Senko no Ronde 2

Uscito qualche mese fa anche in Occidente, Senko no Ronde 2 si presenta come il remake di Senko no Ronde Duo, titolo per Xbox 360 pubblicato nel 2010, ma riservato esclusivamente al pubblico giapponese.
Alla pubblicazione di Senko no Ronde 2 hanno lavorato, oltre a G.rev, gli sviluppatori della saga, anche Kadokawa Games, casa editrice giapponese.

SNR 2 è un gioco di combattimento con caratteristiche bullet hell in cui si impersoneranno dei mecha giganti super-corazzati e armati fino ai denti che si daranno battaglia in un’arena con visuale dall’alto.
Il gioco ci darà l’opportunità di scegliere diverse modalità,dalla modalità storia a quella arcade, da quella online e LAN sino a una modalità chiamata Score Attack.
La storia, prevedibile e poco originale, è ambientata in un futuro post-apocalittico in cui il pianeta Terra è stato reso inospitale e inabitabile da una calamità chiamata “Il Grande Disastro“, che ha costretto tutta la popolazione mondiale a migrare verso delle colonie spaziali, e racconta le vicende di un gruppo di ragazzi alla guida di robot militari che tenterà di recuperare una potente arma sottratta a seguito di  un attacco terroristico.
La modalità storia è praticamente il rifacimento dei fatti accaduti in Senko no Ronde Duo, visto che si tratta di un remake, raccontati in maniera tale da sembrare una Visual Novel classica, con un’alternarsi di scene di dialogo e combattimenti 1vs1.

Sono proprio gli scontri tra robot a essere al centro di questo picchiaduro, battaglie che riescono tutto sommato a risanare i gap della storia. Nelle varie modalità si potranno scegliere 14 diversi mecha, ognuno dei quali possiede diverse abilità, armi (che non possono essere cambiate) e mosse B.O.S.S (mosse finali). Le battaglie si svolgeranno all’interno di una grande arena, in cui si alterneranno una visuale isometrica, per gli attacchi a distanza con armi da fuoco, e una visuale in terza persona, che si attiverà automaticamente nel momento in cui i mecha saranno uno vicino all’altro in occasione degli attacchi corpo a corpo.
Ogni robot ha un set di mosse differenti, chi ha dei laser equipaggiati, chi spara missili e chi invece proiettili al plasma; tutte le armi sono diverse tra loro, così come le mosse B.O.S.S, che permettono di utilizzare una navicella spaziale ancora più grande ed equipaggiata con molte più armi rispetto ai singoli mecha. Ma l’uso di più armi grava sulla mobilità del veicolo che diventa più pesante e più lento, quindi un facile bersaglio per l’avversario che però sarà bombardato da missili e laser. I diversi stili di combattimento, le diverse armi e le varie mosse creano un buon equilibrio tra i personaggi giocabili, che risultano molto versatili in qualunque situazione, anche nelle più difficili.

Altro tasto dolente è sicuramente l’infrastruttura utilizzata per l’online, che non permette alcun tipo di matchmaking: decine e decine di tentativi per riuscire a giocare, ma non si riesce mai a trovare qualcuno per poter provare la modalità 1vs1 in rete, sarà forse colpa della poca utenza occidentale, ma personalmente avrei preferito anche giocare un match con persone d’oltreoceano con relativo lag, pur di giocare online; per confrontarsi con altri giocatori, bisogna, per forza di cose, giocare in LAN oppure utilizzare la modalità Score Attack, una modalità in cui bisogna sconfiggere, in sequenza, dei nemici per riuscire a ottenere il punteggio più alto da poter scrivere sulla leaderboard online.
Il titolo di casa G.Rev non è di certo un capolavoro sul piano grafico, non aspettatevi texture dettagliate o ambienti realistici, ma una grafica semplice, con un character design di discreta fattura. Su PS4 Pro risoluzione e FPS sono ottimi, non si arriverà al 4K, ma per un gioco del genere va più che bene.
Per quanto riguarda il comparto sonoro, invece, sembra ben più curato, con dei pacchetti audio (α e β) che si potranno scaricare direttamente dallo store gratuitamente e si potranno personalizzare le voci di tutti i protagonisti; si va dalla voce più dura e adirata a quella più pacata e dolce. C’è da fare una precisazione però: alcune delle voci che si potranno selezionare, soprattutto per le ragazze, suonano abbastanza “imbarazzanti” per noi occidentali (chissà per i giapponesi), con gemiti e urla che facilmente fraintendibili: ma niente paura, la maggior parte delle voci saranno più che normali.
Senko no Ronde 2 è uno di quei giochi che difficilmente riescono a trovare spazio nel mercato europeo, adatto a una ristretta cerchia di appassionati e che a stento riesce ad avvicinare nuovi giocatori che per la prima volta fanno la conoscenza di questo genere di picchiaduro e soprattutto della serie. Se cercate un gioco che possa offrirvi una struttura online solida, una storia originale e amate la mera competizione online, non dovreste optare per Senko no Ronde 2. Questo titolo, per chi non è appassionato al genere, non è male per passare il tempo, ma a lungo andare potrebbe risultare noioso e ripetitivo.




Wolfenstein II: Le Gesta del Capitano Wilkins (DLC) – Un’Aggiunta al Tofu

Siamo giunti alla conclusione delle Cronache della Libertà, serie di DLC rilasciati per Wolfenstein II: The New Colossus. Le Gesta del Capitano Wilkins è il terzo e ultimo DLC di questa trilogia, atta a espandere l’universo narrativo principale, ma riuscendo malamente nell’intento. Tutti i capitoli con i loro rispettivi personaggi sono risultati scialbi, senza novità di rilievo e fondamentalmente una grande occasione sprecata. Anche la storia dedicata a Wilkins non è da meno purtroppo, registrandosi forse come il capitolo meno riuscito, il che la dice lunga.

Tutto già visto

Dopo il quaterback Joseph Stallion e l’ex OSS Jessica Valiant tocca a Gerald Wilkins completare il ciclo narrativo. Soldato dell’esercito americano durante la Seconda Guerra Mondiale, il Capitano Wilkins non si è mai arreso, nonostante la sonora sconfitta a base di testate nucleari nelle principali città americane, compresa New York. Per niente intimorito, li lancerà alla ricerca dell’arma definitiva nazista, il Cannone del Sole, con base operativa in Alaska. Se il pretesto di utilizzare un’arma leggendaria di cui i progetti sono probabilmente esistiti può risultare quantomeno interessante, è il solito sviluppo narrativo che non convince. Le ormai classiche cutscene discretamente animate narrano una storia già sentita, con colpi di scena in grado di far rimpiangere le glorie di Beautiful e che, ovviamente, non lasciano il segno. Tutto scorre liscio senza particolari sussulti, fino al climax finale che dà la mazzata a un DLC di poca utilità.

Tutto già giocato

Se il Pistolero Joe aveva a disposizione l’Ariete e Morte Silenziosa il Costrittore, al Capitano non poteva che toccare il terzo dispositivo: un set di trampoli in grado di far raggiungere al protagonista luoghi collocati a una certa altezza ma anche di calpestare i nemici. Dal suo utilizzo ne deriva un level design costruito ad hoc, ma meno aperto di quanto ci si aspetti. Fin troppe volte il Capitano si dimentica di averli addosso e di utilizzarli, salvo quelle poche sezioni in cui saremo costretti a raggiungere il prossimo livello della mappa. Tolto questo piccolo espediente, il gameplay rimane il solito senza novità di alcun tipo: anche qui nessun nuovo nemico, nessuna arma inedita e nessuna nuova abilità. Stiamo sempre parlando di meccaniche di alto livello, ma riprese direttamente dal titolo originale.
Qui l’azione, rispetto all’episodio precedente, ritorna a essere più frenetica e la possibilità di avere una salute del 200% (salvo ritornare pian piano al classico 100 una volta colpiti) permette una migliore gestione delle orde di nazisti in arrivo. Oltre a questo c’è davvero poco da segnalare, cosa che rafforza l’idea di un DLC che si limita a svolgere il solo “compitino”.

