Memorie in Open World

Correva l’anno 2007, uno come tanti se non fosse che, da qualche parte nell’estremo sud del Bel paese, un ragazzino cominciò ad avere il primo approccio con un mondo nel quale poi, sarebbe rimasto immerso fino al collo: quello videoludico. Tutto ebbe inizio su una PlayStation, un po’ per svago, un po’ per caso. Un po’ come tutti, insomma, e segnati da titoli storici come Crash Bandicoot, Asphalt e Need for Speed. Giochi straordinari, ma a far breccia fu la serie di Grand Theft Auto, quella che ancora oggi, – agli occhi di chi scrive – rimane senza pari. Nella moltitudine di titoli che componevano la saga, era inevitabile restare folgorati da San Andreas, titolo controverso che ha letteralmente assistito la mia infanzia. Vi sono sentimentalmente attaccato: quante partite giocate in co-op locale insieme alla mia sorellina più piccola, da un lato il joypad, dall’altro un bel biberon di latte, decine di missioni da completare e nessuna Memory Card su cui salvare i dati (il che mi spingeva a completare il maggior numero di missioni nel minor tempo possibile), cosa potevo desiderare di meglio che godersi la totale libertà in game in compagnia di mia sorella? Per me era quella la felicità, giocare con chi vuoi e a cosa vuoi senza preoccuparti di altro. Passare le giornate a esplorare quell’universo gangsta di cui, grazie al fascino del male che un po’ tutti prima o poi ci tocca, si sognava in qualche modo di far parte: a chi non piacerebbe andare in giro a conquistare i territori delle altre gang a suon di bazooka e molotov? Certo, non avevo ancora l’età per giocarci – non ditelo a nessuno! –  e nonostante il PEGI non sia più un problema per me, mi rendo conto che all’epoca questo avrebbe potuto precludermi questo divertimento, anche se giustamente. C’è un tempo per tutto e lo stesso vale per San Andreas.
Uno dei grandi meriti della serie
GTA è l’aver dato a tutti noi la possibilità di fare quel che non avremmo mai potuto osare. Potevo rubare uno Shamal fiammante al Los Santos International Airport e volare su e giù per l’intero Stato schivando missili termici, elicotteri e jet militari, e forse è proprio tutto quel tempo passato a volare che ha generato in me una curiosità quasi morbosa verso i simulatori di volo come Microsoft Flight Simulator X e X-Plane-7, passione che coltivo tutt’oggi con discreto interesse. Ero, e sono, un explorer da competizione, mi piaceva passare a menadito tutto il calpestabile del gioco, dai meandri più nascosti verso i Map Exit fino alle vette più alte: le avrei mai viste, altrimenti? Quel gioco era un piccolo, perfetto saggio di come creare un mondo aperto. Ecco, quel che le generazioni precedenti alla mia non hanno avuto a quell’età è sintetizzato in due parole: Open World.
Dopo la saga
GTA, per me vennero Just Cause 2, Watch Dogs, Dirt, titoli in cui perdersi nella digitale immensità geografica e nella cura dei dettagli. Oggi ho trasmesso questa mia passione alle mie sorelle che, non solo hanno apprezzato il genere, ma hanno anche cominciato a muovere i loro primi passi su titoli come Minecraft: certo, meno esplosivo, ma volete mettere quel potenziale di creatività primitiva espressa nel crafting di questo sandbox immenso e squadrato? A volte mi siedo accanto a loro, le guardo giocare, ogni tanto faccio un giro anch’io in quei paesaggi geometrici. Ma subito mi viene da pensare alle corse sulle strade di San Andreas, ai tramonti visti sfrecciando sul lungomare, e in qualche modo mi sento vecchio nonostante la mia giovanissima età; pesco da ricordi che sembrano lontanissimi mentre cerco di dare loro consigli su cosa fare e come fare, ma loro sono sempre un passo avanti a me. Ed è questo che forse ci ricordano i videogiochi, che c’è sempre da imparare, anche dai più piccoli che da noi cercano saggezza e insegnamenti che poi spesso troviamo in loro.




Il gaming estivo di un musicista ramingo

La vita del musicista, d’estate, è la più bella che ci sia: fare chilometri e chilometri con l’auto piena a tappo di strumenti, casse e costosissime apparecchiature per poi ripercorere le strade a ritroso in tarda notte; quando la musica finisce, le vie sono vuote e la gente esausta torna a casa. Ogni sera un luogo diverso, gente diversa e mangiare diverso, notti fatte di scoperte, conoscenze e, talvolta, anche assurdi imprevisti.
Tuttavia, per un giocatore quel tempo investito in musica si traduce anche nel dover mettere da parte la propria console e nel giocare quando il tempo lo permette, nelle rare serate quando nessun pub, bar, chiosco o comune richiede la presenza della propria band; ci si sveglia tardi per la stanchezza della sera prima, ci si prende un caffè, si va a pranzare poco dopo e presto bisogna fare una doccia perchè la prossima serata è ormai a un paio d’ore. La console rimane impolverata accanto allo scaffale e la pila di giochi che hai comprato rimane lì, in attesa che tu possa prendere il controller e passare delle sane ore di gaming.

Quando finalmente il calendario non segna un impegno della tua band, ci si chiude in camera, si regola il condizionatore a 18°, si mette il cellulare in modalità silenzioso e via, soli con l’avventura del momento e il caldo afoso fuori, fino a quando il sole non si fa color porpora; dopo tante serate passate a suonare per il divertimento dei clienti in un locale, del tempo per noi stessi in cui goderci quel gioco compato a inizio estate e che fino a quel momento non si è riusciti a giocare.
Quando questa speciale sessione a tu per tu con la console termina si fa un salto da qualche parte con gli amici e si finisce ancora a parlare di quella avventura che si sta giocando e che nel frattempo sta affrontando anche l’altro amico: ci si confronta su chi è andato più avanti, chi ha preso quell’arma, chi ha incontrato quel NPC…

E poi finalmente – abbastanza assurdo d’estate – si va a letto a un orario abbastanza decente e ci si sveglia beatamente l’indomani. Ma la quiete viene interrotta dagli amici che bussano a casa per giocare a Donkey Konga fino a farsi diventare le mani rosse, sapendo peraltro che quella sera ci si ritroverà nuovamente a suonare! Anche quando tenti di tenerla fuori, la musica continua sempre a inseguirti e, per quanto bella, quando incontra i videogiochi può esserlo ancora di più.




Un’estate al nerd

La spiaggia, strade assolate, vento che sferza in faccia durante un giro in motorino, arrivare al mare, distendersi e dimenticare ogni cosa: la scuola, il lavoro, inverni e autunni di pensieri, responsabilità e preoccupazioni. L’estate è questo, ed è serate nei chioschi, chitarre davanti a un falò, baciarsi distesi sulla battigia e andare a dormire soltanto al palesarsi dell’alba. Per alcuni è i giochi all’aperto quando si è piccoli,  per altri le passeggiate in bicicletta, per altri le birre, le prime limonate… ha il sapore di ogni età, l’estate, e c’è sempre spazio per ogni cosa, e c’è il tempo per farla, quella cosa, nella calma placida di ogni ora libera e vacanziera.
In questo abbondare di tempo libero, volete non si trovi spazio per i videogiochi? Perché fra una pausa e l’altra del dolce far niente, tra una partita a pallone e una gara di tuffi, il tempo per una partitina in formato handheld o per un giro di joypad nella propria stanza si è sempre trovato. O, se si era in giro, non si lesinava una visita alla sala giochi, per chi abbia vissuto quell’epoca d’oro di luccicanti coin-op.

Per l’estate vogliamo regalarvi uno spazio amarcord, un momento dedicato ai ricordi estivi, piccoli racconti che testimoniano un altro frammento della nostra passione per i videogiochi. Passione che non ha tempo, né stagioni deputate, che se ne infischia del caldo boia e delle ore che passano fino a che si è fatta notte fonda, istanza del cuore che ti dice: gioca, tanto tornerà un altro inverno, gioca e non pensare ai mille petali di rose.

