portarsi un passo avanti, seguì le orme del PC Engine di Nec e, dopo qualche anno sul mercato, lanciò un add-on per i Compact Disc: l’avvento del Sega CD, o Mega CD nel resto del mondo, avrebbe dovuto eclissare una volta e per tutte lo SNES grazie alla capacità superiore del compact disc che poteva offrire ai giocatori dei giochi più grandi e una qualità audio insuperabile. Tuttavia le grosse capacità del Sega CD non furono mai sfruttate veramente al massimo e quello che fu lanciato su Sega CD furono titoli mediocri, punta e clicca da PC (che storicamente non si sono mai adattati veramente bene alle console) e giochi le cui scene in full motion video non finivano mai. Tutto questo, commisto al prezzo addirittura superiore al modello base del Sega Genesis, comportò che il Sega CD vendette solamente 2.24 milioni di unità in tutto il mondo fino al 1996, ma questo fu solo l’inizio per i guai di Sega. Durante questo periodo, la casa nipponica si diede la proverbiale “zappa sui piedi” lanciando il suo ultimo add-on per il Sega Genesis, ovvero il 32X. Questa periferica era solamente un add-on che leggeva delle cartucce più avanzate con grafica a 32 bit e con un processore aggiuntivo; la scelta delle cartucce sembrò essere un passo indietro dopo la spavalda promozione dei CD ma il vero problema fu lanciare il 32X a pochi mesi dal lancio del Sega Saturn, la console Sega per la nuova generazione e già lanciata in Giappone. Persino i fan più sfegatati di Sega decisero che era meglio aspettare la nuova console Sega e lasciare il 32X da parte e così questa periferica, di cui rivenditori dovevano liberarsi per l’arrivo del Saturn, finì per essere svenduta a 20 dollari nel cesto delle offerte; per Sega questo non fu solamente un errore ma anche un vero e proprio motivo di vergogna.

Una console poco convincente

Tuttavia si dice: «anno nuovo vita nuova». Il lancio del Saturn doveva rappresentare un vero e proprio ritorno alla gloria; stessa gloria avuta agli inizi del Sega Genesis e anche al modesto successo del Game Gear, console portatile di Sega lanciata nel 1991 che, fra grossi pregi e qualche difetto (vedi un consumo di batterie molto rapido), offriva ai giocatori una validissima alternativa al Game Boy di Nintendo. Verso la fine del 1994 arrivarono ottime notizie dal Sol Levante: Saturn aveva esaurito le 200.000 unità del lancio al day one, continuando fino a 500.000 unità vendute a Natale per poi arrivare al milione dopo sei mesi; il Sega Mega Drive in Giappone fece solamente 400.000 unità durante solamente il suo primo anno, rimanendo poi in tutta la sua lifespan terza nel mercato 16 bit nipponico (lì, fra Snes e Mega Drive, il PC-Engine di Nec era incredibilmente popolare). Il successo del Saturn era dovuto principalmente alle code interminabili dietro Virtua Fighter nelle arcade, il primo gioco picchiaduro interamente in 3D, e che gettò le basi per altri titoli picchiaduro come Tekken e Dead or Alive. Si potè dire, senza se e senza ma, che in Giappone il lancio fu un vero successo.
Negli Stati Uniti il discorso era ben diverso, in quanto Sega non solo si sarebbe buttata in una competizione infuocata, ma per giunta in un momento di mercato in cui una sua console 32bit era stata lanciata prima del Saturn. Per ottenere un vantaggio sulla neonata Playstation di Sony, Tom Kalinske, dopo la presentazione del Saturn americano durante l’E3 del ’95, lanciò a sorpresa la console annunciando che Saturn era già disponibile nelle catene di Toys “R” us, Babbage’s, Electronic Boutique e Software ETC. Una mossa apparentemente astuta se non fosse stato che, negli Stati Uniti, tante altre catene di distribuzione vendevano i prodotti Sega finendo per escludere le famosissime catene Wallmart e Best Buy; Sega Saturn, pur riscuotendo un buon successo iniziale, risultò dunque difficile da reperire ìm e senza la stessa line-up di titoli giapponesi: negli Stati Uniti arrivarono infatti solamente Virtua Fighter, che con l’uscita di Tekken nelle Arcade perse l’interesse dei giocatori, Daytona USA, che andava abbastanza forte ma che ebbe un port su Saturn visibilmente carente, Pebble Beach Golf Links e Worldwide Soccer: Sega International Victory Goal Edition, due titoli sportivi basati su due sport per nulla giovanili, e infine Clockwork Knight e Panzer Dragoon Saga, unici giochi che avrebbero potuto attrarre il giocatore medio. Nonostante le terribili aspettative, Saturn registrò un iniziale successo, ma i rapporti fra Kalinske e i dirigenti di Sega of Japan non erano più floridi; così Kalinske, l’uomo che portò Sega a ottenere il 65% di market share negli Stati Uniti, lasciò la compagnia in favore di Bernie Stolar. Stolar inizialmente riuscì a ottenere l’esclusività temporale di alcuni titoli ma, non appena questa scadeva, le versioni per Playstation uscivano velocemente e riscuotevano un successo maggiore. Stolar aveva anche notato quale fosse la difficoltà che gli sviluppatori riscontravano quando lavoravano su un qualsiasi titolo: è parere comune dire che il Saturn fosseuna console più tendente al 2D ma, contrariamente a ciò che si può pensare, Sega aveva consegnato una console addirittura più potente della Playstation, con ben 8 processori di cui 2 principali Hitachi da 28.6 MHz che potevano mostrare ben 800.000 poligoni quadrati (a differenza della controparte cui erano triangolari), RAM espandibile fino a 4MB, qualità delle texture e risoluzione video maggiore; tutto ciò veniva però mal utilizzato in quanto molti degli sviluppatori evitavano l’uso del secondo processore principale e dunque ciò generava port azzoppati e una qualità complessivamente inferiore rispetto la controparte Sony; pensate che ancora oggi esistono dibattiti riguardo l’esistenza degli effetti di trasparenza sul Saturn! Ad ogni modo, la console Sega venne piano piano eclissata dalla console Sony, e Saturn, in assenza di una vera killer app, finì per essere messa da parte, persino da Stolar stesso, il quale, all’E3 del 1997, annunciò che il Saturn «non era più il futuro di Sega».
Al di là dei problemi riguardanti lo sviluppo, i problemi di marketing in Occidente erano evidenti in quanto la console era promossa con pubblicità insulse. Non venne inoltre mai consegnato un vero titolo di Sonic che tutti aspettavano, e nulla di ciò che veniva pubblicizzato sembrava attecchire nell’animo dei giocatori; in Giappone, dove la console rimase competitiva e supportata dagli sviluppatori fino al 2000, il marketing era molto curato e le pubblicità della nuova mascotte Segata Sanshiro aiutarono il Saturn a rimanere rilevante durante questo periodo buio; negli Stati Uniti, per evitare il disastro totale, sempre in questo periodo Stolar si assicurò di portare numerosi titoli Sega su PC. In molti diedero la colpa a Bernie Stolar in quanto molti dei giochi del Saturn rimasero esclusive giapponesi (ben l’80% dei giochi non uscirono dalla terra natia) e i fan di oltremare poterono godere di una libreria di titoli non all’altezza della corrispondente nipponica, o furono costretti a comprare i giochi dal Giappone con spese di spedizione da capogiro. La libreria di giochi del Saturn, specialmente quella giapponese, era comunque una libreria veramente varia e giochi come Nights… into Dreams, Guardian Heroes, Shining Force 3, Saturn Bomberman, Panzer Dragoon Saga o Radiant Silvergun hanno oggi ricevuto un cult following senza precedenti. Purtroppo il tutto era aggravato dalla tendenza della grafica 3D e, anche se molti dei giochi 2D del Saturn eranoeccellenti, molti dei titoli rimasti in Giappone non potevano semplicemente competere in un mercato i cui clienti richiedevano principalmente giochi 3D, a differenza del Giappone dove il divario grafico non era così attenzionato. Stolar, per quanto la sua mossa di abbandonare Saturn fu e continua a essere vista oggi da molti come una scelta sbagliata, si sentì costretto ad abbandonare la console per riuscire ad appellarsi a un pubblico più ampio e tenere la compagnia a galla; a quel punto, Sega, le cui finanze non erano nel momento migliore, dovette immediatamente cambiare strategia di mercato e lanciare non solo una nuova console ma rilanciare la propria immagine che nel tempo si era opacizzata, e soprattutto doveva riguadagnare il rispetto che i fan le riservavano ai tempi del Mega Drive.