In conclusione,

Le Gesta del Capitano Wilkins segna la triste fine di una trilogia partita male e finita peggio. Tralasciando un gunplay che è sempre il fiore all’occhiello della produzione, c’è davvero poco di cui essere soddisfatti da questo episodio, come dalle intere Cronache della Libertà, davvero deludenti sotto tutti i punti di vista. L’unica nota positiva da trarre da questa esperienza è ragionare sull’acquisto del season pass prima ancora che il contenuto sia stato rivelato, una mossa veramente azzardata per chi abbia dato fiducia a questa trilogia nella speranza che questa fosse all’altezza del titolo principale.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




Dinasty Warriors 9

Anno nuovo, musou nuovo: la serie con cui Koei Tecmo ha inventato il genere arriva al nono capitolo, e questa volta la casa nipponica prova a rinnovarla con cambiamenti sostanziali rispetto ai capitoli precedenti, primo fra tutti una mappa enorme interamente esplorabile con meccaniche open world.
Non tutto è andato per il verso giusto, al punto che ci troviamo forse con uno dei peggiori musou usciti negli ultimi anni, con una resa tecnica a volte ai limiti dell’imbarazzante e tantissimi bug che fanno sprofondare il gioco sotto la sufficienza nonostante una mole di contenuti notevole.

I tre regni

La storia di Dynasty Warriors 9 si ispira al Romanzo dei Tre Regni, tra la rivolta dei Turbanti Gialli e la fine del regno Shu; durante i 13 capitoli di cui si compone il titolo, assisteremo alle vicende dei tre condottieri principali, Cao Cao, Liu Bei e Sun Jian, disponibili fin dall’inizio, per poi poter controllare altri personaggi che si sbloccheranno con l’avanzare della storia, ognuno di essi avrà delle zone e finali inediti, rendendo necessario un elevato numero di ore di gioco per vedere il tutto.

Cao Cao meravigliao

Il comparto grafico del gioco è, ahimè, un vero disastro: Omega Force ha voluto rischiare adottando un nuovo motore di gioco che rende possibile attuare la modalità open world, ma la resa finale è un’accozzaglia di texture in bassa risoluzione, modelli poligonali dozzinali, frame rate pessimo anche su console mid-gen e PC ultra pompati; aggiungiamo a ciò un elevato numero di bug e glitch, ambientazioni spoglie e monotone, nemici che appaiono e scompaiono a caso, animazioni legnose e il disastro è completo.
Il comparto sonoro si mantiene invece nella media, con alcune musichette dal tono rock che talvolta stonano con l’ambientazione, mentre gli effetti audio sono quelli classici a cui la saga ci ha abituato, e risultano collaudati; è presente il doppiaggio in inglese, giapponese e cinese, e finalmente sono almeno presenti i sottotitoli in italiano.

Tanto fumo e poco arrosto

In Dynasty Warriors 9 ci sono tantissime attività da fare, ma soltanto in poche si salvano: molte quest secondarie noiosissime, si può andare a caccia e pescare, ma anche queste due attività sono noiose in quanto non offrono nessuna sfida, sono soltanto utili ad acquisire materiali, allungando il brodo inutilmente.
Ogni personaggio può equipaggiare tantissime armi, ognuna con moveset diversi, le armi possono essere acquistate o costruite, inoltre è possibile potenziarle e aggiungere delle gemme che aggiungono vari effetti per il combattimento.
Anche se è possibile controllare tanti personaggi diversi, alla fine si differenziano pochissimo, in quanto ognuno di loro può utilizzare qualsiasi arma, cambiano soltanto alcune mosse speciali uniche di ogni personaggio.
Il combat system è mutato rispetto ai precedenti titoli: questa volta non ci saranno più le combo tra attacchi leggeri e pesanti, ma ci saranno attacchi detti “variabili” e “reattivi“; inoltre premendo il tasto dorsale destro insieme a uno dei quattro frontali, potremo infliggere status negativi ai nemici, rendendoli vulnerabili a una serie di nostri attacchi. Infine è presente l’immancabile attacco musou, una mossa speciale che si attiva dopo aver riempito la barra apposita durante il combattimento.
Nonostante i cambiamenti, però, risulta sempre la solita caciara, sconfiggere i nemici non necessita di alcuna tattica, basta premere pulsanti a caso e il risultato è lo stesso, l’intelligenza artificiale dei nemici è vicina allo zero, e anche settando il livello di difficoltà massimo sarà possibile sconfiggerli prevedendo facilmente le loro mosse.
Un’altra novità è l’utilizzo di un rampino per scalare le pareti, che potrebbe essere anche un’aggiunta interessante, se non fosse per il fatto che si possono rompere facilmente delle meccaniche di gioco, ad esempio durante l’assedio di una roccaforte, è possibile utilizzarlo per affrontare direttamente il boss, rendendo inutile qualsiasi tattica.

Conclusioni

Dynasty Warriors 9 è un titolo evidentemente imperfetto, gravato da un comparto grafico vergognoso per una produzione tripla A di questo livello, anche se ricco di contenuti,  di cui solo pochi si salvano dalla noia che contraddistingue il resto.
Omega Force ha compiuto un passo falso, realizzando un titolo di qualità inferiore ai precedenti che non ci sentiamo di consigliare, se non ai veri appassionati della saga per ragioni di collezionismo.




Life is Strange: Before The Storm – Episodio Bonus: Addio – See You Space Max

Nel mondo degli Indie, Life is Strange si è già conquistato un posto tra i cult dell’ultimo decennio, riuscendo a tessere una perfetta trama che lega i vari personaggi, prima ancora di essere un teen sci-fi ben strutturato. Il lavoro di Deck Nine è riuscito a interfacciarsi perfettamente ai giocatori, con storie e personaggi credibili e capace di rispondere al pensiero che almeno una volta nella nostra vista abbia fatto, ovvero cambiare una nostra scelta passata qualora ne avessimo la possibilità. Tolta la componente sovrannaturale e persino la protagonista Max, il prequel Before the Storm è riuscito a innalzare ulteriormente il valore del lavoro del team, dimostrando che il titolo può autosostenersi grazie alla sceneggiatura e la messa in scena.
In esclusiva per i possessori della Deluxe Edition dell’ultima fatica di Deck Nine, arriva questo episodio bonus denominato Addio, il cui tutto sarà incentrato sull’ultimo saluto tra Maxine e Chloe, prima del ricongiungimento nella saga originale. Questo ulteriore prequel è un capitolo particolare ma nonostante ciò, riesce ad aggiungere un bellissimo pezzo del puzzle al già stimato Life is Strange.