E quei giorni noi siamo qui a ricordarli, noi che abbiamo una redazione che spazia dai 17 ai 40 anni. Vogliamo raccontarveli tutti, questi decenni di differenza, queste estati che, pur segnando un arco lungo quasi un quarto di secolo, ci hanno riunito qui, sotto l’emblema di una bussola, uniti da un’unica passione. Dunque sedetevi con noi in riva al mare, prendete una bevanda gassata, mettete le cuffie e lasciatevi trascinare indietro nel tempo questi brevi racconti fatti di pixel e parole, righe che raccontano di estati al sapore di nerd.




C’è un luogo e un momento per ogni cosa

Dell’estate 2003 ricordo relativamente poco: una delle stagioni più calde di sempre, La canzone del Capitano di DJ Francesco, i miei primi approcci al calcio, le ginocchia sbucciate, le giornate passate a giocare con quelli che sarebbero stati i miei primi amici; un’estate qualsiasi di una bambina di 5 anni qualsiasi. Ma tra queste ormai polverose memorie c’è un evento a suo modo speciale, che avrebbe segnato la mia vita come pochi altri. I bimbi non sono consapevoli del peso delle loro esperienze, quello c’è tempo per capirlo più avanti. I bambini provano e basta.
In un caldo pomeriggio di luglio trovai un vecchio Game Boy appartenente a mio fratello sul mobile della mia stanzetta, tra le maschere e i costumi da bagno.
Lo notai, lo osservai, lo presi. Era visibilmente vecchio, polveroso, pesante; un pezzo di plastica e di storia tra le mani.
Lo accesi, e per la prima volta vidi quella ormai famosa schermata iniziale che si chiudeva con un effetto sonoro cristallino. Comparvero poi delle scritte, per me ancora incomprensibili, e infine un’insegna luminosa: era appena partito un video, o quello che all’epoca mi pareva tale. Ogni suono era unico, qualcosa di mai sentito prima: c’era un fondale marino, degli esserini che mi ricordavano vagamente delle cozze, poi dei pesci, sulla superficie galleggiava un animale che non riuscivo a riconoscere, transizioni fra le quali si intermezzavano altri esseri, tutti diversi, tutti rigorosamente in bianco e nero. Apparve un drago che sputava fuoco e poi la sagoma di una creatura, più grande e maestosa delle altre, che nuotava velocissima sul fondo dell’oceano. Con gli occhi pieni di stupore e la bocca semi aperta, mentre il mondo stava già esplorando la terza generazione, io avevo appena scoperto l’universo dei mostri tascabili: avevo tra le mani una copia di Pokémon Argento.

Non ricordo perché, probabilmente guidata dall’istinto come è sacrosanto a quell’età, iniziai a premere ripetutamente il tasto A, e mi ritrovai catapultata all’interno della partita. Davanti a me un mondo tutto da scoprire, e così avrei riempito tutti quei caldissimi e noiosi pomeriggi, quando nessuno dei bambini della mia zona era libero per giocare con me. C’era solo un problema: non sapevo leggere. E cosa fa un bambino quando non è capace di fare qualcosa? Chiede a qualcuno più grande di farla al suo posto. Mi precipitai da mio fratello, ai tempi appena dodicenne, gli chiesi di spiegarmi cosa fare.
Non ricordo cosa mi disse, né come finì quella giornata; so solo che da quel momento, nel tempo libero che passavo in casa, magari dopo un pomeriggio in bici o una mattinata passata al mare, che fossi sudata o con i capelli pieni di sale, afferravo il Game Boy e iniziavo a giocare. Muovi il personaggio, incontra avversari, sconfiggili, vai avanti per la tua strada. Qual era il modo migliore per vincere? Non ne avevo idea. Quale posto dovevo raggiungere? Volevo solo camminare e scoprire tutti quei luoghi che il gioco offriva, che aveva in serbo per me. E sapete cosa? Mi divertivo davvero tantissimo. La mia prima, grande iniezione di serotonina videoludica. Era tutto molto bello, e al divertimento si affiancava di pari passo il senso della sfida.
Imparai gradualmente le basi del gioco e capii finalmente il suo vero scopo: dovevo sì scoprire Johto e Kanto, ma per completare il Pokédex: ovviamente dovevo battere gli altri allenatori, ma per il preciso scopo di raccogliere le medaglie e accedere alla Lega per diventare infine Campione. E quando mi decisi ad arrivare sulla cima dell’Altopiano Blu per sconfiggere quelli che erano gli allenatori più forti della regione, e quando buttai giù l’ultimo Dragonite di Lance, sentii addosso tutte quelle emozioni che si provano quando si riesce a fare qualcosa di straordinario dopo essere partiti da zero. Il potenziale emotivo dei videogame si era per la prima volta dispiegato davanti a me, e io lo lasciavo esplodere come fuochi d’artificio nel cielo notturno: era bellissimo e liberatorio.
A quella estate ne seguirono altre, molte portano con sé ricordi legati a vari videogame, e fra questi non mancava mai un gioco della serie Pokémon. Introdussi i miei amici al brand nel 2004, iniziai e completai la mia prima personalissima avventura nel 2005 su Rosso fuoco, subito dopo aver ricevuto un Game Boy Advance SP; nel 2006 feci un piccolo passo indietro recuperando Rubino, dove per ogni leggendario che trovavo dovevo chiamare a raccolta tutti i bambini del quartiere per farmi aiutare, quando eravamo tutti convinti che per catturare un Pokémon fosse necessario premere dei tasti: c’è chi premeva ripetutamente A, chi B, chi si accaniva sulla croce direzionale, chi si lanciava in combinazioni di questi tasti, chi L+R, chi tutto a casaccio. Si provava ogni cosa e si perdevano ore finché quella dannata pokéball non si fosse chiusa.
Ora la saga ha sicuramente preso una piega diversa e c’è chi dice che sia diretta verso un inesorabile declino, e per certi versi sono costretta ad essere d’accordo. Sono piuttosto scettica riguardo i remake di Kanto in arrivo su Switch, ma è sulla prossima generazione che ripongo tutte le mie speranze. Ma poco importa, il meglio è già nella memoria: nessuno mi toglierà mai dal cuore quei giochi che per lungo tempo sono stati i miei migliori compagni d’avventura, soprattutto estivi, che a modo loro mi hanno aiutata a diventare ciò che sono adesso.
Ancora oggi, di tanto in tanto, ascolto la colonna sonora della seconda generazione, e mi piace pensare che quella bimba che giocava con quel vecchio Game Boy americano, con i suoni a 8 bit accompagnati dal rumore delle onde, sia ancora dentro di me, e che non smetta mai di giocare.




Cloud gaming = futuro?

Lo scorso giugno, Yves Guillemot, CEO di Ubisoft, ha rilasciato delle dichiarazioni destinate a far discutere: secondo il fondatore dello studio francese, la prossima generazione di console sarà l’ultima per come la conosciamo, destinata a lasciare il posto al cloud gaming. E in effetti il futuro sembra volgere verso questo tipo di servizio, come lasciano intuire gli interessamenti da parte di Activision, Sony col suo PlayStation Now (e prima ancora, l’acquisto di Gaikai), più una miriade di servizi recenti come Nvidia Grid, Liquidsky, Vortex o Snoost. Ma la “bomba di mercato” maggiore proviene da Redmond, Washington; infatti, secondo le ultime voci, pare che Microsoft voglia creare due versioni della nuova Scarlet, nome in codice della prossima Xbox: una console “classica” e l’altra, più economica e completamente incentrata sul GooS (gaming as a service), ovvero, il cloud streaming.

