Top 7: le peggiori boss fight dei videogames

Le boss fight dovrebbero essere il punto più alto in un videogioco, la summa di tutto il lavoro svolto e l’apoteosi del gameplay. Eppure a volte qualcosa non va per il verso giusto, e i supernemici diventano dei corpi estranei rovinando soprattutto il finale. Ed ecco a voi le peggiori boss fight del mondo videoludico.

#7 Joker – Batman: Arkham Asylum

Joker, antagonista principale di Batman in Arkam Asylum, riesce a essere se stesso per tutto il gioco fino quando, decide di diventare un Hulk vestito da pagliaccio. Le doti di Joker sono per lo più i sotterfugi e un’innata scaltrezza, eppure Rocksteady, che ha lavorato in maniera quasi perfetta sul gioco, decide di mandare tutto a rotoli regalando un personaggio completamente snaturato. Oltre a questo, nemmeno il combattimento in sé riesce a mitigare le cose, essendo praticamente un’arena nella quale far fuori orde di nemici come si è fatto per tutto il gioco, mentre lo scontro con Joker, che dovrebbe essere il fulcro, dura tutto sommato una manciata di secondi che non lasciano il segno.

#6 Rodrigo Borgia – Assassin’s Creed II

Non capita tutti i giorni di prendere a pugni il Papa: ciò che spinge le azioni di Ezio Auditore in Assassin’s Creed II è cercare vendetta nei confronti di Rodrigo Borgia. Quando finalmente si arriva al dunque, quindi l’inizio della Boss Fight, cominciano a spuntare anche buone premesse, visto che bisogna utilizzare tutto ciò che si è imparato nel corso del gioco, con addirittura due frutti dell’Eden in campo.
Purtroppo finisce tutto con una scazzottata da bar, con uno scontro che risulta abbastanza ridicolo, visto che alla fine, si tratta di picchiare un povero vecchio.

#5 Razziatore umanoide – Mass Effect 2

Se la missione suicida è tra le parti finali di un videogioco migliori della storia, non altrettanto si può dire del vero boss finale. Il Razziatore umanoide è una rivelazione agghiacciante, ma il combattimento in sé risulta abbastanza deludente, troppo facile e sicuramente dimenticabile. Spara ai condotti e riparati è in sostanza il riassunto della battaglia, contornato da qualche Collettore tanto per non rendere le cose troppo facili… Inoltre sembra incredibile, visto la potenza dei Razziatori, che basti sparare a qualche condotto d’alimentazione per chiuderla qui. Insomma, probabilmente è il punto più basso della saga di Mass Effect.

#4 Lady Comstock – Bioshock Infinite

Sorpresi? Bioshock Infinite è quasi un capolavoro e, per chi conosce il suo contesto, trovarsi improvvisamente a sparare contro zombie e un fantasma non è di certo una gran cosa. Per quanto poi risulti relativamente spiegato tutto ciò, non si può fare a meno di notare come il tutto risulti fuori luogo e soprattutto estenuante, diventando un mero espediente per riuscire a carpire i segreti di Zackary Comstock e procedere così nella narrazione.
Sta di fatto che la boss fight risulta per lo meno impegnativa e questo mitiga un po’ la cosa ma il senso di inadeguatezza è lampante e porta il tutto quasi al disagio visivo.

#3 Lord Lucien – Fable II

Come dicevamo, il boss finale è quello che si attende di più, la ciliegina sulla torta, eppure in Fable 2 , trovandosi di fronte a un nemico di una certa potenza, basta un colpo per farla finita. Nessuna sfida e nessun senso di gratificazione: tutto si risolve senza lasciare traccia, talmente scialbo che il gioco avrebbe potuto concludersi senza la boss fight. Eppure, come vedremo, c’è di peggio.

#2 Star Destroyer – Star Wars: il potere della Forza

Sarebbe difficile pensare di far combattere uno Jedi contro un’incrociatore imperiale a chilometri di distanza: fare il mimo, portando una nave di quelle dimensioni a precipitare da quella distanza non fa sentire super potente ma abbastanza interdetto, in quanto lo scontro è paragonabile a quando Micheal, in GTA V, deve fare yoga, schivando una manciata di laser e distruggendo un po’ di caccia. Nemmeno la visuale aiuta in quanto ciò che dovrebbe risultare epico diventa soltanto una parodia creata dall’Asylum.

#1 Brumak contaminato – Gears of War II

Premi un tasto e vinci. Il secondo capitolo di una delle saghe migliori negli ultimi anni è famoso per i miglioramenti apportati e per la non boss fight finale. I colpi del Martello dell’alba in Gears of War II lasciano soltanto l’amaro in bocca visto la mancanza di sfida e l’impossibilità di morire.
È una boss fight che non ha senso di esistere visto che poteva essere tranquillamente sostituita da una cutscene: sarebbe stato più dignitoso.




Death Note

Negli ultimi anni, Hollywood ha cominciato a prestare attenzione al mondo di manga e anime, “prodotti tipici” della creatività giapponese. Mancanze di idee, probabilmente, ma sta di fatto che noi tutti abbiamo sempre avuto la curiosità di vedere dei live action, magari sui nostri eroi preferiti. Non è facile però, vuoi perché la narrazione si sviluppa su decine di volumi, vuoi per lo stile, forse troppo orientale e unico per essere concepito dagli studi di Los Angeles. Del resto ricordiamo tutti il primo – e fortunatamente unico – adattamento cinematografico di un certo Dragon Ball, denominato per l’occasione Evolution: tralasciando qualche nome preso dal manga originale, il film rovescia i canoni su cui si poggia la storia, snaturando (volontariamente?) i personaggi, costruendo una trama dalle fragilissime basi. Un po’ meglio è andata a Ghost in the Shell, pellicola con protagonista Scarlett Johansson, uscita proprio quest’anno: il film, pur subendo molte – ma molte – semplificazioni, è comunque riuscito a ritagliarsi una propria identità, dando senso alla parola adattamento. Nulla di trascendentale, per carità, ma sicuramente un passo avanti verso una costruzione più accurata rispetto l’opera originale.
Ora è il turno di Death Note: targato Netflix, questo film è un interessante esperimento di produrre qualcosa di diverso, magari un po’ di nicchia, ma sicuramente con un grande bacino di appassionati.
Per quei pochi che non lo sapessero, Death Note è un manga del 2003, scritto da Tsugumi Ōba e disegnato da  Takeshi Obata, che riscosse molto successo, non solo in Giappone ma nel mondo intero, divenendo in breve tempo un vero e proprio cult. Le vicende si svolgono attorno a Light Yagami il quale, venuto in possesso del Death Note – un quaderno speciale dove, se scritto il nome di una persona, questa stessa morirà entro breve tempo – decide di ergersi a paladino della giustizia. Andando avanti nella storia non tutto andrà per il verso giusto e, personalmente, vi consiglio di recuperare se non il manga, almeno l’anime.
Cos’è la giustizia? Cos’è la fede? E soprattutto, cosa vuol dire adattamento? Scopriamolo insieme in questa recensione.

