Battlefield V: le impressioni dalla open beta

Battlefield V non sembra essere partito col piede giusto. Dopo tanti anni in cui abbiamo visto avvicendarsi varie epoche storiche ed esperimenti discretamente interessanti, l’ultimo capitolo sembra avvolto da un alone di mistero. Nessuna notizia della battle royale, denominata Firestorm, pre-order ben al di sotto della media e infine un posticipo sulla data di uscita di un mese, forse per evitare la “concorrenza” spietata di Red Dead Redemption 2 o, più probabilmente, per rifinire alcuni elementi di varia natura, come ad esempio, l’ottimizzazione generale in vista dell’entrata in scena del Ray Tracing di Nvidia.
Questa open beta ci ha finalmente permesso di saggiare alcune novità del titolo che in qualche modo sanciscono un ritorno al passato.

V per Vanitoso

Il passaggio da Battlefield 3 a Battlefield V sembra essere avvenuto in maniera istantanea anche se, nel frattempo, abbiamo assistito a Battlefied 1 e a Hardline, ben diversi per caratteristiche e aspettative. La natura del titolo DICE dunque rimane invariata, con un feeling divenuto ormai un marchio di fabbrica e lontano dalla frenesia del suo rivale più diretto Call of Duty. Ma di novità ce ne sono, a cominciare dal ritorno della distruttibilità ambientale totale che cambia decisamente le carte in tavola una volta compreso che i proiettili posso attraversare alcuni ripari. Ma tutto questo si esprime maggiormente con i mezzi pesanti, in grado di distruggere interi appartamenti modificando di fatto il layout della mappa. A proposito, le location disponibili in questa beta sono due: Rotterdam, protagonista anche della presentazione di Nvidia, e Narvik, una mappa innevata ai confini del Circolo Polare Artico. L’approccio in queste due zone è completamente diverso e sono caratterizzate da un buon level design sviluppato anche in verticale, pieno di ripari, vie di fuga e scorciatoie.
Proprio una delle grandi novità di Battlefield V è la possibilità di costruire piccoli avamposti, torrette e persino artiglieria anti-aerea che ampia a dismisura le possibilità tattiche: presa posizione, sarà possibile costruire un proprio fortino in grado di difendere più agevolmente uno degli obbiettivi e, viceversa, dare vita a un vero e proprio assedio, a una guerra di trincea che tanto è mancata nel precedente capitolo. Inoltre, potremmo soccorrere chiunque indipendentemente dalla classe scelta: una volta colpiti “mortalmente” abbiamo a disposizione due scelte, ovvero se morire in maniera rapida, accelerando l’arrivo al menu di respawn, oppure lottare con tutte le forze chiedendo aiuto, attivando anche animazioni dedicate.
Come detto, il feeling è sempre lo stesso, con la Grand Operation a fare da traino, e forse unica modalità in grado di restituire l’epicità di una grande guerra. Le armi, limitate per numero in questa beta, ma comunque varie, non presentano particolari novità dal punto di vista delle meccaniche, cosa che fa storcere un po’ il naso considerando che siamo passati dalla modernità di Battlefield 4, alla Prima Guerra Mondiale e ora alla Seconda.

V per Vistoso

Anche se non abbiamo potuto approfondire, sappiamo che la personalizzazione avrà un ruolo chiave all’interno del progetto: sia il nostro alter ego che armi e mezzi a disposizione, avranno un ampio set di elementi in grado di trasformare visivamente qualunque cosa. Il tentativo è quello di rendere Battlefied V più “umano”, mettendo al centro il giocatore e il suo team. Di fatti, la cooperazione svolge un ruolo più importante rispetto ai capitoli precedenti e premiata non solo dai classici punti esperienza ma anche da equipaggiamento speciale, come armi o mezzi corazzati. Più umano vuol dire anche avere un sistema di progressione “su misura”, che abbiamo avuto modo di verificare sul campo: via dunque alla standardizzazione in favore di un approccio più personale e incline al nostro stile di gioco. Una volta raggiunti determinati obbiettivi, armi ed equipaggiamento sbloccati saranno in linea con le nostre abitudini, in un percorso delineato che invoglia il giocatore a seguire stili diversi.
A livello tecnico, il Frostbite Engine è sempre un bel vedere, nonostante l’assenza del Ray Tracing. Sia Rotterdam che Narvik, benché completamente diverse, sono ricche di dettagli, con elementi perfettamente modellati, come da tradizione. Da segnalare però alcuni problemi dovuti alla fisica, e bug e glitch di varia natura oltre a problemi di matchmaking, ma che probabilmente verranno risolti con il rilascio ufficiale.

In conclusione

Battlefield V sembra essere il Battlefield di sempre, qualitativamente molto valido e puntellato qua e là al fine di arricchire un sistema già ampiamente collaudato. È ancora molto presto per esprimere un giudizio, del resto non sappiamo quasi nulla del single player, della rimanente offerta di gioco e sopratutto della modalità Firestorm. Dunque non ci resta che attendere (un mese in più) per recensire adeguatamente l’ultima fatica di DICE.




We Happy Few – E La Pillola Va Giù

Come tutti sappiamo, We Happy Few, è un titolo dalla storia travagliata, presentato ormai nel lontano 2015 e arrivato in questi giorni, ben diverso da quanto prospettato. La campagna Kickstarter atta a finanziare il progetto è stata una manna per Compulsion Games ma anche una spada di Damocle, in quanto, dopo vari rinvii, l’uscita del titolo non poteva più esser posticipata. Terminato il lungo periodo di early access, Wellington Wells è pronta per essere esplorata, un’isola avvolta dal mistero ma anche da tanti elementi da rifinire.

Sembra talco, ma non è…

Inghilterra, 1960, ma non quello che pensate: la Seconda Guerra Mondiale è stata vinta dalla Germania e, come in altre ucronie, questo ha portato molti cambiamenti nella società. Ma c’è una città particolare, un luogo isolato, che ha deciso  di dimenticare il passato vivendo in allegria e spensieratezza: Wellington Wells è la vera protagonista del titolo, proprio come Rapture per Bioshock, anche se con le dovute proporzioni. Tra gli abitanti circola una speciale “medicina”, la Joy, capace di regalare subito benessere, rendendo luminosa anche una lugubre giornata; ed ecco quindi che la città pullula di vita, lontana dalle tragedie vissute durante il conflitto, cui nessuno sembra ricordarsene. A dir la verità, questo espediente non è nuovo: si pensa subito al Soma di Brave New World di Aldous Huxley, ma anche a Naruto e al suo Tsukuyomi Infinito o persino a Code Geass: Lelouch of the Rebellion e alla droga Refrain. Come rendere dunque originale un espediente narrativo già abusato in numerose opere? Ci pensa il comparto artistico a mettere una pezza, ma anche la caratterizzazione dei protagonisti con i loro dialoghi a renderci quasi alieni di fronte alle bizzarie che ci troveremo davanti.
Ma – come dicevamo – Wellington Wells è il fulcro, una radiosa prigione in cui la perfezione la fa da padrona, tanto che ogni minimo gesto ritenuto “non conforme” (come correre) verrà immediatamente preso di mira dagli abitanti e dalla polizia, una sorta di Gestapo, pronta a sedare qualunque tipo di ribellione. Basta infatti mancare una sola dose di Joy – come avviene nel prologo – per far cessare la meravigliosa fiaba indotta dalla droga, attanagliando con sensi colpa, rimorsi e traumi che solo una guerra e i suoi postumi è in grado di produrre. We Happy Few è tutto questo, un costante contrasto di emozioni che riesce a colpire nel segno lo spettatore, con dialoghi ben scritti e originali, con una sceneggiatura che riesce a estrapolare tematiche importanti da ogni anfratto della cittadina. Purtroppo, non di solo narrativa si vive.