Certo, le intenzioni sono interessanti, e anche sotto il profilo del progresso tecnologico sembra che il GooS rappresenti il futuro prossimo, con servizi più vicini a ciò che offre Netflix: Snoost, per esempio, prende pesantemente ispirazione dal servizio di streaming cinematografico e televisivo californiano, con piani di abbonamento che partono da 12,95€ al mese per un’esperienza a 480p, fino ad arrivare a pagare 38,85€ mensili per il gaming a 1080p. Ma il nodo gordiano della questione cloud gaming è rappresentato sempre dalle infrastrutture di rete, dove i lag spikes la fanno da padrone: prendendo per esempio il nostro paese, secondo il report dell’AGCOM scopriamo che solamente il 25% della popolazione ha accesso a una connessione internet che supera i 100Mbps, e un fortunato 2% che usufruisce di una rete FTTH (fiber to the home). Dato parecchio sconfortante, reso ancora più deprimente se controlliamo la classifica della velocità delle connessioni mondiali pubblicata da M-Lab, dove l’Italia si assesta al 43° posto, quart’ultima nazione europea.

Tornando all’attualità del cloud gaming, al momento abbiamo qualche timido servizio, come quelli citati all’inizio, e tante promesse: è il caso di Microsoft. La voce di una nuova Xbox dedicata solo ed esclusivamente allo streaming potrebbe essere la svolta decisiva per un nuovo modo di intendere i videogiochi. Non a caso, da qualche giorno molte sono le notizie che vedono l’azienda di Bill Gates intenta a tornare nel settore degli smartphone, nonostante il fallimento di Windows Phone e di Surface Phone (che, a inizio anno, rappresentavano solamente lo 0,15% della fetta di mercato!): alla fine, il motto che ha contraddistinto Xbox One è “play anywhere”, con una sorta di interconnessione tra la console e i PC con Windows 10: e se questa connessione si allargasse anche agli smartphone, così come fa Remotr? Rientrerebbe nelle classiche innovazioni a cui Microsoft aspira fin dagli inizi della sua storia.
Ma vi è anche un pericoloso precedente andato male, che riguarda una console dedicata esclusivamente allo streaming: è il caso di PlayStation TV, un piccolo media center creato da Sony per poter giocare sui televisori di casa con i titoli PlayStation Vita, coadiuvato anche dal supporto a PlayStation Now. Fu un fallimento commerciale: la piccola scatolina nera di Sony non aveva nessun appeal per i giocatori, con un costo elevatissimo per ciò che veniva offerto, e il progetto venne accantonato dopo soli due anni dall’uscita nei negozi.

Non basta il caso di PlayStation TV a rendere dubbia l’effettiva funzionalità del GooS; prendiamo sempre come esempio l’ipotetica “doppia” Xbox: come verrebbe impostato il marketing di Microsoft? Quale sarebbe la vera differenza delle due versioni, all’infuori del costo meno elevato per la versione dedicata allo streaming? E se quest’ultima avesse più problemi rispetto a una console classica, essendo legata a doppio filo dalle infrastrutture di rete del proprio territorio? Sarebbe devastante per una Microsoft non più disposta a inseguire le concorrenti nella prossima generazione di console. Certo, in caso contrario verrebbe fuori qualcosa di rivoluzionario, e rappresenterebbe davvero l’inizio di una nuova era nel gaming, ma al momento è tutto un grande “se”, visto che non si sa se effettivamente negli studi di Redmond si stia progettando una Xbox dedita esclusivamente alle funzionalità cloud.
Più concreta, invece, sembra la linea intrapresa da Activision; pochi giorni fa, il COO Coddy Johnson ha rilasciato le seguenti dichiarazioni a proposito del cloud gaming:

«Pensiamo che sul lungo termine l’impatto del gaming basato sul cloud e sullo streaming sarà positivo sia per noi che per l’intera industria videoludica. Innanzitutto perché ha il potenziale di accrescere la base di videogiocatori, raggiungendo quelli che non possono permettersi una console o un PC all’ultimo grido. E, in secondo luogo, venendo in aiuto di chi gioca già, offrendo esperienze più accessibili. C’è ancora tanto lavoro da fare prima che la tecnologia possa essere disponibile per la maggior parte del pubblico, ma crediamo che prima o poi accadrà, probabilmente non a breve, ma quando verrà il momento anche Activision ci sarà.»

Insomma, i piccoli passi verso il futuro, che sia prossimo o più in là nel tempo, ci sono tutti: servizi in abbonamento come Vortex, Snoost o Gamefly sono già disponibili, mentre i giganti del settore come Sony, Microsoft e Activision guardano con interesse il gaming as a service. Il futuro del settore si giocherà su questo campo, e il calcio di inizio aspetta solamente di essere battuto.




Dusty Rooms: 32 anni di Metroid

Nel 1985 il Nintendo Entertainment System sanciva una volta per tutte la fine della crisi dei videogiochi in Nord America, sostituendosi ad Atari nel mercato delle console. Col suo spettacolare lancio, prima circoscritto nello stato di New York con i giochi “Black Box” (ovvero quelli con lo stesso box-art nero come Excitebike, Clu Clu Land o Wild Gunman) e poi in tutti gli Stati Uniti in bundle con Super Mario Bros., l’allora semi-ignota compagnia giapponese cominciava la sua scalata al potere e, come Atari lo fu per la precedente generazione, Nintendo si poneva come sinonimo di videogioco. Come il NES fu posto era chiaro a tutti: la nuova console 8-bit era un HI-FI casalingo, da accostare tranquillamente al videoregistratore, mangianastri o giradischi, pensato per tutta la famiglia e, i giochi proposti, riflettevano senza ombra di dubbio queste scelte di mercato. Tuttavia, nel 1986, Nintendo decise di lanciare un gioco più tetro, decisamente molto distante dai tipici colori accesi per la quale il NES stava diventando famoso; oggi, per i suoi bei maturi 32 anni, daremo uno sguardo a Metroid e i suoi sequel, una saga Nintendo diventata con gli anni sinonimo di eccellenza tanto quanto quella di Super Mario eThe Legend of Zelda, se non persino superiore.

Un gioco rivoluzionario

Metroid uscì per il Famicom Disk System il 6 Agosto 1986 ponendo atmosfere ed elementi di gioco mai visti prima. Sebbene l’action-platformer, più comune oggi come metroidvania, fosse già stato implementato in precedenza (anche se non è facile trovare una vera origine) questo è il titolo che lo ha reso famoso e ha messo le basi per tutti quei giochi che avrebbero voluto emulare questo nuovo tipo di gameplay. Metroid presentava un gameplay sidescroller tradizionle à la Super Mario Bros. ma con un overworld immenso completamente interconnesso grazie a portali, bivi, cunicoli e ascensori; per poterlo esplorare interamente i giocatori avrebbero dovuto trovare i diversi power up per l’armatura di Samus Aran per poi tornare in determinate sezioni dell’overworld e usarle per arrivare in dei punti altrimenti inaccessibili. Diversamente dai più colorati Super Mario Bros. e The Legend of Zelda, dalla quale traeva un pizzico della sua componente puzzle solving, il gameplay di Metroid era volto a far sentire il giocatore un vero e proprio “topo in un labirinto”, sperduto e isolato per via dei suoi toni cupi, fortemente ispirati al film Alien di Ridley Scott, e la totale assenza di NPC con la quale interagire; pertanto, il giocatore era spinto a usare tutti i mezzi a sua disposizione, pensare fuori dagli schemi e, in un certo senso, superare la quarta parete che lo separava dal videogioco disegnandosi, per esempio, la mappa dell’overworld in un foglio di carta accanto a lui (visto che non era presente alcuna mappa in-game).
Il gioco sancisce ovviamente la prima apparizione di Samus Aran, il cui sesso rimase ignoto ai giocatori fino al termine dell’avventura. Sebbene la scelta di rendere donna il personaggio principale fu una decisione presa durante le fasi finali dello sviluppo per creare un effetto shock (principalmente perché nel libretto ci si riferiva a Samus come un lui), fu anche una scelta molto saggia per ciò che riguarda la rappresentazione dei protagonisti donna nel mondo videoludico. Per la prima volta, una ragazza veniva messa allo stesso livello dei virili eroi che erano spesso protagonisti dei giochi d’azione; Samus spianò senza dubbio la strada a tante altre audaci protagoniste femminili, come Lara Croft, Jade e Jill Valentine, e grazie a lei il muro che separava gli eroi dalle eroine fu definitivamente abbattuto. Insieme a lei, Metroid introdusse molte delle caratteristiche che definirono il suo gameplay e che sussistono ancora oggi, come le sezioni da percorrere in morfosfera, i passaggi in cui ci servirà l’ausilio di un nemico da congelare col raggio gelo e i mille e mille segreti nascosti nella mappa del pianeta Zebes; non dimentichiamoci inoltre degli iconici nemici Kraid e Ridley, le forme base dei Metroid e la malefica Mother Brain. Giocare oggi con l’originale Metroid per NES è senza dubbio educativo e interessante ma non tutti, forse, possiamo accettare le lunghissime password, che includono lettere maiuscole, minuscole e numeri arabi, l’assenza di una mappa in-game (che ai tempi apparì per la prima volta soltanto nel primo numero di Nintendo Power nel 1988) e di un vero metodo per ricaricare l’energia di Samus. Pertanto, secondo noi, il miglior metodo per giocare alla prima avventura di Samus è senza dubbio il remake Metroid: Zero Mission per Gameboy Advance: in questa versione uscita nel 2004, possiamo godere di uno storytelling moderno, una mappa in-game rivisitata, sezioni inedite e tantissime nuove armi che si rifanno ai successivi capitoli.

