Cambiamenti in vista per Rainbow: Six Siege

Ubisoft si prepara a rilasciare sul territorio asiatico Rainbow: Six Siege e, ovviamente, i nuovi territori comportano nuove regole da rispettare. L’azienda ha annunciato cambiamenti estetici al prodotto, pur mantenendo una propria identità visiva, per non impegnare un solo team su due giochi “diversi”; quindi nessuna modifica al gameplay di base ma soltanto la rimozione di teschi, riferimenti sessualmente espliciti o al gioco d’azzardo e la rimozione del sangue dagli ambienti di gioco, in conformità con i regolamenti di alcuni paesi. Alcune icone verranno infine sostituite, come ad esempio quella della mischia, che passa dal pugnale al pugno.




Deltarune: uno sviluppo difficile

Proprio il 31 ottobre, il giorno di Halloween, Toby Fox, il padre di Undertale, ha deciso di omaggiare tutti i fan del suo gioco pubblicando una demo completamente gratuita di un progetto a cui sta lavorando, ma ancora non completato: Deltarune.
Deltarune sarà un possibile prequel del famoso Undertale, ma lo sviluppo sta risultando molto più pesante e difficile. Toby Fox, infatti, ha dichiarato che sta lavorando al nuovo titolo, ma per poterlo completare ha bisogno di una vera e propria squadra di sviluppatori, capaci di aiutarlo nei vari compiti. Con Undertale, in parte, è riuscito a fare tutto da solo, ma adesso il lavoro per Deltarune sarà più complicato, visto l’aggiornamento di grafica, stile e meccaniche di combattimento e soprattutto della costruzione degli ambienti all’interno del gioco.
Questa volta Toby Fox non vuole utilizzare Kickstarter per finanziare la sua nuova creazione e, visto che ancora non ha messo su una squadra per l’arduo compito, ha anche dichiarato che non sa quando possa essere completato e quando verrà pubblicato; quindi non ci rimane che attendere altri aggiornamenti sull’avanzamento del lavoro.




Firewall Zero Hour

Firewall Zero Hour

Firewall Zero Hour, il nuovo titolo per Playstation VR sviluppato dalla software house First Contact Entertainment, si candida ad essere il primo vero FPS tattico in realtà virtuale. Il gioco, completamente in italiano sia nei testi che nel parlato, è destinato soltanto a un pubblico che abbia già compiuto 16 anni.
È indispensabile la presenza di un visore PSVR per utilizzarlo, mentre è opzionale l’utilizzo dell’AIM Controller che, a scapito del realismo e dell’efficienza di tracciamento dei movimenti, può essere sostituito dal classico Dualshock controller della Playstation, a differenza del  Playstation Move che non è supportato.
Il titolo che abbiamo per le mani è immediatamente entusiasmante, si viene subito colpiti dalla perfezione grafica, dalla ricchezza di dettagli e dal realismo immersivo. Sfortunatamente, un paio di dettagli non da poco fanno scendere la valutazione globale e, se non fosse per queste piccole pecche, il gioco avrebbe tranquillamente potuto ambire ad un 10 pieno.

Firewall Zero Hour

La storia

La First Contact Entertainment ha fatto davvero pochi sforzi nel creare una storia completa e coinvolgente, puntando invece tutto su qualità grafica ed efficienza tecnica del gioco. Infatti è proprio la storia a essere uno degli unici due punti dolenti, di questo titolo. Impersoneremo un mercenario, che sceglieremo tra una selezione di 12 soldati provenienti da altrettanti Stati, che avrà come unico obiettivo quello di completare il contratto che gli è stato assegnato in cambio di una remunerazione in criptovaluta.
I contratti, che si svolgeranno in nove diverse ambientazioni equamente distribuite in tre Stati, si distinguono in soltanto due categorie, quelli da attaccante e quelli da difensore.
Nella prima tipologia di contratti, dovremo raggiungere uno dei firewall presenti disattivarlo, quindi localizzare e raggiungere un computer portatile. A questo punto saremo costretti a restare nel raggio di un paio di metri dal computer per proteggere la connessione stabilita, fintanto che il nostro centro di comando e controllo, non riuscirà ad hackerare il laptop e completerà la sottrazione dei dati presenti. Terminato il download dei dati, verremo immediatamente pagati in Crypto e si concluderà così la missione. Tralasciando completamente la classica fase di “estrazione in gergo militare, in altre parole quando cerchiamo di uscire vivi dal campo di battaglia.
Nella seconda tipologia di contratto, cioè quella da difensore, dovremo invece impedire agli attaccanti, a suon di proiettili e di mine di prossimità, di raggiungere il laptop e quindi di sottrarre i dati contenuti, per un periodo di tempo limitato.
Alla fine di ogni contratto riceveremo una valutazione e delle ricompense, che saranno più sostanziose se completeremo la missione con successo, e con esse potremo poi acquistare upgrade per le armi e nuove dotazioni.

Tecnicamente, quasi perfetto

La First Contact Entertainment con Firewall Zero Hour fa scuola e mostra come, con un oculato lavoro di programmazione, si possano raggiungere livelli graficamente eccellenti anche con il Playstation VR, smentendo in tal senso i detrattori del device Sony.
La prima vera emozione si prova già nel tutorial, che non sarebbe niente di eccezionale se non fosse per la grafica che ci stupisce e coinvolge immediatamente. Prima ancora di iniziare a seguire le istruzioni, ci guardiamo in giro e, appena volgiamo lo sguardo al nostro abbigliamento, quasi sobbalziamo per la meraviglia, data la ricchezza di dettagli della nostra mimetica e dei vari accessori equipaggiati. Le texture sono belle da far paura, le luci, i riflessi e le ombre sono estremamente realistiche, anche qui un lavoro assolutamente degno di lode. Le animazioni fluide e armoniose ci coinvolgono sempre più in un mondo che stentiamo a non credere reale.
La fisica del gioco è ben studiata e assolutamente testata a dovere. Tutto funziona egregiamente, non mostrando alcuna pecca anche nei classici punti deboli, come le varie collisioni con muri, porte e oggetti, tutto calcolato alla perfezione.
Risulta evidente come un gran lavoro di beta testing sia stato fatto per portare il titolo ad un livello tecnico al top.
L’audio tridimensionale è assolutamente realistico, coinvolgente e persino indispensabile per giocare in maniera efficace. Infatti grazie al rumore dei passi dei soldati nemici potremo identificare un pericolo in arrivo o all’udire di spari in una certa direzione potremo sviluppare la nostra strategia d’attacco.
Il doppiaggio (in italiano) è naturale e ben realizzato, si alternano voci femminili a voci maschili che ci daranno le poche istruzioni necessarie allo svolgimento del contratto.
Il sistema di controllo, sfrutta l’ormai brevettata tecnica della rotazione a scatti, che riesce a eliminare completamente i pericoli legati al motion sickness sempre in agguato sui titoli VR. Tutti i movimenti del nostro mercenario sono fluidi e naturali, anche i comandi sono posizionati alla perfezione sia sul Dual Shock che sull’AIM Controller, rendendo estremamente immediato e naturale il controllo del personaggio. L’unico piccolo appunto relativo ai movimenti è la velocità della corsa, che rassomiglia piuttosto ad una camminata sostenuta e nelle situazioni più concitate, come ad esempio in un imboscata dovrebbe assolutamente essere ad un livello più elevato.