Perché sei così serio?

We Happy Few nasce come immersive sim con una forte componente survival mitigata in questa versione finale. La fame, la sete e la stanchezza non sono più letali come nella concezione originaria del gioco, divenendo meri malus per la nostra stamina. Gli sviluppatori, probabilmente ascoltando i pareri del pubblico durante l’early access, hanno addolcito alcune componenti che, in qualche modo, risultano però mal amalgamate tra loro. Andare a ricercare varie componenti per il crafting come i buoni Bioshock o Fallout insegnano, è fondamentale: bidoni della spazzatura, cassette della posta, bauli possono diventare delle vere e proprie miniere e, ottenuti i componenti necessari, sarà possibile dilettarsi nella costruzione di vari oggetti che variano tra quelli base e quelli avanzati. Non solo armi e oggetti utili, ma anche il vestiario ha la sua importanza: una caratteristica che non è andata persa è lo stealth, essenziale, ma fino a un certo punto. Indossare il vestito giusto in certi frangenti può fare la differenza, eppure, tutto si perde in un bicchiere d’acqua, naufragando in un’intelligenza artificiale lacunosa sotto molti punti di vista: basterà un piccolo errore per ritrovarsi accerchiati da gente che nemmeno si trovava nelle vicinanze, e si potrà far tornare tutto alla normalità con la stessa facilità, semplicemente svoltando l’angolo, come dopo un’istantanea dose di Joy. Questo difetto fa pendant anche con la morte, che non ha alcuna conseguenza, anzi, a volte sarà più comodo tirare le cuoia piuttosto che proseguire. Tutto ciò rende il titolo poco appagante ed, escludendo l’efficace narrativa, nel complesso il risultato rischia di essere disastroso. Anche il venire alle mani con i nemici del momento non regala alcuna soddisfazione a causa di hit box imprecise, mancanza di feedback reale e animazioni non proprio eleganti. Sembra quasi di colpire il vuoto, sarebbe bastato davvero poco per mettere una pezza a questo problema.
Anche la differenziazione esteriore dei tre protagonisti viene meno: la loro fisicità così diversa non risulta fondamentale e solo aumentando il nostro livello con alcuni upgrade, potremmo sentire lievi differenze.
Gli unici elementi discretamente riusciti sono le sezioni notturne, in cui il coprifuoco è attivo ed esser visti può scatenare un putiferio ma, soprattutto, la meccanica dedicata alla pillola Joy e ai suoi effetti. Ogni compressa ingerita comporta alcuni cambiamenti – anche visivi – dato che potremmo passare inosservati per le vie della città e superare senza problemi i detector per i “Musoni”, coloro che rifiutano le gioie della medicina. Ma assumerne troppa ha delle controindicazioni, come perdita della memoria e crisi d’astinenza più marcate, in grado di far imbestialire la popolazione. È quindi un bene assumerla solo in casi specifici; anche qui, spingere su questa meccanica avrebbe garantito maggiore originalità e spessore a un titolo che vede nell’amalgama degli elementi il principale problema.
Durante le avventure avremo modo di sbloccare piccoli rifugi, degli hub dove poter riposare o spostarsi rapidamente, cosa abbastanza utile quando si ha a che fare con molte quest secondarie aperte ma purtroppo fin troppo simili tra loro.

Chiaroscuro

Anche dal punto di vista tecnico We Happy Few non raggiunge vette d’eccellenza. Nonostante l’utilizzo dell’Unreal Engine 4 il gioco lascia adito a qualche dubbio, a cominciare da alcuni glich e bug di varia natura, come corpi spariti nel nulla o l’eccessivo pop-up delle texture. Oltre a questo, fa quasi impressione l’eccessivo riutilizzo degli asset sia per gli ambienti che per la popolazione, consistente in circa cinque-sei modelli, ripetuti all’infinito. Tutto crea anche problemi alla navigazione in quanto perdersi per le vie della cittadina sarà all’ordine del giorno. Nonostante un ciclo meteo e giorno-notte il titolo non riesce proprio a spiccare, se non per alcune trovate artistiche come il passaggio dalla triste realtà al lucente bagliore della vita dovuto all’assunzione della pillola Joy e allo stile in cel-shading che, in qualche modo, regala a We Happy Few una sua identità. Inoltre, il titolo sarà uno dei pochi a poter sfruttare la nuova tecnologia per il ray tracing e il nuovo anti-aliasing DLSS, disponibili non appena le nuove Nvidia serie 2000 muoveranno i loro primi passi sul mercato.
Fortunatamente la componente audio riesce a salvare quanto rimane, contando su un ottimo doppiaggio inglese, con uno slang appositamente elaborato. Tutto risulta a volte caricaturale ma efficace, in grado di far risaltare i momenti bui come quelli goliardici.  Purtroppo la traduzione non sembra essere andata a buon fine, con sottotitoli a volte incompleti e soprattutto invasivi, mostrando dialoghi non direttamente interessati a noi, anche nel bel mezzo di un’altra conversazione. Il risultato è una caotica bulimia di frasi su schermo che rendono il tutto di difficile comprensione.

In conclusione

We Happy Few paga il suo contorto sviluppo e l’improvviso cambio di direzione che ne hanno mozzato, a ogni livello, il gameplay. L’ossatura buona del titolo resta nella componente narrativa e nel doppiaggio, in grado di restituire una storia forse non originale ma capace di emozionare, esplorando le mille sfaccettature della società umana. Dipende dunque da quanto peso decidiate di dare alla trama e al suo evolversi rispetto al resto: valutando gli elementi nel loro insieme, si arriva giusto alla sufficienza. È dunque una grossa occasione sprecata ma un buon punto di svolta per Compulsion Games, che dopo questa esperienza potrà ripensare ai propri errori e portare in futuro qualcosa di più completo e meglio curato in tutti i suoi aspetti.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




Naruto to Boruto: Shinobi Striker – Credo Ninja de che!

Naruto è una saga che ci ha accompagnato per per più di dieci anni, divenendo uno dei più importanti battle shonen ed evoluzione di quanto visto precedentemente, passando da Dragon Ball a Bleach. L’opera di Masashi Kishimoto, pur riprendendo gli stilemi caratteristici del genere, è riuscito a trasporre un’enciclopedia di storie personali che, assieme a quella del protagonista, rendono Naruto un racconto di sogni, speranze e sentimenti, contornati ovviamente da sane mazzate. Ed ecco che entrano in scena i videogiochi, tie-in che hanno raggiunto il picco con l’ultimo lavoro di CyberConnect 2 e il suo Naruto Shippuden: Ultimate Ninja Storm 4, un concentrato di qualità sotto tutti i punti di vista. Una volta terminati sia manga che anime e, con lo scettro passato al primo genito Boruto, la voglia di vivere le avventura dei ninja di Konoha non è tramontata: Naruto to Boruto: Shinobi Striker è dunque un nuovo tie-in, ma un po’ diverso da quanto abbiamo visto finora. Scopriamo perché.