Un sequel carente

Il primo sequel di questo gioco per NES arrivò nel 1992 su Nintendo Gameboy e il suo titolo fu Metroid II: Return of Samus. In questo nuovo gioco, Samus arriva sul pianeta SR388 per debellare la minaccia dei Metroid, eliminandoli definitivamente nel loro habitat naturale. In questa nuova avventura conosceremo questi parassiti più nel profondo in quanto affronteremo delle specie che si evolvono dalla forma base e sono decisamente più aggressive e pericolose. Metroid II è un capitolo spesso dimenticato dai fan ma ha comunque dato alla serie altre caratteristiche che hanno decisamente migliorato il gameplay proposto nel primo titolo per NES: per prima cosa, Samus può accovacciarsi senza entrare in morfosfera e può sparare verso il basso quando si trova in aria; vengono finalmente implementate le stazioni di ricarica, che permettono di ricaricare la nostra energia e la scorta di missili, viene fatta una chiara distinzione fra la Power Suit e la Varia Suit, che costituisce a oggi il design tipico della cacciatrice di taglie spaziale, ma soprattutto viene scartato il sistema di password in favore del più comodo salvataggio su RAM. Ciononostante, molte altre caratteristiche hanno limitato le forti potenzialità di questo gioco: la mappa in-game continuò a non essere presente ma la sua assenza fu compensata da un gameplay semplificato. L’azione si svolge nel sottosuolo del pianeta SR388 e dunque, più si scende più andremo avanti nel gioco. Tuttavia, è impossibile procedere fino a quando non bonificheremo una zona dai Metroid perché dei laghi di lava ce lo impediranno; una volta debellato il numero indicato in basso a destra nel menù di pausa,  potremo proseguire verso il livello inferiore, almeno fino al prossimo impedimento. Questa meccanica permette sicuramente a coloro che vogliono approcciarsi alla serie tramite questo gioco, un gameplay graduale, dove si perde quel senso di dispersione infuso col precedente titolo. Per via della memoria del Gameboy, le aree proposte sono abbastanza piccole ma cercare i Metroid presenti in una determinata sezione può risultare tedioso, in quanto si perde facilmente il senso dell’orientamento (sempre per l’assenza di una mappa in-game). Sempre per i problemi di memoria, gli unici boss che incontreremo sono i Metroid e nonostante ci siano diverse forme di tali nemici il gioco, sotto questo aspetto, risulta poco vario (essendo anche questi ultimi abbastanza facili da sconfiggere).
Essendo invecchiato male, Nintendo ha pensato bene di rilasciare giusto l’anno scorso Metroid: Samus Return per Nintendo 3DS che ripropone un operazione di remake simile a quella di Metroid: Zero Mission. A ogni modo, prima dell’intervento di Nintendo, lo sviluppatore indipendente Milton Guasti aveva rilasciato AM2R (Another Metroid 2 Remake), un remake indipendente dalle fattezze grafiche di Zero Mission e rilasciato gratuitamente su Gamejolt; con buona probabilità, la compagnia giapponese stava già sviluppando il remake ufficiale di Metroid II, perciò non poterono fare altro che bloccare i download del gioco. Tuttavia, ciò che viene caricato su internet ci rimarrà per sempre e perciò, con un po’ di fortuna, è ancora possibile trovarlo in siti diversi da Gamejolt (anche se noi vi consigliamo vivamente di giocare al remake ufficiale di Nintendo per 3DS).

L’eccellenza di Super Metroid

Dopo due anni, nel 1994, arriva il terzo capitolo della saga che riprende esattamente la storia dove l’avevamo lasciata. Il finale di Metroid II: Return of Samus vedeva la cacciatrice essere inseguita da un piccolo Metroid larvale in preda a uno strano imprinting; all’inizio di Super Metroid vediamo la nostra cacciatrice di taglie incubare la creatura in una capsula e cederla a un laboratorio scientifico. Una volta allontanata, Samus trova una strage e Ridley intento a rubare la capsula contenente il Metroid. Samus non riuscirà a fermarlo e così lo inseguirà fino al vecchio pianeta Zebes dove scoprirà che i pirati spaziali stanno costruendo una base per poter utilizzare i Metroid per i loro scopi terroristici.
Super Metroid elimina tutto ciò che rendeva tedioso il primo e il secondo capitolo, prendendone i suoi aspetti più riusciti, migliorandoli ulteriormente. In questo capitolo Samus può finalmente sparare in diagonale, vantando anche una maggiore mobilità sin dall’inizio grazie ai wall jump che, se impareremo a utilizzarli come si deve, potranno addirittura rompere le sequenze di gioco e ottenere armi e potenziamenti prima del normale andamento del gioco; non a caso, questo è uno dei giochi più gettonati dagli speedrunner, i cui scopi sono completare determinati giochi nel minor tempo possibile. Tornano tutti i power up dei precedenti titoli insieme ad alcuni nuovi, come la supercinesi, il visore a raggi-x, la giga-bomba e altri, che finiranno per diventare degli standard per tutta la serie. Grazie alla cartuccia di 24MB, la più grande mai prodotta prima dell’arrivo di Donkey Kong Country, è stato finalmente possibile inserire un’immensa mappa all’interno del gioco in grado di segnalare i luoghi già visitati e quelli ancora da scoprire, decretando così la fine dei giorni in cui giravamo a vuoto per Brinstar o ci arrangiavamo con carta e penna. Grazie inoltre alla potenza del Super Nintendo è stato possibile creare una grafica iper-dettagliata (per l’epoca) che finalmente riusciva davvero a dare quelle sensazioni che il primo titolo sperava di dare, ovvero quel senso di profondità, isolamento, e anche paura, dovuto all’isolamento, alla solitudine e al doversi trovare a che fare con specie aliene di cui non sappiamo niente; il tutto accompagnato da una componente di storytelling che si srotola senza alcun dialogo ma sempre chiara: man mano prendono luogo i momenti salienti della trama, specialmente durante l’avvincente finale del gioco, e da una colonna sonora magistrale resa possibile grazie all’impressionante chip sonoro S-SMP. Per tutti questi motivi Super Metroid si annovera fra i migliori giochi mai creati e ancora oggi risulta incredibilmente attuale e intenso, come del resto lo è sempre stato. A oggi ci sono molti metodi per giocare questo gioco: se avete a casa un Nintendo 3DS o un Wii U potrete trovarlo tranquillamente sull’E-Shop, ma se volete un’esperienza più vicina all’originale allora vi converrà comprare uno SNES Classic Edition e giocarlo con il suo controller originale.