Il dispositivo di controllo per godere a pieno di Firewall Zero Hour è certamente l’AIM Controller che durante il gioco viene tracciato alla perfezione, senza la necessità di dover mai fare quelle manovre di scuotimento per riallinearlo, a cui altri titoli per PS VR ci avevano abituato. Il Dual Shock, seppur comportandosi bene come device di movimento del personaggio, non sempre viene tracciato altrettanto bene, costringendoci quindi a un riallineamento ogni tanto e sopratutto facendo perdere quella sensazione realistica di tenere una vera arma in mano.

Firewall Zero Hour

Le modalità di gioco sono estremamente limitate, escludendo la modalità di Addestramento, l’unica opzione rimanente è quella chiamata Contratti.
Nella fase di addestramento potremo far pratica con le varie armi, gli scenari e i tipi di missione, iniziando in single player, contro dei bot dalla limitata intelligenza artificiale che ben presto riusciremo a sottomettere, individuandone i punti deboli e la prevedibilità. Infatti tenderanno a farci agguati in gruppetti di tre o quattro provenendo da più direzioni, restando per lo più privi di copertura, puntando tutto sull’effetto sorpresa. Il radar da polso ci mostrerà i movimenti dei soldati nemici quando saranno a pochi metri da noi, semplificandoci così il nostro sporco lavoro da spietato mercenario. Qualche proiettile ben piazzato grazie alla perfetta mira del nostro fucile ci libererà velocemente degli incursori. I caricatori a disposizione sono limitati,  vanno quindi utilizzati con dovizia e parsimonia e, sebbene sia possibile trovare delle valigette contenenti dei colpi extra, questa ricerca ci costringerà a deviare dal nostro piano d’attacco e ci esporrà ad imboscate nemiche.
Il vero cuore del gioco è la modalità Contratti, che ci catapulterà in realistici scontri a fuoco, mixando tattiche d’aggressione, coordinamento tra i compagni dello sparuto plotone, espedienti d’astuzia e momenti di pura azione, come nemmeno nei migliori film hollywoodiani si sia mai visto. La presenza, quindi, di un buon impianto di cuffie e microfono è fondamentale per comunicare con i compagni e coordinare gli attacchi, sebbene sia anche possibile giocare utilizzando il microfono della Playstation Camera e l’audio proveniente dalla TV.
L’approccio strategico di questo FPS si respira sin dalla fase di preparazione alla missione, scegliendo i mercenari più adatti e i giusti armamenti avremo un sicuro vantaggio tattico.

Firewall Zero Hour

Non è tutto piombo quel che luccica

Il più grosso difetto di questo titolo è legato alle interminabili attese nella fase di formazione delle squadre delle partite multi-player, i Contratti. Ci si trova nella stanza ad attendere per decine di minuti che si formino entrambe le squadre vedendo apparire i nostri potenziali compagni, che dopo qualche minuto di infruttuosa attesa abbandonano, rendendo così ancor più difficile raggiungere l’inizio di un match. A rendere ancora più frustrante il difetto è il fatto che una volta raggiunto il numero di 8 giocatori, 4 per squadra, la partita si concluda con un unica missione, che spesso dura anche pochi secondi o nel migliore dei casi qualche minuto.
Per ovviare a questo problema, sarebbero stati sufficienti due piccolissimi accorgimenti rendendo l’attesa molto meno noiosa e frustrante. Sarebbe bastato aggiungere un semplice poligono di tiro nelle stanza d’attesa e fare delle partite da 3 o meglio 5 round.




Fear the Wolves: un battle royale, un perché

Le mode sono una brutta bestia: da quando il genere battle royale ha cominciato la scalata verso il successo, sembra essere l’unica caratteristica che possa spingere un progetto verso sogni di gloria. Inutile raccontare della diffusione di Fortnite o Playerunknown’s Battlegrounds, o di come persino Electronic Arts e Activision siano sottostate alle spietate leggi di mercato, inserendo questa modalità – forse in ritardo – negli imminenti Battlefied V e Call of Duty: Black Ops IIII ma una cosa possiamo dirla: anche i titoli più acclamati non vantano elementi qualitativamente eccelsi; sì, qualche idea di fondo è interessante ma diciamoci la verità: tutto ruota intorno al marketing, spietato e anche “manipolatore”, capace di portare il pubblico da una sponda all’altra in men che non si dica. E gli altri? Si, ci sono altri battle royale e Fear the Wolves è uno di questi, ancora in early access ma che, senza dilungarci tanto, probabilmente è già morto.

C’è nessuno in casa?

Partendo dalla personalizzazione del proprio avatar, con la possibilità di acquistare pacchetti con moneta in game (almeno per ora), i problemi cominciano già dal matchmaking, capace già di segnalare la qualità dell’infrastruttura online ma soprattutto del traffico, ovvero il numero di giocatori presenti sul server desideroso di darsi battaglia. Quando venne annunciato l’early access, lo stato di salute di Fear the Wolves era già preoccupante visto che normalmente la community, solitamente senza freni inibitori, invade l’internet con commenti, immagini, hype e tanto altro ancora ma, per sfortuna di Vostok Games, tutto sembra essere caduto nell’anonimato, facendo sorgere un’annosa domanda se sia meglio in questi casi l’insulto o l’indifferenza.
Nonostante l’influenza di S.T.A.L.K.E.R. si faccia sentire, l’anonimato è il punto dolente del titolo: l’obbiettivo dei 100 giocatori è praticamente impossibile da raggiungere arrivando alla quindicina – se tutto va bene – dopo aver aspettato anche decine di minuti la creazione di una partita. È già chiaro che non si comincia con buoni presupposti.

E quindi?