The Maxine show

Addio è un episodio interamente incentrato sul legame fraterno tra Max e Chloe, prima che tutto venga sconvolto dagli eventi che noi giocatori conosciamo ma che è meglio non divulgare per evitare spoiler. Il giorno peggiore della vita di Chloe viene vissuto dal punto di vista di Max, in un percorso abbastanza guidato rispetto ai precedenti capitoli ma non per questo banale: il valore dei rapporti è e resterà una componente fondamentale delle vicende e, nonostante sia un episodio della durata di circa un’ora e mezza riesce a suscitare fortissime emozioni – a volte contrastanti – in eventi di cui comunque siamo a conoscenza. Si viene a creare così una netta distinzione tra “raccontato” e “vissuto”, una differenza presente costantemente nelle nostre vite ma a cui non facciamo caso, ed è proprio questa la forza di Life is Strange: un punto di vista esterno rispetto a episodi di vita che la maggior parte di noi ha vissuto, riesce a far riflettere sulle nostre scelte, desideri e conseguenze. Un’opera formativa che, sfruttando storie che a un primo sguardo possono risultare banali, permette una crescita personale che ben poche opere videoludiche e non riescono a ottenere. La differenza è data dal come si racconta una storia, non dalla storia stessa.
Ma veniamo al punto focale delle vicende. L’intero episodio è ambientato a casa Price, nell’ultima manciata di ore prima del punto di non ritorno. Il pretesto della “pulizia generale” della stanza di Chloe, ci permette di fare una gita tra i ricordi e aggiungere elementi narrativi precisi che impreziosiscono la caratterizzazione dei personaggi: l’ammissione alla Blackwell da parte di Chloe e i suoi altissimi voti a scuola, la spensieratezza fanciullesca e i tratti distintivi della prima Maxine, insicurezza e amore per la sua seconda famiglia. Fa un certo effetto vedere il duo prima dei profondi cambiamenti che stanno per arrivare, soprattutto in Chloe, solare, giocosa e con l’ottimismo in poppa.
Una volta trovato un vecchio album di disegni, partirà una caccia al tesoro che sarà ben più di un semplice gioco tra due amiche.

Un tesoro per tutti

Questo episodio è un’immensa allegoria: Max e Chloe stanno per dirsi addio ma c’è ancora il tempo di fare un viaggio, approfittando di un gioco iniziato ben cinque anni prima. L’intera caccia al tesoro che ne seguirà non è altro che un pretesto per porre una prima pietra sulle proprie convinzioni personali, in una realtà velocemente mutevole come quella dell’adolescenza. Sul piano del gameplay non si presentano grosse “fatiche”, tutto risulta scorrevole, il focus del gioco si sposta sui pensieri di Maxine e sulle sue titubanze; il tesoro dunque, una volta trovato, avrà tanti significati per il duo, e servirà da perno della discussione principale che si apprestano ad affrontare.
Questa giornata passata assieme a Chloe, come detto, è molto importante: per la prima volta – approfittando delle informazioni già acquisite nella pentalogia originale – possiamo assistere alle prime “rotture” nella vita della Price, che per sua sfortuna avvengono quasi tutte nello stesso momento. Se fino a oggi abbiamo solo potuto immaginare e speculare riguardo le ragioni della sua indole e delle sue azioni e reazioni, vivere questi momenti fa nuova luce sulla sua caratterizzazione, completando il quadro sulla sua psiche. Come ci ha abituati Deck Nine, in Life is Strange, abbiamo a che fare con personaggi plausibili e reali, con problemi e pensieri che hanno il tratto della quotidianità. Questo “tornare indietro” nella vita di qualcuno è ben più di un semplice flashback: in questo capitolo bonus possiamo sentire il peso non solo delle nostre azioni ma anche quelle degli altri personaggi, rendendo tutto tangibile e drammaticamente vero.
Unendo tutte le tessere del puzzle, dunque, avremo una visione più chiara delle due opere principali precedenti e questo, senza dubbio, spinge a rigiocare entrambi, magari riscoprendo il valore di piccoli gesti a cui, forse, non abbiamo dato il giusto peso.

In conclusione

Questo episodio conferma la qualità e soprattutto la passione che Deck Nine ha mostra nell’intero progetto di Life is Strange. Anche se le vicende raccontante in Addio erano già di nostra conoscenza, lo spaccato della vita di Max e Chloe prima degli eventi tragici, fa una bella luce sul loro passato: vedere Chloe leggiadra e sorridente è un momento unico, lieto ma, al contempo, un po’ triste quando pensiamo a lei come co-protagonista nell’originale Life is Strange. Addio è dunque un bel regalo per tutti i fan e chiude il cerchio su un lavoro che aspetta la sua prosecuzione con l’attesissimo secondo capitolo.




Ancient Frontier

Ancient Frontier è uno sci-fi ruolistico, uno strategico a turni con caratteristiche GDR sviluppato da Fair Weather Studios, già creatori dello sfortunato Bladestar. Sin dal primo impatto, troveremo un menù principale ben strutturato, comprensivo anche della “lore” che ci introdurrà al mondo di gioco.
L’umanità era sull’orlo dell’estinzione, finché non venne creata la compagnia dei Tecnocratici. Quest’ultimi riuscirono a ristabilire l’equilibrio con scoperte in ambito tecnologico e con la colonizzazione di Marte, che portò alla rinascita dell’umanità. La compagnia riuscì, inoltre, a scoprire i segreti dietro i viaggi interstellari, che portarono ricchezza e prosperità al genere umano. Questo portò alla creazione di ordini quali la Human Federation Star Force, la qualeprese il comando di Marte e che iniziò la costruzione di innumerevoli navi.
Per la costruzione di quest’ultime sono necessari a loro volta materiali quali la proto energy e l’hydrium, che si trovano solamente nello spazio profondo. Per svolgere la ricerca di questi materiali venne creato l’ordine dei Corporate Mining Station.

Nella modalità storia, che presenta più slot per i salvataggi, ci ritroveremo a dover scegliere due differenti campagne di gioco. Nella prima, chiamata Alliance Campaign, vestiremo i panni di uomini alla ricerca delle ricchezze dello spazio.
Nella seconda, chiamata Federation Campaign, vestiremo invece i panni del comandante della flotta protettrice di Marte e, in entrambe le campagne, dovremo difenderci dai pirati spaziali che cercheranno di derubarci e ucciderci.
All’interno del single player, sono presenti tre difficoltà strutturate in relazione del livello del giocatore.

Avremo 2 tipi di missioni: le principali (che trattano la lore) e le secondarie. Le missioni secondarie hanno tre tipologie di avventure. Nel primo tipo ci ritroveremo a dover sconfiggere i pirati, nel secondo dovremo raccogliere le varie risorse sparse nella mappa e nell’ultimo il nostro obiettivo sarà quello di raggiungere una zona prima di un tot di turni.
La storia viene raccontata tramite dei dialoghi disposti su un “menù a tendina” prima di ogni missione. La trama non è molto densa ma, fortunatamente, in videogame come Ancient Frontier altri fattori possono egregiamente compensare. Durante il nostro gameplay, la mappa di gioco sarà rappresentata da un’enorme “scacchiera”, la mappa è divisa blocco per blocco da esagoni che delimitano le caselle dove poter spostare le nostre pedine. Una caratteristica del titolo che ci ha fatto storcere il naso è l’impossibilità di poter scegliere, durante i turni, l’ordine di attacco delle proprie unità. Questa caratteristica allontana il titolo dalla sua componente strategica. All’interno del campo da gioco, saranno presenti degli asteroidi che possono sia ripararci dal fuoco nemico, sia ostacolarci durante i nostri movimenti.

Uno dei grandi vantaggi di questo titolo è la modesta varietà di personalizzazione. Infatti, prima d’ogni missione, potremo scegliere la composizione della nostra flotta dotandola, quindi, di navi di ricerca, d’assalto, di supporto ecc. Il titolo presenta una sezione di gestione per le risorse, navi, ricerche e missioni. Le caratteristiche GDR si vedono  nelle ricerche, che portano all’aumento di determinate peculiarità. Ogni classe di nave ha il suo albero delle abilità nel quale si ha la possibilità di potenziare determinate caratteristiche. Non sarà istantaneo familiarizzare con i comandi di gioco, infatti, bisognerà sforzarsi un po’ a capire la struttura del gameplay, anche perché il tutorial non è estremamente dettagliato ed è sviluppato in sotto-forma d’immagini e dialoghi.
La grafica del titolo risulta pulita e con una buona resa complessiva. I modelli della navicelle sono ben strutturati e abbastanza originali. Mancano una localizzazione in lingua italiana. Infine, il comparto sonoro non è nulla di speciale ma, riesce a rendere le svariate ore di gameplay piacevoli.

