Mars or Die

Negli ultimi anni l’Italia ha dimostrato una sempre più grande valenza nel mercato delle produzioni videoludiche, con realtà diverse che giorno dopo giorno pongono il nostro paese all’interno dell’entertainment system. Un esempio su tutti è la milanese Milestone, che da venti anni continua la produzione di giochi di corse su console e PC, diventando velocemente il metro di paragone per qualsiasi team di sviluppo nel nostro paese. Tra alti e bassi, la produzione italiana ha recuperato terreno soprattutto nel mercato degli indie, dove chi riesce a rimanere a galla con budget esigui massimizzando i profitti per quanto possibile, ha la possibilità di far esprimere a ai creativi emergenti le proprie idee in completa autonomia, senza (o quasi) la pressione dei publisher.

34Bigthings è una giovane casa di sviluppo torinese, che si è fatta notare per i due capitoli di Redout, gioco di corse futuristico alla maniera del più blasonato Wipeout. Uscito su tutte le maggiori piattaforme e PC, il gioco ha dimostrato l’abilità del team nell’utilizzare il versatile motore grafico Unreal Engine 4 creando di fatto un prodotto che non ha nulla da invidiare alla concorrenza, sia in termini tecnici che strutturali, ottenendo un discreto successo.

Il team però non si è adagiato sugli allori e, archiviato il secondo capitolo della serie futuristica, ha intrapreso la via per un nuovo progetto: il nostro Mars or die.

Vincere e vinceremo… o forse no?

Le premesse di Mars or die sono simpatiche e originali: un gruppo alieni umanoidi, di chiara ispirazione alla iconografia del Ventennio Fascista, decide che è giunto il tempo di una impellente espansione coloniale. L’obiettivo è quello di occupare il pianeta Marte, rosso e bolscevico, eliminando i suoi abitanti. Purtroppo la missione non si rivela lineare come prospettato e le complicazioni giungono molto presto.

Il plot è molto semplice e diretto, in poco tempo ci ritroveremo a controllare uno dei due camerati disponibili nel gioco, ognuno con le proprie skill e caratteristiche peculiari: il primo in grado di difendersi (e attaccare) grazie ad uno scudo laser che si attiverà tramite il nostro comando, il secondo ha in dotazione una piccola pistola a raggi utile per farsi strada nel inospitale pianeta rosso. Più avanti nel gioco avremo la possibilità di controllare entrambi i PG  simultaneamente e in questo senso il gioco ci spinge a utilizzare le loro proprietà in maniera strategica in base alla situazione.

Il gameplay presenta una struttura come il più classico degli RTS, ma gli sviluppatori hanno pensato di implementare meccaniche da tower defense provando a conferire dinamismo alle sessioni di gioco. Sarete chiamati a raccogliere minerali utili ad ampliare le tecnologie indispensabili per la sopravvivenza su Marte; si comincia dagli estrattori per finire al centro di ricerca in grado di creare upgrade per le vostre difese. Tutte le strutture necessitano un costo in energia solare che potrete ricaricare tramite appositi pannelli solari. Mano a mano che le vostre risorse aumentano e l’esplorazione della mappa progredisce, sarete in grado di resistere alle orde di alieni marziani pronti ad annientare qualsiasi traccia della vostra esistenza. In tutto questo gli sviluppatori hanno inserito un fattore indispensabile per il vostro proseguimento: la riserva di ossigeno. L’aria su Marte è irrespirabile e le vostre riserve sono molto limitate, sarete quindi costretti a costruire generatori di ossigeno lungo il vostro percorso, creando un senso di ansia non da poco. Il gioco quindi possiede due cuori perfettamente distinguibili: una prima parte di esplorazione e raccolta risorse, una seconda parte di difesa e resistenza agli attacchi nemici.

La campagna conta 9 differenti missioni (che creano a sua volta un grande tutorial), concluse queste sarete liberi di conquistare Marte attraverso la modalità Conquista infinita dove l’unico limite di tempo è stabilito dalla vostra capacità di sopravvivenza.

Rosso pianeta bolscevico e traditor

Sul piano tecnico i ragazzi di 34Bigthings riescono a gestire egregiamente il motore grafico creando un gioco piacevole da vedere. Stilisticamente si difende bene; i personaggi che abitano l’universo di Mars or Die sono simpatici e caratterizzati perfettamente prendendo in giro gli aspetti più kitsch dell’estetica fascista. L’Unreal Engine viene sfruttato egregiamente, le texture dei paesaggi e dei modelli poligonali sono ben definite e si ha una buona impressione di pulizia visiva su schermo. Durante le sessioni di gioco non si sono riscontrati cali di frame, anche grazie al fatto che non è presente una eccessiva mole poligonale durante le run. Ma non tutto è stato sfruttato a dovere: se da un lato abbiamo una buona modellazione dei personaggi e dei nemici, dall’altro vediamo ambientazioni prive di qualsiasi possibilità di interazione, spogli e senza idee. La monotonia affligge pesantemente gli scenari di gioco e nel giro di quindici minuti avrete visto tutto ciò che è in grado di offrirvi. Anche la scarsa varietà nella tipologia dei nemici tende a portare tutto alla noia. Per quanto riguarda l’audio, tutto è nella media, con poche musiche (orecchiabili e nulla più) ed effetti sonori che rimangono nei dintorni della sufficienza.
La localizzazione è buona e gli sviluppatori hanno simpaticamente scimmiottato i messaggi propagandistici del regime, concedendo ai personaggi un tocco di personalità utile a creare un’atmosfera ironica e goliardica.

In conclusione, il gioco è tutto qui. Nove missioni tutorial e una campagna infinita costituiscono la sostanza del prodotto di 34bigthings, onestamente troppo poco per gli standard di oggi. Al prezzo in cui viene proposto non rappresenta di certo un’offerta allettante e le speranze che contenuti aggiunti vengano rilasciati tramite patch sono remote. Allo stato attuale Mars or Die rappresenta il primo passo falso per una software house che fino a ora ha avuto qualcosa di interessante da dire, ma che con quest’ultimo lavoro non ha svolto sufficientemente i compiti a casa.




Fire Pro Wrestling World

Sono passati ben ventinove anni dal primo Fire Pro Wrestling, uscito ai tempi sul PC Engine di NEC. La serie si è sempre contraddistinta per due fattori: la grafica in 2D isometrico e la minuziosa simulazione del cosiddetto puroresu, il pro wrestling giapponese, emulato in un gameplay frenetico e coinvolgente. Una sfilza di giochi pubblicati per moltissime console, da Super Nintendo (Fire Pro Wrestling Special è celebre non solo per il finale scioccante, ma anche per essere il primo gioco che ha lanciato la stella di Goichi “Suda51” Suda) a PlayStation 2, teatro dell’ultimo gioco della saga, quel Fire Pro Wrestling Returns che ha appassionato fan del wrestling giapponese (e non solo) per dodici lunghi anni. Ma la pausa è terminata lo scorso anno, per i possessori PC, con l’attesissima uscita di Fire Pro Wrestling World, uscito anche lo scorso 28 settembre in Europa (e qualche mese prima anche in terra natia e in America) per PlayStation 4. Ma bando alle ciance, lanciamoci sul ring!

Lariatto!