Pausa e ritorno in grande stile

Dopo il successo di Super Metroid nel 1994 era normale aspettarsi un nuovo capitolo della saga in 3D per il Nintendo 64, con nuovi controlli e un gameplay ancora più spettacolare del precedente. Tuttavia, Yoshio Sakamoto, il creatore, e Shigeru Miyamoto si ritrovarono senza alcuna idea per la nuova generazione, specialmente per ciò che riguardava i controlli e la prospettiva del gioco. Proprio per questo motivo non vi fu alcun Metroid per questa generazione. la sua unica apparizione su N64 fu per il divertentissimo Super Smash Bros. nel 1999 e poco dopo la sua uscita si riaccese la speranza di rivedere presto la cacciatrice di taglie più famosa di tutta la galassia. I fan dovettero aspettare ancora altri tre anni ma furono premiati con l’uscita di ben due nuovi giochi della saga per due diverse console: il primo fu Metroid Fusion, in 2D e sviluppato dalle stesse persone che lavorarono su Super Metroid e rilasciato su Gameboy Advance. la storia vedeva Samus Aran accompagnare una squadra di ricerca sul pianeta SR388 quando all’improvviso venne attaccata da una specie sconosciuta; mentre stava tornando alla base per ricevere soccorso, il parassita conosciuto come X entrò nel sistema nervoso di Samus arrivando alla stazione di ricerca in fin di vita. I parassiti X, che nel frattempo si stavano moltiplicando, avevano letteralmente fuso alcune parti della sua armatura sul corpo della protagonista, tanto è vero che i medici dovettero operarla con l’armatura addosso, rimuovendo le parti infette, con Samus in fin di vita; fortunatamente qualcuno trovo una cura, ovvero un siero a base del DNA del Metroid, predatore naturale del parassita X. Così, Samus fu salvata, perdendo buona parte dell’armatura, ma in compenso diventò immune ai parassiti X. Un altro prezzo da pagare fu l’avere le stesse debolezze di un Metroid, come la forte sensibilità al freddo; adesso si poneva una nuova avventura davanti a lei: recuperare le parti della sua armatura rimosse chirurgicamente e mandate alla stazione di ricerca B.S.L., luogo da dove ricevette inoltre un preoccupante allarme.
L’altro nuovo titolo, sviluppato da Retro Studios, era invece Metroid Prime, che avviava pertanto la nuova sottoserie in 3D. Il nuovo titolo per Gamecube fu visto all’inizio con molto scetticismo ma con le prime recensioni da parte di critici e fan, il gioco raggiunse presto il successo sperato. Si sentiva nell’aria una sorta di fallimento assicurato: si pensava che potesse succedere alla saga di Metroid quanto accaduto con Castlevania su Nintendo 64 ma fortunatamente, avvenne l’esatto contrario. Ogni elemento che rese grande la saga, come appunto le sezioni in morfosfera, l’esplorazione graduale e il forte senso di isolamento, fu rivisitato e rinnovato per un mondo 3D dinamico che funzionava alla perfezione; persino la mappa in 3D era chiara e capire dove si era stati e dove no era semplice come in Super Metroid. I controlli non si si rifacevano invece asparattutto “pre-dual analog” per Nintendo 64 come Goldeneye 007 o Turok; il secondo analogico, presente comunque nel controller del Gamecube (se è per questo, usato normalmente in altri FPS che uscivano sulla console), veniva usato per scegliere una delle quattro armi disponibili ma il gioco offriva un sistema di puntamento di precisione, a discapito dei movimenti e un sistema di mira automatica durante le battaglie più movimentate, compensando in maniera completa l’assenza di questa opzione. Il sequel Metroid Prime 2: Echoes, uscito nel 2004, presentava lo stesso schema di controlli ma, così come per il primo titolo, non rappresentò per niente un ostacolo per il successo del gioco. L’avventura, in questo capitolo, veniva letteralmente raddoppiata in quanto a un “light world” si sovrapponeva un “dark world“, un po’ come accadeva in The Legend of Zelda: a Link to the Past, e il gioco prese appunto nuove componenti di gameplay mai viste in precedenza: i controlli furono cambiati e in un certo senso ultimati in Metroid Prime 3: Corruption per Wii che sfruttavano, ovviamente, il sistema di puntamento proposto coi Wii-mote, sposandosi al meglio con un gameplay da FPS della saga Prime. Più tardi, nel 2009, tutti i tre titoli Prime furono rilasciati nella collection Metroid Prime: Trilogy, introducendo così i motion controlller anche nei primi due titoli della sotto-saga.

L’ultimo capitolo e i tempi recenti

Dopo la trilogia Prime, acclamata come una delle migliori della scorsa decade, garantire la medesima qualità era una mossa molto ardua, specialmente senza l’aiuto di Retro Studios che si concentrava a ridar vita a un altro franchise Nintendo smesso in disparte: Donkey Kong Country. In una mossa a sorpresa, Nintendo decise di allearsi con Team Ninja, autori delle acclamatissime serie Dead or Alive, Ninja Gaiden e Nioh, per concentrarsi su un Metroid che unisse sia componenti in 2D, sempre molto richiesta dai fan, che elementi in 3D. Ciò che ne venne fuori, nel 2010, fu Metroid: Other M, un titolo ibrido con sezioni in 2D ispirate a Super Metroid e fasi in 3D che presentano un gameplay dinamico, che ricorda in parte Ninja Gaiden, in cui in ogni momento possiamo cambiare la visuale in prima persona (sempre a discapito dei movimenti). Tuttavia, il punto focale era dare a Samus una voce e presentare il suo personaggio in una maniera tutta nuova, con dialoghi e monologhi (tal volta forse troppo lunghi). Il gioco ricevette opinioni discordanti da parte di critici e fan ma in fondo il tutto si riduceva a pareri soggettivi: il gioco in sé era buono e non presentava grosse sbavature ma in molti, di fonte a così tante novità, faticarono ad apprezzare il lavoro di Team Ninja e così Metroid: Other M rimane a oggi un bel gioco ma non imperativo per godere della saga di Samus.
La saga rimase dormiente fino al 2016, anno in cui fu rilasciato Metroid Prime: Federation Force per Nintendo 3DS, uno spin-off che nessuno voleva. All’E3 2015 il trailer ricevette 25.000 dislike e solamente 2500 like su YouTube; partì persino una petizione su Change.org per raccogliere 20.000 consensi per cancellare questo nuovo progetto ma nonostante le 7500 firme in un’ora l’obiettivo non fu mai raggiunto. Il gioco venne rilasciato l’anno successivo e, contrariamente a ciò che si presagiva, il gioco non fu distrutto dalla critica ma semplicemente accettato per quello che era. Fortunatamente, nel 2017, Nintendo si è rifatta, lanciando il già citato remake Metroid: Samus Return e, all’E3 dello scorso anno, un teaser trailer in cui fu annunciato che Metroid Prime 4 è momentaneamente in sviluppo per Nintendo Switch (anche se d’allora non abbiamo più ricevuto notizie).
L’esperienza dei fan con la saga ci insegna principalmente una cosa: Metroid è uno dei brand più importanti di Nintendo ed è proprio per questo motivo che non vediamo uscite frequenti, visto che ogni release, sia per i fan che per la compagnia stessa, deve essere speciale, portando una grande innovazione a livello di gameplay. Basta dare un occhiata al comparto spin-off della saga per niente numeroso: abbiamo solamente Metroid Prime: Hunters, Metroid Prime Pinball e Metroid Prime: Federation Force e ciò dimostra le intenzioni di Nintendo per non far di questa saga una sorta di Call of Duty o Assassin’s Creed; nonostante abbia un fortissimo appeal e grosse potenzialità il brand è intenzionato a mantenere quell’aura di sacro che da sempre l’ha contraddistinta e anche se i fan ogni volta dovranno attendere molto tempo fra un gioco e l’altro almeno si ha la semi-certezza che alla consegna verrà rilasciato un grande gioco, che sia un episodio principale o uno spin-off. Incrociamo le dita e aspettiamo pazientemente il prossimo Metroid Prime 4!