Partiamo proprio dall’ultima domanda: che cos’è un adattamento? In generale è la capacità di sceneggiatori e registi di saper produrre contesti cinematografici, quanto meno simili a opere esistenti, come libri, opere teatrali, fumetti, videogiochi e in questo caso, manga; praticamente il 70% di tutto ciò che vediamo al cinema ultimamente. Ovviamente non tutto quello che è scritto su carta stampata è fruibile sul grande schermo: adattare alcune situazioni, alcuni contesti e personaggi, per fare in modo che tutto rientri nelle classiche due ore di pellicola è ormai una prassi, ma soprattutto una necessità. È normale che ci siano differenze e un esempio su tutti, visto che siamo in un portale di videogiochi, può essere considerato l’Animus di Assassin’s Creed: vedere Michael Fassbender per un paio d’ore steso su un lettino non avrebbe fatto lo stesso effetto, ovviamente. Ma l’adattamento, alle volte, diventa una scusa, un dito dietro al quale nascondersi quando i pareri della critica cominciano a non essere così favorevoli; e  questo pare proprio il caso di Death Note.
È inutile girarci in torno: il Death Note di Netflix è una delusione sotto tutti i punti di vista. Ma andiamo con ordine.
Il progetto è stato affidato ad Adam Wingard, regista emergente che ha cercato di fare il possibile per salvare quanto meno la faccia. Sì, perché la regia è tra gli elementi meno agghiaccianti presenti nel film, una regia da mestierante, con qualche piccolo guizzo di tanto in tanto. Il problema vero arriva da tutto il resto, dalla sceneggiatura alle prove attoriali, fino al casting. Adattamento significa, in questo caso, traslare le vicende dal Giappone agli Stati Uniti: niente quindi Light Yagami ma Light Turner, Misa che da Idol diviene una cheerleader di nome Mia e i soliti problemi da liceo che abbiamo imparato a conoscere in centinaia di serie americane. Fin qui nulla di strano. I veri problemi sorgono quando i personaggi principali diventano mere parodie vuote in un contesto che risulta sin da subito sbagliato. Nella sceneggiatura scritta a tre mani, Light Turner (Nat Wolff) si presenta come uno dei tanti ragazzi disagiati e isolati dal contesto socio-scolastico, ma dotato di grande intelligenza. Già si può evincere come ci sia qualcosa di sbagliato in tutto ciò, segnalato anche da un netto distacco dall’atmosfera aulica del manga/anime e l’interpretazione che di certo, non aiuta. Nat Wolff è fin troppo sopra le righe, mai convincente e soprattutto privo di carisma. Non riusciamo a empatizzare con lui e capire il suo punto di vista contorto, probabilmente per un errato – ammesso che ci sia stato – studio del personaggio di Light Yagami. Senza soffermarci su Mia (Margaret Qualley), pressoché inutile e fastidiosa, sia come personaggio che come recitazione, da segnalare è la prova del vero antagonista di Light, o Kira se preferite: Elle. È vero; cambiare etnia a un personaggio che fa della sua caratterizzazione esteriore uno dei sui pregi è sicuramente una mossa al dir poco azzardata. Ma bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare: Keith Stanfield, nei panni di uno degli investigatori migliori al mondo, ne rappresenta discretamente i comportamenti, almeno fino a quando pensa di essere diventato qualcun altro e comportarsi nella maniera più sbagliata possibile. Questo forse è in sintesi una delle caratteristiche del film: ci prova, ma pur provandoci non riesce, mettendosi il bastone tra le ruote da solo.
Se le interpretazioni a dir poco scadenti non lasciano il segno e una scrittura confusionaria che cerca di prendere qualcosa dall’opera originale si perde nei meandri del nonsense, cosa resta? Probabilmente la voce di Ryuk (caratterizzazione pessima, sia esteriore che psicologica) prestata da Willem Defoe, è l’unica nota positiva del film. In lingua originale si può apprezzare lo sforzo di un attore che ci ha creduto, riuscendo, almeno in parte, a rendere meno ridicolo lo Shinigami.
Inutile dire che le tematiche sono state completamente travisate: quello che per Light Yagami è un compito offerto dal destino, per Light Turner e Mia diventa quasi un gioco di coppia, immerso in un teen drama di cui si poteva fare volentieri a meno.

Il Death Note di Netflix è un fallimento su tutta la linea: scelte di sceneggiatori, casting e  attori, non rendono giustizia a un’opera che ha segnato una generazione, aprendo dibattiti su cosa sia giusto e sbagliato o la funzione di Dio. In questo caso la parola adattamento viene utilizzato come scusa, divenendo un Dragon Ball Evolution 2 dimenticabile, con così tante pecche che si fa fatica a trovare qualcosa da salvare. Nulla dell’opera originale, se non qualche nome, è stato utilizzato e questo forse è il male minore: anche se immaginiamo un mondo dove Death Note non sia mai stato creato, questo film non si salverebbe nemmeno.
«Questo mondo fa schifo». E Light Turner, a suo modo, ce lo ha ricordato.




Gli infiniti mondi di BioShock

In occasione dei suoi primi dieci anni, cogliamo l’occasione di parlare di una delle saghe che più hanno segnato il mondo videoludico, un gioiello sotto tutti i punti di vista: BioShock. Se ne è già detto molto, forse tutto, ma dopo l’uscita dei due DLC per BioShock Infinite, Burial at the sea, questo universo si è ulteriormente espanso coinvolgendo tutti i capitoli, unendoli. Vediamo dunque cosa c’è alla base del progetto, i significati e soprattutto di capirci qualcosa riguardo una delle trame più complicate della storia umana. Buona lettura.

Una città in fondo l’oceano

Tutto nasce dal genio di Ken Levin, già creatore dell’amatissimo Sistem Shock del 1994, che, ispirandosi a George Orwell e soprattutto ai romanzi di Ayn Rand decise di creare un mondo utopico, in tutti i suoi aspetti. I romanzi della Rand da cui trasse maggiormente ispirazione furono La rivolta di Atlante e La fonte meravigliosa che contengono temi rivolti all’Oggettivismo, teoria filosofica creata dalla scrittrice, andando contro i sistemi totalitari dell’epoca. Tra le cose più interessanti di questo modo di pensare vi è che lo scopo morale della propria vita sia l’interesse razionale di se stessi, il cosiddetto Egoismo razionale, un individualismo che non danneggia il prossimo; il sistema politico ed economico deve garantire il rispetto dei diritti individuali, nella forma più pura del capitalismo; infine il ruolo dell’arte, che nella vita dell’uomo deve essere utilizzata per trasformare le idee metafisiche più grandi in opere d’arte che l’uomo possa comprendere e a cui possa rispondere emotivamente.
Da queste idee partirà la stesura della sceneggiatura di BioShock.

Dopo il nostro precipitare in pieno oceano a bordo del nostro aereo, notiamo subito qualcosa di strano: un faro, in mezzo al nulla, ma unica chance di sopravvivenza. Una volta entrati vi è una batisfera, ci saliamo, e comincia il viaggio con il celebre discorso di Andrew Ryan, sulla creazione di una città lontana da vincoli morali, religiosi e politici. Molto sarà collegato alle Sister e all’ADAM, sostanza necessaria alla fabbricazione dei Plasmidi. Alle bambine, quindi,  venne impiantata, nello stomaco, la lumaca di mare generatrice di ADAM, trasformandole, diventando ossessionate dalla sostanza e addestrate a raccoglierla ed estrarla dalle lumache marine stesse o dai cadaveri dei ricombinanti morti. Essendo vulnerabili vennero creati i Big Daddy, enormi creature geneticamente modificate e corazzate.
In BioShock ogni personaggio principale porta con sé la sua dose di simbolismo: il Dottor Steinman, ad esempio, è alla continua ricerca dei canoni di bellezza perfetti, a simboleggiare, come l’uomo sia un essere vanitoso e di come sia più importante l’apparire che essere. Tema trattato sapientemente e raccontato anche da audiolog di personaggi secondari – donne soprattutto – che hanno utilizzato i plasmidi per ricostruire il proprio corpo, non riconoscendosi più e facendo perdere loro la consapevolezza dell’io.
Sarà un percorso ricco di ostacoli e colpi di scena da maestro e i finali multipli saranno indicativi, non solo sulla nostra condotta di gioco, ma soprattutto sulla reale natura dell’uomo e su sul destino.