FPWW (d’ora in poi useremo il suo acronimo) offre da subito un approccio diretto: il menù mostra le varie modalità offline, i match online e la sezione edit, quest’ultima vero fulcro del titolo, ma andiamo con ordine. Si parte dalla exihibition mode, dove si potranno creare dei match singoli (da un minimo di due a un massimo di otto wrestler sul ring) o di coppia (dal classico due contro due al quattro contro quattro) con una pletora di regole personalizzabili, oltre alla scelta dell’arena, che ricalca i vari palcoscenici del mondo del wrestling, dal simil-Tokyo Dome giapponese, alla classica arena indoor americana degli show WWE, fino al palazzetto messicano che richiama promotion come AAA e CMLL. Le combinazioni di regole e arene,  ma anche arbitri (ognuno di essi diverso dagli altri sia per aspetto che, soprattutto, intelligenza artificiale!) da scegliere sono praticamente infinite, e già questa sola modalità offre scenari diversi match dopo match, impreziosite, da un indice di valutazione dell’incontro in percentuale che richiama il celebre (almeno per gli appassionati) metro di valutazione del giornalista wrestlingistico Dave Meltzer, seppur in percentuale e non con le sue famose stelle. Il classico canovaccio del match uno contro uno viene variato con le varie stipulazioni, come il Cage Deathmatch, dove lotteremo dentro una gabbia, l’Exploding Darbed Wire Deathmatch, dove le corde del ring verranno sostituite da filo spinato esplosivo, il Landmine Deathmatch, con tappetini di filo spinato esplosivo fuori dal ring, lo SWA Rules, cardine della serie dove l’incontro sarà diviso in round, in un ibrido tra wrestling e boxe, e le due varianti “marzialistiche”, l’S-1 Rules, che richiamerà le regole del kickboxing, e il Gruesome Fighting, dove si lotterà in un ottagono (pardon, dodecagono) simile a quello che si vede in UFC. Non sono presenti stipulazioni più “americane” come il Ladder match o il Tables match, visto che Fire Pro Wrestling World, così come tutti gli altri giochi della serie, attinge a piene mani dal wrestling di stampo nipponico.
Le altre quattro modalità che completano l’offline mode sono il Tournament, dove potremo creare un torneo a eliminazione diretta da un minimo di quattro a un massimo di trentadue partecipanti (simile a tornei come il passato King of the Ring della WWE o l’attuale New Japan Cup della NJPW), la League, torneo questa volta “all’italiana”, una sorta di mini-campionato che ricalca eventi realmente esistenti come il G1 Climax della NJPW o il Champions Carnival della AJPW, la Battle Royale, che richiama l’omonima stipulazione di match (e, nella versione time, la Royal Rumble della WWE) e infine la Mission Mode, quest’ultima consigliatissima soprattutto ai neofiti della serie, non solo per la presenza di cinque tutorial, ma perché permette di imparare al meglio la meccanica del timing, molto diversa dai classici giochi di wrestling “occidentali”, con una serie di quest da compiere.

Se possiamo liquidare brevemente la modalità online, visto che non è altro che un semplice luogo dove sfidare i propri amici in vari match, saltiamo subito alla modalità Edit, visto che gran parte della bellezza di FPWW risiede proprio in questa: qui potremo creare i nostri alter ego usando un editor che all’apparenza può sembrare semplice, essendo i personaggi in 2D isometrico, ma che in realtà nasconde una profondità mostruosa per il genere. Aspetto, skill, mentalità e soprattutto moveset (con più di 3000 mosse, costantemente aggiornate patch dopo patch!) disponibili per creare il lottatore dei vostri sogni. Si ha anche la possibilità di creare dei ring, oltre agli arbitri e alle cinture, e se non si ha tempo e voglia di perdere ore nell’immenso editor basta andare su Steam Workshop (o su un sito simile, per la versione PlayStation 4) per poter scaricare migliaia di oggetti e poter creare la vostra promotion dei sogni, oppure ricreare, in tutto e per tutto, il mondo del wrestling attuale con le varie federazioni di tutto il globo!
La grande forza di FPWW risiede proprio nella community, che ha abbracciato il titolo facendolo diventare una sorta di Mugen in salsa wrestling: infatti, tra un John Cena o un AJ Styles non è strano trovare un personaggio dei fumetti, dei manga o della cultura popolare. Tutto è possibile in questo titolo, e la forza dipende anche dal suo roster letteralmente infinito,  perché sì, in Fire Pro Wrestling World non dobbiamo preoccuparci di slot per i wrestler creati, visto che l’unico limite è rappresentato dallo spazio del nostro hard disk. E considerando che gli edit pesano solamente pochi kilobytes, non è impossibile arrivare ad avere un roster con migliaia di wrestler o altri personaggi, arrivando così a ottenere quello che è il gioco di wrestling più completo della storia.

Rainmaker pose

Incluso nella versione PlayStation 4, e disponibile separatamente in DLC per la versione PC, vi è anche uno story mode con i personaggi della New Japan Pro Wrestling: in questa modalità, narrata sotto forma di finestre di dialogo molto simili a una visual novel, impersoneremo uno studente del dojo NJPW atto a scalare i ranghi della federazione giapponese per poi unirsi a una delle stable (ovvero i gruppi) presenti nel gioco, come il Bullet Club capeggiato dall’attuale campione IWGP Kenny Omega, il selvaggio Suzuki Gun della leggenda del PANCRASE Minoru Suzuki, il CHAOS di Kazuchika Okada o i Los Ingobernables de Japon del carismatico leader Tetsuya Naito (apparso anche nel recente Yakuza 6 di Sega). Un buon passatempo che aggiunge pepe alla già vasta longevità del titolo, e che prepara il terreno per la prossima aggiunta, la Fire promoter mode, a tema manageriale, in arrivo a breve sotto forma di DLC. Una modalità attesissima non solo da chi segue la serie, ma soprattutto, dai fan della GM Mode di WWE Smackdown vs. Raw 2006, che richiedono a gran voce qualcosa di simile da anni e anni.

Insomma, Fire Pro Wrestling World è il ritorno della serie che ogni fan di wrestling attendeva da tempo. Chi chiedeva un seguito “aggiornato” di Fire Pro Wrestling Returns è stato accontentato, visto che si ha la stessa struttura del titolo uscito nel 2006 su PlayStation 2, ma con molte migliorie che rendono il gioco adattato agli standard odierni. Può spiazzare i neofiti e chi ha giocato per anni e anni ai giochi WWE, vista la particolare grafica in 2D isometrico, che magari risulta obsoleta  per i tempi attuali, ma lavorando con un budget inferiore rispetto ai giochi della 2K, il lavoro fatto da Spike Chunsoft assume connotati incredibili, soprattutto per i fan della disciplina più sfegatati e aperti ad altre realtà mondiali che vanno ben oltre allo sport-spettacolo offerto dalla compagnia di Vince McMahon. Se poi aggiungiamo che su PC vi è anche una vasta scelta di mod che ampliano a dismisura le possibilità nascoste del gioco, cos’altro abbiamo da dire se non che il re è tornato, e in pompa magna.




Megaquarium

Correva l’anno 1997 quando uscì Theme Hospital sul mercato, quello che per me era (e credo possa rimanere) il miglior gestionale di sempre. Difficile emularlo, difficilissimo riuscire a ricreare quel clima di gioco frenetico – ricordo ancora quando iniziavano a entrare pazienti di continuo, era in quelle occasioni che dimostravi di essere un vero uomo – e divertente allo stesso tempo. Nell’agosto di quest’anno è uscito Two Point Hospital, un gestionale chiaramente ispirato a Theme Hospital ma in chiave un po’ più moderna.
Oggi in tema di gestionali si trova veramente di tutto in commercio: ma avete mai provato a gestire un acquario?

Una Piacevole Scoperta

Megaquarium, sviluppato da Twice Circled, è un coloratissimo gestionale che ci vedrà impegnati nello sviluppo di un acquario in diversi contesti geografici. Dalle calde acque tropicali a quelle gelide dell’Artico si dovranno soddisfare i requisiti necessari per il corretto funzionamento di ogni acquario, prestando particolare attenzione a quali siano le condizioni imposte da ogni esemplare marino per poter esistere e/o coesistere con le altre specie all’interno dello stesso ambiente acquatico.

Ogni pesce ha un proprio habitat ideale e il suo mangime, ma richiede anche la temperatura dell’acqua (calda o fredda), così come anche la purezza della stessa: infatti per ogni acquario che costruiremo, si dovranno abbinare, di base, almeno un filtro (per la pulizia dell’acqua) e un termostato (per la temperatura), oltre ai contenitori adatti di mangime. Più avanti nel gioco si sbloccheranno anche diverse combinazioni di filtri più potenti, pompe di flusso e altri macchinari per i pesci più esigenti.

Lo Scopo del Gioco

L’obiettivo è quello di totalizzare il maggior numero di punti in modo da poter andare avanti nel gioco sbloccando le specie più rare e i macchinari migliori. Ci sono tre tipologie di punti: punti stella (ci faranno salire di rango dandoci accesso ad accessori, macchinari e pesci sempre più rari), natura (per sbloccare i pesci) e scienza (per i macchinari), ottenibili più agevolmente dai grandi acquari più decorati e popolati. Ma in questo gioco non saranno solo le specie ittiche a richiedere la nostra attenzione: come dei bravi gestori di una attività che si rispetti, dovremo curarci anche dei nostri affezionati avventori! Si dovranno costruire bagni, corner-shop, panche e distributori di bevande e viveri. Inoltre, grazie ai fondamentali operai che si potranno assumere durante la sessione di gioco (i quali variano di numero in base alla grandezza dell’acquario che andremo a costruire), ci prenderemo cura dei nostri pesci, dei macchinari e della galleria stessa costruendo ripostigli, banchi da lavoro e lavabi.