Il futuro di Steam

Facciamo un salto indietro di una decade: il PC gaming era ancora ad appannaggio del retail, con le cosiddette “big boxes”, gli scatoloni di cartone contenenti floppy disk (e più avanti, CD) più altri extra come mappe, manuali e altro, che la facevano da padrone. In più, la pirateria era, all’epoca, davvero inarrestabile e fuori controllo. Gabe Newell, capo di Valve, alla fine se ne uscì con un metodo rivoluzionario per la distribuzione dell’attesissimo Half Life 2: creare uno store virtuale dove vendere in digitale la seconda avventura di Gordon Freeman, insieme ad altri giochi. Steam era nato, e con esso il cambiamento che di fatto salvò il videogioco su personal computer, portandolo a un successo inimmaginabile. Il passaggio dunque dalle scatole al digitale era stato compiuto, anche se ancora il retail su PC resistette e resiste in piccole dosi, visto che le confezioni dei giochi contengono dei codici Steam da riscattare sulla piattaforma digitale di Valve.

Il successo di Steam portò altre compagnie come Electronic Arts, Blizzard, Ubisoft e CD Projekt Red a creare degli store proprietari come Origin, Battle.net, Uplay e GOG.com, e, nonostante si siano ritagliate una propria nicchia personale, Steam resta sempre la scelta primaria se si vuole giocare su PC. Ma la prospettiva riguardo al suo futuro è cambiata lo scorso anno, con l’arrivo dell’Xbox Game Pass di Microsoft, che propone un modello simile a quello usato da Netflix: 9,99€ al mese per poter usufruire di più di 100 giochi sia su Xbox One che su PC con i titoli Xbox Play Anywhere. Un sistema magari da perfezionare e probabilmente ancora di nicchia per quanto riguarda il settore videoludico, ma, economicamente parlando, può far gola a molti, soprattutto per gli utenti della console di casa Redmond.
Parliamo dei servizi a sottoscrizione mensile o annuale: Netflix ha letteralmente dominato il settore dell’on demand televisivo e cinematografico, mentre Spotify è diventato il sistema di riferimento per quanto riguarda la musica, entrambi, proponendo abbonamenti abbordabili per librerie vaste e complete. È il modello su cui si ispirano Microsoft e Sony con i rispettivi servizi, Xbox Game Pass e PlayStation Now, anche se, sfortunatamente, quest’ultimo non è disponibile in Italia per via dell’infrastruttura di rete insufficiente. In più si aggiunge il terzo incomodo, Electronic Arts con il suo EA Access: 3,99€ al mese, o 25€ annuali per usufruire di più di cinquanta giochi, in primis le esclusive EA come FIFA o Battlefield. Tre grandi compagnie sembrano aver scelto il modello delle sottoscrizioni, quattro, se aggiungiamo il modello di Nintendo, anche se quest’ultimo offre solamente i vecchi classici dell’era NES: in tutto questo, manca il servizio che ha dato il via alla rivoluzione digitale dei videogiochi. Manca proprio Valve con Steam.

Non si hanno notizie su di un cambio di rotta, visto che l’ultimo aggiornamento riguarda un rimodernamento grafico della chat, e sembra strano che i “leader” della distribuzione su PC non abbiano reagito alle novità portate in campo da Microsoft, Sony, Electronic Arts e Nintendo: magari Valve preferisce una tattica più attendista, e vedere se effettivamente i nuovi servizi delle “rivali” avranno il successo di Netflix e Spotify. Nel frattempo Steam continua a essere il punto di riferimento della piattaforma, grazie anche a un sistema di marketing efficace, puntando su sconti giornalieri ed eventi basati su di essi, come i recenti saldi estivi. Sistema che ha portato gli store di Microsoft, Sony e Nintendo ad adeguarsi. Ma sarà così anche per il futuro? Le recenti notizie sulla politica dell’accesso libero ai giochi da pubblicare, ha generato un abbassamento generale della qualità, con alcuni titoli contenenti malware, o ancora peggio, miner di criptovalute (vedi il caso Abstraticism, recentemente rimosso dallo store) causando un calo dell’utenza attiva del 17%.
Certo, non è un dramma per Valve: la sua leadership della distribuzione videoludica su PC sembra ancora destinata a durare a lungo, ma resta comunque strano vedere una compagnia che ha basato il suo successo sull’innovazione tecnologica restare ferma sotto questo punto di vista. Il futuro sembra spostarsi più sui servizi on demand in abbonamento e sul cloud gaming, e l’unico gigante che manca in campo è proprio Steam. Dopotutto, la storia tende a ripetersi: i videogiochi sono passati dal retail agli store digitali, e i servizi in abbonamento hanno dalla loro il vantaggio economico, oltre all’essere diventati uno standard per quanto riguarda media come il cinema o la musica. Adesso toccherà ai videogiochi, con Steam che farà la fine delle big boxes? Solamente il tempo potrà dircelo.




Ascesa e declino delle demo

Nella metà degli anni ‘90, diciamo più o meno con l’arrivo della prima PlayStation nei negozi, le demo erano praticamente ovunque: gran parte delle riviste videoludiche che si trovavano nelle edicole erano colme di versioni dimostrative dei titoli in uscita. Ma con l’avvento della rete a banda larga e degli store digitali, questo tipo di marketing è scomparso quasi del tutto. Cosa ha portato gli sviluppatori a cambiare metodo di promozione dei propri giochi?

Una delle principali motivazioni dell’abbandono delle demo è dovuto alla mancata imposizione da parte del mercato come modello di riferimento: semplicemente, esse non si sono rivelate efficaci come altre forme di pubblicità, come trailer e video gameplay. Questi ultimi permettono di mettere in risalto i lati migliori del titolo in uscita e nascondendo i difetti, generando così hype per il futuro acquirente.
Invece, le demo, devono riflettere lo stato attuale della lavorazione del gioco, con i suoi pro e contro: così facendo un giocatore dapprima interessato all’acquisto potrebbe ripensarci e decidere di risparmiare il proprio denaro, perché ciò che ha provato non ha rispettato i suoi standard. Questo non riguarda direttamente la scarsa qualità del prodotto o eventuali bug e glitch, ma può essere semplicemente essere una questione di gusti. Infatti, secondo Jesse Schell, game designer americano e professore di entertainment technology alla Carnegie Mellon University di Pittsburgh, ha condotto un’analisi dove è risultato che le demo dei giochi tendono a danneggiarne le vendite, piuttosto che migliorarle.

Le versioni dimostrative sono affette da un paradosso non da poco nel mondo del gaming: devono essere ben fatte, per incoraggiare l’acquisto da parte dei giocatori, ma non devono molto estese, perché un assaggio prolungato del titolo può accontentare i palati di tanti futuri acquirenti. Molte volte le demo offrono la parte iniziale del gioco completo: solitamente rappresentano la parte più semplice e poco interessante dell’intera opera. Molti giochi sbocciano dalla metà in poi, e può essere controproducente dare in prova qualcosa di non intrigante. Creare qualcosa ad hoc, come un livello bonus o una parte del gioco scritta appositamente per la demo richiede più lavoro, e quindi gli sviluppatori, col tempo, si sono concentrati di più su altre forme di pubblicità, ritenute più semplici e redditizie.
Un altro paradosso riguarda la pirateria: la “scusa” più usata da chi scarica illegamente un titolo è quella di volerlo provare sul proprio PC per vedere se funziona o se ne vale l’acquisto. In teoria, l’uscita di una demo dovrebbe scongiurare il rischio pirateria, ma non è stato il caso di Resident Evil VII: sia il gioco completo che la versione dimostrativa erano protette da Denuvo, il popolare DRM anti-pirateria. Ma la demo del titolo Capcom, uscita con due settimane di anticipo rispetto al titolo completo, ha dato tempo ai cracker di lavorare sul codice e aggirare la protezione, rendendo così disponibile l’ultimo capitolo della saga horror sui canali illegali.