BioShock si presenta come un classico sparatutto in prima persona, immediato, e con alcuni elementi da gioco di ruolo, come potenziamenti per armi o plasmidi, i quali possono essere attivi o passivi: quelli attivi possono essere iniettati per poter utilizzare poteri speciali dalla mano sinistra, come fiamme, ghiaccio, elettricità, sciame d’api e tanto altro. Quelli passivi possono rendere più veloci, far subire meno danni o far fare meno rumore. Uno dei pochi elementi criticati risiede nelle cosiddette camere della vita, dispositivi in cui il protagonista resuscita una volta morto. Il loro utilizzo effettivamente facilità le cose in quanto è possibile superare le sezioni più ostiche con un pizzico di perseveranza, anche perché i nemici sconfitti non tornano in vita. Sono comunque contestualizzate nella trama ma è possibile disabilitarle tramite l’apposito menu. Il comparto audio è eccellente: doppiaggio in italiano ottimo e musiche malinconiche, opprimenti avvolgono il giocatore in un atmosfera dai tratti horror e claustrofobici. A livello tecnico era un gioiello, non solo per quanto riguarda texture luci e modellazione ma anche per la resa dell’acqua, elemento cardine del gioco, e sicuramente la migliore mai realizzata sino ad allora. Ciò che colpisce comunque è il comparto artistico: tutto in stile Art Decò, devastato da conflitti interni alla città, esprime a chiare lettere il degrado e la decadenza nella quale Rapture è caduta.

Rapture, è lei la vera protagonista del gioco. Rapture è un’immensa città sottomarina segretamente costruita nel 1946 nelle profondità dell’Atlantico, alimentata da energia termica generata da vulcani sottomarini e rifornita di ossigeno da migliaia di piante cresciute in enormi serre. Fondata da Andrew Ryan, Rapture fu la sua soluzione all’oppressione delle autorità politiche e religiose a favore della libera iniziativa dell’individuo che, slegato da confini etici, religiosi o politici, avrebbe potuto dare il meglio delle proprie capacità esplorando così i confini della mente umana. La città è popolata da coloro che Ryan riteneva essere il meglio dell’umanità.
Non esiste un vero e proprio governo, ognuno è padrone di se stesso, libero da leggi e moralismi che viviamo ogni giorno. Vi è quindi una sorta di anarchia controllata, dove tutti possono dare il massimo per il bene della collettività.
Ma 15 anni dopo, quando arriviamo per la prima volta nella città capiamo che tutto questo non ha funzionato. BioShock è un opera pessimistica, che vede l’uomo soltanto come un egoista e alla ricerca di più potere. Tutti potevano vivere felici, completi eppure la natura umana, ha rovinato questo sogno portando la città perfetta al declino.
Ma in questa città tutti hanno perso, soprattutto la speranza, la speranza di tornare ai fasti di un tempo. I nemici che affronteremo durante il gioco non sono malvagi, ma soli, disperati, alla ricerca costante di se stessi, cose che messe tutte assieme possono portare alla follia. Diventa così un circolo vizioso: l’egoismo genera solitudine, abbandono, che col passare del tempo creano un vuoto che si cerca di colmare con tutto ciò che si pensi possa aiutare come il denaro, o il potere.
BioShock risponde a domande come il perché abbiamo bisogno di governi, leggi ed etica e perché non siamo liberi di esprimerci come vogliamo, facendoci vedere come la vera natura dell’uomo non possa portare a nulla di costruttivo se lasciata a se stessa. Ma è comunque presente la speranza, attraverso le nostre scelte cambiamo il mondo, e attraverso le nostre scelte nel gioco possiamo illuminare un po’ il futuro dell’uomo.

Gli antipodi

Nel 2010 esce BioShock 2 in cui la storia si svolge otto anni dopo gli eventi narrati nel primo capitolo. Tutto ha  però inizio nel 1958, poco prima della caduta di Rapture.

Un prototipo di Big Daddy chiamato Soggetto Delta è impegnato nello scortare la propria Sorellina, Eleonore Lamb. Ma all’improvviso la madre della bambina, Sofia Lamb interrompe la missione. Attraverso un plasmide in grado di ipnotizzare la vittima, spinge il soggetto Delta a spararsi sul posto. Risvegliatosi dopo 10 anni, il Soggetto Delta trova Rapture sull’orlo di una guerra civile, in mancanza di molte sorelline e quindi meno Adam. In questo contesto Sofia Lamb, psicologa, nonché avversaria in politica di Andrew Ryan, conquista pieni poteri. Nei panni del Big Daddy sperimentale, faremo di tutto per ritrovare la nostra sorellina Eleonore, in una città ancora più pericolosa del primo capitolo.

BioShock 2 è un’evoluzione di quanto visto nel primo episodio. Gameplay ulteriormente affinato, più frenetico e con un feeling migliore di armi e plasmidi. Una delle maggiori novità è la trivella, utilizzabile fin da subito e devastante nei corpo a corpo. La trama è molto coinvolgente, ben raccontata, grazie anche ad un ottimo doppiaggio, molto espressivo, e alle musiche ed effetti sonori che accompagnano sapientemente ciò che vediamo su schermo.
Qui passiamo dal capitalismo puro di Ryan al comunismo estremo della Lamb, assolutamente contraria all’individualismo, preferendo una collettività, in cui tutti fossero uguali e con pari opportunità; tutto racchiuso ne La famiglia.
Per quanto sia interessante questo cambiamento radicale rispetto al primo capitolo Sophia Lamb non raggiunge mai le vette carismatiche di Andrew Ryan, facendo sì che BioShock 2 sia vittima del successo del predecessore. Sa un po’ tutto di già visto per quanto riguarda le ambientazioni con alcune aggiunte che potevano essere tranquillamente evitate. Un’ottima aggiunta invece sono le Big Sister, nemici completamente diversi rispetto dai Big Daddy, essendo molto più agili e veloci.

Essendo noi stessi un Big Daddy possiamo comportarci come tali: possiamo prendere una sorellina, scortarla verso cadaveri per prendere l’ADAM e proteggerla da tutti i nemici.
BioShock 2 è sicuramente un gran bel titolo, con un voto superiore a 9, ma semplicemente non è BioShock.

Infinite porte

Nel 2013 esce BioShock Infinite che, tutto sommato, può essere considerato un capolavoro mancato, per via di un gameplay che non porta nulla di nuovo alla saga ma con una trama tra le più affascinanti mai viste. Affascinante come i personaggi di Elizabeth soprattutto, Booker deWitt e Zackary Comstock.

Ambientato nel 1912, il titolo si basa sulla scomparsa nei cieli di Columbia, città volante fondata da Zachary Hale Comstock (auto nominatosi “il Profeta“).
Impersoniamo Booker deWitt, un detective alcolizzato e accanito giocatore d’azzardo, con un passato burrascoso e in congedo forzato dall’agenzia Pinkerton. Gli viene offerta la possibilità di coprire il suo debito attraverso un incarico dato da un losco individuo: «portaci la ragazza e annulla il debito». Il suo compito consiste nel trovare la città di Columbia e, una volta arrivato, trovare una certa Elizabeth e portarla da loro. Sarà uno dei viaggi più incredibili mai intrapresi.