Uno dei tratti interessanti dei nostri piccoli operai, è sicuramente il fatto che andando avanti nel gioco, potremo sviluppare le loro skill, in modo da migliorare quelle in cui sono già più ferrati, oppure dargliene di nuove per ricoprire più incarichi all’interno della galleria. Quasi come fosse una sorta di semplicistico schema di sviluppo RPG, davvero molto originale per la tipologia di videogioco proposta dal developer.

In conclusione

Anche se graficamente il gioco non è al passo con i suoi antagonisti, come lo stesso Two Point Hospital, e la colonna sonora si riduca a una orecchiabile melodia, d’altro canto è evidente come Megaquarium punti sull’immediatezza e sul divertimento, in modo da poter offrire agli appassionati quel “quid” che li stimolerà a rimanere incollati allo schermo un po’ più del previsto – per intenderci quando pensi tra te e te: «sì ok dai faccio questo e stacco… ok, ok, completo solo questo magari e poi vado via… ma sì dai, la mia fidanzata potrà andarci anche sola a far la spesa no?».
Ecco, avete trovato il gioco che fa per voi.




The Mooseman

Molto spesso ci si pone la domanda “il videogioco è arte?” e nel corso degli ultimi anni più volte abbiamo visto delle vere e proprie opere in movimento: mi viene da pensare a Braid di Jonathan Blow, oppure a Limbo dei Playdead. È anche il caso di questo The Mooseman, opera prima del team russo Morteshka, e fortemente basato sulla mitologia komi-permiacca dell’omonimo e antico popolo dei monti Urali.

Spirit of the forest

In principio il mondo nacque da un uovo deposto dal dio Yen, che venne suddiviso in tre parti: il Sottoterra, oceanico e popolato dai morti, la Terra di Mezzo (da non confondere con l’omonima e fittizia terra immaginata da J.R.R. Tolkien ne Il Signore degli Anelli), popolata dagli esseri umani, e il Mondo Superiore, luogo degli dei. Noi impersoneremo l’Uomo Alce, un essere metà uomo e metà dio, capace di vedere cose nascoste all’occhio umano. Su questo fattore caratteristico si basa The Mooseman, un’avventura bidimensionale con alcuni elementi puzzle. Quasi un walking simulator, potrebbero dire alcuni, cosa che il titolo degli sviluppatori russi a tratti è, visto che i comandi del giocatore si riducono a pochissimi tasti: la barra spaziatrice per alternare le nostre visioni tra mondo “reale” e magico, le frecce di sinistra e di destra per muoverci, F1 per vedere quali artefatti abbiamo raccolto, oltre alla loro descrizione, e infine F2 per interagire con gli idoli, dei piccoli menhir dotati di occhi che ci narreranno tutta la storia della mitologia Komi.
Il gioco alla fine è questo: un piccolo viaggio della durata di poco meno un’ora, ma con un percorso davvero intenso. Il punto di forza di questo titolo non è tanto nel suo essere un “gioco” con tutte le caratteristiche ludiche implicanti sfida e abilità, vista anche la semplicità degli enigmi, quanto una sorta di installazione artistica interattiva. È difficile non restare ammaliati e impressionati dall’art style, una via di mezzo tra la pittura rupestre dei popoli preistorici e la tecnica del disegno a carboncino. Uno stile artistico che lascia senza fiato e che sopperisce alla mera potenza tecnica con un intelligente uso della palette grafica, oltre che dei tratti usati per gli sfondi e ciò che avviene in primo piano. Parte importante dello stile del titolo russo è il sonoro: il gioco è stato tradotto e narrato nella lingua komi-permiacca e la musica si basa proprio sul retaggio folkloristico del popolo: un miscuglio di ambient e strumenti folk con inserti di cantato joik, molto vicino al lavoro di gruppi della scena odierna musicale come i norvegesi Wardruna o al finlandese Jonne Järvelä, leader dei Korpiklaani. Per quanto riguarda, invece, la parte meramente ludica, il tutto è lasciato a degli enigmi ambientali abbastanza semplici e che al massimo richiederanno pochi tentativi per essere risolti, e alla collezione degli artefatti, quest’ultimi abbastanza nascosti nel mondo di gioco e che, volendo, possono spingerci a rigiocare l’avventura più di una volta nel tentativo di trovarli tutti. Ma in realtà The Mooseman funziona più come viaggio unico. Un viaggio sì breve, ma in realtà carico del potere della mitologia di un popolo che rischia di scomparire, un po’ come i nativi americani. Il titolo dei Morteshka forse stonerebbe nella semplice reclusione negli store videoludici, quando, invece, troverebbe la sua forma più adatta nei musei, essendo un viaggio artistico davvero emozionante. Il videogioco è quindi una forma d’arte? Dopo aver giocato The Mooseman direi ancora una volta proprio di sì.




ADOM (Ancient Domains of Mystery)

ADOM (Ancient Domains of Mystery) è un RPG roguelike a turni pubblicato originariamente nel 1994 da Thomas Biskup su Linux. Inizialmente, la versione “originale” del titolo era stata sviluppata basandosi sul linguaggio di programmazione C ed è stata aggiornata costantemente fino al novembre del 2002, venendo trasportata, negli anni, anche sugli altri sistemi operativi conosciuti. Il gioco di cui sto parlando quest’oggi è “nato” invece grazie a un crowfunding ideato nel 2012 sulla famosa piattaforma Indiegogo (nella quale il creatore aveva proposto, per la modica cifra di 50.000 dollari, la possibilità di ricevere il codice per intero del suo gioco recapitato da lui in persona), che ha portato al rilascio di una versione “deluxe” su Steam, compatibile con Windows, Linux e macOS. All’interno del gioco vestiremo i panni di un’eroe incaricato di salvare la terra di Ancardia dalla forza maligna del caos.

Il titolo è stato dotato di una semplificazione a favore dei neofiti, con un’utile modalità tutorial e difficoltà di gioco scalabili a seconda delle capacità di ogni giocatore, nonché svariate modalità: una modalità custom, che permette di modificare a piacimento la difficoltà, mentre la story mode consente, a differenza delle difficoltà base, di salvare e ricaricare i salvataggi anche dopo la morte, e infine la Crowd mode che permette di giocare con degli amici. Come ogni RPG, che si rispetti anche ADOM ha una personalizzazione del personaggio ampia, molto ampia. Il nostro eroe, può essere generato casualmente o creato con le nostre mani. Il sistema di personalizzazione offre la bellezza di 12 razze e altrettante, se non di più, classi (combattente, ladro, mago, cavaliere del caos ecc ecc). Ovviamente, ogni razza offre un bonus nelle statistiche mentre le classi, invece, hanno dei punti di forza e dei svantaggi unici. L’essere strutturato in turni permette al giocatore di strutturare il suo gameplay in maniera strategica, cambiare armi, scegliere la miglior mossa e quale nemico attaccare prima, tutto questo rende l’ambiente di gioco più piacevole e, soprattutto, interessante.

All’interno del titolo sono presenti molte armi, che variano da semplici spade a bacchette magiche. Un altro elemento importante che in ADOM è fondamentale è la fame. Se il nostro personaggio non si nutrirà a dovere, dopo un determinato numero di turni comincerà a morire di fame. Tuttavia, non è questa l’unica limitazione: infatti, dovrete cibarlo solamente con ottime razioni di cibo perché l’alimentazione a base di carne di mostro marcia potrebbe avvelenarlo o farlo ammalare. Inoltre, durante i movimenti del nostro personaggio sul territorio della mappa, si ha la possibilità di imbattersi in nemici di vario tipo: branchi di iene, goblin e tanto altro.
Sul piano grafico, il titolo è stato svecchiato grazie all’aggiunta di una grafica in stile cartoon senza molte pretese. Gli effetti sonori sono ben congegnati e la colonna sonora rimane orecchiabile anche dopo un periodo di gioco prolungato.