E quindi si arriva alla partita, paracadutati su una mappa che propone una Chernobyl distrutta dalle radiazioni. Comincia dunque la corsa agli armamenti, per nulla faticosa, visto le tanti abitazioni presenti, insediamenti industriali e così via. La mappa dunque è molto vasta e al suo interno possiamo scovare un paio di differenze quantomeno interessanti: oltre allo scontro con altri giocatori potremmo aver a che fare anche con entità guidate da intelligenza artificiale, dei mostri generati dall’avvelenata terra ucraina. L’aggiunta di meccaniche PvE all’interno di un battle royale è effettivamente una difficoltà in più in quanto gestire le già risicate risorse a nostra disposizione risulterà più difficoltoso. Possiamo dunque utilizzare proiettili per difenderci ma creando l’eventualità di rimanere senza colpi durante lo scontro a fuoco con il nemico, oppure darsela a gambe e pregare di non essere seguiti. Ma tecnicamente ci sarebbe una terza via, solo immaginata visto il risicato numero di giocatori: nel caso in cui potessimo avvistare in tempo questi NPC, potremmo sfruttarli a nostro vantaggio, sfruttando la derivata disattenzione del malcapitato nei nostri confronti ed eliminarlo senza problemi. Oltre a questo, intervengono anche alcuni modificatori ambientali, oltre al ciclo giorno/notte: la componente survival, anche se non molto approfondita, ci costringe a star attenti anche alla temperatura e soprattutto alle radiazioni, che possono diventare letali qualora non riuscissimo ad allontanarci in tempo o curarci. Questi modificatori inoltre fungono anche da restrizione territoriale, sostituendo il cerchio di fuoco convergente verso gli ultimi superstiti.
Ma queste differenze sono ben poca cosa quando di giocatori non ce ne sono. Anche il feeling con le armi è pressoché simile alle altre produzioni, fornendo feedback risicati e per nulla soddisfacenti. Per lo meno una volta defunti potremmo divertirci ancora un po’: come per The Darwin Project, gli spettatori possono decidere alcuni cambiamenti da apportare alla mappa, come una violenta variazione meteo in grado di modificare leggermente il gameplay.
Escludendo dunque questi fattori, di Fear the Wolves rimane molto poco, davvero troppo simile alla concorrenza e, con uscita prevista per il 2019, servirà tanto lavoro per rendere questo titolo appetibile. Da non dimenticare anche la pericolosa concorrenza dei top di gamma come Battlefied V e Call of Duty: Black Ops IIII, che con le loro modalità Firestorm e Blackout potrebbero stravolgere il mercato da qui in avanti.

In conclusione

È veramente difficile valutare Fear the Wolves, anche se in versione early access. Almeno finora, il titolo sembra affetto più da problemi che riguarderanno il marketing e chi dovrà lanciarlo sul mercato, non proponendo qualcosa di realmente nuovo. Le poche differenze presenti infatti, non giustificano la migrazione dal vostro battle royale preferito a questo e, se il buongiorno si vede dal mattino, il lavoro di Vostok Games potrebbe arenarsi ben prima di partire. Vedremo come si evolverà la situazione, sperando che questo team sappia convergere i propri sforzi verso un gioco quantomeno autorevole.




Videogiocare è soprattutto imparare

Durante un’intervista rilasciata a GameInformer, il creative chief officer di Ubisoft Serge Hascoet, è sembrato molto emozionato riguardo al futuro del settore videoludico.

«Questa è un’industria fantastica» afferma Hascoet, secondo lui il settore è in un momento di crescita esponenziale, l’anno scorso il VR era una tecnologia da poco, ma adesso sembrerebbe prendere piede ed è fantastico che ci sia l’avanzare di giochi come Fortnite, che portano uno “svecchiamento” delle normali tematiche videoludiche.
Tuttavia, secondo il creative chief officer, al settore manca qualcosa di molto importante: un’anima. Il suo pensiero è che, al momento, non si stia facendo abbastanza per migliorare l’esperienza dei giocatori, visto che molti videogiochi sono basati sull’intrattenimento ma, invece, dovrebbero inoltre far apprendere qualcosa ai giocatori.

Il suo principale “punto di riferimento” sono i giochi da tavolo e i card game, i quali, oltre a divertire, aiutano a comprendere il comportamento umano, stimolando la comprensione degli avversari e quanto siano veritieri i loro comportamenti. Infatti, queste nozioni vengono imparate divertendosi, quindi si dovrebbe cercare un modo di portare questo tipo d’insegnamenti all’interno dei giochi.
«I videogame riguardano il gaming, e il gaming non è solo entertainment: riguarda soprattutto l’apprendimento learning. Quando impari, puoi divertirti. Quando il gioco si ferma all’intrattenimento stiamo dunque perdendo qualcosa. Ragiono sempre col team riguardo i benefit che il giocatore trarrà dal gioco per usarli nella vita reale: allo stato attuale stiamo facendo poco in tal senso. Quel che mi emoziona è invece pensare di fare qualcosa che diverta e al contempo che abbia benefici nella vita reale.»
Hascoet ha continuato dicendo che si dovrebbe puntare alla creazione di giochi con modalità simili a quella introdotta in Assassin’s Creed: Origins, cioè, la modalità Discoverydove gli utenti possono effettuare un “tour” delle creazioni storiche egiziane.
Infine, Hascoet ha affermato che Ubisoft è piena di marchi adatti a formare i più giovani, come Child of Light, Rayman, Mario+Rabbids: Kingdom Battle,  ma sono giochi che non vendono tanto quanto giochi del calibro di AC. Infatti, è per questo motivo che i team di sviluppo della software house tendono a cercare di accettare tendenzialmente più titoli che coinvolgano un audience più adulta.




Kingdom Hearts Final Mix

Sono passati ben 16 lunghi anni dal primo debutto di uno dei videogiochi che ha segnato una generazione intera, che ha fatto sognare bambini e adulti, che li ha fatti innamorare di un universo magico, fantasioso; stiamo parlando di Kingdom Hearts: un RPG sviluppato da Square Soft (che pochi anni dopo avrebbe preso il nome di Square Enix) in collaborazione con Disney.
Il primo capitolo della serie ha avuto un enorme successo in tutto il mondo, vendendo circa 10 milioni di copie, tra cui 2 milioni nel solo suolo europeo.
Da allora sono stati pubblicati in tutto 9 titoli dal 2002 a oggi e il 29 gennaio 2019 arriverà il 10° capitolo che concluderà questa magica e meravigliosa, ma anche intricata, saga.

La nascita di Kingdom Hearts

Chi l’avrebbe mai detto che un titolo come Kingdom Hearts sarebbe nato in un ascensore? L’idea del progetto scaturì da un singolare incontro tra Shinji Hashimoto, attuale capo della Square Enix Business Division 3, e un dirigente della Disney, che, casualmente, lavoravano nello stesso edificio a Tokyo. Hashimoto, vedendo il grande successo che ebbe Super Mario 64, decise, insieme a Hironobu Sakaguchi, creatore della saga di Final Fantasy, di sviluppare un gioco che potesse rivaleggiare il titolo Nintendo. Purtroppo i personaggi di Final Fantasy non potevano prestarsi a un compito del genere, e fu così che si pensò subito al fantastico mondo Disney, e quell’incontro fu cruciale per l’inizio dello sviluppo.
Il compito di guidare il progetto fu assegnato a un certo Tetsuya Nomura e lo sviluppo del gioco partì agli inizi del nuovo millennio: nel febbraio del 2000.
Durante i primi passi del percorso intrapreso da Square Enix, Nomura e il team si dedicarono esclusivamente allo sviluppo del gameplay ma, dopo alcuni richiami, lo stesso Nomura decise di tralasciare temporaneamente le meccaniche di gioco e focalizzarsi su quella che sarebbe stata la perla, un tratto distintivo di Kingdom Hearts: la storia.