Più avanti mi occuperò di mettere assieme tutti i vari pezzi del puzzle ma già da ora importante soffermarsi su un DLC, diviso in due parti, denominato Funerale in mare. In questo contenuto aggiuntivo c’è molto più di quanto molti di noi si aspettavano, facendo luce non solo su Infinite, ma su tutto il mondo di BioShock.

All’inizio del DLC la storia comincia come se nulla fosse successo: Booker deWitt è addormentato, perseguitato da ricordi confusi e traumatici. All’improvviso una donna misteriosa entra nel suo ufficio proponendogli un lavoro: ritrovare una certa Sally. Booker è sorpreso dalla richiesta, perché quella bambina era la sua figlia adottiva, un’orfana della guerra tra Andrew Ryan e Frank Fontaine, a cui si era affezionato. Capiamo di essere a Rapture mentre la committente si rivela essere Elizabeth, ma lui non sembra riconoscerla. Usciti dall’ufficio i due trovano durante il Capodanno del 1958, come l’inizio di BioShock 2. Anche in questo caso sarà un viaggio allucinante, con una scrittura perfetta, facendo diventare il tutto una delle migliori opere di fantascienza mai create. Ma ci arriveremo.

BioShock Infinite tratta un infinità, appunto, di tematiche più o meno esplicite all’interno di Columbia. Uno di questi è il puro razzismo e lo sfruttamento dei deboli che però, non fermerà le idee di ribellione, venendosi a creare situazioni che porterà ai Vox Populi, gruppo che cercherà di portare la democrazia nella città volante.
Altro tema importante è quello della religione: tutto è intriso di ambiguità, con Zackary Comstock nella veste di un profeta onnipresente e onnisciente, praticamente una vera e propria divinità per il suo popolo. Nonostante una fede incrollabile, guidata dal cristianesimo più radicale, in molte circostanze i columbiani arriveranno a ignorare persino i principi base della loro fede e, come per le Crociate, sfruttare le ideologie del bene per giustificare il male.

Tuttavia il gioco è chiamato Infinite per un motivo. Il tema del Multiverso è sempre stato affascinante, prevedendo un’infinità di universi simili al nostro ma esistenti contemporaneamente. Questa teoria, prende piede nella prima metà del novecento grazie a Hugh Everett III che dopo attenti studi, arrivò a teorizzare che se è possibile effettuare misurazioni a livello quantistico allora è probabile che per ognuna di queste possa esistere un altro Universo in uno spazio-tempo differente. Può risultare complicato ma con qualche esempio ne verremo a capo.
Il gioco comunque, è sempre uno sparatutto in prima persona, praticamente simile ai precedenti capitoli, con un comparto tecnico che non fa gridare al miracolo. Il comparto artistico è invece ciò che risalta maggiormente e pressoché perfetto. È letteralmente poesia in movimento, ed è impossibile non farsi colpire da Columbia. Elizabeth e Booker, indipendentemente da loro legame, sono personaggi ormai iconici, aiutati da un perfetto doppiaggio in italiano, veramente molto espressivo e dalla giusta tonalità. Musiche usate magistralmente, ricalcano le atmosfere sempre col giusto tempismo. E il finale è letteralmente da brividi, uno dei migliori mai visti.

Un miliardo di mondi

Ci sono domande alla quale non possiamo rispondere ma fortunatamente in questo caso, grazie alla deliziosa scrittura di Levine possiamo tirare delle conclusioni. Se avete notato non ho voluto approfondire di proposito le trame per evitare spoiler che rovinerebbero l’esperienza. Ma questa in fin dei conti è una recensione di un intera saga, cercando di far luce su tutti gli aspetti nascosti. Quindi da ora in poi ci saranno grossi – ma proprio grossi – SPOILER, siete avvisati.

 

Terminando BioShock Infinite, compresi i DLC alcune domande sorgono spontanee e per poter trovare le risposte, bisogna diventare dei fisici quantistici e cominciare ad avere qualche nozione su Micro-Universo e Macro-Universo.
Per Macro-universo intendiamo un Universo completamente diverso da un altro, esistente su un piano spazio-temporale differente. Quindi, nel gioco, possiamo osservarne due: uno dedicato a Rapture e uno dedicato a Columbia. Entrambe le città, entrambi questi mondi, sono esattamente contemporanei ma, mentre a Rapture è circa il 1960 a Columbia è il 1912. Da essi derivano i Micro, simili ai Macro, ma che esistono nello stesso spazio-tempo. Tutto ciò, possiamo osservarlo quando viaggiamo tra le Columbia alternative che in BioShock Infinite, durante la rivoluzione dei Vox Populi.
In questi Universi così diversi, troviamo dei fatti che sono in comune e che daranno vita alle vicende di tutto il mondo di BioShock. Sono eventi, anche in questo caso, contemporanei, ma in tempi e luoghi diversi.

Sappiamo che le vicende del primo capitolo iniziano quando Andrew Ryan comincia a costruire Rapture, la sua città ideale. Sappiamo anche che, nel frattempo, a Colunbia Booker deWitt, decide di battezzarsi, divenendo Zachary Hale Comstock. L’onniscienza del Profeta è data dalla capacità di vedere infinite realtà grazie al dispositivo spazio-temporale creato dai Lutece e, proprio in una di queste realtà scorge la città in fondo l’oceano, all’inizio della sperimentazione dell’ADAM sugli umani.
Anche i fatti di Funerale in mare derivano da una di queste conseguenze, generando così due diverse realtà: in una Booker avvia gli eventi di BioShock Infinite, nell’altra, Booker, avvia gli avvenimenti del DLC. Capito questo, abbiamo una maggiore consapevolezza della cronologia dei fatti:

  1. Funerale in mare è ambientato dopo il finale principale di Infinite, ma solo dal punto di vista di Elizabeth, colei che impersoniamo. Cronologicamente però, è precedente ad esso. Ecco perché Comstock è ancora vivo.
  2. Quando Elizabeth porta Songbird a Rapture per affogarlo, notiamo una città devastata dalla guerra civile, semi distrutta e con i Big Daddy e Sorelline che raccolgono l’Adam. Ma tutto questo, nel DLC, non esiste. Non vi è ancora alcun legame tra le bambine e il colosso corazzato.

Nella parte finale di Infinite possiamo apprezzare meglio i concetto di Macro e Micro Universo. Nella scena dei Fari, Elizabeth entra in un ambiente con infiniti Fari simili a quello che porta a Rapture, e che quindi, rappresentano i Micro-Universi di BioShock. Sempre nella stessa situazione, siamo catapultati in un mondo con dei Fari simili alle costruzioni su Columbia, con conseguenti Micro-Universi.
Quando Booker decide di sacrificarsi, nel finale principale, quest’ultimo Macro-universo Columbia viene cancellato. Ma Elizabeth decide comunque di seguire Comstock a Rapture, cercando di salvare in ogni modo Sally, la bambina che tanto le ricordava la se stessa da piccola. Se lei non fosse andata lì, Jack Ryan (colui che impersoniamo nel primo capitolo) non si sarebbe mai recato a Rapture e quindi non avrebbe salvato tutte le sorelline e, di conseguenza Sally. Tutto quello che abbiamo vissuto in BioShock e Bioshock 2 lo dobbiamo ad Elizabeth che però, al collassare del Macro-Universo Columbia, ne perde i ricordi, incontrando così l’Elizabeth inconsapevole di Infinite.
In poche parole scopriamo che BioShock Infinite, DLC compreso, è un prequel di BioShock.