In conclusione, Ancient Frontier rappresenta un valido passatempo e un buon titolo per gli appassionati del genere strategico a turni. Il titolo è disponibile su Steam con un rapporto qualità/prezzo ottimo.




Bush Hockey League (Old Time Hockey)

Con le pinne, fucile e occhiali… ops! Ho sbagliato sport scusate! Quest’oggi si parla di hockey! Ammetto di non essere un gran fanatico degli sport prettamente americani, come il football, il rugby, il baseball o l’hockey per l’appunto, ma dicono che, almeno una volta nella vita, bisogna provare tutto –  tranne il cibo macrobiotico, no, quello non c’è bisogno di provarlo. Così mi sono cimentato in una disciplina del tutto nuova per me e l’ho fatto tramite un videogioco tanto semplice quanto simpatico sviluppato dal team V7 Entertainment INC.: Old Time Hockey, meglio conosciuto come Bush Hockey League.

Passaggio e tiro!

Una delle caratteristiche particolari di questo gioco, è data da una immediata sensazione di star giocando su una vecchia console, una di quelle che avevano i controller con due soli pulsanti, che sono quelli che effettivamente servono per una partita a Bush Hockey League! In questo particolare periodo storico poi, in cui i giochi necessitano di avere joypad a 564 pulsanti mi vien da dire: che cosa meravigliosa! Altra sfiziosa caratteristica, per i nostalgici, è che il gioco ci permetterà di poter scegliere una risoluzione a 8/16 bit, fino ad arrivare alla più comune 1920×1080 (full hd).

Ma non perdiamoci in chiacchiere: appena avviato il gioco, ci troveremo davanti a un menù molto chiaro, potremo iniziare una modalità storia oppure giocare delle partite amichevoli 1vs1 con la CPU o con un avversario umano in multiplayer. È possibile inoltre giocare in modalità cooperativa locale, anche nella modalità storia, rendendo il gioco un tantino più divertente.
Purtroppo non posso dire che la semplicità basti per renderlo un buon titolo, poiché, sfortunatamente per lui, la ripetitività si fa sentire prepotente dopo le prime 2 partite.

Come in tutti i giochi di hockey che si rispettino, non potevano mancare le azzuffate tra giocatori! Infatti di tanto in tanto, se commetteremo troppi falli contro la squadra avversaria, i giocatori ci si rivolteranno contro, ingaggiando “violenti” – a volte ai limiti del ridicolo – combattimenti uno contro uno!

Andando nello specifico, la modalità storia, sarà composta da una serie di scontri in cui si dovranno completare delle missioni secondarie – tre per l’esattezza – per ricevere al termine del match un punteggio a 3 stelle appunto, una per ogni obiettivo completato. Andando avanti in questa modalità, si sbloccheranno anche dei “collezionabili”, ossia delle carte raffiguranti i diversi grandi giocatori dell’Hockey (totalmente inventati, risparmiando così sui diritti).

Sull’altra modalità, l’esibizione, presente nella stragrande maggioranza di titoli sportivi, non c’è poi tantissimo da dire: si sarà limitati a scegliere squadre e maglie da indossare. Riguardo invece la modalità multiplayer, Bush Hockey League, è risultato piacevolmente divertente giocato in co-op con un altro giocatore.

Puro old style

Il comparto grafico: un azzardo, o un colpo di genio? Dipende dai punti di vista. Personalmente ho apprezzato molto la grafica vecchio stampo con la quale è stato concepito il titolo: texture acquerellate e modelli “low poly”, ricorda proprio i primissimi giochi in cui i team di sviluppo si imbarcavano nella grafica 3D con discreti risultati. Non solo nell’art-style il gioco richiama il passato, ma anche le animazioni dei personaggi, in effetti, sembrano rifarsi a quelle di un tempo: approssimative, ridondanti e con movimenti macchinosi e poco precisi.

Un sonoro… che non lascia traccia.

Niente può esser peggio di un gioco sportivo privo un buon sonoro per la tifoseria e suoni ambientali: tolti questi, ahimè, ci rimane solo un vuoto incolmabile. L’unica nota positiva è però la track list utilizzata per i menù di navigazione, ricca di brani punk rock.

Tra un dischetto e una rissa ci vorrebbe…

Chiudendo il cerchio, l’esperienza con Bush Hockey League risulta soddisfacente, anche se solo in parte: sembra di essere davanti a un gioco “a metà”. Sarebbe stato bello se fossero stati presenti diversi tipi di tornei, dei collezionabili con un tantino più di attrattiva e magari anche un editor per le squadre, i personaggi o le maglie. Insomma, l’ennesimo titolo che intenzionalmente, sembra non voler farsi piacere più di tanto, ma che potrà far passare piacevolmente del tempo al giocatore che voglia far qualche partita a uno dei grandi sport made in USA.




Boo! Greedy Kid

Siete stanchi di tutte quelle grandi storie nei videogiochi degne di un colossal di Hollywood? Se persino un idraulico al salvataggio di una principessa è ancora troppo, allora Boo! Greedy Kid è il gioco che fa per voi! Titolo sviluppato da Flying Oak Games, Boo! Greedy Kid presenta un gameplay che mescola caratteristiche stealth, in stile Mark of the Ninja, e action/arcade, alla Elevator Action o Hotel Mario (non avremmo mai pensato di tirarlo fuori) per dire, il tutto consegnato anche con un bel level editor che apre il gioco a infinite possibilità. Boo! Greedy Kid è uno dei titoli più bizzarri a cui abbiamo mai giocato e il prezzo base di 4,99 € su Steam è sicuramente un bell’incentivo per aggiungere questa singolare opera alla propria libreria.

Nonno, sgancia la grana!

Il gioco sembra ambientato all’intero di una casa di riposo; un piccolo monellaccio si annoia (e come biasimarlo) e per passare il tempo è intenzionato a comprare per sé più lattine possibili della sua soda preferita. Il piccoletto è senza soldi, perciò li recupererà col solo metodo che conosce: far spaventare a morte i vecchietti urlando! Avete capito bene: l’obiettivo di questo gioco è racimolare i soldi spaventando i vecchietti per comprare la vostra soda preferita. Per quanto le premesse siano bizzarre, il gameplay ci si adatta benissimo; dovremmo andare alle spalle dei vecchietti e gridare fino a far perdere loro tutti i soldi, in tutto questo evitando infermieri, poliziotti, guardie con taser, forze speciali e Robot-cop (questo è il suo nome nel gioco e, sì, è esattamente ciò che state pensando). Il gioco ci offre tanti modi per risolvere i 99 stage di cui alcuni dei quali saranno composti da più schermate. I personaggi da spaventare, riconoscibili dal cuoricino sopra la loro testa, presentano caratteristiche diverse: mentre le anziane cadranno giù con un singolo “boo”, gli anziani e gli infermieri, a cui serve un secondo spavento, vi inseguiranno e potranno farvi perdere un punto vita se non li evitate con un’abile capriola o aspettando che raffreddino i loro bollenti animi dietro a un pezzo d’arredamento come una poltrona o una libreria. È consigliabile inoltre spaventare per primi gli infermieri in quanto, nel caso in cui trovino un anziano per terra, correranno in loro soccorso e li rianimeranno, vanificando dunque i nostri sforzi; l’unico modo per passare al livello successivo è ovviamente spaventare tutti gli anziani e raggiungere l’ascensore. Al termine dello stage, se avremmo raccolto tutti i soldi e saremmo arrivati all’ascensore nel minor tempo possibile, otterremo 3 stelle e se le otterremo in tutti i livelli della campagna principale avremmo accesso al miglior finale.