This story is not over

Kingdom Hearts è famoso soprattutto per la sua storia, complessa, piena di intrecci e poco chiara, ma allo stesso tempo affascinante, colma di sentimenti, magia e decisamente poco banale.
La storia del primo Kingdom Hearts ha inizio su di un misterioso e sconosciuto arcipelago, chiamato Isole del Destino, in cui vivono i protagonisti: Sora, Riku e Kairi. I tre amici sono stati sempre affascinati dalla possibilità che esistano nuovi mondi oltre al loro, e questa possibilità li ha portati a desiderare fortemente di viaggiare per riuscire a scoprirli tutti; ed è per questo che decidono di costruire una zattera per realizzare il loro sogno.
Durante le giornate passate a preparare il necessario per la partenza accadono degli avvenimenti piuttosto strani: mentre Sora è in cerca degli occorrenti per costruire la zattera, si imbatte in un una losca figura incappucciata, apparsa come per magia sull’isola e in una porta all’interno di una caverna, mai esistita prima d’ora. L’uomo incappucciato rivelerà a Sora che «questo mondo è stato collegato» (una frase molto importante per capire bene l’intera storia di Kingdom Hearts). Proprio la sera stessa della misteriosa apparizione, l’isola viene colpita da una forte tempesta; Sora, Riku e Kairi, in pensiero per l’incolumità della zattera giungono sull’isola, ma il pericolo che li attende è più grave di una semplice tempesta: sopra le loro teste si è materializzato un gigantesco portale di oscurità che pian piano inghiotte l’intera isoletta.
I tre amici, non riuscendo a fronteggiare il nuovo pericolo soccombono alla sua forza distruttiva: Riku, attraversa un portale oscuro e Kairi viene inghiottita dall’oscurità e sparisce nel nulla; Sora, però, riesce a resistere, evocando il Keyblade, una potente arma capace di sconfiggere l’oscurità. Ma la forza del nostro protagonista non è sufficiente, si vede separato dai suoi amici e si ritrova spaesato e intontito nella Città di Mezzo, in cui, casualmente, incontra Paperino e Pippo, che, incaricati da Re Topolino, il quale è scomparso improvvisamente, devono trovare «qualcuno con una “chiave”» in grado di liberare il mondo dalle tenebre. È proprio nella Città di Mezzo che il protagonista si unisce ai due personaggi Disney per andare alla ricerca del Re e i suoi amici, viaggiando e salvando diversi mondi dalla distruzione.
Per riuscire a trovare Re Topolino, Riku, Kairi e i tre amici dovranno sconfiggere tutti i cattivi dell’universo Disney, che intralceranno la nostra missione, capitanati da Malefica, che, grazie all’oscurità, riesce a controllare gli Heartless.
Gli Heartless sono degli esseri composti da pura oscurità; ogni uomo ha, all’interno del proprio cuore, dell’oscurità e, se questa se riesce a consumare completamente la luce, trasforma il malcapitato in un Heartless, un essere senza cuore che si nutre di oscurità.
La trama dell’intera saga è parecchio complessa, ma rispetto a tutti gli altri capitoli, Kingdom Hearts è il più semplice, riuscendo a raccontare una storia in maniera lineare e quasi mai confusionaria.

Follow your heart, and you can’t go wrong

Kingdom Hearts nasce come un classico action RPG, con elementi hack-and-slash e visuale in terza persona. Come in ogni GDR che si rispetti, Kingdom Hearts possiede delle meccaniche comuni a tutti i giochi di ruolo, alcune di esse sono molto simili a quelle già presenti e utilizzate per la saga di Final Fantasy, come l’uso delle magie, l’acquisizione di nuove abilità, la progressione del livello etc.
Il gameplay consta di semplici attacchi fisici e magie da lanciare dalla distanza, combo ed evocazioni. Queste ultime permetteranno a Sora di richiamare degli alleati da altri mondi per combattere al suo fianco, per un tempo limitato, e aiutarlo tramite mosse speciali o abilità nominali, differenti da altri personaggi, tutti dell’universo Disney.
Il titolo, si mostra alla portata di tutti, con meccaniche non troppo complicate e con un gameplay divertente e frenetico, risultando anche in alcune situazioni risulta fin troppo semplice.
Sconfiggendo ogni nemico si riceveranno in cambio dei punti esperienza (EXP) che serviranno per avanzare di livello e sbloccare nuove capacità per Sora e i suoi amici.
L’albero delle abilità è molto schematico, presenta un singolo elenco di tutte le abilità già sbloccate ed equipaggiate; se ne possono attivare più contemporaneamente, ma bisogna fare attenzione al loro costo. Ogni abilità occuperà una determinato  quantitativo di AP (Ability Point), la nostra quantità massima di AP aumenterà ogni qual volta saliremo di livello o equipaggiando un determinato oggetto e questo ci permetterà di attivare più abilità.
Kingdom Hearts, essendo un RPG, presenta dei parametri inerenti al combattimento, come l’attacco, la difesa o la magia, che possono variare a seconda del nostro equipaggiamento. Non essendoci un’armatura da poter indossare, l’unico modo per modificarli sarà quello di dotare Sora di determinate Keyblade e oggetti indossabili (come anelli e collane). Ogni Keyblade ha delle abilità e una skin unica, con colori e dettagli che ricorderanno la sua terra d’origine. Purtroppo non esiste alcun modo per potenziare una Keyblade, aumentandone le statistiche, quindi, tutte le armi che otterremo durante il gioco saranno, quasi sempre, più potenti di quelle già equipaggiate.
Per visitare e spostarsi per i mondi si dovrà viaggiare su una piccola astronave: la Gummiship. Questa navicella spaziale ci permetterà di distruggere quasi tutti gli ostacoli che troveremo davanti, ma anche di ricoprire una lunga distanza in men che non si dica, teletrasportandoci direttamente ai piedi del mondo selezionato. La Gummiship è ampiamente personalizzabile, durante la nostra avventura si troveranno diversi pezzi che montati insieme possono dare vita a una nave spaziale imbattibile e veloce. Il gameplay sulla Gummiship è davvero elementare, si dovrà comandare la navetta in sole quattro direzioni: in basso, in alto, a destra e a sinistra; sparando con dei cannoni agli Heartless o agli ostacoli per ricevere un maggior punteggio e ottenere qualche altro oggetto per potenziare ulteriormente il nostro mezzo.
La storia è narrata utilizzando l’alternanza di filmati e scene dialogate tramite i balloon, in maniera molto lineare e precisa. Ma la trama, nella sua interezza, è difficilmente comprensibile, soprattutto per chi abbia appena cominciato la saga.
La storia del primo capitolo non riesce a fornire delle risposte esaustive a tutte le domande che il gioco ci farà porre. Per scoprire quasi tutti i misteri e tutte le vicende bisognerà proseguire con la storia, giocando tutti e 9 i titoli già disponibili e aspettare il terzo capitolo principale che concluderà la saga di Xehanort, l’essere malvagio che ha portato distruzione e rovina nel mondo. Ma anche completando tutti i capitoli si avrà un po’ di difficoltà a ricordarsi tutti i nomi, le vicende e le backstory di tutti i personaggi.