BioShock, inteso come saga, è assolutamente uno dei più grandi, se non il più grande viaggio che potreste fare. È la dimostrazione che anche il mondo videoludico può essere considerato alla pari, se non superiore, a film o libri di qualsivoglia genere. Non troverete da nessuna parte musiche, dialoghi, trama, lato artistico racchiuse in una sola opera. Ringraziamo di cuore Ken Levine per averci portato in mondi che chi lo sa, magari esistono da qualche parte, nei meandri dello spazio-tempo.




The War – Il Pianeta delle Scimmie

Quando venne annunciato un reboot della saga de Il pianeta delle scimmie in molti – compreso me – storsero il naso; del resto ci aveva già provato Tim Burton nel 2001 fallendo miseramente: quello che ne venne fuori fu un film senza né capo né coda e con un finale sicuramente sorprendente, ma con accezione negativa. Il film originale, targato 1968, con protagonista Charlton Heston, nel frattempo è divenuto un cult di fantascienza che, con le sue ampie tematiche, colpì il pubblico con uno dei migliori finali della storia del cinema. A esso seguirono numerosi sequel che cercarono di approfondire le origini delle scimmie e la scomparsa dell’uomo così come lo conosciamo, definendo una vera e propria mitologia.
Nonostante il titolo originale sia godibilissimo ancora tutt’oggi e i numerosi film ne completano la storyline, perché impegnarsi a creare questa nuova trilogia? Fortunatamente la risposta non si trova soltanto nel denaro.

Dopo L’alba del pianeta delle scimmie, in cui abbiamo visto come i primati, guidati da Cesare, abbiano cominciato a prendere coscienza di sé, e Apes Revolution, dove sono state posizionate le basi di questa nuova civiltà, in The War – Il Pianeta delle Scimmie, assisteremo a un vero e proprio punto di collegamento tra la battaglia finale tra primati ed esseri umani e il mondo governato dalle scimmie del 1968.
Tutti e tre i film si presentano come dei blockbuster ben realizzati e soprattutto uno dei pochi tentativi di reboot veramente riusciti.
The War è diretto da Matt Reeves che, dopo aver guidato molto bene il secondo capitolo, ha usato al meglio tutte le sue competenze per impacchettare un finale perfetto per questa trilogia. Uno dei tanti punti forti del film è appunto la regia, ricca di spunti interessanti e che soprattutto riesce a focalizzare lo spettatore sui momenti importanti della pellicola così come sui personaggi, con tanti primi piani atti a valorizzare l’espressività degli attori, sia umani che digitali, entrando nella loro intimità. L’utilizzo di grandi panoramiche enfatizza le location, dando l’impressione che nulla sia stato lasciato al caso, le scene di battaglia vera e propria sono girate con maestria, non si perde un fotogramma di quello che succede e con una messa in scena che strizza l’occhio ai grandi capisaldi del genere. Anche la fotografia, a cura di Michael Seresin valorizza tutti i momenti della pellicola, dando risalto a colori freddi e cupi, a segnalare anche una resa dei conti finale e lontana da lieti fini.
Proprio una delle caratteristiche di questa nuova trilogia è l’utilizzo della CGI per la realizzazione delle scimmie, di ottima fattura – al punto che potreste dimenticare di star guardando un film invece di un documentario su National Geographic – sono reali, in tutti i loro aspetti, e così come le abbiamo immaginate prima della conquista del pianeta a tutti gli effetti: non sono ancora le scimmie con modi di fare umani, evolute, conservano ancora molte tracce del mondo selvaggio dal quale provengono e solo una manciata riesce a comunicare utilizzando la nostra lingua. La cosa che sorprende è la loro caratterizzazione, più sfaccettata e complessa rispetto alla controparte umana, che vede nel Colonnello McCullough (Woody Harrelson) una guida quasi spirituale più che un leader militare. Il Colonnello rappresenta in tutto un’umanità in difficoltà ma che vuole darsi per vinta, piena di paura e angosce di una razza ormai in via d’estinzione. Il dare maggiore spazio alle scimmie risulta una scelta azzeccata dagli sceneggiatori, non solo perché siamo più propensi ad empatizzare con esse, ma soprattutto – ed è una cosa molto interessante – capire come una civiltà scaturita quasi dal caso possa prendere possesso dell’intero pianeta. The War ci racconta questo in maniera egregia, collegandosi in maniera perfetta agli avvenimenti del lungometraggio del 1968: tutto ha una sua logica consequenziale e quell’elemento che ha dato il via a tutto segnerà in modo inesorabile il sorgere di una e il cadere dell’altra specie.
C’è spazio anche per le tante citazioni, evidenti o meno, ai film precedenti (una su tutte Nova) e anche a un comic relief mai invasivo come Scimmia Cattiva, che riesce a spezzare sapientemente la tensione quando serve.
Menzione d’onore anche alle musiche, create per l’occasione da Michael Giacchino (vincitore del premio Oscar nel 2010 per Up), figura ormai di spicco nel mondo del cinema e TV. Tutte le musiche sono arrangiate in modo da ricordare quelle dei film originali, quasi tribali, e accompagnano perfettamente tutti gli eventi, da quelli introspettivi a quelli più concitati.

Ma veniamo al cuore della trilogia. Nei film ancestrali si è andato sempre più ad approfondire la figura di un leader, quasi una divinità, che secoli prima aveva liberato il popolo delle scimmie dalle mani dell’uomo, regalando sapienza e l’uso della parola: il suo nome era Cesare. Nella nuova trilogia vediamo letteralmente nascere questo futuro leader e, tutte le sue vicende saranno in stretta correlazione con il destino dei suoi simili. Nel terzo capitolo di questa saga, vediamo un Cesare molto più consapevole del suo ruolo, un leader politico, uno stratega militare, guida spirituale, quasi un Mosè del XXI secolo che, come per gli ebrei, traghetterà il suo popolo alla tanta sospirata terra promessa. Ma c’è di più: gli eventi precedenti, soprattutto quelli inerenti ad Apes Revolution, lo hanno segnato profondamente e i suoi dubbi, paure, tormenti ma anche speranze, sono tutti racchiusi nei suoi occhi e nella capacità di esprimere qualsiasi emozione con un solo sguardo. Cesare risulta essere uno dei personaggi meglio scritti negli ultimi anni ma non sarebbe stato così reale se a dargli le fattezze non fosse intervenuto Andy Serkis: il Gollum de Il signore degli anelli (ma anche Ulysses Klaue nel Marvel Cinematic Universe) è infatti riuscito a dare un interpretazione quanto meno da candidatura agli Oscar. Nella realizzazione di Cesare, Serkis,circondato quasi sempre da green screen e ricoperto da sensori per poi esser ricreato in computer grafica, ha creato movenze, piccoli gesti e soprattutto una voce adatta a un primate evoluto, dando vita a un personaggio reale e credibile. Il suo percorso si concluderà con quest’ultimo film, con un finale semplicemente perfetto.

The War: il pianeta delle scimmie è la dimostrazione di come un blockbuster adatto a un vasto pubblico possa riservarsi una certa autorialità, presentando elementi di alta spettacolarità e intrattenimento senza rinunciare a elementi di grande qualità visiva e di scrittura. Il Cesare di Andy Serkis, nonostante le fattezze digitali, è uno dei personaggi migliori apparsi negli ultimi anni nella cinematografia mondiale, risultando complesso, carismatico e dalla forte impronta visiva.
Quel che ci regala questo film, nonché l’intera trilogia, è un mondo realizzato con coscienza di causa, non solo creato per accaparrarsi i soldi di fan e curiosi, ma per completare ancora di più la storia «di questa civiltà alla rovescia», come descritto da George Taylor, protagonista della pellicola originale nel 1968.