La luce in fondo al tunnel

All’E3 del 1998 Sega presentò a porte chiuse ciò che venne annunciato come Katana, e i giornalisti e gli sviluppatori invitati alla presentazione dovettero firmare un accordo per non parlare, nei mesi successivi, di ciò che avevano visto in quella stanza. A tempo debito qualcuno scrisse del Dreamcast e i propositi riguardo questa nuova console sembravano eccellenti: grafica mai vista, avanti anni luce rispetto alla Playstation di Sony e al Nintendo 64, e giocabilità senza precedenti. Il design di questa nuova console, di colore bianco e dal controller con 4 tasti frontali e due grilletti dorsali, serviva a tagliare definitivamente col passato e a dichiarare ad alta voce che si era dinanzi a un nuovo inizio. Nel tardo 1998, Dreamcast arrivò in Giappone e, nonostante la sparuta linea dei titoli di lancio, Sega esaurì le scorte in un giorno; negli Stati Uniti invece i fan erano affamati di una nuova console Sega e i preordini del Dreamcast, previsto per il 9 Settembre 1999 per 199.99 dollari (9/9/99 199,99, numeri da far sbizzarrire ogni appassionato di Cabala), superarono addirittura quelli della Playstation al lancio. Dreamcast avrebbe inoltre lanciato il multiplayer online su larga scala, ai tempi esclusivo appannaggio dei giocatori su PC, includendo un modem di 56k attaccato a Dreamcast e una linea di titoli di lancio era più numerosa rispetto a quella giapponese; le premesse per un successo c’erano tutte e il Dreamcast riuscì a ottenere in effetti un inizio spettacolare. Dreamcast ha potuto godere di una delle linee di lancio più belle mai viste nella storia dei videogiochi: i giocatori americani ebbero a loro disposizione titoli come Sonic Adventure, Soul Calibur, Blue Stinger, Ready 2 Rumble Boxing e più in là avrebbero visto alcuni dei più bei giochi di sempre in una console come Jet Set Radio, Resident Evil: Code Veronica, Phantasy Star Online, Shenmue e tantissimi altri. Sega non aveva più l’accordo d’esclusiva con EA per i giochi di sport come durante i primi anni del Saturn, poiché Sega non riuscì a soddisfare le vendite previste per i loro titoli; Dreamcast, tramite il publisher in house Sega Sport, diede il via alla famosa linea di giochi 2K insieme alla Visual Concepts, linea che ancora vive tuttoggi sotto le licenze NHL, NFL, NBA e persino WWE; questi titoli, dal gameplay semplice e accessibile, fecero avvicinare in anche molti casual gamer e Dreamcast, specialmente all’inizio, ebbe un ottimo impatto sia sui giocatori hardcore sia sui casual. Tuttavia, dopo un lancio che sembrava rischiarire il futuro di Sega, Dreamcast si trovò di fronte a tre principali problemi: un marketing ancora non all’altezza, la pirateria e l’imminente lancio di Playstation 2. Dopo il lancio di Dreamcast, le pubblicità in televisione di Sega, sia in America che in Europa, erano pochissime e poco frequenti, e il grosso pubblico rimase in gran parte inconsapevole dell’uscita di questa meravigliosa console; insieme a pochissimi casi isolati, l’unico grande investimento pubblicitario di Sega, specialmente in Europa, fu il concedere lo sponsor a una squadra calcistiche di Serie A, la Sampdoria, una della Premier League, l’Arsenal, una di Liga, il Deportivo de La Coruna, e una della francese Ligue 1, AS Saint-Étienne. Sega si trovò inoltre impreparata di fronte alle copie dei giochi pirata che cominciavano a imperversare dappertutto: essenzialmente, a differenza del Saturn che aveva un sistema di protezione reale, il Dreamcast si cullava esclusivamente sul media esclusivo della console, ovvero il GD, che a differenza del CD poteva contenere 1GB di memoria. Il media era sì introvabile nei negozi a differenza dei CD ma, con l’avanzare della tecnologia dei masterizzatori, le immagini da 1GB dei dischi Dreamcast potevano essere compresse in un normale CD in overburn (ovvero “stringendo” il più possibile la scrittura del disco e far sì che l’immagine entrasse tutta in un disco di 700MB) e Dreamcast era in grado di leggere questi dischi senza nemmeno l’ausilio di un boot disc. In pratica, se si aveva un computer con un buon masterizzatore e anche una buona connessione per scaricare le immagini dei dischi si poteva accedere all’intera libreria del Dreamcast con il minimo sforzo e in maniera del tutto gratuita, senza contare che molti dei pirati aprivano vere e proprie attività in nero basate sulla vendita dei dischi copiati e backup. Dunque, non solo a Sega non arrivavano introiti dalle vendite sia hardware, per la povera pubblicità, che software, per via della pirateria, ma le cose per Dreamcast stavano per mettersi malissimo: nel 1999 Sony annunciò la nuova Playstation 2, console che non solo era tecnicamente superiore a Dreamcast, ma che utilizzava un media ben superiore al GD, ovvero il DVD che di lì a poco avrebbe gettato le basi persino per il mercato home-video. Dreamcast si trovò in pochissimo tempo ad avere i giorni contati e l’unica cosa che Sega poteva sperare era che i fan supportassero la loro console inferiore di fronte al mostro Sony, cosa che in fondo era successa col Mega Drive per il Super Nintendo; il supporto dei fan c’era, ma non era tale da supportare la console di fronte a un mercato ormai del tutto diverso. Inoltre lanciare un add-on per i DVD, come alcuni oggi ribadiscono, sarebbe semplicemente stato ridicolo dopo quanto successo con Sega CD e 32X, dunque una periferica esterna costruita per salvare il Dreamcast era fuori discussione.

Sega si ritirò dal mercato hardware nel 2001 ma i giochi in Nord America e Europa continuarono a uscire ufficialmente fino al 2002, e in Giappone addirittura fino al 2007. In realtà l’avventura di Dreamcast si può ancora dire non conclusa: infatti diversi sviluppatori, come i tedeschi NG.DEV.TEAM, continuano tuttora a rilasciare giochi per l’ormai defunta Dreamcast; l’ultimo titolo per Dreamcast (anche se non ufficiale) è a oggi NEO XYX, uscito nel 2014. Su Dreamcast Sega puntò tutto quello che aveva, sperando fosse la console che avrebbe portato la casa nipponica in auge ancora una volta: nonostante tutti i buoni propositi e un lancio strepitoso, la console divenne il canto del cigno ma Dreamcast è a oggi ricordata come una delle console più belle mai realizzate.     

Il nuovo volto di Sega

Finita dunque l’avventura nel mercato hardware, Sega pose la sua nuova identità come publisher. Inizialmente l’idea era quella di proporre a Microsoft – visto che era stata realizzata la versione per Dreamcast di Windows CE per navigare in internet – di rendere compatibile la loro macchina d’imminente uscita, la Xbox, con i giochi del Sega Dreamcast ma l’idea fu scartata; tuttavia Microsoft annunciò al Tokio Game Show del 2001 un accordo che vedeva ben 11 esclusive Sega per la nuova console Microsoft quali Panzer Dragoon Orta, Jet Set Radio Future, Sega GT, Shenmue II (che negli Stati Uniti non arrivò ai tempi del Dreamcast) e molti altri. Sega strinse inoltre ottimi rapporti con Nintendo, assicurando più in là alcune esclusive per Gamecube e l’unione con quest’ultima e Namco per la creazione del sistema arcade Triforce che diede i natali a F-Zero AX, Mario Kart Arcade GP e Mario Kart Arcade GP 2. La grande S a oggi non vuole solamente essere l’ombra di ciò che era un tempo: infatti, anche dopo la fine di Dreamcast, Sega si è messa all’opera per la creazione di tante nuove IP come Yakuza, Super Monkey Ball, Vanquish, Valkyria Chronicles, o come publisher per giochi come Hell Yeah! Wrath of the Dead Rabbit, Football Manager e molte altre. A oggi Sega è in perfetta salute finanziaria e un ritorno al mercato hardware, vagheggiato da molti nostalgici, rappresenterebbe una follia; l’unica parentesi che Sega ha avuto nel mercato hardware dopo Dreamcast (e questa è una vera chicca per gli appassionati più estremi) è stato il Sega Vision, un lettore multimediale di 2GB in grado di leggere MP3, MP4, filmati AVI, immagini e persino e-book, ma bisogna essere veramente fortunati ad aggiudicarsi una di queste macchine perché, andando in Giappone, si potranno trovare queste unità all’interno di quelle odiosissime macchine della pesca fortunata (quelle con l’artiglio metallico)… e sempre se nel 2018 saranno ancora al loro interno! Inoltre, anche se questo non riguarda Sega direttamente, la AT Games produce ancora un sacco di prodotti relativi al Mega Drive e Master System, come il recente Sega Genesis Flashback che offre sia 85 giochi al suo interno che uno slot per le cartucce originali; il tutto con un superbo up-scaling in HD. L’inarrestabile popolarità di Sonic e l’uscita di titoli come Sonic Mania e i giochi della serie Sega Forever stanno a testimoniare l’impatto che Sega ha avuto nel mercato mondiale e che i giocatori di tutto il mondo non hanno mai dimenticato il gigante Sega neanche per un secondo.




Top 5: I migliori videogame dedicati a Dragon Ball

Tra Super e FighterZ, il mondo di Dragon Ball è ritornato di moda. Oltre a manga e serie animate di successo, numerose sono le trasposizioni videoludiche della saga, sin dai tempi del Nintendo NES. Tanto tempo è passato da allora e tanti sono i titoli apparsi su altrettante console. Vediamo dunque quali sono i migliori cinque videogame dedicati alle storie create da Akira Toriyama.

#5 Dragon Ball Z: Burst Limit (2008)

Uno dei titoli più sottovalutati dell’intero franchise, Burst Limit segna il debutto di Dragon Ball nelle console della precedente generazione. Nonostante un roster risicato,  il gioco è riuscito a conquistare una nicchia di pubblico per via delle sue meccaniche di combattimento che purtroppo furono abbandonate con i successivi – e deludenti – Raging Blast. Il titolo fa della teatralità il suo punto di forza, vantando ottime sequenze cinematiche e soprattutto una delle migliori colonne sonore mai apparse in un videogioco della saga.

#4 Dragon Ball Xenoverse 2 (2016)

Tutti abbiamo sognato di far parte delle vicende raccontate in Dragon Ball, magari combattendo al fianco di Goku e Vegeta per salvare il pianeta Terra. Xenoverse riesce a realizzare questo piccolo sogno, permettendo la creazione e la personalizzazione del proprio alter ego come un vero RPG. La scelta intelligente di rendere la narrazione qualcosa di nuovo è un vero colpo da maestro ma purtroppo questo titolo pecca, la maggior parte delle volte, nel restituire le vere emozioni scaturite dal far parte della cerchia dei Guerrieri Z.