Grafica e Sonoro

Per quanto riguarda il comparto grafico, essendo un titolo sviluppato e uscito nei primi anni del nuovo millennio e in seguito remasterizzato in alta definizione per PS3 e PS4, la grafica non risulta stupefacente, ma rimane decisamente buona. Durante le cutscene in CGI (solitamente all’inizio del gioco e alla fine) il cambio di grafica si nota parecchio, con visi quasi perfettamente lisci, ambienti colorati, con una qualità quasi paragonabile alle nuove console (questa particolarità era presente anche su PS2, riuscendo a impressionare i giocatori per la qualità grafica), ma tutto ciò non crea nessun problema.
Il comparto sonoro è tutt’altra cosa, con una soundtrack che riesce in tutte le situazioni a dare maggior enfasi a combattimenti, scene con una forte componente sentimentale e, soprattutto, incutere timore durante le bossfight. L’intera soundtrack è stata curata da Yoko Shimomura, riuscendo a regalare emozioni a quasi tutti i fan della saga grazie alla sola forza delle note, una playlist di canzoni che non invecchiano mai. Una delle più famose OST di Kingdom Hearts è sicuramente Dearly Beloved, una composizione al pianoforte che è presente in tutti i menu di ogni gioco della serie. Mentre, oltre alle melodie inedite, sono presenti anche le canzoni originali dei film Disney, che accompagneranno Sora e i suoi amici durante alcuni sprazzi di gioco. Inoltre, durante i filmati di apertura e chiusura, le scene sono accompagnate da alcune canzoni della cantante giapponese Utada Hikaru, una delle più famose è Simple and clean, che ha stregato milioni di giocatori.
A differenza della soundtrack mozzafiato, gli effetti audio non eccellono, con una quasi assenza di suoni ambientali e una monotona sequenza di tracce audio per magie e attacchi fisici.

The Deep End

Kingdom Hearts è sicuramente uno dei giochi che ha fatto la storia videoludica delle ultime generazioni, riuscendo ad amalgamare in maniera eccellente personaggi provenienti dall’universo Disney con quelli provenienti dai vari Final Fantasy, due brand che sembrava difficile far dialogare.
Con un gameplay equilibrato, ma con qualche pecca (poi risolta nel secondo capitolo), e una storia unica, Kingdom Hearts è un gioco davvero ben fatto, con una narrazione ottima, una grafica molto accurata per i tempi, e una soudtrack di eccellente fattura.
Tetsuya Nomura ha veramente prodotto un capolavoro, che rimarrà nei cuori dei giocatori di ogni età, diventando, per molti, un pezzo di infanzia, regalando ore e ore (circa 35) di gioco, scatenando emozioni contrastanti.




Marvel’s Spider-Man

Insomniac Games, ha prodotto tantissimi giochi principalmente per le piattaforme Sony, ma non è mai riuscita ad avere la risonanza di studi first party come Naughty Dog o Santa Monica; potrebbe però aver fatto il salto qualitativo con Marvel’s Spider Man, titolo che ha destato un grandissimo interesse nei giocatori sin dal suo annuncio all’E3 del 2016. Ricordiamo che Spider-Man è uno degli eroi più famosi dell’universo Marvel, e le vendite iniziali fanno ben sperare. In questa recensione proveremo a elencare cosa ci ha colpito positivamente, e cosa secondo noi dovrebbe essere migliorato in un potenziale seguito.

Gli sviluppatori si sono avvalsi dell’aiuto di sceneggiatori che lavorano anche nei fumetti Marvel, uno dei quali (Dan Slott) è anche il creatore di Mister Negativo, uno dei principali antagonisti del gioco.
Fin dall’inizio si vede l’amore degli sviluppatori per l’Uomo Ragno, dalla cura dei dettagli della cameretta di Peter Parker ai numerosissimi easter egg presenti in gioco. La storia, pur non raccontando nulla di trascendentale, svolge il suo compito in maniera egregia: il nostro Spider-Man vive in un universo creato appositamente per il gioco, non si parte più dalle sue origini, Peter è un ventitreenne, ha già assistito alla morte dello zio Ben, e ha alle sue spalle una notevole esperienza nei panni del tessiragnatele, ha già avuto una relazione con la bella Mary Jane Watson, la quale, a differenza dei fumetti, lavora come giornalista per il Daily Bugle e non fa dunque la modella.
Il gioco parte subito con la caccia e seguente cattura di Kingpin, famosissimo antagonista di Spider-Man e DareDevil: questa sezione serve da vero e proprio tutorial, sia per quanto riguarda l’utilizzo delle ragnatele per volteggiare tra i grattacieli, sia per i combattimenti, nonché per le fasi stealth.
Da qui in poi inizia la vera storia, in cui incontreremo moltissimi volti noti agli appassionati, alcuni dei quali in ruoli inediti, e assisteremo anche a momenti drammatici e alcuni colpi di scena (prevedibili per chi conosce i personaggi in questione).

L’impatto grafico è notevole, specialmente mentre si esplora la mappa: volteggiare tra i grattacieli di Manhattan è una goduria, particolarmente su PS4 Pro (la quale garantisce una maggiore risoluzione) con HDR attivo, il nostro protagonista è realizzato in maniera pressoché perfetta, sia per quanto riguarda la modellazione poligonale, sia per quanto riguarda le animazioni, tutto scorre nella maniera più fluida possibile anche nei combattimenti, il frame rate è sempre ancorato ai 30 fps sia su PS4 base che su Pro.
Anche le cutscene sono ben realizzare con ottime animazioni facciali, pur non risultando ai livelli delle produzioni targate Naughty Dog.
Il comparto audio è degno di nota, la colonna sonora composta da John Paesano è all’altezza di un blockbuster supereroistico, con dei brani che si adeguano perfettamente al contesto, ad esempio la musica che parte automaticamente ogni volta che esploriamo Manhattan usando le ragnatele aiuta moltissimo a calarci nei panni del personaggio, sembra quasi di essere in un film.