Top 5: le migliori uscite di Luglio 2017

L’estate si fa sempre più calda ma i gamer non smettono di giocare, e anche il mese di Luglio ci ha dato titoli degni d’interesse, fra i quali la redazione di Gamecompass ha selezionato i migliori in questa TOP 5:

Al quinto posto abbiamo Shadow Tactics: Blades of the Shogun, tattico stealth in tempo reale ambientato nel Giappone del XVII secolo che unisce ottime dinamiche di team a un curatissimo level design in un gioco ricco di possibilità dal punto di vista strategico, nel quale di squadra non adombra lo spessore dei ninja e samurai che la compongono.

Al quarto posto torna una vecchia conoscenza dell’ambiente indie, Edmund McMillen con il suo The End is Nigh, platform d’avventura dove si controllerà Ash, esserino sopravvissuto alla fine del mondo che guideremo tra varie peripezie, in un titolo zeppo di ritmo e azione che non sembra aver nulla da invidiare ai precendenti The Binding of Isaac e Super Meat Boy anche nella qualità della storia.

Al terzo posto troviamo Final Fantasy XII: The Zodiac Age, remastered del titolo del 2006 che offre al giocatore nuovi sistemi di combattimento e di classi, ulteriori modalità di gioco e un sistema di potenziamento dei singoli personaggi che, uniti a una grafica e un sonoro notevolmente migliorati, rinnovano al meglio un titolo che già più di 10 anni fa aveva offerto un’ottima esperienza di gioco agli appassionati della saga nipponica e non.

E ad aggiudicarsi il secondo posto è Pyre: rpg sviluppato dagli stessi creatori di Bastion e Transistor, Pyre è un’avventura che unisce ottima azione a momenti di strategia valorizzati da un curatissimo e affascinante art style e a una narrazione raffinata che non risparmierà al giocatore intrattenimento e forti emozioni.Ma il vincitore della nostra top è nuovamente un titolo Nintendo: il primo posto del mese di luglio va infatti a Splatoon 2, divertentissimo shooter dalla grafica cartoonesca e accattivante che comprende tantissime modalità di gioco, e con il quale la casa di Kyoto fa un passo avanti nel campo degli esports aggiungendo un titolo di grande livello al catalogo di Switch che sta registrando un ottimo anno d’esordio.

Ed ecco di seguito le classifiche parziali per ogni redattore:Simone Bruno

  1. Shadow Tactics: Blades of the Shogun
  2. The End is Nigh
  3. Splatoon 2
  4. Pyre
  5. Final Fantasy XII

Calogero Fucà

  1. Final Fantasy XII
  2. Splatoon 2
  3. Pyre
  4. The End is Nigh
  5. Shadow Tactics: Blades of the Shogun

Dario Gangi

  1. Splatoon 2
  2. Kirby’s Blowout Blast
  3. Fortnite
  4. Final Fantasy XII
  5. Namco Museum

Vincenzo Greco

  1. Pyre
  2. Lone Echo
  3. Call of Duty: Infinite Warfare – Absolution
  4. Gigantic
  5. Final Fantasy XII

Gero Micciché

  1. Pyre
  2. The End is Nigh
  3. Splatoon
  4. Final Fantasy XII
  5. Shadow Tactics: Blades of the Shogun

Marcello Ribuffo

  1. Final Fantasy XII
  2. Splatoon 2
  3. Pyre
  4. Black the Fall
  5. Call of Duty: Infinite Warfare – Absolution

Alfonso Sollano

  1. Pyre
  2. Final Fantasy XII
  3. Splatoon 2
  4. The End is Nigh
  5. Fortnite

Daniele Spoto

  1. Shadow Tactics: Blades of the Shogun
  2. Splatoon 2
  3. Wild Guns Reloaded
  4. Brain Training Infernale del Dr. Kawashima
  5. Yonder: The Cloud Catcher Chronicles

Gabriele Tinaglia

  1. Splatoon 2
  2. Fortnite
  3. Hey! Pikmin
  4. Gigantic
  5. Neverwinter: Tomb of Annihilation

Vincenzo Zambuto

  1. Final Fantasy XII
  2. Accel World vs. S.A.O.
  3. Miitopia
  4. Yonder: The Cloud Catcher Chronicles
  5. Hey! Pikmin

La classifica finale vede dunque:

  1. Splatoon 2 (33 pt.)
  2. Pyre (23 pt.)
  3. Final Fantasy XII (18 pt.)
  4. The End is Nigh (13 pt.)
  5. Shadow Tactics: Blades of the Shogun (12 pt.)



PlayStation VR: 5 consigli per l’estate

Ritornano gli attesi saldi estivi del PlayStation Store, che quest’anno non hanno escluso i titoli per PlayStation VR, la periferica della realtà virtuale di PS4; i saldi andranno avanti fino al 17 agosto, e oggi si avrà un’importante aggiornamento. Ma, fra quelli in offerta, ci sono 5 giochi che dovreste assolutamente tenere d’occhio:

Wayward Sky, sviluppato da Uber Entertainment in esclusiva per PlayStation VR. Distinguendosi per la sua semplicità, quanto per il suo particolare stile grafico, uesta avventura punta e clicca risalta particolarmente per il suo ritmo pacato, che ci lascerà tutto il tempo per assaporare una storia inedita alla scoperta di una fortezza meccanizzata tra le nuvole.

DriveClub VR  è l’evoluzione dello storico DriveClub,  che al tempo era stato lanciato su PS4; questo nuovo titolo sfrutta le caratteristiche del visore di Sony per immergere il giocatore in un mondo letteralmente a 360 gradi in cui è possibile cimentarsi in emozionanti gare fra auto, rendendo l’esperienza di gioco ancora più entusiasmante e interattiva.

Superhot Vr è uno shooter molto intuitivo basato su un sapiente mix di sparatorie, corse e fughe all’ultimo istante. La versione VR, uscita in parallelo a quella per pad, rende il gioco molto più intuitivo rispetto alla versione per mouse e tastiera. Per il resto, non è cambiato molto: i colori predominati e gli ambienti di gioco rimangono invariati, come del resto le meccaniche base del gioco.

Vrog è un fantastico titolo molto dinamico e colorato, adatto anche ai più piccoli, in cui prenderemo le sembianze di una rana che potremmo fare saltare da uno stagno all’altro. Sono presenti tre modalità di gioco:

  1. Arcade: in cui dovremmo mangiare il maggior numero di insetti, e in cui si dovrà fare attenzione a non mangiare insetti pericolosi che potranno danneggiarci.
  2. Gruppo: in questa modalità molto simpatica è possibile giocare con gli amici organizzando gare di salti a turno o sfidare la CPU.
  3. Sopravvivenza: dove dovremo evitare gli attacchi della cicogna ma contemporaneamente mangiare quanti più insetti possibili.

Dino Frontier che non è il classico gestionale: questo gioco infatti ci permetterà di metterci nei panni del sindaco Big Mayor, che dovrà proteggere la sua cittadina, in pieno stile Far West, da gruppi di dinosauri e banditi intenti a razziare il paese. Questo titolo dimostra come le ambientazioni western siano sempre più interessanti e aggiunge quel tocco di personalizzazione cartoonesca che non guasta affatto l’esperienza di gioco.