Io credo in te

La prima particolarità che salta all’occhio è la mancanza di un reale single player, una campagna narrativa che ripercorra le vicende del noto manga. Del resto gli Ultimate Ninja Storm svolgono questo compito in maniera egregia, dunque perché ripetersi?
È abbastanza inutile girarci intorno: la proposta di Soleil, è molto simile a quella di Dragon Ball Xenoverse, in cui saremo chiamati a ricreare il nostro alter ego, basandoci su (pochi) asset appartenenti al mondo di Naruto. La prima stesura del nostro personaggio è alquanto limitata ma per ampliare le possibilità di personalizzazione interverranno le varie missioni, come vedremo in seguito.
All’interno dell’hub principale, un quartiere del villaggio di Konoha, potremmo interagire con altri personaggi giocanti e con i protagonisti del manga, assegnati a una postazione specifica, come Sasuke Uchiha adibito alla scelta dei maestri o sua moglie (?) Sakura, che avvierà il menu di personalizzazione.
Naruto to Boruto: Shinobi Striker è un titolo che non nasconde la sua natura già dalle prime battute e soprattutto risulta diretto per chi conosce l’opera di Kishimoto: i vari personaggi e oggetti presenti, hanno si delle piccole descrizioni, ma purtroppo risultano futili in entrambi i sensi visto che chi già conosce, non ha bisogno di poche righe per sapere di cosa si sta parlano e ben che meno, chi non si è mai approcciato, non troverà utili tali informazioni e, soprattutto, non sarà invogliato ad approfondire. Questa scelta dunque può risultare discutibile e in grado di scontentare tutti. Ma questa approssimazione purtroppo, si riscontra in altri elementi del gioco, come ad esempio la struttura ludica, che propone una serie di missioni slegate tra loro da svolgere in singolo o in co-op. Queste missioni, all’interno di arene VR, salvo qualche piccola eccezione, non riescono a restituire l’epicità di manga e anime, rimanendo utili solo per avanzare di livello e il “miglioramento” dell’equipaggiamento. Ma il titolo Soleil basa tutto il suo essere sull’online, con scontri suddivisi in quattro modalità: Battaglia Bandiera, Battaglia Base, Battaglia Combattimento e Battaglia Barriera, l’unica delle disponibili a presentare delle piccole novità, in quanto noi e i nostri compagni di team dovremo raggiungere e attivare punti specifici nella mappa, al fine di attivare una barriera in grado di immobilizzare i nemici.
Shinobi Striker è tutto qui, una serie di eventi che purtroppo non riescono a ricreare un ambiente omogeneo e allettante solo ai fan duri e puri della saga. L’obbiettivo è divertirsi senza fronzoli e le parole, punto cardine dell’opera di Kishimoto, vengono lasciate ampiamente da parte.

Arte Illusoria: confusione

Al contrario delle precedenti iterazioni, il titolo Soleil si presenta come un picchiaduro ad arena, in cui è previsto – almeno online – un 4 vs 4. Purtroppo vi sono da segnalare fin troppe semplificazioni a cominciare dal combat system dove basta la sola pressione di due tasti per compiere combo limitate e in cui manca addirittura uno schema dei comandi apposito. Passare dall’orizzontale al verticale all’interno della mappa risulta naturale e se si riesce a sfruttare l’intera mappa, sarà possibile sorprendere i nemici da ogni posizione. I colpi fisici, che difettano di hit box estremamente imprecise, sono contornati ovviamente dalle arti ninja che possono essere sbloccate avanzando il livello del legame con il proprio maestro. La personalizzazione dunque è una parte essenziale e si allarga anche al vestiario, comprensivo di tutto l’abbigliamento presente sia in Naruto che in Boruto, alcuni anche con variazioni e re-skin, ottenibi attraverso pergamene di grado diverso e con funzione di loot box. Il problema è che nessuna componente possiede caratteristiche in grado di far discernere al giocatore l’elemento più adatto al proprio personaggio. Tutto quindi, ha solo valenza estetica e risulta una grossa occasione mancata, considerato che in altri titoli, come Xenoverse già preso in esempio, è una meccanica che funziona egregiamente. Stessa cosa vale anche per le arti ninja che non possiedono gradi di potenza e una descrizione adeguata. L’efficacia dunque del proprio assetto dipende dalle nostre capacità, cosa buona e giusta ma al contempo limitante in quanto è possibile badare al sodo, trascurando completamente la meccanica della personalizzazione ovvero, un grosso pilastro su cui si basa Shinobi Striker.
L’elemento arena risulta interessante sopratutto nel multiplayer dove è essenziale far gioco di squadra per sconfiggere i propri avversari. Qui interviene l’idea interessante della scelta della classe e selezionabile a nostro piacimento, tranne che in partita ovviamente. Abbiamo a disposizione Attacco, Attacco a Distanza, Difesa e Cura e ognuno di esse possiedono skill ed equipaggiamento unici; ad esempio, il Chidori (Mille Falchi) di Sasuke, è possibile utilizzarlo solo come attacco a distanza. Tutto questo come si traduce? Ogni partita è puro caos: tutto consiste nello spam frenetico di ogni arte ninja presente, trasformando uno scontro in un bellissimo e frustrante miscuglio di particellari ed effetti luci, dove è veramente difficile capire cosa si stia colpendo e sopratutto cosa ci ha eliminati. Il target non aiuta nemmeno, capace di disancorarsi dall’avversario di fronte al minimo spostamento e il matchmaking, poco preciso e in grado di inserire in una stessa partita un livello 3 e un livello 100. Ammesso e concesso che il livello non migliora alcunché, ci si ritrova di fronte con arti ninja che, almeno nella forma, risultano devastanti.
Questione simile anche nelle missioni VR, un PvE in cui è possibile anche affrontare delle boss fight ma anche una miriade di nemici diversi da trasformarlo in un musou senza averne le caratteristiche.

Lasciarsi il Sole dietro se

Dal punto di vista tecnico siamo ben lontani da quanto visto nell’ultimo lavoro si CyberConnect 2 ma fortunatamente, Shinobi Striker si presenta abbastanza bene. Ovviamente tutto è all’insegna del cel shading, che non risulta definito e pulito come in Ultimate Ninja Storm 4 ma che si lascia ben vedere, se non ci si concentra su texture poco definite, o qualche mancanza di attenzione sui dettagli. Ottimo l’uso di fx, che rendono lo schermo un continuo arcobaleno di colori e particellari che non inficia più di tanto il framerate, quasi sempre stabile e specchio di una buona ottimizzazione. Buone anche le animazioni ma che purtroppo risentono di un leggero ritardo nell’imput dei comandi e che, una volta partite sarà dura interromperle. Potete capire da voi che questo, in un picchiaduro ad arena, può diventare frustrante; ma mai quanto la telecamera, incapace di seguire il nostro personaggio in concomitanza di ostacoli, un incubo che molte volte causerà la vostra sconfitta. Da segnalare anche un’infinità di bug e glitch di varia natura, alcuni dei quali davvero pittoreschi.
La componente audio si fregia dei doppiatori originali della serie animata giapponese e inglese e ormai abituati a prestare la loro voce anche nel contesto videoludico. Effetti sonori nella media e colonna sonora che richiama i fasti dell’anime, anche se in tono minore.