In conclusione, si può dire che ADOM, anche dopo tutti questi anni, rimane comunque una validissima scelta nel campo dei roguelike, grazie alle sue meccaniche, forse un po’ datate, ma comunque ben strutturate. Il titolo del buon vecchio Biskup, anche dopo tutto questo tempo, riesce a far passare le varie ore di gioco con un pizzico di ansia e di piacevole gameplay che, ancora oggi, viene aggiornato costantemente con il rilascio di nuove patch. Titolo consigliato, soprattutto a tutti gli amanti dei videogiochi old-style.




Monster Prom

Direttamente dalla Spagna, più precisamente dalla software house catalana Beautiful Glitch, arriva Monster Prom: una simpatica visual novel in cui ci ritroveremo nei panni di liceali che dovranno prepararsi al ballo di fine anno!

Chi scelgo?

Già il nome, Monster Prom, lascia poco spazio all’immaginazione, i protagonisti del gioco sono tratti dai mostri più comuni: vampiri, fantasmi, zombie, lupi mannari e simil-Frankenstein e qualche altra aberrazione di contorno. Il gioco ci mette sin dall’inizio davanti alla scelta del nostro personaggio, selezionabile tra 4 dei giovani mostri a disposizione.

Monster Prom metterà alla prova le nostre abilità seduttive per portare a compimento l’obiettivo del gioco, ossia riuscire a convincere uno dei compagni di liceo a venire con noi al ballo di fine anno… niente di più difficile! Ambientato interamente all’interno di un liceo stereotipale, con mensa, teatro, aule e tutto il contorno, Monster Prom è un gioco basato sulla scelta multipla, che ovviamente alla fine influirà sull’esito della partita. Partendo dal presupposto che è possibile iniziarlo e finirlo in un’unica sessione, il gioco propone, a ogni modo, 2 versioni: breve o lunga (ovviamente la breve è quella che si apprezza di più, perché volendo si potrebbero fare più tentativi, ma scoprirete che proprio per la sua scarsa longevità, molto spesso potrebbe rivelarsi difficile portare a casa la vittoria.)

È tutta una questione di dialettica

Il gioco è suddiviso in giorni, gli stessi che ci dividono dalla data del ballo. Il tempo viene scandito tramite lo svolgimento di una singola azione, ogni giorno, al termine della quale si passerà al giorno successivo e così via, senza alcuna possibilità di riavviare, o ripetere gli eventi già trascorsi, fino al termine della sessione in atto. Come abbiamo detto precedentemente, Monster Prom è completamente ambientato in un liceo, ogni giorno, si potrà scegliere dove voler passare la giornata: libreria, auditorium, classe, giardino, palestra o bagni.

Per riuscire nel nostro difficile intento, dovremo ricorrere alle nostre strategie migliori, scegliere sempre le opzioni giuste che ci porteranno punti a favore dalla persona che desideriamo portare al ballo: prendere le sue difese, appoggiarla nelle discussioni importanti o semplicemente essere buffi o divertenti. La nostra personalità viene ricavata da un paio di domande che ci verranno poste prima che il gioco inizi, e caratterizzerà il nostro main character per quella sessione, determinando anche il personaggio al quale dovremmo indirizzare la nostra attenzione. Una volta definito il profilo del nostro protagonista, ci verranno dati dei punteggi per ognuna di 6 diverse caratteristiche, che aumenteranno o diminuiranno, in base all’andamento dei nostri dialoghi.

La nostra abilità, dovrà essere quella di fare sempre le scelte giuste, che a loro volta genereranno punti caratteristica e/o punti “cuore”, a favore di quel preciso personaggio, in modo da poter assicurarci una compagna, o compagno, per il tanto ambito ballo di fine anno.

Il gioco fornisce anche la possibilità di giocare in multiplayer localmente, o tramite connessione internet creando una partita e generando un ID da comunicare agli altri giocatori con cui desiderate condividere la partita. Purtroppo nulla di interattivo: infatti la modalità “online”, prevede le stesse funzioni di quella locale, quindi semplicemente che da 2 a 4 giocatori, partecipino a una stessa sessione di gioco mediante i turni.

Grafica e Audio

Non c’è che dire, la caratterizzazione dei personaggi è eccezionale; inoltre volerli proporre in questo stile anime/ultimicartonidisneychenonsembranoaffattodisney, risultano molto piacevoli alla vista, un’ottima scelta cromatica per questo horror cartoonesco, con colori che si sposano bene con l’ideologia del teenage-horror movie. Musicalmente il gioco è accompagnato da una melodia allegra che però, rimane sempre la stessa, risultando alla lunga monotona.

Concludendo

Non sono un grandissimo fan delle visual novel, non riesco mai ad appassionarmi a questo stile di gioco ma, d’altro canto, devo anche ammettere che, vuoi per la leggerezza dei temi trattati o dell’ebbrezza nello sfidare il mio ego, ormai sopito da teenager, Monster Prom è stata una delle poche visual novel che non mi hanno costretto al “rage-quit” (aka Alt+F4) dalla partita a causa magari di quei dialoghi interminabili di cui solitamente giochi del genere sono farciti.




Flat Heroes

Essere degli eroi al giorno d’oggi è un carico difficile da reggere; richiede una grande forza di spirito e in un certo senso una visione parallela e controtendente al sentire comune. In un periodo dove la maggior parte delle produzioni videoludiche spingono verso la perfezione tecnica e quantità di calcolo sempre più massicce, i ragazzi di Parallel Circles abbracciano la poetica dell’eroe in maniera quanto meno sincera. Forse è da qui che nasce l’esigenza di concepire un gioco come Flat Heroes, abbandonando l’ossessione estetica pomposa senza rinunciare a uno stile asciutto e primordiale che, attraverso una strana alchimia, riaffiora ricordi appartenuti a un tempo passato, quando i sogni dei giocatori venivano cullati da macchine da gioco come l’Atari 2600.

Da grande voglio diventare un cerchio

Alla fine del 1884 un eccentrico scrittore di nome Edwin Abbott descrisse minuziosamente cosa significasse appartenere a un mondo bidimensionale, dove le leggi universali vengono dettate in base al campo cognitivo tipica della dimensione spaziale alla quale si appartiene. In altre parole lo scrittore dichiarava che «noi viviamo secondo quello che percepiamo»; quindi in un ipotetico mondo a due dimensioni dove ogni cosa è piatta (“flat”, nella lingua di Albione), noi saremo il frutto della nostra percezione bidimensionale con ovvie conseguenze sullo stile di vita. La novella in questione è Flatlandia e, come nell’indie dei Parallel Circles tutto è basato su intuizioni geometriche e cromatiche.

Flat Heroes è una bizzarra mescolanza tra puzzle game e platform nel vecchio stile del trial and error, dove sarete chiamati a controllare un piccolo quadrato con l’obiettivo di sopravvivere ai numerosi stage proposti dagli sviluppatori.

Io sono eroe

La modalità single player è suddivisa in campagna classica e modalità eroe, in entrambi i casi il nostro obiettivo è quello di resistere agli innumerevoli attacchi provenienti da altre forme geometriche. Avremo a disposizione la possibilità di poter scattare in qualsiasi direzione attraverso un piccolo dash e di attaccare o difenderci tramite uno scudo dalla durata di pochi attimi. Il nostro quadrato è libero di muoversi in tutte le direzioni, inoltre saremo in grado di scalare le pareti che racchiudono lo spazio di gioco nel tentativo di fuggire dai pericoli creati dagli sviluppatori: proiettili a ricerca automatica, bolle esplosive, raggi laser, frecce direzionali. Ogni nemico ha un suo pattern comportamentale e i Parallel Circles sono abili nel proporre al giocatore situazioni differenti tra uno stage e l’altro. Si gioca a tentativi e a ogni colpo ricevuto ricominceremo dall’inizio fin quando riusciremo a schivare ogni singolo pericolo. Ciascuna modalità è suddivisa in una decina di mondi che comprendono a sua volta 14 livelli base più uno scontro con il boss di turno.
La difficoltà progressiva è in qualche maniera stemperata dalla felice decisione degli sviluppatori di concedere la possibilità di poter passare di livello in qualsiasi momento, evitando l’anacronistica sensazione di frustrazione nel rimanere bloccati e non poter proseguire la partita; starà alla vostra etica da videogiocatore riprendere i livelli saltati e completare al 100%. Tutto dipende dalla vostra abilità con il pad, nel giusto tempismo e nella capacità di prevedere la prossima mossa del nemico. Molto spesso la tecnica di rimanere nascosto dietro una parete in attesa degli eventi si è rivelata inefficace e controproducente; al contrario buttarsi nella mischia e cogliere il momento opportuno per un attacco diretto riesce il più delle volte a risolvere una situazione drastica.