Insomniac Games si è ispirata ad altri titoli nel realizzare il gioco, in particolare Spider-Man 2 sviluppato da Treyarch nel 2004, del quale riprende la modalità in cui Spider-Man volteggia con la ragnatela (seppur con notevoli miglioramenti) e la serie Batman: Arkham di Rocksteady, della quale riprende il combat system, adattandolo allo stile dell’Uomo Ragno, sfruttando la maggiore agilità del personaggio per schivare gli attacchi dei nemici invece che contrattaccare come l’uomo pipistrello.
Fin quando controlliamo il nostro eroe il gioco esprime il suo massimo potenziale, dalle innumerevoli acrobazie durante le fasi esplorative si passa ai combattimenti che sono impegnativi al punto giusto e anche molto divertenti e ci spingono a sperimentare nuove mosse o gadget da utilizzare contro i nemici. Ma non è tutto: possiamo infatti anche utilizzare un approccio stealth, con cui è possibile far fuori i nemici con un solo colpo prima che si accorgano della nostra presenza.
Il nostro eroe può anche salire di livello e potenziarsi tramite un albero di abilità nel quale sono possibili miglioramenti sia per i combattimenti, sia per le acrobazie attuabili in fase di esplorazione.
La storia principale ci terrà impegnati per almeno 15 ore, ma saranno presenti un grandissimo numero di missioni secondarie o oggetti collezionabili che ci aiuteranno a sbloccare nuove tute per il nostro eroe, le quali, oltre a cambiare l’estetica del personaggio (sono realizzate in maniera impeccabile), offrono dei poteri unici che possono essere sfruttati in combattimento.
La nota dolente è invece rappresentata dalle missioni in cui si controllano altri personaggi tra cui Mary Jane, le quali, oltre a risultare piuttosto noiose, sono anche lunghe e non offrono praticamente nulla di interessante, potendo benissimo essere sostituite da delle cutscene.
Infine gli scontri con i boss risultano ben realizzati, anche se non offrono molta varietà eccetto un paio che sono invece spettacolari.

Possiamo dire che Insomniac Games ha realizzato il miglior gioco di Spider-Man di sempre, anche se non è un titolo perfetto: infatti alcune missioni secondarie ne smussano un po’ la qualità, ma grazie alle elevate vendite che sta registrando, possiamo essere quasi certi che ne uscirà un seguito, magari senza i difetti sopra citati e che porti finalmente questo studio talentuoso al successo che merita.




L’autore di The Witcher chiede 16 milioni di euro per diritti d’autore

Andrzej Sapkowski,  autore della saga che ha ispirato la serie di videogiochi The Witcher, ha richiesto una porzione dei guadagni alla CD Projekt Red, la quale ha rifiutato la richiesta.
All’interno del documento inviato dai legali dell’autore si esprime la richiesta di quest’ultimo di avere un indennizzo di 60 milioni di zloty polacchi (circa 16 milioni di dollari), affermando che la software house abbia superato i limiti concessi dal diritto d’autore: secondo i legali, il developer polacco avrebbe infatti acquistato solamente i diritti di una parte dell’opera, e quindi la produzione degli altri titoli potrebbe contenere materiale che non rientra nei termini dell’accordo originario.
La parte denunciante ha concluso affermando di essere a conoscenza del fatto che la richiesta non sia ordinaria, ma che è in preparazione da vario tempo e che l’autore è pronto a qualsiasi scenario.
Il rappresentante di Sapkowski ha affermato che è disposto a organizzare un incontro entro il 19 Ottobre, e dà un ultimatum di 14 giorni alla società.
La casa di sviluppo ha tuttavia già risposto rifiutando l’ammontare di denaro richiesto dall’autore e affermando che la compagnia ha legittimamente ed effettivamente comprato i diritti sul lavoro dello scrittore. In fine, nel documento di risposta, CD Projekt RED ha anche detto che ci tiene a mantenere un rapporto di amicizia con l’autore che ha concesso il materiale per la realizzazione delle opere videoludiche e, quindi, cercheranno di risolvere questa disputa “pacificamente”.
Non risulta chiara la tardiva mossa di Sapkowski, il quale non ha reclamato a seguito dell’uscita dei titoli successivi al primo. Quel che è probabile è che tutti i soldi guadagnati dalla saga (specie con l’ultimo capitolo, The Witcher III) abbiano fatto una certa gola.




Remothered: Tormented Fathers

Nella mia storia di gamer ho vissuto un periodo (neanche breve) in cui mi sono allontanato dai videogame. Non è stato un momento dettato da ragioni di stanchezza nei confronti del medium, né una scelta dovuto a mancanza di stimoli: senza troppi giri di parole è stata una forma di self-punishment, dovuta a una serie di circostanze che hanno caratterizzato una transizione particolare della mia vita. Il ritorno all’ovile videoludico è avvenuto in un momento ancora più critico, un frangente in cui ho capito la reale dimensione dei videogame nella mia esistenza: quella di scialuppa di salvataggio, asse di quella Pequod che, irrobustita da scrittura e letteratura, mi ha permesso negli anni di restare a galla nell’eterna lotta contro i miei capodogli umorali. In quel frangente difficile, in piena epoca PS3, mi ritrovai a rispolverare la mia vecchia PS2 come fossi ancora lo studente dei primi anni di università. Capii tempo dopo le ragioni della scelta, che risiedevano in un bisogno di ritrovamento di un “Io originario”, lasciato forzatamente per anni in un ripostiglio della coscienza. Ricordo che entrai in un negozio e, ravanando tra l’usato, trovai una copia di Haunting Ground, che si rivelò il mezzo necessario per l’apertura di quel portale temporale: è curioso che, in un momento simile, nel quale molti penserebbero come necessaria la serenità piuttosto che un concentrato di tensione e immagini cupe, siano stati i survival horror a tornare in mio soccorso. Dico “tornare” perché il lato gotico del fantastico è stato un po’ il mio portale d’accesso a tutte le arti: quello di racconti e arabeschi di Edgar Allan Poe della SugarCo è stato il primo libro che ricordo di aver amato, così come nel cinema dei quei primi anni ’90 rimanevo folgorato da IT. E non è un caso che fosse proprio Maniac Mansion a introdurmi al mio genere preferito, le avventure grafiche, col suo carico di mistero e di tensione che accompagnavano l’intento parodistico nei confronti delle storie horror. Inutile dire che il primo approccio con quello che era destinato a divenire il moderno survival horror fu con Alone in the Dark, e da lì fu solo un attendere i Silent Hill, i Forbidden SirenProject Zero, titoli dotati non soltanto di una narrazione grandemente curata, che andava dallo psicologico al folklore nero, ma che calavano il giocatore in uno stato di assoluta impotenza, rendendo necessario ricorrere a ben altro che agli scontri fisici o armati per assicurarsi la sopravvivenza. Non potevo dunque non amare Clock Tower 3, ed è chiaro come la storia di Fiona Belli, costretta a fuggire con l’aiuto di un cane per le stanze dell’immenso castello di Haunting Ground, fosse un inevitabile, dolcissimo ritorno a sensazioni perdute.
Ed è partendo da simili sensazioni che è per me necessario introdurre il primo grande pregio di Remothered: Tormented Fathers (altrimenti a cosa sarebbe servito questo lungo preambolo?), la cui esperienza di gioco è stata una madeleine proustiana che, nella sua lenta masticazione, ha avuto il merito di sprigionare sfere sensoriali sopite da un po’ di anni. Ma non è certo questo personalissimo assunto di partenza a farne l’ottimo survival horror che è.