In conclusione

Naruto to Boruto: Shinobi Striker è un titolo che va preso per quello che è, in cui divertirsi è la parola cardine. Purtroppo però l’immediatezza genera anche quella poca profondità che inficia gran parte del lavoro di Soleil, a cominciare da un combat system abbozzato e componente di personalizzazione che purtroppo ha solo valenza estetica. In generale dunque, è un titolo che si lascia giocare soprattutto se siete fan del manga di Kishimoto, un picchiaduro senza fronzoli che vi permetterà di entrare direttamente nel mondo dei grandi villaggi ninja.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
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10 punti a favore della battle royale

La Battle Royale è, nel 2018, il genere dominante; con i suoi milioni di player è sicuramente la tipologia di videogame più giocata al momento grazie a titoli quali Fortnite e Playerunknown’s Battlegrounds, e ai numerosi epigoni che ne sono nati. Molti ne hanno fatto già oggetto di polemica, molti li vedono come il male, come materia di consumo, ma in realtà hanno apportato vari benefici e hanno molto da insegnare. Vi diamo dieci motivi per cui il genere fa bene a tutti, developer e non.

1. Puoi essere punito

Nessuno avrebbe pensato che un gioco dove 99 volte su 100 si perdono i progressi acquisiti sul campo avrebbe avuto successo: qui, dopo aver sudato sul farming, si può perdere tutto anche con un minimo sbaglio. I Battle Royale ci insegnano le conseguenze degli errori punitivi.
Negli ultimi anni, gli sviluppatori hanno tentato di allontanare i giocatori da qualsiasi fattore negativo: in Overwatch il kda (rapporto uccisioni/morti/assist) è sostituito da medaglie ricevute attraverso le azioni fatte dal giocatore.
Invece, titoli quali PUBG, ti sbattono in faccia il fallimento. Ma è proprio questo che riporta i giocatori a fare delle partite, la voglia d’imparare e di dominare sugli altri. Il fallimento, spinge i giocatori a migliorare le proprie abilità così da poter abbattere qualsiasi avversario. E non poi tanto diverso, sia sul mercato videoludico che nella vita, no?

2. Free to Play > gioco a pagamento

Uno dei fatti più importanti riguardanti il genere è la lotta per la ribalta tra due giochi che dominano la scena del genere: PlayerUnknown’s Battlegrounds, titolo di fascia di prezzo media che è stato surclassato sei mesi dopo dalla versione F2P (free to play) di Fortnite. Nonostante sia stato rilasciato dopo il titolo di Bluehole, il gioco di Epic domina oggi in termini di utenti.
Affiancato a molti fattori che hanno portato al successo di Fortnite, il più grande contributo al successo del gioco è stata la mancanza di un costo. Avendo visto questa dinamica in giochi famosissimi come League of Legends e Hearthstone, è ormai palese che il modello F2P rende di più, se ben utilizzato. Buon per gli utenti che possono giocare gratis, e bene per gli sviluppatori che imparano a farne tesoro.

3. La qualità è tutto

Vero, quel che è gratis si può fruire facilmente. Ma questo non vuol dire che non importi la qualità Un altro fattore dominante di Fortnite è come si è gestito dopo il lancio. Il titolo di Epic è stato costruito su basi più stabili, essendo appoggiato a un gioco già esistente. La software house è stata in grado di aggiornare il loro gioco con maggiore attenzione e frequenza a quel che volevano i giocatori: una maggiore varietà di gameplay e skin da poter acquistare. Nel frattempo, PUBG , d’altro canto, ha faticato per colpa del “peso” del titolo, i numerosi bug ecc ecc, lasciando la propria fanbase infastidita e col tempo meno propensa a giocare al loro gioco.
Visto che i giochi diventano sempre più qualcosa di routinario, l’ampliamento e la variazione dei contenuti permette un aumento di giocatori e il loro mantenimento all’interno del gioco, e gli sviluppatori lo sanno: un gioco che vuole lunga vita, deve avere un alto livello qualitativo.

4. SKIN SKIN SKIN

Tutti i F2P incassano i soldi tramite piccole transazioni estetiche, cappelli, magliette, animaletti ecc. Nel caso di Fortnite, il titolo ha portato a una vera è propria “skin mania”: dobbiamo ricordare che il titolo di Epic Games ha raggiunto il primo posto sull’App Store proprio in tema di transazioni.
L’ampia vendita di skin e oggetti vari è dovuta al fatto che i giocatori (specie i più costanti) vogliono differenziarsi gli uni dagli altri in combattimento. All’interno di Fortnite, le skin migliori si ottengono tramite il pass battaglia (che costa 10 euro). Ovviamente, anche qui la qualità è fondamentale: più le skin saranno belle, più bello sarà il gioco. Un vantaggio per i giocatori, che avranno elementi estetici più belli, e per i developer, che incasseranno di più.

5. Modder al lavoro!

All’inizio del decennio, sembrava che la scena indie sarebbe stata la fonte di una nuova aria di rinnovamento per l’ambiente videoludico grazie alle nuove esperienze e a nuove tipologie di giochi.
In pochissimo tempo la scena dei modder è diventata il fulcro di creazione di generi (ricordiamo la nascita dei MOBA). All’interno del settore vengono sperimentate molte idee, quindi se una mod attira pubblico arriveranno altri titoli dello stesso genere o spin-off, con l’idea che si modifica e migliora. La prima mod della Battle Royale è comparsa nel 2012 su Minecraft (Hunger Games), impiegando cinque anni per diventare ciò che conosciamo oggi attraverso una manciata di modder che hanno avuto un ruolo chiave. Qui è dove i giocatori si fanno sviluppatori. Che meraviglioso inno alla creatività.

6. L’evoluzione del genere è rapida

Una volta che un gioco è stato rilasciato e il predecessore è surclassato, c’è l’inevitabile reazione dello sviluppatore “indignato”, che farà di tutto per denigrare il nuovo titolo. Tuttavia, è facile perdere la cognizione di ciò che sta realmente accadendo: la rapida evoluzione di un genere.
Mentre la battle royale ha visto sei anni di perfezionamento dalla parte mod, solo negli ultimi mesi abbiamo visto la reale trasfigurazione del genere.
È in momenti come questi che dobbiamo ricordare che, quando i developer della metà degli anni novanta iniziarono a elaborare le meccaniche per quello che oggi conosciamo come sparatutto in prima persona, i loro lavori furono soprannominati inizialmente come “cloni di Doom“. E un genere nasceva, fino a diventare uno dei più importanti del mondo videoludico come lo conosciamo.

7. Crossplatform ovunque

L’utilizzo di più piattaforme di gioco è sicuramente un enorme vantaggio. Il successo di PUBG e di Fortnite ha portato questi titoli dal PC alle console sino al mobile con un successo impressionante.
I controlli virtuali dei telefono touchscreen sono sempre stati molto imprecisi e troppo “meccanici” ma, grazie al fatto di aver mutuato l’utilizzo dei controlli da titoli cinesi come Arena of Valor, sia Fortnite che PUBG sono riusciti ad avere versioni mobile abbastanza giocabili.
Inoltre, il crossplay di Fortnite consente ai giocatori di qualsiasi piattaforma di giocare con chiunque vogliano. Epic sta quindi guidando, simbolicamente, un’armata per poter distruggere il muro protettivo che divide le piattaforme di gioco, a vantaggio di tutti.

8. La Battle Royale fornisce aneddoti infiniti

Una delle caratteristiche uniche della battle royale è la possibilità di poter creare aneddoti infiniti: «sai, una volta in una partita di PUBG ho fatto un salto mortale con la moto uccidendo 2 persone».
Questo succede grazie all’inserimento di 100 giocatori all’interno di una partita, creando dunque milioni di possibili futuri. Si hanno delle interazioni intenzionali ma impreviste vista l’impossibilità di sapere come risponderà l’altro giocatore.
Paragonati ai Battle Royale, i MMORPG, sono completamente devoti a quello che i progettisti hanno creato per loro: l’esperienza di due giocatori che si scontrano in un raid è spesso simile. Invece, giochi come Fortnite si liberano dai percorsi “base” dando spazio ai giocatori, al fato e alla creatività di quest’ultimi.