Non contenti dei già numerosi livelli della modalità principale, gli sviluppatori ne hanno inserito altri basati sulla sopravvivenza, dove verranno proposte sfide senza limite di tempo nello scopo di riuscire a stabilire punteggi record raccolti in una classifica online.

Noi siamo eroi

Il bello di essere eroi è anche quello di poter contare sull’aiuto di compagni valorosi, per questo gli sviluppatori non hanno tralasciato nulla al caso: il comparto multiplayer di Flat Heroes è ricco e probabilmente l’approccio migliore per affrontare la sfida lanciata dai Parallalel Circles. Oltre alla possibilità di affrontare la campagna principale con l’aiuto di un amico, il multiplayer si compone di 4 modalità differenti che spaziano dalla classica sopravvivenza, obiettivo, aree e fuggitivo.
Ognuna di esse con le proprie varianti; fino a un massimo di quattro giocatori su schermo contemporaneamente. Niente di rivoluzionario ma che aggiunge altra linfa a un già esaustivo comparto in giocatore singolo.

Poligoni con stile

Per quanto riguarda il comparto tecnico, un plauso va fatto al team di sviluppo che è riuscito a dare personalità e stile a semplici figure geometriche, attraverso una sapiente regia delle animazioni. Il tutto su schermo scorre in maniera fluida e piacevole senza alcun tipo di rallentamento, grazie anche allo stile adottato dagli sviluppatori: minimale e intuitivo, dotato di una simpatica personalità che lo svincola dal pericolo di cadere nell’anonimato. L’accompagnamento sonoro non è da meno con tracce elettroniche orecchiabili e perfettamente in linea con il resto della produzione.

Tirando le fila, si può tranquillamente constatare come Flat Heroes sia consigliabile a tutti quei giocatori che cercano una sfida impegnativa ma mai snervante, un gioco che non lascia nulla alla fortuna ma affida alle mani degli utenti il compito di diventare l’eroe della giornata, guidando verso la salvezza un piccolo quadrato in pericolo. Il prezzo abbordabile di 7,99 € sugli store rende l’occasione ancora più invitante e un giusto tributo al buon lavoro svolto dai Parallel Circles.




Dragon Quest XI: Echi di un’era perduta

La saga di Dragon Quest può essere considerata come quella che ha definito il genere JRPG nella sua accezione più classica, persino la saga di Final Fantasy ha tratto ispirazione dal titolo targato Enix uscito nel lontano 1986 su NES, sebbene siamo giunti all’undicesimo capitolo, sono passati ben tredici anni dall’ultimo episodio puramente single player (Dragon Quest VIII uscito su PS2), in questa recensione cercheremo di analizzare i pregi e difetti di quest’opera mastodontica.

Come in ogni Dragon Quest che si rispetti, la storia ha il tono di una favola, in cui l’eroe che rappresenta la luce (il Lucente in questo caso) dovrà sconfiggere il male che rappresenta l’oscurità e riportare la pace nel mondo con l’aiuto di altri eroi.
Il gioco inizia con la nascita del nostro protagonista, principe del regno di Dundrassil, nato con una strana voglia che si illumina sulla mano sinistra; i genitori capiscono presto che è la reincarnazione del Lucente, il quale in un periodo passato aveva salvato il mondo dall’oscurità. Ben presto il castello verrà attaccato da mostri demoniaci, e la regina, nel tentativo di salvarlo, lo affida a un’ancella, la quale però non riesce a proteggerlo e lo affida alle acque di un fiume. Il piccolo verrà trovato e accudito da un vecchietto e da sua figlia che non gli riveleranno le proprie origini finché non sarà abbastanza grande da poter combattere e andare in giro per il mondo.
L’opera di Yūji Horii, benché possa sembrare banalotta, riserva dei colpi di scena degni di nota e tiene sempre vivo l’interesse del giocatore per tutta la durata del gioco, alternando momenti comici a momenti drammatici con maestria.

Gli sviluppatori hanno utilizzato l’Unreal Engine 4, e il risultato è veramente una gioia per gli occhi, la grafica cartoonesca ben si sposa con il character design del maestro Akira Toriyama (il quale ha lavorato anche ai titoli precedenti) i dettagli su schermo sono numerosi, le texture molto dettagliate e specialmente su PS4 Pro grazie alla maggiore risoluzione è difficile notare segni di aliasing, a mio avviso la miglior grafica in stile anime mai vista su console.
La stessa cosa non può essere detta per il comparto audio, specialmente per una colonna sonora che rappresenta il punto negativo del gioco, realizzata in un formato midi che richiama in maniera incongrua certi giochi per Super Nintendo, con brani sono molto ripetitivi, al punto che chi scrive ha dovuto mutare la musica a causa dell’effetto nauseante dopo tante ore di gioco: che sia una scelta per evocare la nostalgia dei vecchi titoli (anche gli effetti sonori sembrano essere usciti da una console a 16 bit) o una mossa del compositore Koichi Sugiyama atta a vendere i cd musicali con la colonna sonora del gioco suonata da un’orchestra, sta di fatto che il risultato stona con la grafica di ultima generazione e anche con le voci doppiate (in lingua inglese).

Dragon Quest XI è un JRPG di stampo classico, con combattimenti a turni, in cui si potrà attaccare con le armi oppure lanciare incantesimi di attacco o di cura, si potranno anche usare gli oggetti come le classiche pozioni di salute o di mana e via dicendo. La vera novità è rappresentata dalla possibilità di diventare “pimpante” per i personaggi che controlliamo, ovvero uno stato in cui si avrà un’attacco e una difesa maggiore e si potranno effettuare delle mosse speciali anche combinando le abilità fra diversi personaggi anch’essi pimpanti, le combinazioni sono tantissime e aumentano di potenza in base al numero di personaggi che ne fanno parte e anche alle abilità che si possono sbloccare con l’aumentare del livello.
Per buona parte del gioco gli scontri avranno un livello di difficoltà molto basso, basti pensare che non ho mai avuto bisogno di usare dei consumabili fino all’endgame, in cui la difficoltà è rappresentata maggiormente dal livello superiore dei nemici, è possibile al primo avvio del gioco modificare dei parametri che cambieranno il livello di difficoltà del gioco, come ad esempio togliere la possibilità di scappare via dai combattimenti, potenziare i nemici o guadagnare meno punti esperienza con gli scontri; non è possibile aggiustare certe opzioni a partita iniziata, se si desidererà una maggiore difficoltà in fase avanzata di gioco sarà necessario iniziare da capo.
Il titolo offre un vasto mondo da esplorare, con tantissime città da visitare, in cui incontreremo validi alleati o preziosi mercanti o personaggi che ci faranno affrontare delle missioni secondarie, fuori dalle città potremo viaggiare sia su cavalcature che a piedi, troveremo sparsi nel mondo anche dei falò in cui potremo riposare, forgiare armi o armature e salvare il gioco. Le attività saranno tantissime e, grazie anche alla semplicità del gioco non saranno mai noiose, tutto sommato è proprio l’essenzialità uno dei punti forti del gioco, non si avvertirà mai senso di frustrazione e l’avventura, anche se lunghissima, scorrerà via senza alcuno sforzo, anche grazie alle numerose attività.