Abbiamo provato anche il level editor, avviabile con un’applicazione separata ma sempre accessibile tramite Steam: dopo esservi iscritti al suo Steam Workshop e aver dato un’occhiata al manuale al suo interno non sarà complesso creare i vostri livelli. I controlli nell’editor non sono molto intuitivi e all’inizio vi potrebbe sembrare tutto molto astruso ma, una volta familiarizzato con l’interfaccia, creare uno stage sarà molto semplice: create i corridoi, collegate le porte, posizionate i NPC, i mobili dove nascondervi, gli abbellimenti per le pareti, organizzate l’incursione delle squadre speciali e dei Robot-Cop… se avete giocato per molto tempo alla campagna principale (e avete un po’ di dimestichezza con titoli del tipo Super Mario Maker) creare uno stage sarà per voi un gioco da ragazzi: i tool dell’editor sono pochi e semplici e l’interfaccia è abbastanza user-friendly. Al momento, visto che il titolo non ha nemmeno un mese di vita, i livelli creati dagli utenti sono pochissimi ma sicuramente presto ci saranno molti livelli da giocare!

Meccaniche contro

L’azione in sé non è male, i controlli sono buoni (ricordiamo che è possibile utilizzare il microfono del vostro headset per triggerare il boo) e non ci sono grossi bug; a ogni modo, il titolo presenta alcune incongruenze a livello di gameplay. La componente stealth è portante in questo titolo, perciò è molto importante sapersi nascondere e aspettare il momento giusto per passare; dopo tutto, se ci buttiamo in un corridoio pieno di poliziotti e Robot-cop (che fra l’altro vi uccideranno con un colpo solo) rischieremo di perdere parte del denaro e dunque finire il livello senza le condizioni richieste per le 3 stelle. Tuttavia le stesse condizioni chiedono al giocatore di chiudere gli stage in tempi solitamente sotto il minuto e dunque, contando anche che ad alcuni serve un secondo boo, vi spingeranno a precipitarvi nei corridoi sperando di non incrociarvi con un poliziotto o un personaggio imbizzarrito. La componente time attack e quella stealth si annullano l’un l’altra e perciò, visto che le 3 stelle si possono ottenere solamente raccogliendo tutti soldi e finire il livello nel tempo limite, il gioco non presenta un gameplay equilibratissimo; non è possibile nemmeno fare due run per ottenere prima l’uno e poi l’altro risultato, bisogna chiudere lo stage con le condizioni richieste in un colpo solo. Avrebbero potuto basare il voto finale sullo stealth, sugli allarmi lanciati dai poliziotti, sulle rianimazioni degli infermieri, dunque su una nostra noncuranza… Insomma tante e tante possibilità che si sarebbero adattate meglio alla meccanica che più fa da pilastro a questo gioco. È possibile tuttavia ricominciare (e non “reinizializzare”) lo stage quante volte si vuole e perciò chi è desideroso di ottenere 3 stelle in tutti gli stage potrà cimentarsi nell’impresa fino a quando non otterrà il massimo risultato.
Un altro problema di Boo! Greedy Kid riguarda le intelligenze artificiali dei personaggi; una buona AI dovrebbe essere imprevedibile ma in questo titolo gli NPC si comportano in maniera incostante. Quando si spaventa un vecchietto o un infermiere ci si aspetta che questi, visto che si arrabbiano, ci vengano in contro per darcele di santa ragione; di conseguenza, aspettandoci una tale reazione, il nostro istinto sarà quello di superarli con una capriola e raggiungere un altro punto della stanza o una porta per andare da un’altra parte. Tuttavia alcuni di loro, anziché venirci incontro nella loro ira, andranno indietro e noi, fiondandoci in avanti con una capriola, finiremo per essere colpiti perdendo parte del denaro. È molto difficile in realtà capire cosa avvenga dopo un boo: andranno indietro? Andranno in avanti? Il gioco è molto inconsistente e ciò si sarebbe potuto risolvere tranquillamente aggiungendo due diverse reazioni: una per la paura, e dunque scappando nel verso contrario, e una per la rabbia. Inoltre gli NPC non si posizionano mai, all’avvio del livello, sempre nello stesso punto e il loro punto di partenza è sempre abbastanza approssimativo.

Uno stile abusato?

A dirla tutta, questo è uno di quei titoli che avrebbe potuto evitare la grafica vintage. Ovviamente non abbiamo nulla in contrario a una simile scelta stilistica (anzi, ci piace molto) però ci chiediamo comunque se fosse la scelta giusta per un gioco del genere; potrebbe anche essere, ma spesso oggi certi art-style paiono abusati e, secondo noi, questo è uno di quei casi. Ad ogni modo la grafica a 8-bit è molto curata: le animazioni sono molto fluide, ogni elemento dello stage è riconoscibile e la grafica, anche in questo stile, restituisce a pieno quello che è il mood umoristico di questo gioco. Forse avremmo visto meglio uno stile che rimandasse alle animazioni più caratteristiche degli anni ’90, come Ren & Stimpy, What a Cartoon! e Mucca e Pollo, però in fondo bisogna ammettere che quello presente nel  gioco funziona ugualmente.
La musica è una vera e propria monelleria chiptune: il tema è ben curato e si adatta a quello che è lo stile grafico. C’è solo un problema per ciò che riguarda il comparto audio: c’è soltanto una sola traccia che parte all’avvio del gioco e vi accompagnerà per tutti i 99 livelli della campagna principale, dall’inizio fino al finale del gioco… E non si ferma mai! Capiamo che il gameplay e gli ambienti rimangono uguali per tutto il gioco e, con buona probabilità, questo gioco è stato prodotto con un budget ristretto ma era così difficile comporre qualche altra traccia per il gioco? Dare un po’ di varietà nei temi è fondamentale e, se giocherete questo gioco con un headset (specialmente per sfruttare la caratteristica del microfono), vi assicuriamo che sentirete questo tema di continuo anche dopo aver smesso di giocare! Se siete in cerca di una bella colonna sonora non la troverete di certo in questo gioco.

Tutto qua?

In definitiva Boo! Greedy Kid non è un cattivo gioco, è ben programmato (nonostante qualche imperfezione), divertente e ha comunque un qualcosa di addicting; il vero problema del gioco risiede nella sua ripetitività. Per quanto bello, curato e longevo, il titolo offre veramente poco. Certo, il suo prezzo è molto basso e forse la grafica tenta proprio di rimandare a un gioco arcade in stile Pac Man o Lode Runner però il gameplay alla lunga risulta poco vario. I NPC, nonostante la varietà stilistica, hanno sempre le stesse caratteristiche, la difficoltà risiede solo nella disposizione di questi ultimi, a volte il titolo si fa un po’ confusionario, il sistema delle 3 stelle è sbilanciato… insomma, si sarebbe potuto fare molto di più. Il level editor aiuta a dare al gioco un po’ di varietà ma le uniche cose che cambieranno saranno i livelli, mai dunque una meccanica nuova o un puzzle solving diverso dal solito. Ci chiediamo se il PC sia la piattaforma ideale per un titolo simile; forse questo gioco sarebbe più adatto alla scena mobile dove potrebbe trovare un pubblico che potrebbe apprezzare di più le sue meccaniche ripetitive. Forse si andrebbe a perdere l’interazione col microfono, il level editor e si dovranno fare degli aggiustamenti per ciò che riguarda la visualizzazione dell’ambiente però, sinceramente, pensiamo che questo titolo sia più adatto a questo mercato.
Tuttavia il prezzo di 4,99 € è certamente congruo e siamo certi che Boo! Greedy Kid potrebbe essere uno di quei giochi da far provare ai vostri amici durante le cene e le serate noiose (pensate solo alle risate per le urla nel microfono).