9. Potere agli Esport

Con il genere Battle Royale è molto difficile creare qualche torneo su ampia scala ma, ricollegandoci a quanto detto nel punto 8, la grande variabilità di gameplay spinge i due re del genere alle prime posizioni di Twitch, battendo anche il colosso League of Legends.
Con un pubblico giornaliero medio di 15 milioni di utenti, Twitch è diventato una risorsa importante per i giocatori. Ed è proprio questa “pubblicità” gratuita che ha permesso a titoli come Fortnite di crescere così rapidamente. Infatti, Epic stessa ha scritto una grande lettera agli streamer e ha offerto loro una competizione con un montepremi da 100 milioni di dollari. La crescita degli Esport è importante per il mondo dei videogame, che può usufruire oggi anche del riconoscimento del Comitato Olimpico. Non poco per la dignità del settore.

10. Il gioco è ora la cultura pop

Da Drake su Twitch ai calciatori inglesi, il successo di Fortnite ci ha dimostrato che ormai i videogiochi sono un riflesso della cultura pop. Durante la “Pac-Mania” degli anni ’80 e la breve iconicità di Lara Croft negli anni ’90, sembrava che i giochi fossero qualcosa di passeggero. Oggi pare che i media più diffusi vogliano affrontare temi videoludici allo stesso modo della musica, del cinema, della TV o della stampa. Con ogni anno che passa, i videogiochi diventano sempre più mainstream all’interno della cultura generale.
Oggigiorno i videogiochi non sono la più fruiti soltanto da una piccola parte del mondo: ormai sono usati per intrattenere e sono posti allo stesso livello dei film o della musica. I videogiochi sono adesso cultura pop!




Red Faction: Guerrilla Re-Mars-tered Edition – Comunisti su Marte

Sin dal 2001, la serie Red Faction non si è mai distinta particolarmente nel panorama videoludico, non solo a livello qualitativo ma soprattutto di vendite. Per ben quattro capitoli, i lavoratori di Marte hanno lottato per i propri diritti, portando in salsa fantascientifica la Rivoluzione d’Ottobre al suo compimento ultimo, anche se probabilmente Karl Marx, avrebbe sperato in esiti meno roboanti. Ha quindi incuriosito questa remastered, non dei primi capitoli ma del terzo, quel Red Faction: Guerrilla (2009) che nonostante qualche buona idea non riuscì a far breccia tra i videogiocatori. Che THQ Nordic stia tastando il terreno per un eventuale nuovo capitolo? Non c’è dato saperlo, ma il suo arrivo potrebbe segnare la svolta.

Zone of the Enders

Marte. Questo pianeta probabilmente è il nostro prossimo passo, ma già qualche scrittore si è portato avanti col lavoro, immaginando la nuova colonia umana come fonte di futuri problemi. L’indipendenza di Marte dalla Terra è stata trattata in così tante salse che non basterebbe questa recensione per elencarle tutte, eppure in questa terza versione di Red Faction possiamo trovare delle particolarità: nel 2075 parte la colonizzazione del Pianeta Rosso grazie alla Ultor Corporation che, vedendo le risorse della Terra pian piano sparire, decide di sfruttare fino al midollo la nuova colonia. Dopo un processo di terraformazione, migliaia di coloni si trasferiscono, pentendosene ben presto. I lavoratori infatti, vengono sfruttati così tanto da richiedere l’intervento dell’EDF (Earth Defense Federation) per ripristinare l’ordine. I salvatori diventano così però i nuovi tiranni, e per i lavoratori di Marte l’unica speranza risiede in Alec Mason.
Questo è l’incipit di Guerrilla, la cui narrazione è affidata a cutscene (semplicemente “ripulite”) e molti dialoghi, alcuni di questi interessanti e presenti solo in incarichi secondari. Purtroppo sia la scrittura che la caratterizzazione dei protagonisti non eccelle, non si ha mai la sensazione di fare qualcosa d’importante, nonostante si operi per cambiare le sorti di un intero pianeta. Ma la particolarità – dicevamo – risiede nella simbologia, che sta tutta appunto nella riproposizione di quanto avvenuto il secolo scorso in Russia, quanto nei simboli, addirittura con le musiche di sottofondo, come vedremo in seguito. Questa è la vera nota dolente, perché sarebbe bastato davvero poco a rendere il tutto un po’ più intrigante e memorabile. A questa campagna se ne aggiunge una “mini”, un prequel che racconta la storia dei Marauder, popolo che ha deciso di rendersi indipendente dalla comunità marziana e che risulta interessante solo per il diverso equipaggiamento a disposizione.
A completare l’offerta interviene la massiccia dose di multiplayer, con sette modalità diverse e tutte all’insegna della distruzione. A dir la verità trovare una partita a disposizione non è facile, forse a dimostrazione del fatto che le vendite non stiano andando poi così bene.

Wolverine!

L’ambiente di gioco, suddiviso in sei settori, è teatro delle nostre battaglie e distruzioni. Tutto il gameplay fa perno sull’essere “caciaroni” e il passaggio alla terza persona (avvenuto appunto con Guerrilla) non fa altro che esaltare il tutto. Diversi sono gli incarichi che, una volta completati e raggiunto l’azzeramento delle forze EDF, permetteranno di conquistare l’intera zona e liberare quindi il popolo marziano dalla tirannia. Questo è in sostanza il da farsi, suddiviso tra incarichi primari e secondari abbastanza vari per natura ma tutti tendenti alla ripetitività: ogni settore, infatti, verrà liberato con quasi le stesse modalità e, salvo la parte finale, in cui accade qualcosa di realmente nuovo, tutto è all’insegna della “imperfezione di Matrix” (déja vù). Un minimo di varietà è regalato solo dagli incarichi principali, anche se inficiati da una cattiva e imprecisa gestione dei checkpoint che, a volte, vi costringerà a rifare un’intera missione da zero nonostante cambino alcune modalità d’azione. Gli incarichi secondari invece si suddividono in una manciata di missioni che vanno dalla guerriglia per conquistare determinati avamposti alla distruzione caotica senza fare domande. Capiterà inoltre di trovarci di fronte a incarichi random come la difesa dei rifugi o catturare dei traditori. Insomma, siamo di fronte a un titolo che propone tante ore di gioco ma anche divertimento se approcciato col giusto spirito. Ovviamente non poteva mancare il gunplay, arricchito da numerose bocche da fuoco e diversificate per natura e potenza. Rimanere a corto di munizioni non è difficile, per cui sarà importante raccogliere armi e proiettili dai nemici sconfitti. L’intelligenza artificiale è su livelli standard e fa specie pensare che dal 2009 sia cambiato poco su questo fronte: i nemici cercheranno di aggirarvi per mettervi in difficoltà mentre, i vostri compagni, non saranno che carne da macello. Mal che vada c’è sempre il nostro martello ad accompagnarci: come dei novelli Thor, potremmo colpire con brutalità i nostri avversari ma soprattutto distruggere interi edifici. La distruzione è dunque un punto cardine e può avvenire in diversi modi, sfruttando appunto il martello ma anche esplosivi, disgregatori e, perché no, auto.
Red Faction: Guerrilla è anche un open world e spostarsi da un luogo all’altro può divenire tedioso senza un mezzo a disposizione, tutti con un modello di guida basilare ma abbastanza diversificato. È possibile prendere possesso anche di mezzi EDF come enormi carri armati o Exo-Suit militari o da lavoro. Questi mezzi regalano forse i momenti migliori, scatenando un putiferio GTA-style in grado di regalare grosse soddisfazioni.
Per essere un titolo del 2009 dunque riesce a intrattenere, ma dal punto di vista strettamente ludico sente il peso degli anni, un po’ come nel comparto tecnico.