Nahar Comics & Games 2017

Naro è un comune della provincia di Agrigento che conta circa 8000 abitanti, ma dei ragazzi, quelli dell’associazione Nahar Comics & Games, presieduta da Daniele D’Agostino, pieni di forza di volontà e con la passione per il mondo geek, hanno avuto l’idea di realizzare una fiera: il Nahar Comics & Games.

Il Palazzo Malfitano è stato costruito durante il XV secolo e, proprio per le origini del luogo che ha ospitato la prima edizione del Nahar Comics & Games, il tema principale della fiera è stato quello medievale.
Come tutte le fiere del fumetto e della cultura pop, anche questa non poteva non avere aree dedicate ai manga, ai videogiochi, ai giochi da tavolo, alla ristorazione, alle conferenze e un area dedicata a scontri tra cavalieri e arcieri.
Il reparto manga e giochi da tavolo è stato curato da Kalos Games & Comix, che ha offerto, oltre a gadget e manga di tutti i tipi, anche funko pop e giochi da tavolo.
L’area games, invece, è stata curata da Game Up, con tornei di Tekken 7, Fifa 17, Guitar Hero e Crash Bandicoot N.Sane Trilogy.

Oltre ai tornei era pure presente parte della redazione di GameCompass, che ha allestito uno stand e ha collaborato con il Nahar Comics come media partner.
L’area ristoro ha ospitato un bar e il caratteristico Maid Café, gestito dalle ragazze di Maidolls Nyan, che hanno, anche, preparato una coreografia a tema per la fine del cosplay contest. Inoltre, era presente lo stand di Green light in cui era possibile comprare e assaggiare bevande e cibo aromatizzato alla canapa.
Come non poteva mancare il Cosplay Contest, che ha visto molti cosplayer alle prese con le loro esibizioni e i giudici (Marty EmeraldMatteo Volpe e Lady BelleMoon) a decretare il vincitore. A richiamare l’attenzione dei partecipanti è stata anche la presenza di vari Youtubers, come: MrPoldoAkbar, Hemerald, i Maghi Merrino, i Parco Giochi e PapaTeo; che hanno scattato foto con i fan e firmato autografi.
La serata è terminata con un concerto, in cui Alessandra Raven e Marco Mondì hanno cantato le più famose colonne sonore dei film animati Disney, intrattenendo tutti, dai bambini agli adulti.
Il Nahar Comics & Games ha ricevuto un buon riscontro, arrivando a circa 500 partecipanti e rendendo possibile una probabile seconda edizione.




Top 7: le migliori intro nei videogames

Chi ben comincia è a metà dell’opera e questo detto vale anche per il mondo videoludico. Le intro servono per introdurci al mondo di gioco e a volte diventano dei piccoli capolavori, magari ricordate più dei giochi stessi. Vediamo quindi quali sono le migliori, e attenzione a possibili spoiler.

#7 Half-Life

Comincia tutto da qui, almeno per la narrazione diretta, senza utilizzo di cutscene: Half-Life rivoluziona tutto, facendoci vedere tutto dagli occhi del protagonista, aumentando in maniera esponenziale l’immedesimazione. Il complesso di Black Mesa scorre via attraverso i finestrini del treno, dandoci anche un brivido lungo la schiena, una sorta di presagio su qualcosa che sta per andare storto. Insomma, l’inizio di un’epica avventura.

#6 Batman: Arkham Asylum

Dopo tanti giochi deludenti dedicati a Batman, ne arriva uno che apre con il protagonista che sfreccia sulla sua Batmobile con a bordo Joker finalmente catturato. Tralasciando la cutscene iniziale realizzata col motore di gioco, il tutto si svolge sotto i nostri occhi con l’impressione di vivere quei momenti assieme a Bruce Wayne.

#5 Crysis 3

«Cosa sei pronto a sacrificare?» sono le parole di Prophet in orbita intorno alla terra con l’astronave dei Ceph pronta a sferrare l’attacco finale. Il protagonista ci racconta in prima persona gli avvenimenti dei 2 capitoli precedenti e quanto abbia sacrificato per dare una chance alla terra di salvarsi. La spettacolare scena in CGI, nonché la musica composta da Borislav Slavov, regala forti emozioni legandoci al protagonista di questo terzo capitolo che vediamo sconfitto e senza la possibilità di salvarsi. Il gioco sarà un lungo flashback che ci riporterà di nuovo a questo punto, ma le cose fortunatamente prenderanno una piega diversa.

#4 Fallout 3

Il piano sequenza, ripreso dai capitoli precedenti, entra prepotentemente nei nostri occhi con il terzo capitolo: la radio, semi distrutta ma ancora funzionante, trasmette una vecchia canzone degli Ink Spot, I Don’t Want to Set the World On Fire e, man mano che la camera si allontana, comincia a presentarsi il mondo di gioco, probabilmente dilaniato da esplosioni nucleari, sino a quando un uomo armato e corazzato appare facendo venire un sussulto. L’ormai celebre frase «War, War never changes», aprirà una sequenza introduttiva, fino al tutorial interamente integrato nel gioco, novità assoluta a quell’epoca negli RPG.

#3 Zone of the Enders: the second runner

Hideo Kojima ha realizzato una saga – ahimè dimenticata – denominata Zone of the Enders. Le intro sono ricercate, con molta importanza data alla regia e alla musica, ed è con The second runner che si raggiunge l’eccellenza. L’intro, della durata di quasi 8 minuti, colpisce come detto per le scelte registiche, che ricordano molto le cutscene in Metal Gear mescolando sapientemente sequenze realizzate col motore di gioco e sequenze animate dando un tocco di originalità al tutto. Altro punto di forza è Beyond the Bounds, il tema musicale del gioco, realizzato da Maki Kirioka e interpretato da Maki Kimura influenzata dalla lingua e dallo stile finlandese.

#2 Mass Effect 2

In questa prima parte di Mass Effect 2 vengono introdotti immediatamente i nuovi antagonisti, i Collettori, i quali a bordo della loro nave distruggono la Normandy, regalandoci scorci mozzafiato. Il gesto eroico di Shepard nel salvare Joker sembra normale routine ma capisci che qualcosa non quadra quando lo vediamo precipitare, soffocare e probabilmente bruciato vivo con l’attrito dell’atmosfera. Fortunatamente la storia continuerà sviluppando ottimi presupposti.

#1 Bioshock

Capolavoro indiscusso sotto tanti punti di vista, Bioshock rapisce già dopo i primi secondi: si comincia dalle uniche parole pronunciate dal protagonista e dall’inabissarsi dell’aereo sul quale viaggiava, per poi trovare rifugio all’interno di un faro in mezzo al nulla. Sin dalle prime parole del discorso di Andrew Ryan, cominciano i brividi: si viene rapiti dal carisma di un personaggio ormai storico, e dalle sue motivazioni nel costruire Rapture, la città in fondo all’oceano libera da politica, religione ed etica. Tutto ci spinge a capire cosa è successo e, una volta avuta risposta, si avrà una nuova consapevolezza nel riguardare questa intro.




Top 5: I 5 migliori film tratti dai videogames

Il videogioco è una delle poche arti che il cinema non ha ancora saputo interpretare e trasporre al meglio, risultando gli adattamenti tratti da titoli videoludici spesso poco convincenti. Ciò nonostante si contano anche vari esempi positivi e qui di seguito abbiamo selezionato i 5 migliori film tratti dai videogames.