Se analizziamo l’offerta attuale delle demo, prendendo per esempio lo store di Steam, si nota che la sezione omonima è abbastanza nascosta nella homepage, visto che si deve evidenziare prima il menù dei giochi e poi andare su demo: è un sistema quasi estinto e poco usato, che ha lasciato lo spazio ad altri metodi, come le open beta, i weekend gratuiti (vedi Overwatch di Blizzard) oppure, idea lanciata proprio dallo store di Valve, il rimborso. Quest’ultimo metodo pone dei limiti entro quale è possibile richiedere la restituzione del denaro speso, ovvero una finestra di tempo di due settimane dall’acquisto e non più di due ore di gioco. Pur sembrando poco conveniente, può risultare un buon metodo per non perdere i nostri sudati risparmi, soprattutto in casi dove la nostra macchina può faticare nelle prestazioni, magari anche a causa di una cattiva ottimizzazione, come accaduto per Batman: Arkham Knight.
Curioso il metodo usato, invece, su Origin, lo store di Electronic Arts: per 3,99€ mensili o 24,99€ annuali, si può diventare membri di Origin Access e approfittare del 10% di sconto negli acquisti dello store, e dieci ore di prova per i rispettivi giochi. Nonostante queste misure non vadano effettivamente a sostituire le demo, possono risultare un buon metodo per provare molti titoli.

Insomma, la situazione è molto diversa rispetto al passato: ai tempi le demo erano quasi una necessità, e acquistare una rivista o scaricare l’eseguibile da un sito web era la prassi, in un mondo dove i titoli completi erano quasi ad appannaggio dei negozi specializzati. Con il passaggio dal fisico al digitale, la necessità di provare una demo è venuta sempre di più a mancare, grazie anche a servizi come Humble Bundle o lo stesso Steam, che molte volte offrono giochi completi scaricabili gratuitamente, oppure “pacchetti” di più giochi ottenibili a un prezzo altamente competitivo. Così facendo si contribuisce alla crescita del nostro amato e odiato backlog, ma alla fine è il prezzo da pagare per l’evoluzione del medium videoludico. Potrebbe essere comodo un ritorno al passato, ma probabilmente, le demo sono scomparse perché non ne sentiamo più il bisogno come venti anni fa.




Il mondo di H.P. Lovecraft nei videogiochi

Weird Fiction, il sottogenere letterario horror legato a doppio filo con Howard Philip Lovecraft, popolare scrittore americano che, con racconti come Il Richiamo di Cthulhu, L’orrore di Dunwich e La Maschera di Innsmouth ha ispirato vari media, come televisione, cinema e musica. Prendiamo per esempio i Metallica di The Call of Ktulu o gli Electric Wizard di Dunwich. Ma il culto di Cthulhu è applicabile ai videogiochi? Per chi non conoscesse i lavori di Lovecraft, basta sapere che gran parte dei suoi scritti sono basati sull’esistenza dei grandi antichi, ognuno di essi descritto in un libro chiamato Necronomicon, quest’ultimo protagonista di un cult cinematografico come L’armata delle tenebre, ma non solo…

Cthulhu Fhtagn

Partiamo dai primi anni ‘90, dove la francese Infogrames attinse a piene mani dalla mitologia “lovecraftiana”, con tre titoli, quali il primo Alone in the Dark del 1992, Shadow of the Comet dell’anno seguente e Prisoner of Ice del 1995. Nel primo titolo, fondamentale per l’evoluzione dei videogiochi, essendo il primo survival horror della storia, abbiamo delle atmosfere fortemente debitrici al lavoro di Lovecraft (che viene citato anche nei credit), oltre alla presenza del Necronomicon e del De Vermis Mysteriis nella libreria di Jeremy Hartwood, personaggio su cui si basa l’indagine da parte di Edward Carnby.
In Shadow of the Comet, avventura grafica ispirata ai giochi Sierra, oltre al ritorno del Necronomicon fa capitolino anche la città di Illsmouth ambientata nel New England (una delle ambientazioni preferite dello scrittore americano), chiaramente ispirata alla Innsmouth de La maschera di Innsmouth, oltre a varie creature e divinità del pantheon lovecraftiano. Chiudiamo la tripletta con Prisoner Of Ice, altra avventura grafica, questa volta basata su Le montagne della follia. Il titolo si collega al precedente Shadow of the Comet, visto che il suo protagonista John Parker assumerà un ruolo molto importante nelle avventure del luogotenente Ryan tra i ghiacci dell’Antartide.

Facendo un balzo avanti negli anni, troviamo dei riferimenti lovecraftiani anche su Fallout 4, il popolare RPG di Bethesda. Ci riferiamo alla missione della casa Cabot, dove scopriamo che i suoi abitanti hanno più di 400 anni! tutto questo grazie ad un antico manufatto trovato in Arabia Saudita nel 1800. Chiaro riferimento ad Abdul Al-Hazred, colui che per primo ritrovò il Necronomicon, ottenendo così sì la vita eterna, ma a scapito della propria sanità mentale.
Passando al franchise di South Park, i fan non sono nuovi al culto di Cthulhu, visto che il grande antico che riposa a R’lyeh appare in tre puntate della serie animata legate alla morte di Kenny. Ma nel recente Scontri Di-Retti, troviamo Shub-Niggurath (presente anche nel primo Quake), noto anche come “il capro nero dei boschi dai mille cuccioli”, e, coadiuvato dalla sua armata di cultisti, rappresenta uno dei nemici più ardui da sconfiggere dell’intero gioco.

Non è morto ciò che può giacere in eterno

Uno dei giochi più curiosi è Sherlock Holmes: Il risveglio della divinità, dove il popolare investigatore creato dalla penna di Arthur Conan Doyle questa volta si occupa di misteriosi rapimenti nella città di Londra: più avanti nell’avventura scopriremo un culto di adoratori di Cthulhu atti a risvegliare il grande antico con una serie di sacrifici.
Probabilmente, il titolo più conosciuto dell’iconografia videoludica lovecraftiana è Call of Cthulhu: Dark Corners of the Earth, uscito tra 2005 e 2006 per la prima Xbox e per PC: il gioco prende ispirazione dal pieno immaginario dello scrittore americano, da La maschera di Innsmouth, passando per Il richiamo di Cthulhu, Dagon e L’ombra venuta dal tempo, tra le tante opere. Ancora oggi viene ricordato per la sua dedizione al mondo di Lovecraft e per la sua meccanica che fa leva sulla follia e sulle allucinazioni mentali, meccanica che troveremo anche in giochi più recenti, come l’acclamatissimo Bloodborne di From Software.

Chiudiamo con due titoli, di cui uno in arrivo fra qualche mese: partiamo con Eldritch, titolo in prima persona che ricorda molto Minecraft, e che ci permette di esplorare mondi generati casualmente, ma abitati da creature prese dal mito di Cthulhu. E, come se non bastasse, già la citazione “lovecraftiana” del titolo, il DLC si chiama Mountains of Madness, esattamente come il racconto.
Gli occhi degli appassionati sono attualmente concentrati su Call of Cthulhu di Cyanide Entertainment: il titolo, presentato recentemente all’E3 2018 prende ispirazione anch’esso da La Maschera di Innsmouth e vedrà l’investigatore privato Edward Piece atto a indagare sulla tragica morte della famiglia Hawkings, verificatasi nell’isola di Darkwater, al largo di Boston. Il gioco sembra un sequel indiretto di Dark Corners of the Earth, cosa che mette in fibrillazione gli amanti di Lovecraft ma, prima della sua uscita, stabilita per ottobre 2018, citiamo direttamente il mito del grande antico: «Nella sua dimora a R’lyeh il morto Cthulhu attende sognando».