#3 Dragon Ball FighterZ (2018)

Ultimo arrivo in casa Bandai, FighterZ ha già conquistato i cuori degli appassionati, portando la migliore esperienza visiva di Dragon Ball fino a ora. Ogni moveset è stato riprodotto alla perfezione e i numerosi easter egg nonché l’approfondimento di alcuni personaggi portano questo titolo a essere una piccola pietra miliare per gli amanti di Goku e Co. Ma oltre alla componente tecnica c’è di più: un combat system accessibile ma stratificato e la ricercatezza della perfezione da parte degli utenti più smaliziati sono un bel biglietto da visita da presentare anche a chi non è amante della saga.

#2 Dragon Ball Z: Budokai Tenkaichi 3

Con oltre 160 personaggi giocabili, Budokai Tenkaichi 3 è essenzialmente il videogioco più vasto dedicato al franchise. Il roster è appunto il primo elemento di forza del titolo, spaziando dalla saga originaria fino alla serie GT, ricoprendo anche gli amati/odiati OAV. Anche le modalità di gioco sono innumerevoli e il combat system è quanto di più bilanciato si sia visto in un picchiaduro della serie. Non arriva al gradino più alto del podio solo per la scelta di riassumere in modo eccessivo la modalità “Storia“, punto focale per ogni fan delle Sfere del Drago.

#1 Dragon Ball Z: Budokai 3 (2004)

Chiedete a qualunque fan di Dragon Ball quale sia il suo gioco preferito: salvo qualche opinione eccentrica, la risposta sarà indubbiamente Budokai 3, capace di portare l’esperienza della saga di Akira Toriyama ai massimi livelli. L’utilizzo delle Capsule ha permesso al gioco di evolversi, espandendosi e migliorarsi, aggiungendo statistiche ai personaggi, arene e modalità. Ma è la passione degli sviluppatori che trasuda da ogni pixel la vera gioia del titolo, con elementi riprodotti alla perfezione come la caratterizzazione del roster fino alle fantastiche fusioni che rappresentano un godimento per ogni giocatore.




Come scegliere un monitor da gaming o da lavoro

La scorsa volta abbiamo parlato di come funzionano i monitor e come sceglierli per l’uso standard. Questa settimana invece parleremo nello specifico di come scegliere i monitor in base all’utilizzo, gaming o lavoro.
Tratteremo molti aspetti presenti in un monitor da gaming. Decidere cosa è meglio, soprattutto quando il budget è basso non è facile, essendoci molte possibili scelte che possono destare confusione e un marketing ancora poco preciso per chi vuole comprare un monitor. Quindi qui presenteremo la nostra opinione su ciò che un appassionato di videogiochi dovrebbe prendere in considerazione, che non sono regole assolute ma, alcuni fattori possono dipendere dal livello di abilità dei giocatori.

Risoluzione

Quando si tratta di videogame, la maggior parte dei giocatori ritiene che più pixel ci siano più tutto risulterà migliore, ma questo è vero fino a un certo punto. Sì, è importante avere una densità di pixel sufficiente a rendere le immagini uniformi e realistiche, ma ovviamente più pixel si hanno, più potenza grafica servirà. Se si vuole la massima risoluzione disponibile sul desktop, esistono alcune limitazioni che bisogna accettare: il più grande di questi è la frequenza di aggiornamento dove le attuali interfacce video non supportano velocità superiori a 60Hz per i segnali UHD (4096×2160) e, anche se lo facessero, bisogna avere una scheda video potente per muovere realmente 8,2 milioni di pixel oltre i 60fps. Per esempio NVIDIA GTX Titan X riesce a malapena a gestire tutto ciò se si abbassano i livelli di dettaglio. L’attuale punto debole sembra essere la risoluzione QHD (2160×1440) in cui, nelle dimensioni fino a 32 pollici si avrà una buona densità e un’immagine dettagliata ma non troppo difficile da gestire per le schede video di fascia media. Naturalmente se si desidera la massima velocità, il FHD (1920×1080) fornirà i framerate più alti. Prima di fare un acquisto bisogna quindi valutare il proprio hardware.

Tecnologia del pannello

Come abbiamo detto i pannelli con tecnologia TN sono veloci e offrono una buona precisione e contrasto dei colori. Sono relativamente economici e i monitor FreeSync da 24 pollici con risoluzione FullHD sono in vendita anche a meno di 200 euro. Ma, visto le informazioni elaborate sulla qualità dell’immagine, e i desideri degli utenti per schermi da 27 pollici o più grandi, probabilmente si sarà più soddisfatti con l’immagine fornita da un display IPS o VA. Lo svantaggio è il loro costo più alto: i monitor da gioco IPS sono concentrati nella fascia più alta della scala mentre VA, con il suo contrasto leader di classe, è difficile da trovare a qualsiasi prezzo.

Adaptive Refresh

Il G-Sync, apparso per la prima volta quattro anni fa, è stata davvero una rivoluzione nell’elaborazione video. Dal momento che i giochi rendono il loro contenuto a un framerate costantemente variabile, è diventato necessario creare un monitor che potesse variare il suo ciclo di aggiornamento al passo con l’output della scheda video. G-Sync ha abilitato questa funzione per le schede basate su Nvidia pagando qualcosa in più rispetto ai normali monitor mentre, il concorrente AMD FreeSync ha un approccio diverso: semplicemente, aggiungendo nuove funzioni alle specifiche DisplayPort esistenti, un monitor può avere un aggiornamento adattativo senza sacrificare performance. Entrambe le tecnologie sincronizzano il framerate della scheda video con il monitor per evitare il fastidioso problema di bande sullo schermo; l’artefatto si verifica quando i frame non corrispondono: il computer invia un nuovo frame prima che il monitor abbia finito di disegnare il precedente e, assegnando il controllo della frequenza di aggiornamento alla scheda grafica, questo artefatto viene eliminato. Quando si sceglie tra i due, l’ovvia considerazione è su quale hardware si ha già investito: se si è possessori di una GTX 1080Ti, la scelta è chiara. Se si è indecisi su quale tecnologia adottare, tuttavia, ecco alcuni dettagli che potrebbero aiutare. Entrambi hanno un range operativo limitato: i monitor G-Sync funzionano sempre da 30Hz fino al massimo consentito dal monitor. I display di FreeSync non sono così coerenti e in genere supportano il refresh adattivo fino al massimo, ma è il limite inferiore che si deve prendere in considerazione. Questo può essere un problema se la scheda video non è in grado di mantenere i framerate sopra quel livello. Il Low Framerate Compensation (LFC), è una soluzione valida, ma funzionerà solo se il refresh massimo è almeno più del doppio rispetto al minimo. Per esempio, se il massimo è 100Hz, il minimo deve essere 40. Se l’intervallo è troppo piccolo, LFC non entra in gioco. Quindi se il proprio budget indica una scheda video da metà a bassa velocità, è preferibile scegliere il G-Sync con ovviamente una scheda Nvidia mentre, in caso di display FreeSync si sceglie AMD.

Refresh Rate

Quando sono usciti i primi display dedicati ai videogiochi, una caratteristica fondamentale era la loro capacità di funzionare a 144 Hz. Questa era una risposta alle prestazioni sempre più elevate offerte dalle schede video veloci. Ovviamente se si ha una scheda video che potrebbe far girare un gioco a 100 fps, è opportuno che anche il monitor sia abbastanza veloce. Un 60Hz semplicemente non basterà più. Oggi esistono schermi che girano a 144Hz, 200 HZ e addirittura 240 Hz. Quindi la domanda è una: è così importante la velocità di aggiornamento? La risposta ovviamente è si. Comprare un display con una frequenza alta, a lungo termine eviterà la necessità di cambiare  il monitor in poco tempo. Per coloro che spendono meno, tuttavia, 144 e persino 120 Hz sono molto veloci e consigliati. Nella maggior parte dei casi si ottiene un ritardo di input sufficientemente basso, un movimento fluido e un elevato carico di prestazioni per la maggior parte dei titoli in commercio.

Motion Blur Reduction e Overdrive

La riduzione della sfocatura e l’overdrive sono due caratteristiche che si trovano in molti schermi da gaming. In effetti l’overdrive è praticamente presente su tutti i monitor indipendentemente dal tipo e funziona, consentendo una certa quantità di overshoot durante le transizioni di luminosità. L’obiettivo di progettazione è che i singoli pixel anticipino la tensione richiesta per un particolare livello di luminosità. Se eseguito correttamente, il pixel raggiunge rapidamente quel livello, per poi cambiare nel fotogramma successivo prima che la tensione diventi troppo alta. Quando si verifica un overshoot, appare come un artefatto chiamato ghosting: Possiamo vederlo usando il test UFO di BlurBusters che si può trovare qui. È semplice da interpretare: bisogna guardare l’UFO mentre si cambiano  diverse opzioni OD. Quando è visibile una scia bianca dietro il “piattino”, si è andati troppo lontano. Nel contenuto reale, l’artefatto appare in transizioni ad alto contrasto come quelle tra oggetti scuri e chiari. Le implementazioni dell’overdrive differiscono notevolmente tra i monitor.