Tirando le somme, Dragon Quest XI: Echi di un’era perduta è probabilmente il miglior episodio dell’intera saga, e anche uno dei migliori JRPG degli ultimi anni, che non raggiunge l’eccellenza a causa di una colonna sonora pessima in formato midi, e una difficoltà un po’ troppo bassa, ma nel complesso è un gioco che consigliamo a tutti i possessori di PS4 (la versione per 3DS purtroppo non è arrivata in occidente) senza remore, che potranno godere di questa avventura di circa 100 ore che scorreranno via senza fatica e frustrazione.




vridniX

The Neta-Vark è in pericolo e solo un vero eroe può salvarla, ma non sembra poi tanto semplice. vridniX è un mostriciattolo creato dalle menti di soli due ragazzi francesi, che hanno fondato lo studio di sviluppo Uncanaut.
vridniX è un singolare platform story-driven in 2D, che prende il nome dall’omonimo protagonista, un simpatico, quanto distruttivo, alieno che cerca di salvare il mondo dall’invasione dei Trogogluxes, una razza aliena che tormenta da generazioni i poveri Wamnis. vridniX, grazie a un forte senso di giustizia e di patriottismo decide di andare alla ricerca dello Switch of Destiny, un interruttore capace di annientare ogni pericolo. Purtroppo, nel farlo causa non pochi danni, mettendo sottosopra letteralmente l’intero pianeta.
La peculiarità del titolo non sta tanto nella storia, che passa facilmente in sordina, ma il gameplay, freneticamente snervante: il protagonista non smetterà mai di correre e questo, insieme ai nemici e agli ostacoli, complicherà il tutto.
Per superare i vari livelli si dovranno attraversare dei portali che ci catapulteranno allo stage successivo, stando attenti a non toccare i nemici e soprattutto a non atterrare sull’erba, che ci manderà immediatamente game over. Raggiungere questi strani portali non è un compito semplice: durante i primi livelli sembrerà quasi una passeggiata attraversarli, ma man mano che si arriverà a quelli intermedi, la difficoltà e la sfida cresceranno a dismisura. Il fatto di non potersi fermare e studiare bene gli ostacoli e le varie vie di fuga porta il giocatore a scegliere rapidamente una soluzione, quasi sempre perdendo almeno una decina di volte. Ovviamente questo non giova al divertimento che il titolo cerca di offrire, rendendolo quasi opprimente e frustrante, rendendo più facile l’abbandono da parte del giocaotre.

Durante la nostra avventura per i vari stage incontreremo gli abitanti di The Neta-Vark, che non ci forniranno delle indicazioni utili, ma riescono comunque a rendere più vivace il contesto di gioco. Oltre alla gente del luogo, in ogni livello, si troveranno una o più sfere che permetteranno al piccolo e innocente vridniX di cambiare la gravità del livello, riuscendo a raggiungere il tanto agognato portale. Questa feature poteva essere sfruttata meglio, rendendo il gioco un po’ più simpatico e meno macchinoso; in ogni livello ci troveremo a ruotare il mondo, saltare e attraversare il portale, delle azioni abbastanza monotone e ripetitive, contando che i game over saranno molto comuni.
Queste potenti sfere, oltre a raggiungere i portali, serviranno anche a vridniX per sconfiggere una serie di boss che si presenteranno alla fine di ogni stage, utilizzando solo gli oggetti presenti nell’ambiente circostante.
La grafica e il sonoro non eccellono, ma riescono comunque a creare una piacevole atmosfera durante le nostre lunghe sessioni per completare un livello. Il background in ogni stage, in totale sei, cambia, riprendendo dei colori tipici di ogni paesaggio: la tendenza al marrone e a colori caldi per la città, mentre colori freddi e metallici per i livelli ambientati nella fabbrica e così via.

La soundtrack, invece, sembra essere stata inserita solo per fare compagnia durante i vari livelli. Chiudendo il gioco non si ricorda alcuna melodia – un punto molto importante a parer mio, indispensabile per qualunque titolo.
vridniX è un gioco che ha un progetto di fondo intelligente e divertente, ma che non è stato sfruttato e valorizzato al 100%. Un gameplay semplice per quanto riguarda i comandi e le azioni da compiere, ma allo stesso tempo complesso, che premia la reattività del giocatore e non tanto la singola skill del comandare il nostro mostriciattolo arancione. vridniX offre comunque una buona serie di puzzle che metteranno a dura prova le nostre abilità nel saltare e prevedere i nemici e, in un certo senso allenerà i nostri riflessi.




Mega Man 11

È possibile tracciare in Mega Man 9 l’inizio dei videogiochi retro-ispirati: sebbene alcuni di questi giochi esistevano già prima su internet sotto forma di hack o giochi flash su siti come Newgrounds, Mega Man 9 aprì le porte alla retro-rivoluzione di cui oggi siamo protagonisti poiché per la prima volta un grosso developer come Capcom dava credito e peso a non solo tutti quei fan che volevano un nuovo classico titolo del blue bomber, che in quel periodo era protagonista solamente di miriadi di sub-saghe e spin-off vari, ma anche l’importanza e la bellezza dei platform più tradizionali, la cui emozione veniva trasmessa anche con una grafica datata come quella del NES. Da lì sembrava che per Mega Man si prospettasse un futuro molto florido, visto il tempestivo decimo capitolo per l’anno successivo, ma nel 2010 accadde qualcosa di terribile: Keiji Inafune, direttore creativo della saga di Mega Man, abbandonò Capcom e col suo forfait la saga subì un brutto stop. Ben tre progetti, Mega Man Universe (un gioco che avrebbe potuto anticipare il sistema di creazione di livelli in Super Mario Maker), Mega Man Legends 3 e Maverick Hunter, vennero cancellati e a quel punto il fandom del robottino blu cadde nell’abisso, quasi certo di non rivederlo più.
A sparigliare le carte ci pensò Keiji Inafune, con il lancio nel 2013 su Kickstarter il del progetto Mighty No. 9, annunciato come il sequel spirituale di Mega Man; nonostante la risposta più che positiva da parte dei fan che finanziarono il progetto nel giro di un paio di minuti, per via della mancata comunicazione e un marketing discutibile (nonché alcuni brutti bug presenti nella release finale) il gioco che doveva riportare ai fan di Mega Man una sfida che fosse pane per i loro denti si rivelò un amaro fallimento e non a tutti piacque quello a cui giocarono. Nel frattempo Capcom, visto il successo del Kickstarter del loro ex impiegato, decise di rilasciare Mega Man Legacy Collection, contenente i primi sei titoli classici, insieme a un sacco di extra, ideali per far conoscere ai giocatori più giovani di cosa è fatta la saga del robottino blu. Due anni dopo, nel 2017 arrivò Mega Man Legacy Collection 2 contenente i restanti quattro titoli della serie classica ma nella sezione extra di Mega Man 8 i fan fanno una misteriosa scoperta: negli artwork trovano un misterioso disegno che non appartiene al suddetto gioco, né a nessun altro Mega Man presente nella collezione, e perciò cominciarono le speculazioni. La risposta arrivò un pomeriggio (in Europa) del Dicembre 2017 quando in una live di Capcom su Twitch, per festeggiare il 30esimo anniversario di Mega Man, venne annunciato a sorpresa Mega Man 11, un gioco atteso per 8 anni e che finalmente, dopo richieste su richieste da parte dei fan, arrivò alla luce (e apparve anche un Mega Man sfoggiare le stesse caratteristiche dell’artwork misterioso, ovvero il power-up di Block Man).
Il passo dalla rivelazione del trailer al rilascio ufficiale non fu breve ma, durante questo lasso di tempo, Capcom si assicurò di aggiornare regolarmente i fan e dunque ottimizzare il gioco il più possibile, consegnando così un opera di classe, senza sbavature e che, soprattutto, apriva la strada al futuro della saga che, oggi più che mai, sembra luminoso e pieno di sorprese. Andiamo subito a vedere la versione per PC di questo gioco, uscito ovviamente per PlayStation 4, Xbox One e Switch.