Rosso ruggine

Questa remastered ha apportato diversi miglioramenti ma, nonostante ciò, gli anni passati dall’uscita del titolo originale si sentono, eccome. Il gioco adesso supporta il 4K ma già a 1080p si notano tutti gli upgrade, a cominciare da un framerate molto stabile con texture più definite e un aumento dei poligoni su diversi elementi. Se a un primo colpo d’occhio le differenze posso risultare minori, basta guardare i dettagli per capire come l’impianto luci sia stato potenziato, restituendo ambienti più credibili e ombre più realistiche in tutte le condizioni, essendo presente anche un ciclo giorno-notte. È un peccato che dal punto di vista artistico non si sia fatto di più: nonostante la maggiore distanza dal Sole e due piccole lune (Phobos e Deimos), Marte sembra fin troppo simile alla Terra, ma rossa. Stessa questione si può aprire per la gravità (0,4 rispetto quella terrestre), elemento non considerato e forse troppo complesso da replicare. Va bene la terraformazione, ma la massa del pianeta rimane comunque invariata…
Tutto è comunque incorniciato da filtri migliori e soprattutto da un’occlusione ambientale più precisa che cambia visibilmente la visione degli interni. Ma la particolarità tecnica di Guerrilla risiede nel suo motore fisico, innovativo e capace di restituire ottimi feedback. Il GeoMod 2.0 garantisce la massima distruttibilità ambientale, non solo dei vari edifici ma anche di vetture, piccole strutture e oggetti.
Come si comprende, dunque, si tratta di una “rimasterizzazione”, e quindi di un miglioramento di tutti gli aspetti tecnici del titolo. Fa specie dunque poter osservare alcuni glitch e bug dovuti essenzialmente alla fisica ma anche all’intelligenza artificiale, per non parlare dell’eccessivo pop-up degli elementi in lontananza. Sono difetti che in questo processo pesano molto di più.
Concludiamo con il comparto sonoro, abbastanza nella media e purtroppo non implementato in questa versione. Il doppiaggio, completamente in italiano tranne l’episodio sui Marauder, risulta di buon livello, anche se si nota un certo riciclo di voci dei vari NPC. Le musiche invece spaziano dall’anonimo all’interessante, e in questo range c’è spazio anche per alcune chicche precedentemente accennate come temi epici che richiamano la grande Rivoluzione d’Ottobre, ma purtroppo l’audio rimane un aspetto poco sfruttato. Come detto, il paragone con la Rivoluzione Russa poteva elevare questo titolo rispetto alla mediocrità generale ma forse questo va rinviato a un futuro capitolo.

In conclusione

Riprendere dopo quasi dieci anni Red Faction: Guerrilla nella sua versione rimasterizzata è stata una buona occasione per accorgerci di quanto sia cambiato il mondo videoludico, non solo nell’aspetto tecnico ma anche nella gestione di alcune meccaniche o incarichi secondari e non. Nonostante questo però, Guerrilla rimane un titolo interessante per chi ama passare le ore a distruggere qualunque cosa venga in mente in attesa, forse, di un futuro capitolo alla quale THQ starà probabilmente pensando.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




Nei giochi PS plus di settembre c’è lo zampino di Bungie

Settembre è ormai alle porte e Sony ha deciso di concludere la stagione estiva dei titoli del PlayStation Plus con due  grandi giochi: Destiny 2 e God of War III Remastered.
Proprio lo stesso giorno dell’uscita della terza espansione, I Rinnegati, di Destiny 2, Sony ha deciso di renderlo disponibile gratuitamente agli abbonati al suo servizio, permettendo a tutti di poter provare con mano il nuovo FPS di casa Bungie, unico titolo del lotto già disponibile per il download.
Mentre God of War III Remastered può essere una buona occasione per recuperare il terzo capitolo della saga, prima di giocare il recente God of War.
Il mese scorso, invece, i titoli di punta scaricabili erano Mafia III e Dead by Daylight, che sono tuttora scaricabili gratuitamente.
Nel mese di settembre tutti gli utenti abbonati potranno giocare i seguenti titoli:

  • Destiny 2 (PS4)
  • God of War III Remastered (PS4)
  • Another World – 20th Anniversary Edition (PS4, PS3 e PS Vita)
  • Q.U.B.E. Director’s Cut (PS4 e PS3)
  • Foul Play (PS4 e PS Vita)
  • Sparkle 2 (PS Vita)
  • Here They Lie (PSVR)
  • Sapere è Potere (PS4)

I giochi per il PlayStation Plus saranno disponibili al prossimo aggiornamento settimanale, martedì 4 settembre.




Omensight

Quanto sarebbe bello poter viaggiare indietro nel tempo ed evitare la fine del mondo? I ragazzi di Spearhead Games, già creatori di Stories: The Path of Destinies, hanno deciso di regalarci questa fantastica opportunità con Omensight.
Pubblicato il 15 maggio 2018 su PS4 e Steam, Omensight si presenta come un  Action RPG con visuale dall’alto in terza persona e meccaniche da hack ‘n slash.
Il protagonista è un guerriero mistico, che si presenta solo quando la sua terra è in pericolo: l’Araldo, ultima speranza per il pianeta.

In un mondo lacerato da una sanguinosa guerra tra razze (le colonie di roditori, Rodentias e il clan degli Orsi vs le tribù di uccelli, chiamati Pygarians), l’Araldo ha il compito di proteggere la terra di Urralia dalla distruzione causata da un dio oscuro chiamato Voden, un mostro a forma di serpente, l’incarnazione del Vuoto. L’Araldo non dovrà solamente sconfiggere la malvagia divinità, ma il suo scopo principale sarà quello di salvare Vera, la Sacerdotessa senza-dio, che è stata assassinata prima degli avvenimenti raccontati in Omensight, liberando Voden. Per sfuggire all’apocalisse, il guerriero mistico dovrà indagare sulla sua morte, cercando in tutti i modi di far ritornare l’anima della sacerdotessa all’albero della vita.
Per riuscire nell’intento, l’Araldo ha la possibilità di viaggiare nel tempo e di rivivere gli ultimi istanti di vita di Urralia. Durante la sua indagine dovrà apparire d’innanzi a tre diversi personaggi: Ludomir, guerriero alleato dei roditori, Draga,  capo delle forze di Pygarian, e Ratika, comandante delle truppe rodentiane.
Queste tre entità aiuteranno il protagonista a comprende l’accaduto e scoprire i più bui misteri che Urralia cela dentro le sue mura.
La storia di Omensight ha una durata di circa 7/8 ore, ci permetterà di visitare più e più volte uno stesso scenario per scoprire nuovi passaggi segreti, aprire nuove porte o imparare qualcosa in più sulla lore, che è davvero ben studiata. Ma non vi preoccupate, le ambientazioni non risulteranno ripetitive o ridondanti, gli sviluppatori hanno cercato di differenziare ogni stage, anche se la somiglianza tra un posto e l’altro si nota parecchio.