Al quinto posto troviamo Warcraft – L’inizio: film decisamente imperfetto sul piano contenutistico, gode però di un comparto tecnico assolutamente di rango, con effetti digitali ben realizzati che offrono risultati di grande espressività. È un film che si ricorda più sul piano visivo e sonoro, con ambientazioni straordinarie e una colonna sonora molto ben curata, ma si spera che possa essere davvero l’inizio di una saga ben realizzata anche sul piano della sceneggiatura.Al quarto posto abbiamo invece Angry Birds, pellicola nata come palese operazione commerciale per sfruttare il successo dei famosissimi pennuti del mondo videoludico mobile e che ha prodotto un film d’animazione brillante, farcito di gag, citazioni divertenti e personaggi molto spassosi. Un risultato inaspettato per una serie che non gode di una solida storia alle spalle.Al terzo posto troviamo Final Fantasy:  se The Spirits Within narra una storia autonoma, che vede al centro la scienziata Aki Ross nel tentativo di salvare l’anima del pianeta Gaia, Advent Children, è invece il sequel di Final Fantasy VII mentre Kingsglaive è il capitolo che introduce a Final Fantasy XV. Film che sono sì un buon complemento della serie videoludica, ma che restano ampiamente godibili anche per chi non abbia giocato la nota saga giapponese.Al secondo posto abbiamo Resident Evil, da cui sono stati prodotti una serie di film non sempre felici, ma nella quale il primo rimane comunque un buon risultato. Inizialmente affidato a George Romero e poi passato nelle mani di Paul Anderson, è un film nel quale viene introdotto il personaggio di Alice, interpretata da Milla Jovovich, che si muove bene in un film claustrofobico che non lesina i momenti splatter, e che si imprezionisce della colonna sonora di Marylin Manson. Anche qui la sceneggiatura non è il massimo, ma resta comunque un film godibile in una saga cinematografica che ha offerto vari punti bassi.E in cima alla nostra lista troviamo forse il risultato di trasposizione più riuscito, Silent Hill. Tratto dal primo capitolo dell’omonimo videogame, il film si differenzia per svariati elementi ma riesce a restituire l’atmosfera della nebbiosa cittadina, grazie a una sceneggiatura molto ben curata da Roger Avary e una messa in scena di tutto rispetto, che mette lo spettatore in uno stato di inquietudine ancor prima di incontrare il tanto temuto Pyramid Head. Un film che apprezzeranno tutti gli amanti dell’horror e che ha avuto anche un seguito non al livello.




Transformers: l’ultimo cavaliere

Chi scrive è un grande fan dei Transformers: serie animate, action figures (in tenera età) e videogiochi mi hanno accompagnato fino a quando, con mia somma commozione, venne annunciato il primo lungometraggio diretto da Michael Bay e prodotto da Steven Spielberg. Il primo capitolo di questa saga – nonostante i difetti che diventeranno marchio di fabbrica nei capitoli successivi – rimane il migliore, con la magia dei robottoni ancora presente e lo scontro finale tra Optimus Prime e Megatron come doveva essere, o quasi.
Da La vendetta del Caduto in avanti, la qualità del brand cinematografico è andata via via precipitando in un limbo dal quale risulta veramente difficile uscire e, se pensiamo che sono già previsti almeno altri quattro film più un lungometraggio dedicato a Bumblebee, si può facilmente immaginare che prima o poi il pubblico reagirà di conseguenza, come già visto con i minori incassi avuti in Stati Uniti e Europa de L’ultimo cavaliere.
Ma sarà riuscito Michael Bay a portare una svolta con quest’ultimo capitolo? La risposta probabilmente non vi piacerà.

I Transformers ci sono sempre stati: anche Re Artù e Mago Merlino hanno avuto l’opportunità di incontrare i Cybertroniani, aiutandoli nelle battaglie e preservando la pace. Questa rivelazione può essere considerata uno dei tanti incipit dell’intricata trama – non necessaria – di Transformers: l’ultimo cavaliere. Come ormai siamo abituati a vedere, la sceneggiatura è uno dei punti deboli del franchise e io partirei proprio da qui. Nel corso delle due ore e mezza del film assisteremo a quanto di più confusionario e contraddittorio sia stato scritto nell’ultimo periodo. Raccontare l’origine dei robottoni era qualcosa di scontato e sapevamo già che prima o poi questo argomento sarebbe stato trattato, magari con l’occasione di approfondire qualcosa che è sempre stato molto vago all’interno del franchise. Invece, anche questo argomento è stato trattato con pressappochismo, inserendo divinità (o considerate tali) praticamente a caso e senza un vero background narrativo. Proprio una di queste cosiddette divinità, Unicron, è stata inserita in un contesto talmente sbagliato che chiunque abbia visto un episodio della serie animata avrebbe potuto fare di meglio. Unicron è un elemento cardine del franchise ma nella trasposizione cinematografica è stato completamente annullato.
Uno dei difetti tipici dei Transformers di Bay è sicuramente lo spazio eccessivo dato alla controparte umana, qui personificata da Cade Yeager (Mark Wahlberg) che torna dopo l’Era dell’estinzione. Yeager è al centro delle vicende, così come lo sono Edmound Burton (Antony Hopkins) e Vivian Wembley (Laura Haddock): tutto viene portato avanti in modo quasi del tutto autonomo, con i Transformers non del tutto necessari, quando dovrebbero essere i protagonisti della pellicola. L’ampio uso degli umani potrebbe anche essere un modo interessante di osservare le vicende da un punto di vista diverso, ma nelle mani di Michael Bay diventa soltanto l’espediente per mostrare le sue virtù da regista: continue inquadrature dal basso verso l’alto, scavalcamenti di campo, camera tremolante, le solite sequenze d’azione confusionarie e ridondanti, il tutto contornato da un montaggio visibilmente sbagliato.
Tutto il cast umano risulta quindi mal gestito (un esempio su tutti è Izabella) e soprattutto la loro caratterizzazione mal congegnata. Nessuno degli attori riesce a ritagliarsi lo spazio sufficiente per stabilire una vera empatia col pubblico e personalmente dispiace molto vedere attori del calibro di Anthony Hopkins e Stanley Tucci naufragar “dolci” in questo mare.
Insomma, siamo sempre di fronte ai soliti problemi di scrittura: personaggi mal caratterizzati (umani e non), coerenza narrativa inesistente, troppe storyline non necessarie ad appesantire il tutto, espedienti narrativi nonsense e soprattutto l’inserimento di momenti che dovrebbero essere esilaranti che invece risultano pacchiani.
L’unico lato positivo riguarda gli effetti visivi, davvero ottimi, con i Transformes perfettamente amalgamati al contesto ambientale. Ma è davvero troppo poco per portare questo film anche vicino alla sufficienza.

In conclusione Transformers: l’ultimo cavaliere è probabilmente uno dei peggiori blockbuster di quest’anno. È l’ennesimo film della saga che si porta dietro gli stessi problemi sinora ampiamente messi in luce da critica e pubblico, e che per di più crea contraddizioni con i capitoli precedenti. L’intrattenimento non si riduce al susseguirsi continuo di esplosioni e questo Michael Bay dovrebbe cominciare a capirlo: basta guardare Pacific Rim di Gullermo del Toro per capire cosa sia un bel film di intrattenimento con al centro mostri e robottoni giganti.
Transformers: l’ultimo cavaliere è invece un film che trasuda presunzione dalla messa in scena alla regia. Di capitolo in capitolo ogni cosa sembra diventare più grande e intricata e a questo punto la curiosità di vedere il prossimo film della saga non è più dettata da nuovi personaggi introdotti o da approfondimenti narrativi, ma viene sostituita dalla curiosità di vedere come Michael e soci riusciranno a fare peggio del precedente.