Due colleghi

La lore della saga risiede nei lavori di Thomas Light e Albert W. Wily, due scienziati appassionati di robotica che crearono una serie di robot, fra cui i sei robot di Mega Man (il primo titolo per NES), creati per assolvere lavori comuni, i due fratelli Rock (il nome giapponese del blue bomber) e Roll, creati come assistenti di laboratorio, e Protoman (ma qui è una storia non rilevante). A un certo punto il Dr. Wily, accecato dalla più brillante abilità del suo amico Thomas Light, corrompe i sei robot da lavoro portandoli ad attaccare gli umani e li convince a dominare il mondo sotto il suo nome. Il Dr. Light convince così Mega Man, il robot originariamente concepito per funzioni diverse, a convertirsi in un robot da combattimento e così nasce il blue bomber che oggi conosciamo e amiamo. Il Dr. Wily più in là, nonostante la prima sconfitta, proverà più e più volte con altri robot a dominare il mondo senza mai ottenere nessun risultato (per ben 10 volte, pensate!).
L’opening di questo nuovo Mega Man 11 ci mostra un flashback di Dr. Light e Dr. Wily, giovani, di fronte a una commissione universitaria; si discute sul double gear system, un meccanismo creato da Wily in stato di prototipo che se installato nei robot da lavoro gli permetterà di lavorare il triplo, aumentando la loro forza fisica e rendendoli più veloci. La commissione boccia l’invenzione del Dr. Wily per mancanza di etica in quanto, se il meccanismo finisse nelle mani sbagliate, potrebbe generare un robot inarrestabile in caso di rivolta; scaraventando il meccanismo per terra, lo sconfitto dottore se ne va ma Dr. Light, che comunque credeva nel suo amico, lo raccoglie pensando che un giorno gli possa tornare utile. Nel tempo presente, nel classico anno 20XX, il Dr. Wily, svegliatosi da un sogno che rimembrava i medesimi eventi, si ricorda del double gear system e così ne implementa uno nuovo ma gli mancano i robot; durante il giorno della manutenzione di alcuni robot master del Dr. Light, ovvero di Block Man, Acid Man, Blast Man, Torch Man, Bounce Man, Impact Man, Fuse Man e Tundra Man, il Dr. Wily irrompe nel laboratorio con il suo iconico Ufo e lì ruba sotto gli occhi di Mega Man, Roll, l’assistente Auto e il buon dottore spiegando nel contempo che utilizzerà la sua invenzione che gli fu scartata dalla commissione. Il Dr. Light informa Mega Man che, così com’è, non potrà fronteggiare i robot master senza il double gear system ma, fortunatamente per lui, il Dr. Light conservò la versione di Wily sin da dai tempi dell’università; una volta installata questa nuova miglioria Mega Man è pronto per buttarsi in una nuova avventura.

Due ingranaggi

Questo nuovo Mega Man 11 si concentra dunque sul sistema double gear, una nuova meccanica che dona a questa saga, onestamente un po’ stagna, una sfumatura diversa dal solito e molto originale: col tasto “RT” (“R“, e “R1” nei joypad, rispettivamente, di PlayStation 4 e Nintendo Switch) si attiverà un ingranaggio che renderà più veloce il blue bomber, rallentando dunque l’azione circostante, l’ideale per assestare colpi di precisione o, se siamo muniti di un pollice veloce, concentrare più colpi in poco tempo; con “LT“, invece, attiveremo un altro ingranaggio che, semplicemente, aumenterà la potenza di Mega Man e, se caricheremo un colpo tenendo premuto il tasto per sparare, lanciare ben due colpi di mega buster potenziato, l’ideale per i nemici particolarmente forti e per quei giocatori che conoscono il tempismo perfetto per caricare l’arma e scaricarla al momento giusto. Quando attiveremo una di queste funzioni si riempirà una barra che, se arriverà alla saturazione, impedirà le funzioni double gear fino a quando questa energia non torna a zero, e ci vorranno circa 15 secondi affinché si possa ripristinare; è perciò tanto importante usare queste nuove funzioni quanto saperle economizzarle il più possibile per poi evitare di non ritrovarsele pronte nel futuro immediato. I veterani dei giochi à la Mega Man potranno trovare nel double gear delle similitudini col sistema di corrente elettrica già visto in Azure Striker Gunvolt, senza però la possibilità di ricaricare immediatamente la barra premendo due volte giù, e anche della velocizzazione del tempo in Sine Mora, particolarissimo shooter della Digital Reality e Grasshopper Manufacture. Infine, questo nuovo sistema ha un ultima e potente funzione ma questa si attiverà esclusivamente quando avremo poca energia: premendo entrambi i tasti insieme, “RT” e “LT“, verranno attivate entrambe le funzioni, dunque rendendo Mega Man super potente e super veloce, ma si disattiveranno solamente alla saturazione della barra alla fine della quale ci ritroveremo con un personaggio altamente depotenziato che non potrà sparare più di un proiettile alla volta e non potrà caricare il suo mega buster e perciò sarà molto difficile sopravvivere in queste condizione (ma se ci riusciremo potremo utilizzare questa particolare funzione una seconda volta). Capite le meccaniche del double gear, grazie a un breve tutorial e molto versatile, ci potremo buttare all’avventura vera e propria, ritrovandoci sin da subito nell’iconica schermata di selezione boss tipica della saga.
Al solito, come in ogni capitolo, scegliere il primo stage da affrontare è un po’ difficile sia perché non conosciamo i pattern di attacco del suo boss e sia, se è per questo, perché non conosciamo il suo livello. Una volta trovato “l’anello debole della catena”, ovvero il boss più debole degli 8, otterremo la sua arma speciale che, a differenza del mega buster, consumerà una barra speciale al termine della quale non funzionerà più; il buon giocatore di Mega Man, una volta ottenuta la prima arma speciale, andrà a caccia del boss la cui debolezza è proprio l’abilità appena ottenuta dal precedente e, uno dopo l’altro, debolezza dopo debolezza, sconfiggeremo tutti gli otto robot master fino ad arrivare, come di consuetudine, alla fortezza del Dr. Wily dove ci saranno gli stage finali, di cui uno dei quali sarà un boss rush (in cui dovremmo affrontare tutti gli otto robot master con le solite due vite standard).
La struttura di questo Mega Man 11 è la più classica che ci si poteva aspettare e il blue bomber, a differenza del nono e decimo capitolo, torna a pieni poteri in quanto negli ultimi due giochi era stato privato del colpo caricato; uno dei primi elementi per cui questo nuovo gioco si proietta in avanti e non indietro. Il level design offre esattamente la sfida per la quale la saga è famosa e i nuovi stage riflettono molto bene la personalità del boss che andremo ad affrontare: il livello di Impact Man, che è una sorta di robot che sostituisce le macchine pesanti dei cantieri, è una sorta di area di lavoro/galleria in costruzione, quello di Torch Man è un campeggio in una foresta tendente spesso a prendere fuoco, quello di Block Man ricorda, a larghe linee, le piramidi egiziane e maya, etc. I programmatori hanno veramente voluto trarre il massimo della sfida offrendo dei livelli notevolmente lunghi e irti di nemici, anche se c’è poca varietà all’interno di essi, ma ci hanno dato il minimo per ciò che riguarda i checkpoint, giusto due intermedi e uno finale che, come tipico della saga, è posto nella stanza che precede quella del boss; Mega Man 11 non è di certo un gioco facile, e certamente questo è uno di quei elementi che ne accentuano la piccante difficoltà, ma non sarebbe stato un male se avessero aggiunto giusto almeno un altro checkpoint a metà dei due. Nella schermata di selezione livello è possibile accedere, premendo “LT“, al negozio in-game dove i nostri alleati, il Dr. Light, Roll e Auto, ci riforniranno di oggetti istantanei, come vite, E-tank, i richiami Beat per non perdere una vita quando cadiamo in un fosso e le super armature, e altri permanenti, come chip speciali, anti-indietreggiamento o che aumentano la possibilità di trovare più viti in un livello (che sono la valuta del gioco). Nessun oggetto nel negozio è superfluo o inutile e danno un potenziamento equilibrato che non permette dunque di rendere il gioco nettamente più facile; tuttavia non tutti gli oggetti saranno disponibili sin dall’inizio e dunque si andranno a sbloccare man mano, però non è chiaro qual è il criterio o l’algoritmo (diciamo) per rendere un oggetto disponibile all’acquisto nel negozio. Anche una volta terminata la nostra avventura alcuni oggetti erano ancora bloccati all’interno del negozio e noi non abbiamo ancora capito il perché. Una volta finita l’avventura, però, è possibile ancora spremere ancora delle sane ore di gioco tramite le sfide extra, come sconfiggere i boss nel minor tempo possibile, le corse negli stage facendo scoppiare, sempre più velocemente possibile, dei palloncini blu e evitando quelli rossi, oppure con la bellissima prova del Dr. Light, ovvero 30 stanze in cui adempiere a un obiettivo come distruggere un determinato numero di nemici o semplicemente arrivare al successivo warp per entrare nella successiva.

Questo titolo fa per me?