Omensight, in quanto RPG con elementi hack-and-slash, dovrà essere giocato con un controller; mouse e tastiera sono supportati, ma per riuscire a giocare e godersi l’avventura al 100% il pad è una scelta obbligatoria.
Il gameplay non è per niente impegnativo o difficile, anzi, gli scontri sono parecchio semplici all’inizio, molte volte i nemici non ci sfioreranno neanche, ma nel proseguimento dell’avventura gli avversari saranno molto più agguerriti e numerosi, scaglieranno contro l’Araldo e i suoi alleati magie e incantesimi che se non schivati in tempo provocheranno un ingente danno.
Le mosse principali a disposizione del protagonista sono due: un attacco leggero e uno pesante; come in tutti i GDR, alcune delle abilità verranno sbloccate con l’acquisizione di esperienza e quindi con l’aumento del livello, che è strutturato in maniera esaustiva e semplice; una delle abilità più utili e sicuramente la più forte è quella di rallentare il tempo per i nemici circostanti, in modo da poter colpirli ripetutamente senza subire danni. Anche i vari potenziamenti sono acquistabili tramite la valuta in-game, aumentare le statistiche di attacco della spada, dell’elmo o diminuire il tempo di caricamento delle abilità, inoltre si potrà utilizzare anche una combo insieme al nostro compagno.
La principale meccanica è quella investigativa, ma purtroppo non risulta curata al meglio: tutti gli enigmi e i misteri si scopriranno semplicemente completando le giornate insieme ai tre personaggi, nulla di più. La storia è raccontata in maniera lineare, ma risulta abbastanza intuitiva e divertente.

Il comparto grafico è piacevole, non ci sono scenari appariscenti o zeppi di dettagli, i colori utilizzati molto accesi e le texture rendono il mondo di gioco molto cartoonesco e colorato, una decisione ideale per un titolo del genere. Anche la scelta dei modelli dei personaggi è parecchio azzeccata: si utilizzano animali e questo dona al gioco un’aria fiabesca.
Anche il comparto sonoro non eccelle, riesce ad accompagnarci durante tutta l’avventura in maniera sempre sufficiente. Al contrario, il doppiaggio (lingua inglese con sottotitoli in italiano), che riesce a mettere un pizzico di enfasi al tutto, risultando abbastanza gradevole da ascoltare. Leggere i sottotitoli mentre si gioca non è affatto semplice, soprattutto se sono importanti per comprendere bene la storia; in molte occasioni mi sono ritrovato a dovermi fermare qualche secondo per poterli leggere, per evitare di cadere nei burroni o di entrare, involontariamente, in battaglia.
Oltre a questo “piccolo” problema ho riscontrato anche alcuni bug, tra cui uno che mi ha costretto a riavviare la missione, perché il personaggio si era incastrato tra due barili – non chiedetemi come ci sono arrivato –, e alcuni fastidiosi lag durante i caricamenti del tabellone di gioco.
In conclusione, Omensight è un titolo poco più che sufficiente, con una storia, un gameplay e una grafica di buona fattura, ma non eccellente. Si poteva fare di più, il titolo è promettente, il gameplay è ben studiato, anche se abbastanza semplice e facile, la storia è d’effetto e la grafica non è niente male. Per quello che offre, essendo un gioco indie, può valere la pena provarlo, grazie anche a un prezzo accessibile (circa 15€ su Steam).




Life is Strange 2: tutti i dettagli

Non è semplice sviluppare un gioco che possa legare emotivamente giocatore e protagonista, ma Dontnod ce l’ha fatta. Con Life is Strange ha creato un mondo del tutto nuovo, con personaggi comuni sotto alcuni punti di vista, ma unici nel complesso.
Già dal primo episodio, pubblicato il 30 gennaio 2015, la critica e soprattutto i giocatori, di tutte le età, hanno elogiato il titolo, tanto da permettere a Square Enix di pubblicare altri due giochi: Life is Strange: Before The Storm e, un solo episodio di The Awesome Adventures of Captain Spirit, un assaggio di quel ci aspetterà in Life is Strange 2. Proprio quest’ultimo è stato il protagonista di un trailer e un video gameplay pubblicato prima dell’apertura al pubblico di una delle fiere più importanti d’Europa: la Gamescom di Colonia.
Dontnod ha, sin dal primo capitolo della saga, creato e sviluppato dei personaggi semplici, con vite comuni, dei soggetti mai stereotipati, in modo che ogni giocatore, indipendentemente dall’età, possa immergersi, possa identificarsi in uno dei personaggi. I problemi che affliggono i protagonisti sono di vita quotidiana nell’adolescenza: amori non corrisposti, litigi e incomprensioni con i genitori, amicizie che finiscono e altre che cominciano, bullismo, droga e molto altro. Dontnod, con Chloe e Max è riuscita a fare tutto ciò: due ragazzine che si affacciano al mondo “adulto”, due semplici adolescenti, che con la loro naturalezza hanno stregato milioni di giocatori. Questa volta, però, i protagonisti saranno due ragazzi e la storia sarà ambientata non più ad Arcadia Bay, ma a Seattle.
D’ora in poi ci saranno possibili spoiler su tutti i capitoli di Life is Strange, quindi se non li aveste ancora giocati vi invitiamo a non proseguire.

Three Years Later

Life is Strange 2 ambienta la propria storia dopo appena tre anni dai fatti accaduti ad Arcadia Bay, – guarda caso è proprio tre anni fa che uscì il primo capitolo – all’incirca tra ottobre e novembre 2016 o 2017, Max e Chloe non sono più le protagoniste lasciando il posto a due ragazzi: Sean e Daniel Diaz.
Sean (il fratello maggiore) tornato a casa da scuola, comincia a prepararsi a dovere per una festa che si terrà la sera stessa, a cui parteciperà anche la ragazza per cui ha una cotta. Sean, eccitato per il party non vuole farsi trovare impreparato se la situazione dovesse diventare più “intima”, decide quindi di recuperare gli occorrenti per passare una serata indimenticabile: bibite alcoliche, snack, patatine e ovviamente dei preservativi.
Proprio in questa sequenza di gameplay si può notare che non è cambiato molto da quello già visto in Captain Spirit. Gli oggetti con cui interagire sono parecchi e ognuno racconterà, proprio come nella demo sopracitata, il passato di ogni componente della famiglia, composta dal padre Esteban, il fratello minore Daniel, che ha nove anni e Sean, che ne ha 16; la madre non è presente, non si sa ancora bene il perché, ma si nomina durante il video gameplay.
Un’altra funzione presente nella demo sono anche i dialoghi off-screen o a tempo, che ci permetteranno di rispondere o meno a una domanda, ma qualsiasi sia la scelta avrà delle conseguenze, anche non rispondere.