Come scegliere un monitor da lavoro

Gli utenti professionali hanno alcune esigenze speciali che devono essere considerate. Stiamo parlando di fotografi, tipografi, web designer, artisti di effetti speciali, game designer o chiunque abbia bisogno di un controllo preciso del colore lungo tutta la loro catena di produzione. Solo pochi monitor sono effettivamente certificati dai loro produttori ma se si vuole un display che sia preciso e pronto all’uso, è il modo migliore per garantire la qualità. Siamo d’accordo con i nostri lettori sul fatto che i monitor professionali dovrebbero essere pronti per il lavoro senza necessità di regolazioni, ma crediamo anche che un monitor professionale dovrebbe avere la flessibilità e la capacità di essere regolato in modo preciso. Ci sono due modi per farlo: l’OSD e il software. La maggior parte dei schermi ha un OSD, più o meno completo. Esistono OSD di grandi dimensioni dotati di cursori RGB per le scale di grigio, preimpostazioni del gamma e un sistema di gestione del colore. A volte i produttori si affidano a software che consentono all’utente di creare modalità personalizzate. Qualunque sia il metodo che si preferisce, è importante che un display professionale includa opzioni per diverse gamma di colori, temperature di colore e curve di gamma. Dovrebbero essere  presenti gli standard sRGB e Adobe RGB, le temperature di colore che vanno da 5000 a 7500K e le preimpostazioni di gamma da 1,8 a 2,4. I monitor utilizzati per la produzione televisiva o cinematografica dovrebbero anche supportare lo standard gamma BT.1886. Tutte le impostazioni dovrebbero essere identiche alle loro etichette e l’OSD dovrebbe avere regolazioni sufficienti per raggiungere la precisione.

Profondità di bit

Nella maggior parte dei casi, un pannello a 8 bit non sarà adatto per il lavoro di grafica professionale. Gli utenti solitamente richiedono almeno 10 bit, o preferibilmente 12. Questo è abbastanza comune tra i display professionali, ma è importante che gli utenti considerino l’intera catena del segnale quando superano gli 8 bit. In sostanza più bit si hanno più i colori risulteranno fedeli però, ovviamente, per usare un monitor del genere serve una scheda video che supporti oltre gli 8 bit; in caso contrario il monitor inserirà le informazioni aggiuntive, ma solo per interpolazione. Proprio come con il ridimensionamento dei pixel infatti, un display non può aggiungere informazioni che non sono presenti in primo luogo, può solo approssimarsi. La maggior parte delle schede video di fascia consumer sono limitate all’uscita a 8 bit in questo momento. Alcuni esempi premium possono inviare informazioni a 10 e 12 bit sul display, ma la soluzione migliore per un professionista è utilizzare qualcosa basato sui processori Nvidia Quadro o AMD FirePro.

Compensazione di uniformità

Alcuni display incorporano una compensazione di uniformità nel loro elenco di funzionalità. Questo ha lo scopo di eliminare le aree luminose o scure dallo schermo e bilanciare la luminosità in ogni zona. Alcuni produttori, NEC in particolare, hanno fatto di tutto per risolvere il problema, creando una tabella di ricerca per ogni singolo monitor che esce dalla catena di montaggio. Non si può semplicemente applicare le stesse correzioni a ogni pannello. L’unico modo per eliminare un hotspot in un campo nero è aumentare la luminosità delle altre zone a quel livello. Questo ha l’ovvio effetto di aumentare i livelli di nero e ridurre il contrasto: all’estremità luminosa della scala, i punti deboli vengono compensati abbassando l’uscita nelle zone rimanenti, riducendo anche il contrasto. La compensazione dell’uniformità non è molto utile perché i suoi benefici sono ampiamente superati dalla riduzione dell’output e del contrasto che ne risulta. Quindi, in sintesi, gli utenti che acquistano uno schermo di livello professionale dovrebbero cercare entrambe le opzioni di gamma di colori sRGB e Adobe RGB, una calibrazione certificata dalla fabbrica, un OSD completo con regolazioni precise e un pannello con profondità di colore nativa a 10 o 12 bit.

 

Conclusione

Ecco perché è così importante decidere l’uso che si farà con il proprio PC prima di comprare un monitor. Se sei un giocatore o stai mettendo insieme un sistema a livello professionale, il lavoro è praticamente finito. Tutti i principali mercati dei produttori si focalizzano principalmente per questi due scopi, gaming e lavoro e, grazie alle richieste degli utenti e alla copertura completa nei media, se una società afferma che il proprio monitor è appropriato per giocare o per lavorare, è davvero così. Sono finiti i giorni in cui un monitor poteva semplicemente essere stilizzato in un certo modo e chiamato da “gaming”. Deve essere supportato con funzionalità come l’aggiornamento adattivo e la risposta rapida del pannello. Il mercato così non sarà ingannevole per chi si avvicina per la prima volta in questo mondo. Lo stesso vale per gli ambienti professionali: dati i prezzi elevati che definiscono il genere, elementi come l’ampia gamma e la calibrazione di fabbrica sono obbligatorie se un produttore deve essere preso sul serio.




Come funzionano i monitor e quali scegliere

Sin dagli albori dei personal computer, il monitor è stata l’interfaccia principale tra la macchina e l’utente. Sebbene tastiera e mouse siano l’interfaccia fisica principale, lo schermo influisce direttamente sulla facilità con cui svolgere le proprie attività, sia che si tratti di lavoro o di gaming. I primi schermi utilizzavano un tubo a raggi catodici per visualizzare un’immagine e, fino all’avvento dei sistemi operativi grafici, questa si presentava come semplice testo. Grazie al set di caratteri ASCII esteso, le immagini di base potevano essere create sullo schermo ma elementi come pixel e profondità di colore erano ancora troppo lontane.

La tecnologia in uso non era molto diversa dalle televisioni di oggi: da uno a tre “cannoni” elettronici sparano particelle su una superficie rivestita in fosforo, all’interno della grande estremità del tubo. Il fosforo brillando, forma un’immagine composta da linee orizzontali e la porzione di ciascuna linea illuminata può essere lunga o corta, in base all’immagine. I primi esempi erano monocromatici, solitamente verdi, ma più tardi, quando l’hardware usato per la produzione scese di prezzo, furono inseriti tre cannoni, uno per ciascun colore principale (Rosso, Verde e Blu), impiegati per creare i primi monitor a colori. Alla fine della loro vita utile, i monitor CRT avevano raggiunto risoluzioni verticali di oltre 1000 linee e potevano mostrare una grafica completa, non più limitati al solo testo. Ma man mano che le dimensioni dello schermo aumentarono, aumentarono anche profondità e il peso, raggiungendo ben presto una massa critica. Ed è per questo che nacquero i monitor a cristalli liquidi (LCD).

Secondo gli standard odierni, i vecchi schermi LCD non sembrano molto più moderni dei CRT, ma hanno un attributo importante: sono molto meno profondi di qualsiasi monitor a valvole. Oggi i monitor per computer utilizzano principalmente le proporzioni 16: 9 (alcuni anche a 16:10), ma l’elemento principale che distingue un modello dall’altra è la risoluzione: l’immagine su un pannello LCD è composta da milioni di piccoli punti con ogni pixel costituito da tre sub-pixel, uno per ciascun colore primario, rosso, verde e blu. Ovviamente più pixel si possono racchiudere in ogni pollice quadrato, più l’immagine sarà realistica e perfetta. Ma bisogna considerare due fattori che possono rendere meno adatto un display ad alta densità di pixel per un particolare sistema: il primo è la performance della scheda grafica poiché, più pixel si hanno sullo schermo, più potenza di elaborazione serve dalla scheda video per spostarli in modo tempestivo. Ultra HD e 5K sono in grado di ottenere immagini straordinarie, ma se il sistema non è in grado di generare 14,7 milioni di pixel, l’esperienza complessiva ne risentirà e quella risoluzione aggiuntiva sarà un ostacolo. Il secondo fattore riguarda le funzionalità di ridimensionamento dei caratteri del sistema operativo che si intende utilizzare. Sono stati apportati miglioramenti, ma Windows è ancora utilizzato al meglio con una densità di pixel di 90-100ppi; a valori più alti, oggetti e testo diventano estremamente piccoli e potenzialmente impossibili da leggere. Il ridimensionamento varia in termini di qualità e non sempre è una soluzione infallibile quando il testo diventa troppo piccolo. Prima di approfondire le singole considerazioni dietro la selezione di un monitor, c’è una cosa che non possiamo sottolineare abbastanza. Prima di iniziare la ricerca del monitor perfetto, è fondamentale sapere in che ambito utilizzare il monitor: non c’è display che sia il migliore in tutti gli aspetti.
Nelle sezioni seguenti parleremo delle varianti di monitor in commercio e il loro funzionamento mentre, successivamente, arriveranno le guide su come scegliere un monitor da gaming o professionale. Diamo una rapida occhiata alle principali tecnologie dei pannelli e in che modo influiscono sulla qualità dell’immagine.

Tecnologie dei pannelli

Esistono tre principali tecnologie utilizzate in tutti i pannelli LCD prodotti oggi: In-Plane Switching (IPS), Twisted Nematic (TN) e Vertical Alignment (VA). Ognuno ha diverse varianti associate che offrono diversi vantaggi come angoli di visione migliori, risposta del pannello più veloce, minore consumo di energia e simili. Una rapida ricerca su Internet farà apparire dozzine di articoli sulla complessità di ciascuna tecnologia, quindi non approfondiremo troppo la questione; quello che preferiamo fare è parlare di come ciascun tipo influisce sulla qualità dell’immagine e su cosa ci si può aspettare se ne si sceglie uno in particolare.