Incubi in analessi

La narrazione di Remothered: Tormented Fathers comincia in medias res, mentre un’anziana Madame Svenska racconta a un interlocutore fuori campo gli accadimenti di cui è stata protagonista anni addietro Rosemary Reed, a seguito di un incontro con il notaio Felton ottenuto spacciandosi per una dottoressa dell’istituto nel quale era tempo stato ricoverato. Smascherata durante il colloquio da Gloria, infermiera preposta alle cure del notaio, la vedremo introdursi in casa Felton qualche ora dopo essere stata messa alla porta. Sarà l’inizio di una catabasi nell’orrore nascosto fra le mura domestiche, ma soprattutto nell’inferno della psiche umana. La sua esplorazione la porterà gradualmente nei meandri di una dark side che vedrà luce tra documenti, video, foto e altri oggetti utili a ricostruire un oscuro passato, fatto di nebulose sperimentazioni su un farmaco dell’evidente impatto sui processi mnemonici, il Phenoxyl, e di un ambiguo rapporto con la figlia del notaio, Celeste, misteriosamente scomparsa anni addietro. A “disturbare” questo percorso di scoperta ci saranno gli avversari che si avvicenderanno nel gioco, dallo stesso Felton, armato di falce e deciso a contrastare ogni intrusione, a una misteriosa suora rossa armata di uno spesso bastone a forma di colonna vertebrale. Le scoperte saranno molto interessanti, e verranno pagate al prezzo di lunghe ore di terrore e tensione costante.

Padri tormentati

Pur essendo uscito lo scorso 30 gennaio (data annunciata nel corso della Milan Games Week 2017) su PC, per poi arrivare in estate su PS4 e Xbox, Remothered: Tormented Fathers ha alle spalle una lunga storia di sviluppo: l’idea di base nasce già quando il creative director Chris Darril sedeva ancora tra i banchi di scuola della sua Catania. Nel 2007 si sviluppa un primo nucleo fortemente indebitato con Clock Tower, che vide una più marcata e originale identità un paio di anni dopo, quando il progetto cominciò ad assumere una prima forma su RPG Maker XP, dove viene pensato come survival horror 2D. Chris Darril comincia però a intuire i limiti di una simile scelta e, nonostante alcuni riscontri positivi sulla rete, decide di mettere in standby lo sviluppo, rifiutando anche alcune proposte di cessione dei diritti o di partnership. È una scelta difficile, umile e intelligente, e che darà i suoi frutti anni dopo, quando il game designer tornerà sul progetto con alle spalle esperienze di rilievo maturate nel settore, proprio in campo survival horror, da Forgotten Memories: Alternate Realities al più recente Nightcry, nel quale Darril assume il ruolo di board artist e concept designer sotto la direzione del regista Takashi Shimizu (noto per la saga cinematografica di The Grudge) e di Hifumi Kono, padre della saga di Clock Tower. Chiaro come simili lavori possano arricchire l’esperienza di un game designer, e questi anni sono utilissimi per garantire a Chris Darril una maggior consapevolezza nel passaggio dal 2D al 3D e, soprattutto, per poter lavorare su Unreal Engine 4, motore sul quale è sviluppata la versione finale del gioco.
Il risultato è letteralmente da manuale: quella di Remothered: Tormented Fathers è una lezione accademica in campo survival horror. Darril dimostra di aver acquisito alle perfezione le dinamiche e le meccaniche del genere, e ne dà saggio nel videogame che vede il suo esordio alla direzione creativa. All’interno della villa, il cammino di Rosemary Reed sarà disseminato della documentazione utile a ricostruire l’intera cornice narrativa, in un procedimento “piece by piece” mantenuto lineare e che non rende mai la narrazione frammentaria. Dalla nostra visuale in terza persona ci troveremo spesso a muovere la protagonista in modalità stealth, stando attenti a evitare lo stalker di turno e a nasconderci in un armadio o sotto un divano per sfuggire all’attacco, al quale potremo non soccombere scagliando un oggetto da lancio o, in ultima istanza, reagendo con tempismo usando un’arma di difesa. Vari di questi oggetti potranno essere utilizzati anche come diversivi da piazzare in posti strategici, e in giro per la casa si potranno trovare dei potenziamenti di attacco e difesa dei singoli item.
A differenza di altri titoli del genere, qui non è presente una modalità di gestione del panico, elemento che forse avrebbe regalato un po’ di pepe al gameplay: ci troviamo con una Rosemary praticamente instancabile, e questo facilita un po’ la dinamica hide&run su cui si regge il gioco. A compensare ci pensa però un buon bilanciamento dei nascondigli, non così frequenti da rendere troppo semplice la fuga: è uno degli elementi a favore di una gestione degli ambienti e di una strutturazione dei livelli globalmente molto ben congegnate.