Mentre Sean è alle prese con una videochiamata su Skype con la sua migliore amica Lyla, per organizzarsi al meglio in vista della serata, sente il fratello minore che sta avendo uno scontro verbale con un ragazzo molto più grande di lui. Subito Sean va a calmare la situazione, ma succede tutto il contrario: i due cominciano a picchiarsi, fino a che il ragazzo cade a terra e sbatte contro un sasso, cominciando ad avere problemi respiratori. Proprio in quell’istante una volante della polizia stava passando di lì, vede il corpo ricoperto di sangue finto, che il fratello minore gli aveva spruzzato addosso per sbaglio, il poliziotto, sceso dall’auto e confuso dalla situazione estrae l’arma e la punta sui due ragazzini. Il padre Esteban, uscito a vedere cosa stava succedendo, fa andare nel panico l’agente che spara un colpo, ferendo mortalmente il padre dei due fratelli. Sean, adirato e allo stesso tempo con la mente offuscata dalla tanta confusione comincia a gridare, emettendo un’onda d’urto che scaraventa il poliziotto e la sua vettura dall’altra parte della strada e distrugge quasi del tutto una parte di vicinato. Qui inizia l’avventura dei due fratelli, che devono fuggire dalla polizia e ritornare nella loro terra Natale: il Messico.
Questo incipit è molto forte, soprattutto per il periodo storico che stiamo vivendo (il caso di Trump e il Messico è un esempio). Una famiglia di diversa etnia, che è alle prese con il razzismo e i pregiudizi della società contemporanea. Un tema che non si distacca da quelli trattati nei precedenti capitoli, sono sempre attuali, ma mai stereotipati e soprattutto sono situazioni in cui molti potranno immedesimarsi.

Lo stesso Life is Strange, ma diverso

Life is Strange 2 non cambia radicalmente il gameplay o il tipo di narrazione, ma lo modella alla situazione, senza bistrattarlo. I dialoghi sono molto semplici, ma profondi, pieni di significato, lo stesso si può dire per le OST utilizzate; infatti LiS 2 avrà, sia brani composti da Jonathan Morali, conosciuto per il precedente capitolo, sia brani indie, che daranno più enfasi alle sessioni di gioco. Una delle nuove feature viste durante questo gameplay è la possibilità, probabilmente del tutto randomica, che Sean riesca a canticchiare una canzone che passa alla radio o nel suo mp3, una caratteristica davvero apprezzata, donando al gioco un ché di verosimile.
Se Max riusciva a manipolare il tempo, anche in Life is Strange 2 ci sarà un superpotere: quello della telecinesi. A possederlo è Sean, il protagonista di quest’avventura, potere che ha sfruttato quando hanno sparato al padre e, per chi abbia giocato Le Fantastiche Avventure di Captain Spirit, anche per salvare Chris dalla caduta.
La telecinesi potrebbe servire ai due per procurarsi cibo o per salvarsi da situazioni difficili, ma è un potere che bisognerà utilizzare con moderazione, «Da grandi poteri derivano grandi responsabilità». Il nostro compito principale, infatti, è quello di proteggere ed educare il nostro fratellino, quindi ogni scelta cambierà il corso della storia, ma anche i sentimenti o le decisioni degli altri personaggi.
Dontnod ha sicuramente fatto un ottimo lavoro con il primo capitolo e anche questo sembra molto promettente, già solo dai pochi minuti di gameplay. Per saperne di più dovremo aspettare il prossimo 27 settembre, giorno in cui uscirà il primo episodio dei cinque previsti, per PS4, Xbox One e PC.




Gamescom 2018: Biomutant si mostra in una demo

Biomutant, un particolare action/RPG multipiattaforma, è stato mostrato con un primo gameplay nella versione dimostrativa. Di proprietà di THQ Nordic e sviluppato da Experiment 101, Biomutant ci catapulterà in un mondo distopico, in chiave post-apocalittica, popolato da bizarre creature, una delle quali, sarà proprio il nostro personaggio. Il gioco offre uno stupendo motore di editing del nostro alter ego che sarà in grado di offrire una vastissima quantità di personalizzazioni, grazie ai parametri per poterne variare la genetica a piacimento.

In questo universo immaginario di gioco, ci ritroveremo molto spesso a combattere contro numerosi nemici e il fighting system mostrato in demo sembra molto scorrevole e vario.

La data precisa dell’ uscita del gioco è ancora un’incognita, ma salvo ulteriori ritardi, dovrebbe attestarsi intorno l’estate 2019.




La prima volta di Yoshida su God of War

L’ultima fatica di Santa Monica Studio non ha certo bisogno di presentazioni: sfondata la soglia delle 5 milioni di unità vendute in un mese, acclamato da critica e pubblico, per molti potrebbe persino essere uno dei giochi migliori di questo decennio; insomma, quei  cinque lunghi anni di sviluppo sono davvero valsi la candela.
Anni che però non sono stati tutti rose e fiori: quando si stava ancora lavorando a una prima versione funzionante, ha raccontato Cory Barlog (creative director del gioco) durante il Devcom di Colonia, il team di sviluppo stava costruendo l’engine e gli strumenti di base, le meccaniche, i livelli, tutto contemporaneamente, e il risultato non stava piacendo né a lui, né a loro. Durante una sessione di testing uno dei partecipanti minacciò persino di abbandonare il progetto, perché a detta sua si stava rovinando il personaggio di Kratos. Una reazione simile, stavolta da parte del pubblico, si ebbe durante l’E3 del 2016, quando quel trailer lasciò dubbiosi molti fan della serie riguardo a cosa l’ormai ex dio della guerra stesse diventando.

Nemmeno il presidente di Sony Interactive Entertainment Worldwide Studios Shuhei Yoshida rimase soddisfatto da ciò che vide, quando per la prima volta provò il gioco. Da quando prese il controller in mano a quando andò via dalla stanza non proferì parola, ma da come scuoteva la testa e alzava le spalle, era evidente che ciò che vedeva non gli stava piacendo. Il suo giudizio fu noto solo qualche giorno dopo, mentre parlava con un amico di Barlog.

«Oh, stai lavorando a God Of War? Devo proprio dirlo, ci ho giocato l’altro giorno. Ero inorridito»

Il tutto accadde a soli sei mesi dal rilascio, e forse fu proprio questa reazione e il relativamente poco tempo rimasto a dare a Cory, e sopratutto al team, la spinta giusta per sistemare tutto quel che non andava bene, come il sistema di combattimento e i problemi di framerate. Yoshida avrebbe provato il gioco una seconda volta, e non potevano permettersi di fallire. Com’è facile immaginare, Santa Monica riuscì nell’impresa, e quando fu il momento per un’altra sessione di prova, la reazione del presidente fu l’esatto opposto di quella precedente. Lo stesso accadde quel 20 aprile 2018, quando il gioco arrivò sugli scaffali, e fu subito un successo clamoroso.
Ma molti sono stati i titoli che inizialmente non hanno riscosso quel successo che oggi pare scontato. Basti pensare a Dark Souls e Demon’s Souls, inizialmente criticati per il particolare sistema di narrazione e per il loro essere “hardcore”, poi diventati tra massimi esponenti del genere. Ma più recentemente un’altra esclusiva Sony è entrata in scena circondata da dubbi: Gran Turismo Sport, la cui mancanza del single player e la tanto discussa fisica su strada fecero storcere il naso a molti giocatori; il tutto si risolse con l’aggiunta della modalità carriera. Fatto quasi analogo fu quello di Street Fighter V, che inizialmente non comprendeva la modalità arcade, aggiunta mesi dopo. In questi ultimi due casi, l’opinione pubblica è cambiata grazie agli aggiornamenti avvenuti dopo il lancio.
A conti fatti dunque, non si dovrebbe giudicare un videogioco appena si hanno le prime informazioni a riguardo o dopo le primissime partite. Tutto parte dalle case produttrici e da determinate scelte che fanno per i loro prodotti, decise in base a cosa si pensa possa piacere ai più, che possono essere azzeccate o sbagliate; sono gli utenti con il loro feedback che lo sanciscono. A seconda della risposta, quella scelta criticata o ben voluta può essere a sua volta migliorata, stravolta o rimossa, finché non si passa al prossimo gioco da produrre: è un loop che sembra infinito, in continua evoluzione.