Twisted Nematic (TN)

I primi pannelli LCD apparsi sono stati della varietà TN. Questo è un pannello nella sua forma più semplice: uno strato di cristalli liquidi è inserito tra due substrati; i cristalli sono attorcigliati per bloccare o emmettere la luce. Ogni sub-pixel è controllato da un singolo transistor la cui tensione determina la quantità di luce che attraversa. Il problema più grande con i pannelli TN è la loro scarsa qualità delle immagini fuori asse e poiché la luce proveniente da qualsiasi LCD è polarizzata, la luminosità massima si verifica solo quando è visualizzata al centro. Questo perché l’utente è seduto con gli occhi puntati dritti al centro dello schermo e quello schermo è perfettamente perpendicolare alla linea di vista. Inoltre, i cristalli sono disposti perpendicolarmente ai substrati che aumentano la distanza dalla retroilluminazione allo strato anteriore, accentuando il problema dell’angolo di visualizzazione. Il TN ha un grande svantaggio rispetto ad altri tipi di pannelli, ma ciò nonostante è molto veloce: con un solo transistor per sub-pixel e una profondità di colore di 6 o 8 bit, i moderni pannelli TN possono avere un tempo di risposta di un millisecondo (1ms) quando le frequenze di aggiornamento sono sufficientemente elevate. Questo li rende ideali per il gaming in cui la velocità è più importante di altre metriche di imaging. Velocità elevata non solo nella capacità del pannello di disegnare rapidamente una cornice, ma anche nell’area del ritardo di input. Il basso costo di elaborazione del TN di solito significa una risposta più rapida all’input dell’utente, un altro fattore importante per i giocatori. Quindi, cosa rende il TN diverso da altri tipi di pannelli? Si possono vedere chiaramente le differenze tra TN e IPS in una foto fuori asse di un modello di prova. Ma nell’uso reale, che si tratti di gaming o produttività, il TN non rappresenta un enorme calo della qualità dell’immagine. Un buon pannello IPS o TN ha un intervallo dinamico nativo di circa 1000: 1.

In-Plane Switching (IPS)

Dopo aver stabilito gli angoli di visione come la principale debolezza del TN, questo ci porta alla soluzione: IPS. Rappresenta una svolta significativa nell’area della qualità dell’immagine fuori asse. I principali obiettivi di progettazione IPS erano il minor consumo energetico, la capacità di creare schermi più grandi e una migliore riproduzione dei colori. Grazie a uno strato di TFT più vicino alla superficie esterna e un polarizzatore a griglia più sottile, l’immagine su un pannello IPS non si deteriora quando l’utente sposta la visuale sullo schermo e la percezione dell’uniformità da bordo a bordo è molto più grande. Aiuta anche che, i cristalli sono paralleli ai substrati piuttosto che perpendicolari come nel TN. Di conseguenza, il percorso è molto più breve tra la retroilluminazione e il livello anteriore dello schermo. Poiché la luce è polarizzata meno severamente, non cambia tanto quando l’osservatore si sposta fuori asse. Questo contribuisce a ridurre il consumo di energia dal momento che la retroilluminazione non ha bisogno di tanta potenza per raggiungere un determinato livello di luminosità. Ciò significa che la qualità complessiva dell’immagine è che lo schermo appare molto più uniforme, specialmente per taglie oltre i 27 pollici. Non è altrettanto importante posizionare il display esattamente sulla scrivania per vedere la migliore immagine possibile e, per quelli con configurazioni multischermo, le opzioni di posizionamento sono molto più flessibili.

Vertical Alignment (VA)

Tralasciando i problemi dell’angolo di visualizzazione, anche gli LCD soffrono di scarso contrasto. Le tecnologie auto-emettenti come CRT, plasma e OLED hanno un enorme vantaggio in questo senso. Tuttavia, con la tecnologia CRT, i livelli di nero sono regolati dal modo in cui le valvole possono bloccare la retroilluminazione, sempre attiva. Il VA cerca di migliorare questa debolezza: un pannello TN o IPS dalle buone prestazioni mostreranno un contrasto nativo di circa 1000: 1; Ciò significa che il livello di bianco massimo è 1000 volte maggiore del livello di nero più basso (A 200cd / m2 si vedrà un livello di nero di .2cd / m2). Quanto è nero esattamente? Beh, in una stanza scarsamente illuminata, sembrerebbe un grigio molto scuro ma non completamente nero. In confronto, una TV al plasma rendebbe il livello del nero di .007cd / m2 e un display OLED dei giorni nostri sarà ancora più basso. Quindi cosa cambia con il VA?  Riteniamo fortemente che il contrasto sia il fattore più importante per la qualità e la fedeltà delle immagini,  quindi più è, meglio è. 5000: 1 è migliore di 1000: 1. Sfortunatamente, il VA è in minoranza tra i monitor sul mercato con l’IPS leader del mercato in questo momento ma, molti monitor da gaming, utilizzano ancora i pannelli TN per il loro basso costo e alta velocità. Ma non importa quale sia l’uso, pensiamo che il VA abbia la migliore qualità d’immagine dei tre tipi principali. Ha uno svantaggio? Sì: ha un angolo di visione discreto che lo posiziona tra TN e IPS. Va abbastanza bene per supportare schermi di grandi dimensioni, ma non è in grado di competere con i migliori monitor IPS.
Quindi qual è il migliore? La risposta è tutte e tre. Se si vuole un monitor veloce con minima sfocatura di movimento, basso lag di input e un prezzo basso, è preferibile il TN. Se invece si desidera un’immagine uniforme con buoni angoli di visualizzazione e colori precisi, va bene l’IPS. Infine, se si vuole il massimo contrasto e profondità dell’immagine, per un vero aspetto 3D, il VA.

Come scegliere un monitor standard

Ci sono utenti che non desiderano comprare un monitor specializzato per il gaming o per il lavoro, per via di tecnologie o funzioni varie che non verranno utilizzate oppure perché cercano un monitor equilibrato e che funzioni bene per ogni tipo di elaborazione, intrattenimento o produttività. Per uso generale pensiamo che l’angolo di visione più ampio sia essenziale, ma con un avvertimento. È vero che IPS e la sua variante AHVA (Advanced Hyper-Viewing Angle) offrono la migliore immagine fuori asse, ma ci ritroviamo catturati (forse anche sedotti) dal profondo contrasto dei monitor VA. Abbiamo sempre posizionato il contrasto come prima misura della qualità dell’immagine con saturazione del colore, accuratezza e risoluzione, infatti, quando un display ha una vasta gamma dinamica, l’immagine risulta più realistica e più simile al 3D. I pannelli VA offrono da tre a cinque volte il contrasto degli schermi IPS o TN e questa differenza non è insignificante: se posizionassimo monitor VA e IPS uno accanto all’altro con livelli di luminosità e standard di calibrazione corrispondenti, la schermata VA vincerà facilmente un confronto tra due diversi tipi di dati. Quindi è chiaro che preferiamo VA come tecnologia adibita a un uso generale, ma per quanto riguarda i set di funzionalità? Il numero di funzionalità extra che vengono lanciati nei monitor di oggi è quasi vertiginoso e con ciascuna azienda che utilizza una terminologia diversa può diventare difficile confrontare i prodotti. Ecco alcune delle principali opzioni che bisogna cercare.

Flicker-Free

Quando i LED hanno iniziato a sostituire il tubo a raggi catodici come fonte primaria di retroilluminazione, si è verificato un fenomeno interessante: un numero limitato di utenti ha notato uno sfarfallio (Flicker-Free) a qualsiasi livello di retroilluminazione al di sotto del massimo. Questo artefatto è causato da qualcosa chiamata modulazione della larghezza dell’impulso che, in parole povere, avviene quando una retroilluminazione PWM viene ridotta in luminosità, ricorrendo a pulsazioni più volte al secondo per simulare una luminosità inferiore. Non può essere attenuato semplicemente abbassando la tensione come succede con una lampada a incandescenza. La larghezza dell’impulso è ciò che determina la luminosità effettiva, più breve è l’impulso, minore è l’uscita. I produttori combattono lo sfarfallio in diversi modi: uno è quello di aumentare il numero di cicli al secondo. Alcune retroilluminazioni PWM funzionano a velocità fino a 20 mHz; questo metodo riduce gli effetti dello sfarfallio per la maggior parte degli utenti. Un approccio ancora migliore è tuttavia la retroilluminazione a corrente costante: questo è un array di LED che può essere strozzato come una luce a incandescenza, semplicemente variando la tensione. Molti monitor venduti oggi sono privi di sfarfallio e utilizzano retroilluminazione a LED a corrente costante. Questi prodotti non sfarfalleranno a nessun livello di luminosità e anche quelli più sensibili all’artefatto non lo percepiranno. Ma anche se non si vedrà, può comunque causare affaticamento in caso di esposizione prolungata. Quando si trascorrono otto o più ore davanti a un computer senza sfarfallio, si può fare lavorare più semplicemente. Sempre più schermi utilizzano oggi la retroilluminazione a corrente costante e si consiglia di posizionare quella caratteristica in alto nell’elenco delle priorità.

Low-Blue Light

Questa è un’altra caratteristica che è apparsa relativamente di recente e che ora è di serie su molti display. Il termine è letterale: di solito assume la forma di uno slider o una serie di preset che riducono progressivamente la luminosità del blu nell’immagine. È possibile produrre lo stesso effetto abbassando il cursore del blu in una regolazione del bilanciamento del bianco dando come risultato un’immagine più calda e che può anche ridurre l’affaticamento quando si fissa il testo nero su uno schermo bianco tutto il giorno. La funzione può rendere meno faticosa la visualizzazione dell’immagine di un computer, ma anche una calibrazione accurata. Quando il punto di bianco di uno schermo è correttamente impostato su 6500K a tutti i livelli di luminosità, è altrettanto facile per gli occhi visualizzare le immagini senza stancarsi. Poiché la riduzione della luminosità del blu influisce su tutti gli altri colori, è possibile che appaiano degli aspetti non naturali a grafica e foto. È particolarmente distraente nei giochi e nei video e, in questi casi, è meglio impostare il monitor in modo che corrisponda al colore con cui è stato creato il contenuto. Quindi non dovremmo necessariamente gravitare verso un prodotto che offre una luce blu bassa.