Al di là di tutto, Mega Man 11, sia in termini di gameplay che in termini di storyline, è un titolo abbastanza semplice: la sfida proposta è, sì, buona, e sicuramente perfetta per i nuovi arrivati, ma particolarmente facile per i veterani che troveranno il tutto un po’ basilare e per loro, se vogliono trovare pane per i loro denti, non rimarrà altro che riavviare una run a difficoltà supereroe che propone dei nemici che si abbattono con più colpi, dei pattern d’attacco da parte dei boss più complessi e difficili da evitare e nessun modo di ricaricare i punti vita e le armi speciali al di fuori delle taniche speciali. La storia proposta non è affatto complessa e pertanto include giusto i personaggi essenziali della saga, dunque niente Bass, Protoman (anche se nulla toglie che li potremo vedere in futuro come DLC, la stessa cosa che è successa a Mega Man 9 e 10) o sgherro parallelo di Dr. Wily; per quanto riduttivo possa sembrare, in fondo questo titolo vuole anche attrarre nuovi fan e, anche se come per The Legend of Zelda questo non è mai stato il caso di questa saga, in questo modo i fan possono tranquillamente giocare a questo nuovo capitolo senza necessariamente aver giocato ai titoli precedenti. Possiamo dunque dire di Mega Man 11 che è un gioco classico che più classico non si può, ma in senso più che positivo in quanto offre sia una vera e propria evoluzione della saga, e dunque porsi come nuovo caposaldo per i capitoli a venire, che un ottimo biglietto da visita a coloro che non hanno mai giocato a un’avventura del blue bomber; vedete quel Mega Man 11 come un Mega Man 1.1, un nuovo luminoso inizio dalla quale poter partire e portare la saga verso nuovi orizzonti.

Il nuovo contesto di Mega Man

Il richiamo nostalgico è indubbiamente presente in questo titolo ma, fortunatamente, non è il fulcro della costruzione del gioco e pertanto, a differenza del suo ritorno nel 2009, Mega Man 11 offre una bellissima nuova grafica 2.5D; il Blue Bomber, i nemici, le piattaforme e i background sono interamente resi in 3D ma il tutto è inserito in un contesto 2D perfettamente funzionale, funzionante e che offre l’azione tipica di cui la saga è famosa, senza alcuni bug o errori di programmazione di alcun tipo. Lo stile dei personaggi e dei nemici è esattamente quello proposto nella serie classica (che differenzia, dunque, da sub-saghe come Mega Man X o Battle Network), dunque con colori molto accesi, nemici robot stravaganti e una “leggerezza” generale. Sfortunatamente per noi, abbiamo ricevuto una chiave per PC scoprendo in corso d’opera che Mega Man 11 richiede, come spesso accade per molti videogiochi per PC provenienti dal sol levante, degli ottimi requisiti minimi. Nonostante siamo riusciti a soddisfarli, il gioco girava molto lentamente e le opzioni per ridurre la qualità della grafica e ottimizzazione del gameplay nel menù opzioni sono veramente pochissime: risoluzione, modalità (di visualizzazione), anti-aliasing e v-sync. Inutile a dirlo, non bastano per ottimizzare il gioco in un pc poco potente e, nonostante lo abbiamo giocato con un i5 e una scheda Radeon AMD, siamo stati costretti a togliere l’anti-aliasing e il v-sync, ridurre la risoluzione a dei meri 800×600 e visualizzare il tutto in modalità windowed per recuperare più dettagli possibili e un framerate più vicino possibile ai 60FPS, il che è tutto abbastanza assurdo visto che stiamo parlando di un gioco la cui grafica girerebbe perfettamente persino in una console di precedente generazione, Wii U o PS Vita; nonostante tutte queste nostre limitazioni, il gioco non andava alla velocità massima (anche se era molto vicino) e ciò lo si poteva evincere nella schermata della selezione dello stage, durante l’animazione della selezione in cui la musica andava avanti rispetto alle animazioni del boss, dunque anticipando effetti sonori inclusi nella traccia audio e entrare in un imbarazzante silenzio prima del tempo; abbiamo avuto modo di mettere a paragone questa schermata con quella del Nintendo Switch, grazie alla demo gratuita sull’E-shop, confermando tutte le nostre preoccupazioni. Se vi considerate dei pc gamer, e pertanto avete un’ottima postazione, allora Mega Man 11 girerà senza problemi ma se non avete un computer potente e, possibilmente, vi ritrovate una delle tre console principali a casa allora vi converrà considerare questo acquisto al di fuori di Steam.
La musica, composta da Marika Suzuki, ricalca lo stile compositivo tipico della serie classica, una sorta di musica elettronica, vicina al J-pop, ma con sfumature anche dance e a tratti anche rock. Al di là dell’alta qualità delle composizione, anche qui non c’è alcun passo indietro e si è optato dunque per uno stile moderno e fresco, con sintetizzatori e drum machine d’avanguardia, senza alcun richiamo nostalgico chiptune con chip sonori del Nintendo Entertainment System o altre retro-console (l’unica cosa presa direttamente dai vecchi giochi è il rumore della navicella del Dr. Wily); da sottolineare, appunto, è l’assenza di temi classici, ancora una volta sottolineando l’importanza di portare questa serie verso nuovi orizzonti e lasciare che il passato diventi semplicemente parte di una nuova forma espressiva. L’unico difetto di queste nuove composizioni è che sono giusto un po’ blande e i temi portanti delle melodie sono un po’ deboli; diciamo che non c’è quel motivetto che ti resta in testa una volta che smetti di giocare. Le voci inglesi e giapponesi, selezionabili nel menù opzioni (ma solo alla schermata del titolo), sono ben curate anche se l’unico lato negativo è il pacing dei dialoghi doppiati; sebbene le scenette rappresentino un ottimo intermezzo, sviluppate correttamente e sempre sottotitolate in italiano (come tutto il gioco del resto), i dialoghi si fermano ogni due righe, fortunatamente completando un periodo, e nonostante la buona qualità dei dialoghi sembrano comunque un po’ finti. Per il resto la voce in-game di Mega Man, quando annuncia l’attivazione di uno dei due meccanismi del double gear o quando cade in un fosso, è niente male anche se verso la fine del gioco ne avrete le orecchie piene; variare la lingua di tanto in tanto può alleviare questi fastidi.

Il pezzo mancante

Prima di chiudere questa discussione vorremo solo parlare di un ultimissimo punto: non abbiamo fatto altro che elogiare questo nuovo capitolo della saga e Mighty No. 9, a paragone, non regge il confronto in quanto a classe e qualità del prodotto consegnato. L’unica cosa che manca realmente a questo capitolo è appunto la mano di Keiji Inafune, il suo level design e le sfide proposte che solo lui sapeva consegnare, cosa che invece è riuscita alla sua creazione inpendente, secondo noi. Per quanto è stata introdotta una nuova bella meccanica bisogna dire che è anche abbastanza scontata, un gol a colpo sicuro, e dunque manca quel po’ di azzardo tipico di Inafune. La storia in fondo, e anche il finale, si concentra sulla separazione fra il Dr. Light e il Dr. Wily, magari simboleggiando proprio la dipartita di Inafune e dunque, forse, questo titolo potrebbe rappresentare un invito da parte di Capcom a tornare a bordo e dare a Mega Man infinite possibilità nel futuro prossimo, sottolineando il fatto che la compagnia e il suo ex dipendente e persino i due universi fittizi hanno entrambi lo stesso obiettivo. Chissà quali saranno i risvolti futuri fra Keiji Inafune e Capcom ma intanto non possiamo fare altro che goderci questo nuovo Mega Man 11 e sperare che il prossimo anno vedremo un Mega Man 12 o, visto il recente rilascio di Mega Man X Legacy Collection 1 & 2, magari un nuovo Mega Man X9… stiamo delirando, è vero, ma siamo semplicemente troppo contenti della riuscita di questo titolo!
Vi raccomandiamo particolarmente questo nuovo titolo Capcom in quanto propone un gameplay vecchio stile con elementi e grafica moderni, una sfida nuova per i più giovani e un capitolo essenziale per i veterani. Solamente, considerate bene i requisiti del vostro PC prima di spendere questi 29,99€ su Steam per Mega Man 11, altrimenti se avete Nintendo Switch, PlayStation 4 o Xbox One acquistatelo lì. Senza dubbio, uno dei giochi più belli di questo 2018!