Fra design e regia autoriale

Il level design è infatti uno degli elementi meglio studiati di Remothered: anche qui, nessuna rivoluzione, nessuna soluzione audace o fuori dagli schemi. La meta del design è un’altra: si vede il chiaro intento di proporre scenari e livelli che rispondano perfettamente ai canoni del genere, capaci di assicurare le stesse dinamiche in termini di ostacoli e vie di fuga. È un lavoro di taratura del metronomo dei tempi di gioco, e anche in questi termini l’obiettivo è pienamente centrato: non era affatto un risultato scontato, ed è una scelta che apporta giovamento anche sul piano visivo, con environment attentamente architettati e ben giocabili in fase di gameplay, ma anche molto belli a vedersi. Le relazioni di ordine-caos tra i vari elementi ambientali creano una perfetta armonia contestuale, restituendo il senso di opulenza e decadenza, di splendore perduto e insanità gotica che danno al titolo una cifra stilistica ben marcata, con una straordinaria cura dei dettagli che si apprezza particolarmente in ambienti come lo studio di Felton o l’attico, dove l’affastellarsi di manichini e bambole penzolanti è un altro chiaro omaggio all’iconografia di genere, una scelta quasi scolastica che riesce miracolosamente a non risultare retorica, preservando la bellezza del quadro d’insieme. I tributi videoludici, a onor del vero, sono disseminati ovunque e, se le dinamiche di gioco richiamano Clock Tower e i suoi derivati, il rapporto con la memoria-psiche richiama molto da vicino la già citata saga di Silent Hill, non ultimo Shattered Memories sia per l’oscura ambivalenza che sta nella relazione tra personaggi e ricordi perduti, sia per alcune sequenze video, dalle sedute di mesmerizzazione (dove l’inquadratura richiama il mezzobusto dello psicanalista del titolo Konami) al dondolio della ragazzina sull’altalena. Il tributo di Chris Darril non si ferma al medium videoludico, l’influenza è marcatamente cinematografica, come può intuirsi dalle lunghe cinematiche del titolo e soprattutto dall’alta cura al linguaggio di regia, all’uso della prospettiva, ai movimenti di camera, ai piani sequenza: il game designer catanese ha ammesso il proprio debito nei confronti di Polanski (palesato già nel nome della protagonista), di Lynch, di Hitchcock e del Pupi Avati de La casa delle finestre che ridono e del Demme de Il silenzio degli innocenti (che la protagonista sia molto simile a Jodie Foster lo avete notato tutti, no?) ma, a guardar bene, si riesce a scorgere anche di più: l’attico non può non riportare alla mente i manichini del Maniac di Lustig, di Tourist Trap, di House of Wax, di The Basement (o quelli del Silent Hill videoludico, of course) così come le bambole al muro ci rimandano a classici come DollsPuppet Master o al più recente Dead Silence. C’è lo sguardo abissale di David Cronenberg, la morbosità del primo Tobe Hooper, e anche la raffinata artigianalità del John Carpenter degli inizi: se dovessimo guardare Remothered solo da un punto di vista eminentemente cinematografico, sarebbe già un esordio straordinario, nel quale il director mostra di aver imparato bene anche la lezione dei grandi maestri della settima arte.
I difetti di questo primo titolo si manifestano in realtà su un piano eminentemente tecnico, con un’illuminazione a volte troppo marcata, che rende personaggi e ambienti un po’ affettati, un uso non sempre felice della saturazione cromatica (visibile fin dalle prime sequenze, a partire dalla brace della sigaretta accesa di Rosemary Reed) e animazioni che portano con sé più di una sbavatura. Ma parliamo di un lavoro indipendente, dove ai team di Darril Arts e Stormind Games va riconosciuto comunque il merito di aver ottimizzato bene le risorse disponibili, ottenendo una resa che sul piano tecnico è ottima ad onta delle imperfezioni. Se l’art-style trova i più felici risultati nel quadro d’insieme, con una quantità di elementi negli ambienti che formano uno stupendo mosaico, capace di restituire un veridico sfarzo e al contempo un’inquietante entropia, i primi piani denotano certi limiti poligonali in termini di definizione dei character, così come alcuni dettagli nei personaggi godono di scarso dinamismo, ma ricordiamo che il miglioramento di alcuni elementi in tal caso non dipende dalla sola perizia tecnica, quanto dal budget.
Il peccato meno veniale di quest’opera sta forse all’interno del comparto sonoro: se negli SFX il titolo può vantare una buona gamma ben gestita, dove i rumori di sottofondo o d’impatto sono utilizzati con sapienza, un problema non da poco si riscontra giocando in cuffia. Con gli headset alle orecchie, infatti, si può sentire chiaramente come i suoni degli stalker (dal rumore dei passi a un appropriatissimo Old MacDonald had a Farm canticchiato da Felton, scelta d’efficacia, che aumenta a dismisura il senso di inquietudine) provengano soltanto da sinistra, risultando un po’ penalizzante per l’esperienza di gioco, in un titolo dove l’ascolto del nemico diventa molto importante, in quanto le scelte riguardo il cammino determinano la vita e la morte, e un audio monodirezionale non permette di intuire la posizione del nemico. Per fortuna le meccaniche sono studiate bene e questo difetto (derivante anche dai limiti di Unreal in termini di audio 3D) risulta un limite non castrante.
Dal punto di vista sonoro, del resto, il gioco si avvale di una colonna sonora straordinaria, che vede Nobuko Toda (composer che ha contribuito a soundtrack del calibro di Final Fantasy XIV e a quelle di vari Metal Gear Solid) al fianco dell’italiano Luca Balboni, giovane compositore che recentemente aveva dato un ottimo saggio delle proprie capacità musicali in Mine, italianissimo film di Fabio Guaglione e Fabio Resinaro con un buon riscontro di critica e pubblico. Il suo lavoro in Remothered non è certo da meno, anzi, l’estrazione eminentemente cinematografica dell’OST si percepisce all’istante, si sente un debito verso grandi maestri del cinema classico come Hans Zimmer e Danny Elfman ma che non si traduce in un’obbedienza mite e pedissequa al canone: si sentono a tratti le atmosfere cupe e asfissianti del Mother! di Aronofsky, richiamando quel gioco di dissonanze messo su da Jóhann Jóhannsson, ma anche influenze più “pop”, che nei brani cantati riportano alle sonorità melanconiche e cullanti dell’Elvis Costello di Imperial Bedroom. Il risultato è una pietra preziosa sul piano compositivo, che ben si incastona in un gioiello horror del mondo videoludico indie.

Nastro rosso

Senza troppi giri di parole, Remothered: Tormented Fathers è l’esordio videoludico italiano dell’anno: con una scrittura equilibratissima, sottesa fra l’orrore della memoria e l’inferno della psiche, e una forte base cinematografica che si dispiega in intense cinematiche, il titolo riesce a sostenere dall’inizio alla fine una narrazione senza inciampi, sorretta da circa 6 ore di gameplay dinamico, ricco di enigmi ben strutturati e di fughe al cardiopalmo, in un susseguirsi di colpi di scena ed evoluzioni che non spezzano mai la tensione e stimolano la continua ricerca della soluzione per andare avanti. Nel lavoro di Chris Darril, lo abbiamo già detto, non si manifesta alcun intento rivoluzionario nei confronti del canone di genere, ma la maestria con cui è strutturato e realizzato questo titolo d’esordio rende bene l’idea di quale sia la sua cassetta degli attrezzi, lasciando grosse aspettative per il futuro.
Del resto, nelle intenzioni del game designer catanese, Remothered: Tormented Fathers è solo il primo capitolo di una trilogia di cui è stata già scritta l’intera storia: il potenziale è enorme, e ci sono tutti i motivi per attendere con trepidazione il sequel, sperando che una grossa produzione sposi il progetto e fornisca un adeguato budget per un titolo che merita i fasti del tripla A.




Sony dice sì al cross-platform su Fortnite

Negli ultimi mesi, Sony, è stata al centro di numerose polemiche sulla decisione di non fornire un servizio di cross-platform per giochi come Minecraft, Rocket Legue e il più famoso Fortnite, per i giocatori PS4. Oggi, la stessa Sony, ha deciso di permettere a tutti i possessori di PlayStation 4 di giocare insieme agli utenti PC, Mac, Switch, Xbox One, iOS e Android a Fortnite, proprio a partire da oggi, grazie a una open beta che permetterà a Sony di valutare il da farsi per eventuali altri titoli che si avvarranno del cross-platform.
Sicuramente una notizia che aspettavano in molti e che permetterà la creazione di una community ancora più vasta.