Modalità dell’immagine

La maggior parte dei monitor per computer include più modalità di immagine che corrispondono a compiti comuni come lettura, foto, film, giochi e simili. Abbiamo misurato molti di questi durante le recensioni e sembra che, a meno che un preset non sia chiamato qualcosa come Standard o sRGB, non è completamente conforme a Rec.709, lo standard utilizzato nella maggior parte dei contenuti visti oggi. In molti casi, un monitor viene fornito di fabbrica con una modalità d’immagine più precisa possibile e richiede una regolazione minima o nulla per ottenere una gamma di colori sRGB, 6500K e 2,2 gamma. Mentre alcuni utenti potrebbero preferire l’aspetto di altre modalità immagine, questa è una considerazione individuale. Quello che gli acquirenti dovrebbero cercare è un monitor che offra almeno una modalità precisa. Gli altri preset non sono necessari e non aiutano a impostare uno schermo diverso dall’altro.

Conclusione

Abbiamo coperto molte informazioni e aspetti su come funzionano i monitor e su come sceglierne uno senza molte pretese, e speriamo che questa guida vi sarà utile nella ricerca del display ideale. Vi è un numero enorme di prodotti disponibili che utilizzano tecnologie e funzionalità diverse. Ma se si inizia la ricerca dando un’occhiata all’utilizzo che vi si farà, si restringeranno le scelte a un numero più gestibile. È importante ricordare che lo schermo perfetto non esiste e probabilmente non esisterà mai.




Kirby: dal Game Boy a Switch

Il recente Kirby Star Allies segna il ritorno della pallina rosa al 2D: un rimando agli inizi della serie di HAL Laboratories, datata 1992; più di venticinque anni passati ad ingoiare nemici, rubare le loro abilità e lottare con il malvagio Re Dedede.
In questo speciale ripercorreremo la storia di Kirby, l’evoluzione della serie e del personaggio, partendo dagli esordi.

Kirby’s Dream Land, 1992 – Game Boy

Sapevate che una delle particolarità di Kirby, ovvero la possibilità di assorbire i poteri dei propri nemici ingoiandoli, non era presente nel primo titolo della serie? Infatti, in Kirby’s Dream Land si potevano sì ingoiare i nemici, ma per poterli “sputare” sotto forma di stella. I poteri venivano conferiti da varie tipologie di cibo, come per esempio, un curry speziato che dava al nostro protagonista un respiro infuocato, oppure una foglia di menta che permetteva di sparare aria più volte mentre si volava, e via dicendo.
A parte questi dettagli, Kirby’s Dream Land si gioca come un normalissimo Kirby moderno: un platform a scorrimento orizzontale in 2D, che all’epoca fece successo per la sua immediatezza e semplicità, così come voluto dal designer Masahiro Sakurai. E pensare che, inizialmente, il design di Kirby era un tappabuchi, ma lo stesso Sakurai restò così colpito dalla semplicità del personaggio, che ben si sposava con il concetto del gioco, tanto da decidere di confermare il design del protagonista.

Kirby’s Adventure, 1993 – NES

Kirby’s Dream Land fu così un successo su Game Boy che alla Nintendo pensarono “perché non lo portiamo sulla nostra console casalinga?”. E così nacque Kirby’s Adventure, remake aggiornato del primo gioco della saga. Qui abbiamo la possibilità di ottenere i poteri dei nemici ingoiandoli, così come la corsa e la scivolata. Sakurai ha anche ascoltato i consigli dei fan, che avevano sì apprezzato la semplicità di Dream Land, ma con alcuni difetti riscontrabili nella fin troppa facilità e la sua breve durata. E allora i cinque livelli del predecessore divennero sette, con una boss fight per livello. È stato concepito anche per essere rigiocato più volte, grazie alla particolarità di copiare le abilità dei nemici, ed è anche un capolavoro tecnico per la console di Nintendo, giunta ormai al suo tramonto. Un’altra particolarità di Kirby’s Adventure è che in questo titolo fa il debutto uno dei nemici storici di Kirby, ovvero Meta Knight.
Il titolo è stato poi portato anche su Game Boy Advance nel 2002, infatti Kirby: Nightmare in Dream Land, è una celebrazione per i dieci anni dall’uscita dell’originale Dream Land, con grafica aggiornata ai tempi e l’aggiunta del multiplayer fino a quattro giocatori.

Kirby’s Dream Land 2, 1995 – Game Boy

A due anni dall’uscita del primo titolo, arrivò il seguito diretto, sempre su Game Boy. Dream Land 2 fece tesoro delle migliorie di Kirby’s Adventure, con l’abilità di copiare i poteri dei nemici e la possibilità di nuotare sott’acqua, oltre all’aggiunta di tre animali che aiuteranno il nostro eroe a superare vari ostacoli: infatti, il criceto Rick non ci farà scivolare sul ghiaccio, il gufo Coo ci permetterà di volare velocemente controvento e il pesce luna Kine ci permetterà di nuotare contro le maree oceaniche. Dream Land 2 supporta il Super Game Boy, l’accessorio che permette di giocare ai giochi del Game Boy su Super Nintendo, aggiungendo anche una palette di colori ed effetti sonori aggiuntivi.

Kirby Super Star, 1996 – Super Nintendo

Kirby Super Star (Fun Pak in Europa) arrivò a fine ciclo vitale del Super Nintendo, condividendo quasi lo stesso destino di Adventure su NES. Ma, al contrario del titolo per NES, che era un port del gioco per Game Boy, Super Star era più una raccolta di mini-giochi. Questo perché, secondo Sakurai, i giochi dell’era 16-bit stavano diventando troppo lunghi, e quindi cozzava con la filosofia semplicistica e immediata di Kirby. Nonostante la sua natura ridotta, Super Star introdusse il multiplayer nella serie, grazie alla creazione di un aiutante che ottienein grado di ottenenere i poteri che ha Kirby al momento. L’aiutante può essere controllato da un amico, oppure dall’IA se si gioca in singolo. Il gioco ottenne un remake nel 2008 per Nintendo DS, chiamato Kirby Super Star: Ultra, con grafica aggiornata e dei nuovi mini-giochi.

Kirby’s Dream Land 3, 1997 – Super Nintendo

Dream Land 3 è il titolo finale della mascotte di HAL Laboratories per Super Nintendo, purtroppo mai arrivato in Europa prima dell’uscita su Virtual Console ai tempi del Nintendo Wii. Questo è il primo titolo di Kirby che segue le vicissitudini del precedente titolo e, a parte questa particolarità, non aggiunge niente di nuovo alla saga.

Kirby 64: The Crystal Shards, 2000 – Nintendo 64

The Crystal Shards è il seguito diretto di Dream Land 3, oltre a esserne il suo upgrade grafico: infatti dal 2D classico della serie, si passa ad un 2.5D, ottenuto grazie alla potenza grafica del Nintendo 64. In termini di gameplay, l’unica nuova aggiunta è quella di combinare due poteri per ottenere qualcosa di più potente, come per esempio, unendo le abilità “bomba” e “cutter” si otterrà uno shuriken esplosivo. Il multiplayer è riservato a dei mini-giochi per un massimo di quattro giocatori, anche se pare, dalle prime schermate di anteprima, che The Crystal Shards fosse originariamente pensato per poter affrontare la storia anche in multiplayer.

Kirby and the Amazing Mirror, 2004 – Game Boy Advance

Il primo titolo senza il creatore di Kirby, Masahiro Sakurai, che lasciò HAL Laboratory poco dopo l’uscita di Kirby Air Ride. Kirby and the Amazing Mirror ha un piglio diverso rispetto ai precedenti capitoli della serie: infatti, è il primo titolo a offrire la modalità principale in multiplayer (attivabile dal cellulare del protagonista, che mette in contatto tutti i possessori del gioco nelle vicinanze) ed è più vicino a un “metroidvania”, una novità rispetto al classico platform 2D al quale siamo abituati. Kirby ha anche delle abilità nuove, come cupido, che permette al protagonista di avere delle ali con cui volare, e un arco capace di sparare frecce, e smash, che replica il comportamento di Kirby su Super Smash Bros. Melee.

Kirby: Canvas Curse, 2005 – Nintendo DS

Nonostante possa sembrare uno spin-off della serie principale, Kirby: Canvas Curse (Power Paintbrush in Europa e L’Oscuro Disegno in Italia) è un titolo importante: è completamente diverso dai precedenti, visto che, in questo capitolo, Kirby si può muovere solamente tramite dei percorsi disegnati dal pennino del Nintendo DS, e può stordire i nemici con uno scatto ottenibile “tappando” su Kirby stesso, così facendo si potranno ottenere anche le abilità degli stessi.

Kirby: Squeak Squad, 2006 – Nintendo DS

Dopo un anno da Canvas Curse, arriva Squeak Squad (Mouse Attack in Europa), e questa volta si torna più sui binari tradizionali della serie, dopo gli esperimenti del precedente titolo per la console portatile di Nintendo. Quindi ritorno al platform 2D, ma con delle novità: infatti Kirby può interagire con i livelli, per esempio, tagliando l’erba alta o sciogliendo il ghiaccio usando l’abilità fuoco. Kirby può anche conservare diverse abilità o cibi nel proprio stomaco, visualizzato nel secondo schermo della console e combinarle per ottenere abilità più potenti o cibi in grado di dare più punti salute. Un po’ lo stesso sistema usato su The Crystal Shards per Nintendo 64, ma aggiornato.