Brothers: A Tale of Two Sons

C’era una volta un regista, esordirebbe questo scritto se fosse una fiaba. Ma questo scritto parla di una fiaba, e tutto sommato quest’incipit può andar bene.
C’era una volta un regista, che girava film indipendenti di buona fattura. Un giorno, nel 2010, venne chiamato da una scuola di Örebro – cittadina svedese che accolse dal Libano la sua famiglia quando aveva soltanto 10 anni – per tenere una lezione in un corso di game design, parlando dalla prospettiva del filmmaker. La lezione ebbe successo, al punto che gli fu chiesto se non volesse cimentarsi ad abbozzare un videogame. Poteva essere un buon passatempo prima del sesto film, un Balls che aveva avuto un’accoglienza più tiepida rispetto a opere come Jalla! Jalla! o Zozo.
Fu così che, in breve tempo, prese forma un mondo fantastico dai contorni immaginifici, sospeso tra l’immaginario dei fratelli Grimm e la mitologia scandinava.
Come ogni fiaba che si rispetti, anche questa non manca di un lieto fine, e fu così che l’idea di Brothers: A Tale of Two Sons, dopo alcuni dinieghi, venne sposata e sviluppata da Starbreeze Studios, per poi trovare distribuzione sul mercato nell’agosto 2013 grazie al publisher nostrano 505 Games.
A pochi giorni dall’uscita della seconda opera di Fares, il cooperativo A Way Out, rispolveriamo una storia dalle forti emozioni e che offre al giocatore, oltre a un gameplay unico, un viaggio per molti versi difficile da dimenticare sul piano visivo.

Padri e figli

Ogni fiaba che si rispetti riserva ai propri protagonisti un sentiero da percorrere.
La storia di Brothers inizia all’ombra di un albero, su un costone di roccia a strapiombo sul mare, con un ragazzino in ginocchio dinanzi a una lapide. Il sospetto che si tratti della tomba della madre trova immediata conferma grazie a un flashback nel quale vediamo la donna annegare in mare, scivolando da una barca durante una tempesta, mentre il ragazzo tenta invano di salvarla. Da quel momento, il piccolo Naiee svilupperà un enorme terrore dell’acqua, e potrà immergersi soltanto aggrappandosi alle salde spalle del fratello maggiore, Naia, con il quale intraprenderà ben presto un incredibile viaggio. I due, infatti – ed è qui che il gioco ha veramente inizio – si troveranno sin da subito a dover portare il padre dal medico del villaggio, che gli diagnosticherà un terribile male, curabile soltanto dalle acque raccolte nel cuore dell’Albero della Vita che si trova dalla parte opposta del regno.

In cooperare in single player

Fin dai primi passi, il giocatore si ritroverà dinanzi a un sistema di controlli totalmente inedito: il tragitto che va dal punto di partenza alla casa del medico è un buon momento per familiarizzare infatti con un sistema che ci permette di governare i due fratelli contemporaneamente sullo stesso pad, ma separatamente con i due stick analogici. Con lo stick destro controlleremo il giovane Naiee, mentre il sinistro ci permetterà di direzionare Naia. L’operazione all’inizio difficilmente risulterà agevole, specie se si vuol andare avanti spediti: i giochi ci hanno abituato a focalizzarci sul controllo di un singolo personaggio, con il quale al massimo ci rapportiamo ai vari NPC e alle intelligenze artificiali, anche in termini cooperativi. Qui dovremo costringerci a scindere abilmente il pensiero, sincronizzando i movimenti per superare i singoli puzzle: ci sarà la necessità di sollevare oggetti pesanti in due, bisognerà muoversi in modo da trasportarli aggirando gli ostacoli, si incontreranno puzzle dove sarà richiesto effettuare in sincrono movimenti totalmente diversi. In tal senso Brothers: A Tale of Two Sons rappresenta un’esperienza musicale: è come imparare un giro d’accordi su un nuovo strumento, la coordinazione fra mano destra e mano sinistra aumenta con la pratica, e il risultato si fa sempre più armonico.
Parimenti, prenderemo confidenza con le singole caratteristiche dei due fratelli e impareremo a sfruttarle nei singoli puzzle in cui incapperemo: il più grande è più alto, più forte, può nuotare (e trasportare il fratellino sulle spalle) e interagire meglio con gli adulti, mentre il minore può adattarsi agli spazi stretti (dove spesso l’altro non passa) e ha maggior empatia con bambini e animali. Muoversi in questa maniera non risulterà complesso, a lungo andare, ma bisogna concedere alla mente il giusto tempo per abituarsi, avere un approccio paziente soprattutto quando, credendo di aver ormai il controllo della situazione, ci si potrebbe trovare a mischiare i comandi e a doverne rapidamente tirare le fila.
Da questo punto di vista, Brothers: A Tale of Two Sons è un vero gioiellino, con un sistema di controlli altamente gestibile, efficiente ed efficace, che fanno gioco a vari puzzle dalle meccaniche elaborate, raramente di difficile risoluzione, ma che mettono alla prova il giocatore in termini di abilità.

Grammelot

Quel che rende straordinario il control system non è soltanto l’aspetto riguardante la gestione dei personaggi nella loro interazione con gli ambienti e nei singoli puzzle. I controlli qui sono una forma di linguaggio, prendere confidenza con la gestione dei personaggi ci mette in relazione diretta con i due fratelli, è il primo mezzo per instaurare un rapporto sinergico tra i character e sentirne anche noi l’affetto, gli attriti, le tensioni, le emozioni. Il legame in tutta la sua profondità, insomma. Un meccanismo fondamentale in un titolo sostanzialmente privo di dialoghi. O meglio, i dialoghi fra i personaggi ci sono, ma non fanno riferimento ad alcun linguaggio codificato o conosciuto. Quel che vediamo nella mise-en-scene di Brothers: A Tale of Two Sons è un vero e proprio grammelot: né voci, né linee di testo, nessun sottotitolo, solo il teatro dei gesti, della mimica e dei versi inscenato in un vasto palcoscenico fiabesco, dove tutto risulta miracolosamente comprensibile, dai dialoghi fra i due fratelli a quelli con i vari NPC che incontreremo nel percorso. Intuiremo i dissapori con un dispettoso ragazzo del villaggio, l’amarezza di un troll a cui è stata rapita la compagna, fino ai momenti di emozione più intensa che si scopriranno nel corso di questo straordinario racconto odeporico.