Steam Machine e il gaming su Linux, occasione sprecata?

Facciamo un salto nel 2012: viene presentato Windows 8, nuova versione del sistema operativo Microsoft, successore di Windows 7. Anche qui non sono mancate le critiche, in primis rivolte a due delle novità appena presentate: l’introduzione del Windows Store, uno store proprietario e chiuso, simile a quello presente sui device Apple, dove non tutte le applicazioni disponibili per PC sono incluse nel negozio. Le critiche vengono principalmente dal mondo videoludico, capitanate da Notch, creatore di Minecraft che decise di non certificare la propria opera per il nuovo sistema operativo di casa Redmond. Successivamente tuonarono anche Rob Pardo di Blizzard e soprattutto Gabe Newell, capo di Valve che, con l’introduzione di Steam ha letteralmente resuscitato il gaming su PC diventando ben presto la bandiera videoludica della piattaforma, con circa il 75% dei giochi rilasciati sugli home computer di tutto il mondo.
Newell arrivò a definire il Windows Store e l’avvio protetto di Windows 8 (che praticamente impediva l’installazione di qualsiasi altro sistema operativo) una «catastrofe per il mondo PC» ed espresse pieno supporto per l’ecosistema Linux, che, a suo avviso, rappresenta appieno la filosofia open source dell’home computing. Da lì a poco tempo, arrivò prima un client ufficiale di Steam per Linux, seguito dalla modalità Big Picture e poi l’annuncio tanto atteso: il concetto di Steam Machine, un PC fortemente “consolizzato” e prodotto da terze parti come Alienware o Gigabyte, e supportato da SteamOS, sistema operativo basato su Debian (in questo caso si parla di fork, essendo una versione derivata dal sistema operativo di base) di Linux più usate ed apprezzate dagli utenti del pinguino.

Sulla carta sarebbe dovuto essere un successo: nessuna fatica per l’utente medio che vuole giocare su PC ma che, magari, è spaventato dall’assemblaggio dei vari componenti. E l’uso di una distro Linux avrebbe alleggerito molto il carico della macchina, rispetto alla pesantezza di Windows. Eppure, lo scorso Aprile, la sezione dedicata alle Steam Machine è sparita dallo store di Steam, venendo relegata a un piccolo link raggiungibile dall’esterno. Dei quattordici produttori iniziali sono rimasti solamente in tre, Alienware, Maingear e Scan Computers. Vi sarebbe anche un quarto produttore, Materiel.net, ma andando sul sito della compagnia non vi è nessuna traccia della Steam Machine.
Per tutta risposta, Valve, nonostante le esigue vendite delle macchine (si vocifera meno di 500.000 unità!) ha deciso di continuare a supportare la propria visione di un ecosistema per il gaming open source e, quindi, di sviluppare ancora Steam OS. Peccato che ci sia ancora tanto lavoro da fare, come dimostrano alcuni dati raccolti sul web.

Prendiamo ad esempio Steam OS: come detto prima, è una fork basata su Debian, una delle distribuzioni o distro più apprezzate dell’intera comunità Linux. Ma se andiamo a controllare su distrowatch.com, aggregatore di news e recensioni sulle varie distribuzioni Linux, scopriamo che Steam OS è solamente al novantunesimo posto nella top 100 delle distro più votate nel 2018. Se consideriamo che le distro Linux più apprezzate e famose, come Ubuntu, Linux Mint, Arch o lo stesso Debian sono conosciute per un costante aggiornamento e supporto, il sistema operativo di Valve, invece, ha ricevuto l’ultimo update nel gennaio 2018, uscendo dallo stato di beta solamente con la versione 2.0! Uno sviluppo abbastanza lento, considerando sia la data d’uscita del novembre 2013, che, soprattutto, il costante sviluppo che hanno altre distro Linux più o meno grandi, che sia sotto forma di rolling release (ovvero, sistemi operativi costantemente aggiornati) o delle cosiddette LTS (acronimo di Long Term Support, versioni che ricevono solamente aggiornamenti testati e sicuri e che hanno un supporto che va dai tre ai cinque anni). Il quadro della situazione non è favorito dal fatto che Steam OS possiede sì un ambiente desktop (GNOME), ma abbastanza nascosto. Il che porta l’utente Linux navigato, ma anche il neofita, a chiedersi «per quale motivo dovrei usare questa distro, quando ne esistono altre più supportate dove alla fine basta installare il client di Steam per poter usufruire della sua libreria?».
Infatti non sorprende vedere distro più quotate, come Ubuntu o Fedora, che non solo sono più in alto di Steam OS nella classifica di Distrowatch (rispettivamente al terzo e ottavo posto), ma che presentano fork specifiche per il gaming, come Ubuntu GamePack o Fedora Game Spin. Se poi aggiungiamo anche il vantaggio di supportare app come Wine (celebre emulatore delle applicazioni Windows, principalmente usato su Linux e Mac), PlayOnLinux e DOSBox, programmi che Steam OS non supporta, il dubbio diventa più che legittimo.

Il problema giochi è un’altra questione da affrontare: dal 2012 a oggi, sono solamente 5.072 su 25.563 i giochi disponibili per Linux. Quasi il 20%. Un po’ pochi per considerare non solo il passaggio totale da Windows a Linux, ma soprattutto per giustificare l’acquisto di una Steam Machine che parte da 599€, un costo molto più alto rispetto a una console attuale e molti PC preassemblati. Aggiungiamo al lotto anche la scarsa ottimizzazione di molti giochi per Linux, rispetto alle controparti Windows: cosa che si presenta soprattutto nei titoli che sfruttano le librerie DirectX. Sebbene esista qualche eccezione, in primis per alcuni giochi che sfruttano per bene le OpenGL, libreria open-source e gratis, rispetto alle DirectX, native Microsoft. Come per esempio Left 4 Dead 2, che, come provato da Valve, ha dimostrato di girare più velocemente su Linux che su Windows, questo grazie anche alla migliore ottimizzazione del motore grafico Source sulle librerie OpenGL.

Visti i risultati, non bisogna rimanere sorpresi dalla decisione di Valve di rimuovere le Steam Machine e Steam OS dalla homepage dello store di videogiochi per PC più usato al mondo. Al momento la mossa da parte di Gabe Newell e soci resta solo un curioso esperimento, e non aiuta il fatto che solamente lo 0,52% degli utenti Steam utilizzino una distro Linux. E nel sondaggio campeggiano due delle distro Linux più usate, come Ubuntu e Linux Mint, mentre di Steam OS non abbiamo nessuna traccia. Una grande occasione mancata, visto che l’ecosistema Linux è conosciuto ai più per essere particolarmente leggero e capace di resuscitare hardware dato per morto, com’è successo col mio HP 655 acquistato ben sei anni fa. All’annuncio delle Steam Machine e soprattutto di Steam OS ero particolarmente entusiasta all’idea di poter avere una sorta di PC “consolizzato” da mettere in salotto, coadiuvato, magari, da una distro Linux capace di essere usata sia come console che come media center, grazie ad applicazioni come Kodi. Alla fine il risultato ottenuto è molto lontano da ciò che pensavo: probabilmente il cambio di rotta da parte di Windows dopo le critiche per la sua ottava versione, e il ritorno in carreggiata dopo Windows 8.1 e Windows 10 (dove abbiamo avuto lo storico approdo di Linux sotto forma di subsistema) hanno fatto la loro, e la “ribellione” da parte di Gaben è solo un lontano ricordo. Tuttavia, bisogna tenere le orecchie aperte, visto che nell’ecosistema Linux, manca poco per passare dalle critiche alle lodi, com’è successo qualche anno fa con Ubuntu. Magari la distro del futuro sarà proprio Steam OS