Kirby’s Epic Yarn, 2010 – Nintendo Wii

Altro titolo, altro cambiamento! In Kirby’s Epic Yarn (o Kirby e la Stoffa dell’Eroe in Italia) il nostro eroe verrà catapultato in un mondo fatto interamente di lana e, così come nel primo titolo, Dream Land, non potrà assimilare le abilità dei nemici, ma potrà avvolgerli con una frusta e usarli come proiettili lanosi. La particolarità del mondo si riflette anche in Kirby stesso: infatti non sarà nemmeno capace di volare, ma si trasformerà in un paracadute quando cadrà dalle grandi altezze, oppure, al posto di correre, diventerà un’auto o un mezzo simile, o un sottomarino nelle fasi acquatiche.
Il titolo offre il multiplayer, anche se limitato a soli due giocatori, dove saremo accompagnati dal principe Batuffolo, originariamente, il vero protagonista del gioco, che doveva essere chiamato World of Fluff.

Kirby Mass Attack, 2011 – Nintendo DS

Mass Attack è un gioco di strategia che prende liberamente ispirazione da Pikmin: infatti, in questo particolare capitolo, controlleremo ben dieci Kirby tramite il pennino della console portatile Nintendo.

Kirby’s Return to Dream Land, 2011 – Nintendo Wii

Un anno dopo l’esperimento di Epic Yarn, Kirby torna alla tradizione con Return to Dream Land (Kirby’s Adventure Wii in Europa), riprendendo la struttura 2.5D di The Crystal Shards. Non presenta grandi novità, all’infuori del multiplayer fino a quattro giocatori, la possibilità di fare degli attacchi in team e quella di potenziare l’inspirazione di Kirby per poter ingoiare oggetti più grandi o nemici più potenti.
Il gioco ha avuto anche uno sviluppo travagliato, visto che è stato originariamente presentato all’E3 2005 per Nintendo Gamecube, ma per varie vicissitudini, uscì solamente sei anni dopo su Nintendo Wii.

Kirby: Triple Deluxe, 2014 – Nintendo 3DS

Kirby: Triple Deluxe segue gli stilemi del precedente Return to Dream Land: un 2.5D, che, purtroppo, vede l’assenza del multiplayer nella campagna principale. Per il resto, viene utilizzato l’effetto 3D del Nintendo 3DS, e viene leggermente modificata la super inspirazione di Kirby, adesso ottenibile tramite il frutto miracoloso, che trasforma il nostro eroe in Hypernova Kirby. Sono state aggiunte anche tre nuove abilità, ovvero Campana, Scarafaggio e Circo.

Kirby and the Rainbow Curse, 2015 – Nintendo Wii U

Sequel diretto di Canvas Curse, questo Rainbow Curse (in Europa noto come Rainbow Paintbrush e in Italia Kirby e il Pennello Arcobaleno) sfrutta il pennino del Nintendo Wii U per offrire un gameplay simile al precedente. La grafica prende ispirazione da Epic Yarn, anche se, al posto della lana, il titolo sfrutta la tecnica della claymation, ovvero l’animazione a base di plastilina. Torna anche il multiplayer a quattro giocatori, nonostante quest’ultimo renda il gioco molto più semplice: infatti, gli altri tre giocatori, che interpretano Waddle Dee, possono trasportare Kirby e tirare lance ai nemici. Il titolo è anche il primo della serie a supportare gli amiibo.

Kirby: Planet Robobot, 2016 – Nintendo 3DS

Planet Robobot non si differenzia molto da Triple Deluxe, all’infuori di tre nuove abilità, ovvero sensitivo, dottore e veleno, e per la presenza di una mech suit chiamata Robobot. Esso aumenterà i punti salute di Kirby e avrà il potere di scansionare alcune abilità dei nemici, come lama, spada o parasole.

Kirby Star Allies, 2018 – Nintendo Switch

Arriviamo, infine, all’ultima incarnazione del nostro adorabile batuffolo rosa: Kirby Star Allies, recentemente uscito su Nintendo Switch, racchiude alla perfezione tutto ciò che è stato Kirby negli ultimi ventisei anni: si gioca come Return to Dream Land, è in 2.5D come The Crystal Shards, il moveset del nostro protagonista è come quello del primo titolo per Game Boy, ma con le novità introdotte da Kirby’s Adventure. Abbiamo il ritorno degli animaletti di Dream Land 2, il supporto agli amiibo come Rainbow Curse e la combinazione dei poteri come in Squeak Squad.

Spin-off

Kirby non è solo platform, anzi! La HAL Industries, ai tempi, avrà pensato “Kirby è una palla. Approfittiamone per metterlo in qualsiasi tipologia di gioco che presenta delle sfere!”, e infatti nel 1993 su Game Boy arrivò Kirby’s Pinball Land, fortemente ispirato a Dream Land, ma con un layout da flipper. L’anno successivo toccò al Super Nintendo, con Kirby’s Dream Course, un gioco di golf, e nel 1995 arrivò il turno di Kirby’s Avalanche, una versione personalizzata del popolare puzzle game Puyo Puyo. Il 1995 è anche l’anno di Kirby’s Block Ball, spin-off uscito su Game Boy che richiama lo storico gioco arcade Breakout.
Dopo cinque anni, su Game Boy Color venne il turno di Kirby Tilt ‘n’ Tumble, particolare puzzle game che sfrutta l’accelerometro contenuto nella cartuccia di gioco. Conclude la lista Kirby Air Ride, uscito nel 2003 per Nintendo Gamecube, e unico titolo della saga uscito per la console: è un particolare gioco di guida, dove bisogna solamente controllare la direzione dei veicoli e non la loro velocità. Nella visione di Sakurai, Air Ride doveva essere una versione “semplificata” di Mario Kart: Double Dash.

Insomma, la nostra amata pallina rosa ne ha fatta di strada in ventisei anni, partendo dalle quattro gradazioni di grigio del Game Boy, fino ad arrivare all’esplosione di colori su Nintendo Switch col recente Kirby Star Allies, una vera e propria celebrazione del lavoro svolto da Masahiro Sakurai e di HAL Laboratories, che continua, e continuerà, a far sognare grandi e piccini.




Tomb Raider

Diciamoci la verità: appena si ha il sentore che una casa di produzione canematografica stia per lanciare un lungometraggio tratto da un videogioco, comincia a salire qualche brivido lungo la schiena. Di certo non siamo abituati bene: innumerevoli sono ormai i film a tema videoludico che, tra il pessimo e mediocre, ci hanno continuamente delusi, lasciandoci quasi senza speranza. C’è da dire però, che qualche eccezione c’è stata, dal Prince of Persia con Jake Gyllenhaal a Silent Hill sino, perché no, anche al primo Mortal Kombat. Adesso ritocca a Lara Croft, divenuta negli anni ’90 vera icona pop ed eroina con cui tutto il genere femminile ha potuto finalmente interfacciarsi: forte, indipendente e superiore alla maggior parte dei comprimari maschili.
I film che hanno visto come protagonista Angelina Jolie, rispettivamente Lara Croft: Tomb Raider e Tomb Raider: La Culla della Vita, hanno saputo solo dare lustro alla prorompenza fisica dell’archeologa, divenendo veri e propri spot alle “doti” fisiche dell’attrice. Ma con il reboot videoludico del 2013, uscito con il semplice nome di Tomb Raiderle cose erano cambiate: la nuova Lara era figlia dei tempi che viviamo, una ragazza più reale, con un buon background narrativo e con le fragilità di qualunque essere umano. Oltre a questo, sia il primo capitolo che il secondo, Rise of the Tomb Raider, sono anche ottimi videogiochi, dal buon successo di critica e pubblico. Era naturale che prima o poi gli occhi della cinematografia si sarebbero posati ancora una volta su Lara Croft.

Il Tomb Raider videoludico ha segnato profondamente i fan, spostando il focus più su azione e avventura che sulla risoluzione di enigmi e sezioni platform. Queste nuove caratteristiche, oltre a una profonda rivitalizzazione di Lara, ben si sposano con un film da 90 milioni di dollari di budget, che può incentrare tutto sul realismo senza l’impiego di eccessivi – e costosi – effetti speciali. A dir la verità, questo è un punto su cui ci soffermeremo più avanti, ovvero la resa dell’indole del videogioco.
Questo significa anche dire addio alla giunonica Angelina per abbracciare la super atletica e “semplice” Alicia Vikander, vincitrice del premio Oscar come miglior attrice non protagonista per The Danish Girl. L’attrice svedese ha già fatto parlare di sé per il suo talento – di molto sopra la media – che in Ex Machina ha trovato terreno fertile dal quale sbocciare. La sua Lara è una ragazza che un po’ si discosta dal personaggio che abbiamo avuto modo di conoscere: manca in qualche modo l’estrema passione per l’archeologia trasmessa dal padre, scelta se ci pensate un tantino forte, visto che è un perno fondamentale della sua caratterizzazione. Ma ciò che funziona per il pubblico videoludico non è detto che funzioni al cinema, ed ecco quindi Lara Croft, che cerca di farsi da sola, non accettando di prendere in eredità la fortuna della famiglia. La figura del padre è elemento fondamentale anche se un po’ in contrasto col canone ufficiale, non solo rispetto ai reboot, ma anche ai titoli originali. Scelte quindi azzardate ma che non inficiano su trama e protagonista in maniera drammatica, soprattutto per chi conosce le vicende del videogioco.
La trama dunque si snoda tangendo quella videoludica: la giovane Croft, decisa a sapere quanto accaduto al padre, si recherà su un’isola misteriosa al largo del Giappone, in cerca della verità. Le vicende, scritte a quattro mani da Geneva Robertson-Dworet e da Alastair Siddons, scorrono via senza particolari intoppi nonostante la durata di circa un paio d’ore, risultando a conti fatti Tomb Raider un buon film di intrattenimento ma senza particolari picchi. Tutto poggia sulle incredibili e robuste spalle della Vikander che, seguendo le orme del buon Tom Cruise, ha svolto la maggior parte delle scene d’azione senza l’ausilio di una stuntman. In questo film ne ha subite di ogni, come del resto la iellata controparte videoludica, dalle cadute da altezze proibitive alla lotta a mani nude passando per le arrampicate e chi più ne ha più ne metta; se c’è una cosa da sottolineare è la voglia di Alicia di interpretare questo personaggio al suo meglio, e di questo bisogna dargliene atto. L’irrisolto rapporto padre-figlia sarà al centro della personalità della protagonista così come del comprimario – e molto anche – Lu Ren (Daniel Wu); questo, oltre ovviamente a tutta l’esperienza sull’isola, darà alla giovane Lara motivo di crescita e di accettazione del suo ruolo, facendo quel piccolo passo verso l’eroina che noi tutti conosciamo.