Echi norreni

Dal punto di vista visivo, non si può non ammirare lo straordinario lavoro del Concept Artist e illustratore Bradley Wright, che restituisce su schermo scenari che sembrano presi a piene mani dai fratelli Grimm in una fantasmagoria di fogliame dai colori tenui, ruscelli abbacinanti, alte vette e orizzonti lontani.
È un libro di fiabe illustrato che prende vitaBrothers, e il suo impatto su schermo è straordinario, con una policromia ben dosata che si stende in immagini eleganti e quiete come un’acquarello; anche nei paesaggi più crudi, dove si rappresenta la ferocia della guerra e dove regnano ormai soltanto morte e silenzio, il tratto dei disegni tende a deformare ogni evento tragico sotto la lente lenitiva del fiabesco, con un effetto di lieve straniamento nei confronti di tutto quel che vediamo.
L’art-style è straordinario sotto molti aspetti, e ci rende facile passare sopra alcuni dettagli tecnici poco curati e certamente perfettibili: del resto è il comparto artistico qui a farla da padrona, e non quello strettamente tecnico.
A far da appropriato corredo alle immagini del gioco è certamente la colonna sonora di Gustaf Grefberg che non risulta mai fuori luogo, ed è anzi curatissima nella sua orchestralità, ma che alla lunga può risultare a tratti monotona nel ripetersi dei principali leitmotiv e nell’eccessivo indugiare su un certo lirismo che dovrebbe invece rappresentare un suo punto di forza. Il comparto musicale ha certamente una sua solidità e supporta egregiamente il divenire della storia, ma all’ascolto solitario non riesce a risultare incisivo nonostante sia certamente ben elaborato.

La perdita, la crescita, la vita

Come tutte le grandi fiabe, Brothers: A tale of Two Sons tratta argomenti importanti attraverso un racconto dai contorni quasi infantili. Ma chi ha letto le storie dei Grimm o di Andersen sa bene che dietro a quel fiabesco stava anche un mondo per niente confortevole, con finali spesso tutt’altro che lieti.
Brothers non fa eccezione in tal senso, ma un finale tutt’altro che lieto non è affatto casuale né a effetto, contribuendo invece alla funzione formativa della fiaba.
Come scrive lo psicanalista austriaco Bruno Bettelheim nel suo Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe: 

«Soltanto uscendo nel mondo l’eroe della fiaba (il bambino) può trovare se stesso; e quando trova se stesso trova anche l’altra persona con cui potrà vivere felice per il resto dei suoi giorni, cioè senza dover più provare l’angoscia di separazione. La fiaba è orientata verso il futuro e guida il bambino. La fiaba è orientata verso il futuro e guida il bambino — in termini che egli può comprendere sia nella sua mente conscia, sia in quella inconscia — aiutandolo ad abbandonare i suoi desideri infantili di dipendenza e a raggiungere una più soddisfacente esistenza indipendente.»

Da Brothers usciamo formati noi, e anche il bambino che è in noi. Brothers è un racconto d’amore – filiale e fraterno – un racconto sulla crescita, sulla perdita e sulla scoperta di se stessi: è un racconto di formazione e, come tale, porta con sé il suo preziosissimo insegnamento.

È una storia intensa e dilaniante, in cui la compenetrazione negli stati d’animo dei personaggi è quasi totale, portandoci a viverne i dolori più intensi. È un viaggio attraverso paesaggi immaginifici e creature fantastiche che in qualche modo gioca con gli emisferi cerebrali, scissi e al contempo in continua interazione, come i due fratelli, un racconto che tende a unire il nostro lato emotivo e il nostro lato razionale, che ci invita a imparare a governarli entrambi e ad armonizzarli, proprio come è necessario per i due piccoli fratellini. Per poter vivere e sopravvivere. È un gioco in cui non si guidano solo Naia e Naiee, ma la nostra stessa mente, che in qualche modo si fa protagonista tramite i due personaggi.
Tre ore scarse, ma estremamente intense in un un titolo che ci insegna l’importanza della cooperazione, anche con quel piccolo fratello (maggiore o minore) che si nasconde da qualche parte dentro la mente di ognuno di noi.




The Inpatient

The Inpatient

The Inpatient il nuovo gioco per Playstation VR, targato SuperMassive Games, può essere annoverato tra gli horror psicologici.
La software house inglese, dopo averci affascinato con la coinvolgente storia di Until Dawn (qui la recensione) ed entusiasmato, lanciandosi nel mondo della realtà virtuale, con lo spettacolare shooter su binari Until Dawn: Rush of Blood (qui la recensione), che rappresenta uno spin-off del primo, adesso ci presenta quello che è un vero e proprio prequel del capitolo d’esordio.
Non c’è quindi da meravigliarsi se l’hype di tutti i fan della serie è stato elevato sin dall’annuncio ma, se già doversi confrontare con un primo titolo di rango non risultava un’operazione semplice, questo The Inpatient presenta non pochi problemi che ne inficiano la qualità.

Blackwood Pines Sanatorium

Ambientato 60 anni prima gli eventi di Until Dawn, in un manicomio/casa di cura a BlackWood Pines, The Inpatient ci vede vestire i panni di un paziente affetto da amnesia. Durante tutto il gioco ci troveremo sempre in compagnia di qualche personaggio con cui dialogheremo (nel vero senso della parola).
Prendendo in prestito dalla Teoria del Caos l’effetto farfalla, la SuperMassive Games, come già  in Until Dawn, ce ne offre la propria versione: le risposte che sceglieremo di dare influenzeranno il corso della storia, saranno decisive per la vita o la morte dei personaggi incontrati e ci condurranno a finali differenti.

Cosa si poteva fare meglio

Come accennavamo, i difetti legati a questo titolo sono diversi e coinvolgono molti settori chiave.
Il secondo  difetto, non da poco in ordine di fastidio arrecato al gamer, è rappresentato dalla programmazione dell’ambiente che ci circonda. L’intero scenario, compresi il 99% degli oggetti, si presenta infatti come un unico gigantesco blocco immobile: ciò vuol dire che non solo non saremo in grado di far muovere niente sbattendovi contro, perdendo in realismo ma, per di più, qualsiasi oggetto, persino quelli dotati di ruote, ci bloccherà il cammino, impedendoci di proseguire, obbligandoci a una macchinosa manovra di aggiramento. Per compire questa farraginosa operazione dovremmo spostare l’analogico di destra per tre o quattro volte nella direzione della rotazione che vorremo effettuare prima che la manovra vada a buon fine.
Qualche “illuminato” sviluppatore della casa britannica, ha ben pensato di mettere una bella toppa a questo inconveniente creando quello che rappresenta il primo dei difetti del gioco.
Il più grave problema è infatti proprio legato al sistema di controllo.
I programmatori della SuperMassive Games hanno dimostrato la propria maturità in ambito VR, studiando un sistema di controllo che evita completamente, qualsiasi problema legato al “motion sickness”, posizionando il movimento in avanti sull’analogico sinistro e la rotazione di 30/45/60 gradi sull’analogico destro.
Fin qui un ottimo lavoro. Purtroppo qualcuno, probabilmente in uno stadio particolarmente avanzato dello sviluppo del gioco, o addirittura in fase beta testing, ha avuto la “geniale” idea di mettere sempre sull’analogico destro la “feature” per l’inversione di visuale a 180°. Questa inopportuna funzione di controllo ci perseguiterà per tutto il gioco e ci capiterà in continuazione di azionarla involontariamente. Malauguratamente, neanche dalle impostazioni è possibile disattivarla, e saremo così condannati per l’intero gioco a doverci voltare nuovamente nella giusta direzione, diminuendo ancor di più la già scarsa immersività di questa esperienza VR.
Lo stress e il senso di insoddisfazione causati dalle già citate incaute scelte di programmazione ci inducono a sperare almeno in una storia avvincente e dal finale ricco di suspense. Anche qui veniamo amaramente delusi: ci mettiamo veramente poco a capire la storia e i suoi risvolti, e il gioco si riduce a seguire qualche personaggio per interminabili corridoi nei quali non succede assolutamente niente, e quasi speriamo in un jumpscare per movimentare un po’ la noia generata da questi lunghi tratti soporiferi.