Il regista norvegese Roar Uthaug è riuscito a impacchettare un film senza difetti evidenti, con una classica regia da “mestierante” ma che ben si sposa con l’azione e la location del film. Anche le scene d’azione, seppur non perfettamente coreografate, riescono a intrattenere e sono chiare la maggior parte delle volte. Quello che manca è appunto quel “guizzo” verso l’alto ma, come potete aver capito, è un po’ il problema di tutto il film. Anche la fotografia di George Richmond non fa altro che richiamare i toni del videogioco, un andare sul sicuro che, per come è stato indirizzato il lungometraggio, è anche comprensibile. Siamo stati abituati ad avere, infatti, due scuole di pensiero: una parte di pubblico chiede a gran voce nuove storie basate sui vari brand, altri, invece, vorrebbero un copia e incolla dall’opera videoludica a quella cinematografica. Inutile dire che entrambe le idee abbiano prodotto risultati discutibili.
Tomb Raider è furbo, mettendo in scena sì una storia che lambisce i temi della controparte originale ma anche capace di regalare scene clou precise al millimetro rispetto al videogioco, una via di mezzo che in fin dei conti accontenta tutti: i fan hanno con cosa interfacciarsi e i “casual” posso godere di buone scene d’azione.
Segnalando personaggi completamente assenti, come l’equipaggio dell’Endurance, e personaggi completamente stravolti, come il “cattivo” Vogel, arriviamo al più grande problema del film: la particolarità dei Tomb Raider risiede nel rendere tutte le leggende createsi lungo il corso della storia, mera realtà, portando in scena elementi sovrannaturali e metafisici che ben si sposavano con il contesto del gioco ma anche – incredibilmente – con i lungometraggi con protagonista Angelina Jolie. L‘isola Yamatai è un luogo ricco di misteri e a tratti di angoscia, all’interno del reboot del 2013, con tombe nascoste e ambientazioni mozzafiato. Nel film purtroppo manca tutto questo, in favore di ambienti più semplici ma poco caratterizzati; anche quando si arriva finalmente al tempio della Regina del Sole Himiko, la musica non cambia. Manca completamente quel senso di stupore e meraviglia derivante da una nuova scoperta fuori da ogni logica e che mal si discosta da ciò che rappresenta il brand. La mazzata finale arriva dalla completa assenza di elementi sovrannaturali, derivati in questo contesto dal risveglio e dalla potenza di Himiko e del suo culto, in grado di controllare il destino dell’intera isola. Se da un lato tutto questo è spiegabile da un budget che qualcuno definirebbe basso e la voglia di non strafare, con il rischio di allontanare pubblico, ecco che sorge la domanda fondamentale, alla quale non risponderemo “42“: ma abbiamo veramente visto Tomb Raider?

In fin dei conti questo risulta un film normale per gente normale, che vuol passare un pomeriggio al cinema senza particolari sussulti. Diffidate da chi elogia il film come un capolavoro: la pochezza dei lungometraggi tratti da un videogioco può rendere un film del genere di poco migliore, ancor più importante, solo perché mancano paragoni degni (“effetto Wonder Woman“). È indubbiamente un buon film di intrattenimento e sicuramente la migliore trasposizione cinematografica di un videogioco, grazie soprattutto ad Alicia Vikander che, a dispetto degli infelici paragoni scaturiti alla notizia del suo ruolo, porta una Lara Croft credibile e segna un buon inizio di saga, qualora si prosegua con questo brand.
Il contraltare è una storia che non prende mai realmente il volo e che ha poco a che fare con Tomb Raider. Troppe scelte conservative hanno fatto viaggiare il film con il freno a mano tirato e, al sopraggiungere dei titoli di coda, tirando le somme se ne sente il peso.




Non solo Labo: quando Nintendo produceva giocattoli

Senza alcun dubbio, la recente presentazione del Nintendo Labo è stata una grande sorpresa, soprattutto per i veterani che attendevano la rivelazione di qualcosa come il Virtual Boy 2 o, addirittura, il ritorno dello sfortunato Vitality Sensor.
Mentre in apparenza potrebbe essere facile catalogare il Nintendo Labo come un accessorio rivolto ai bambini, quando si pensa alla fetta di pubblico a cui Nintendo mira, l’idea dietro quest’accessorio ha perfettamente senso. Il Labo rappresenta, probabilmente, qualcosa che solo un’azienda come la grande N , con le sue radici di produttrice di giocattoli, avrebbe potuto escogitare. Infatti, il colosso nipponico ha fabbricato giochi di vario tipo per anni prima che iniziasse a produrre videogiochi. Possiamo, quindi, definire il Labo  come il successore di questi giocattoli.

In onore dell’annuncio di questo accessorio, abbiamo raccolto alcuni dei giocattoli più strani e meravigliosi realizzati da Nintendo negli anni ’60 fino agli anni ’80, prima che la società di Kyoto entrasse nel mercato dei videogiochi.

Rabbit Coaster – 1964

Il primo ingresso di Nintendo nel regno dei giocattoli fu segnato dalla creazione del Rabbit Coaster. L’idea era semplice, ma avvincente: i bambini posizionavano delle capsule su un tracciato e le facevano gareggiare lungo una pista tortuosa per vedere quale capsula avrebbe raggiunto il traguardo per prima. Durante gli anni sono state create molte varianti di questo giocattolo, inclusa una con un mostro simile a King Kong. Il che dimostra che anche prima della creazione di Donkey Kong, Nintendo era ossessionata dalle scimmie giganti!

My Car Race – 1965

My Car Race è stato il primo giocattolo elettronico della Nintendo e, in un certo senso, era un Rabbit Coaster ma con gli steroidi. Questo giocattolo utilizzava l’elettricità per alimentare un nastro trasportatore che spostava le auto poste sulla pista. L’obiettivo era quello di scoprire chi sarebbe arrivato prima al traguardo.

Ultra Hand – 1966

Una menzione speciale è dedicata a Ultra Hand, ideato da Gunpei Yokoi, creatore di Game & Watch, inventore del D-Pad e designer originale del Game Boy. A ogni modo, l’Ultra Hand era un semplice braccio che si estendeva per afferrare oggetti da molto lontano. Nella sua semplicità, questo giocattolo è stato uno dei più venduti di Nintendo.

Love Tester – 1969

Proprio mentre la “Summer of Love” degli anni ’60 volgeva al termine, il vecchio Gunpei Yokoi creò un giocattolo conosciuto come Love Tester che, apparentemente, poteva calcolare se due persone si amassero davvero. L’idea era quella che la coppia felice si tenesse per mano e nell’altra mano tenesse una parte del Love Tester. Quindi, attraverso di essi sarebbe passata una corrente elettrica innocua che avrebbe determinato il loro amore in base alla loro conduttività.

Ele Conga – 1970

Nel 1970 Nintendo stava creando un diverso tipo di musica con Ele Conga. Questo dispositivo a forma di tamburo è stato inventato da Gunpei Yokoi (si, sempre lui) ed era in grado di produrre dei suoni elettronici quando suonato. Sfortunatamente, all’epoca è stato un po’ un flop commerciale.

Paper Model – 1974

Molto prima che il Labo fosse stato concepito dallo staff della grande N, Nintendo aveva creato una vasta gamma di modelli di carta. In questi kit si trovavano vari pezzi di cartone e tramite le istruzioni si potevano creare cose come auto e aerei, a seconda del tema del kit. Sono stati concepiti circa 40 di questi kit. Questo “gioco” potrebbe essere visto come il vero predecessore di Nintendo Labo.

Duck Hunt – 1976

Questo gioco veniva fornito con un proiettore e una pistola alimentata a batteria. Il dispositivo proiettava immagini di anatre volanti sulla vostra parete e riusciva a rilevare quando riuscivate a colpirle, il che era spettacolare vista la tecnologia che era presente all’epoca. Non a caso lo si ritroverà anni avanti, sul primo NES 8-bit.

Crossover – 1983

Infine, ecco uno dei giocattoli di Nintendo più rari e addirittura l’ultimo giocattolo non elettronico realizzato dal colosso nipponico. Crossover era un’altra creazione di Gunpei Yokoi, un puzzle che prese la forma di una griglia 4×4 in cui i giocatori avrebbero fatto scorrere le tessere avanti e indietro per risolvere il puzzle.

Poteva non arrivare un Nintendo Labo?