Cosa ci è piaciuto

Assolutamente da lodare, invece, è l’esperimento relativo al controllo vocale dei dialoghi fatto dagli sviluppatori della SuperMassive Games.
Durante i colloqui con i vari personaggi, ci verranno poste delle domande e proposte a schermo due risposte possibili: ci basterà pronunciare la frase scelta e verrà automaticamente interpretata dall’intelligenza artificiale che si occupa del riconoscimento vocale.
L’eccellente lavoro degli sviluppatori britannici fa sì che l’algoritmo di riconoscimento vocale abbia un ottimo livello di accuratezza, pari quasi al 90% di corretta identificazione della risposta. È saggiamente stata anche prevista la possibilità di selezionare la risposta, semplicemente guardandola e premendo il tasto X.
In breve, risulta abbastanza naturale parlare con i personaggi del gioco sebbene sia necessario pronunciare esattamente la frase mostrata come risposta e non sia possibile dire qualcosa di simile o di significato analogo, come avviene nelle odierne AI di riconoscimento vocale.

Analisi Tecnica

Le texture sono belle, dettagliate e di grande effetto, sia quelle relative all’ambiente sia quelle che delineano l’aspetto dei personaggi. Il titolo sarebbe graficamente eccellente se non fosse per una miriade di bug grafici che, a scapito del realismo, fanno brillare anche in totale oscurità tutti gli oggetti, evidentemente aggiunti in un secondo momento, come i contorni delle finestre, delle porte, alcune parti della pavimentazione ecc.
Le animazioni dei personaggi sono abbastanza fluide e credibili, mentre quelle legate al nostro personaggio lasciano alquanto a desiderare. La velocità con cui ci muoviamo è a dir poco ridicola, anche nei momenti più concitati di imminente pericolo siamo lenti come una tartaruga assonnata e, se ci guardiamo i piedi, per altro scalzi, notiamo una specie di “moon walking” con scivolamento frontale del tutto inverosimile.
Il comparto audio è buono: i dialoghi, in italiano, sono ben doppiati, quasi al livello di quelli dello spin-off Rush of Blood, e le musiche accompagnano abbastanza bene le varie parti della storia. Gli effetti audio, seppur d’effetto, sono spesso temporizzati con troppo anticipo, rovinando così la sorpresa dei, tra altro rari, jumpscare.
L’estrema lentezza del personaggio, le lunghe camminate per gli interminabili corridoi che attraversiamo del tutto indisturbati e le poche emozioni che regala questo titolo, fanno sì che la scarsa longevità di sole 2-4 ore diventi un pregio piuttosto che un difetto.
Per quanto riguarda il “motion sickness”, problema sempre in agguato quando si tratta di realtà virtuale, possiamo tranquillamente affermare che i ragazzi di SuperMassive Games lo hanno totalmente scongiurato, tramite l’ormai collaudato sistema di rotazione a scatti.

The Inpatient

Impressioni Impazienti

Purtroppo The Inpatient delude sotto molti aspetti, la storia lenta e superficiale, il sistema di controllo stressante e tutt’altro che funzionale, la longevità di sole 2/3 ore e qualche bug grafico, fanno scendere il giudizio generale del gioco ben al di sotto della sufficienza. L’impressione generale che si ha giocando a The Inpatient è che la SuperMassive Games abbia puntato davvero in alto con un titolo graficamente bellissimo, e aggiungendo l’innovazione del controllo vocale dei dialoghi, al già apprezzato sistema di narrazione dell’effetto farfalla, abbia cercato di raggiungere l’olimpo delle IP. Purtroppo evidentemente, a uno stadio avanzato dello sviluppo, forse per problemi di budget, o a causa di qualche deadline da rispettare, abbiano dovuto accelerare la conclusione del titolo, lasciando bug grafici un po’ ovunque e rattoppando alla meno peggio i bug più importanti.

 




Oh…Sir! The Hollywood Roast

Il mondo dei videogiochi è un posto bellissimo: un universo dove convivono titoli strapubblicizzati con budget hollywoodiani e… un simulatore di insulti nato durante una game jam e divenuto virale tramite gameplay su Youtube o Twitch.

Questa è la storia di Oh…Sir! The Insult Simulator, titolo creato dai polacchi di Vile Monarch, che prende largamente spunto dall’umorismo british dei Monty Python. Il successo del gioco è incredibile, se consideriamo l’argomento di nicchia: da sempre il british humor è considerato complesso da capire e apprezzare. Eppure il primo Oh…Sir! è arrivato anche sulle piattaforme mobile ed è prossimo all’uscita su Playstation 4 e Xbox One.
Sorte simile viene condivisa anche da questo Oh…Sir! The Hollywood Roast, uscito sia su PC che su iOSGoogle Play,  e prossimamente in arrivo anche su Nintendo Switch. Ma sarà all’altezza del predecessore oppure sarà lo spin-off che il pubblico non voleva vedere nelle sale?

Appena avvieremo Oh…Sir! Verremo subito catapultati nello spirito del gioco, intriso di citazioni cinematografiche: infatti, le schermate degli sviluppatori ricordano rispettivamente i celebri crediti introduttivi della 20th Century Fox e della MGM.
Il gioco consta di modalità single player e multiplayer: la prima, è a sua volta composta da un tutorial, esaustivo e ben fatto, dalla modalità carriera e dalla partita singola. Mentre quest’ultima non è altro che un normalissimo uno contro uno, la carriera è invece strutturata sul modello dei giochi mobile. Per ogni sfida dovremmo completare dei task e ottenere i “pappagalli d’oro”, che sbloccheranno nuove frasi da usare nelle battaglie. Peccato che tale modalità sia molto corta: solamente cinque incontri per ogni personaggio. Considerando il setting hollywoodiano, l’aggiunta di una modalità storia, magari creata ad hoc sul modello di ogni avatar, avrebbe giovato non poco alla longevità del titolo.
Probabilmente, come per il titolo precedente, il gioco è stato pensato più in un ottica multiplayer: che sia in locale con un paio di amici oppure online, Oh…Sir! dà il meglio di sé quando viene approcciato in compagnia.

A proposito dei protagonisti che useremo negli scontri verbali, i ragazzi di Vile Monarch hanno pescato a piene mani dal calderone hollywoodiano, dandoci una buona varietà di protagonisti: si va dalle parodie di attori come Marylin Monroe, Bela Lugosi e Jane Fonda, ai personaggi come l’esilarante mash-up di supereroi Marvel, Harry Potter e Gandalf il grigio, tutti con i loro bonus e malus da sfruttare durante la gara di insulti. Per esempio, il simil-Deadpool soffrirà quando attaccheremo la sua mancanza di originalità, oppure la parodia del maghetto di Hogwarts la prenderà sul personale quando bersaglieremo la sua mancanza di virilità.
Parlando del gioco vero e proprio, ogni scontro consta di una serie di frasi e aggettivi, colmi di riferimenti cinematografici e del gossip hollywoodiano, da scegliere e concatenare per ottenere il nostro insulto perfetto. Come detto in precedenza, bisogna stare attenti ai punti deboli del nostro nemico e soprattutto a usare una corretta forma grammaticale, pena la perdita di qualche nostro punto vita. Purtroppo il gioco è interamente localizzato in inglese, e, reggendosi tutto sulla sintassi, potrebbe dare difficoltà a chi non è ferrato nella lingua di Albione.

Tutto sommato questo Oh…Sir! The Hollywood Roast regala alcuni momenti di divertimento, a patto di cogliere le molteplici citazioni cinematografiche. La ridotta longevità della modalità single player è un difetto di non poco conto, ma il comparto multiplayer può dire la sua come party game in compagnia di amici. Forse è più adatto a delle sessioni di gioco brevi, classiche dei titoli usciti su smartphone e tablet. Non un gioco da premio Oscar, ma nemmeno da Razzie Award.