Call of Cthulhu – Pronto? C’è Qualcuno?

Beh, qui le scelte sono due: potremmo offrire una recensione piena zeppa di citazioni e frasi altisonanti di “voi sapete chi” oppure, una recensione che analizza il gioco in modo che anche voi lettori potrete arrivare a delle conclusioni per valutarne l’acquisto.
Dunqueper molti, Call of Cthulhu non è un videogioco come tutti gli altri ed effettivamente, l’ultima fatica di Cyanide non lo è. Troppo potente è il “richiamo” di uno dei più grandi autori mainstream degli ultimi anni, quel H.P. Lovecraft che in qualche modo tutti conoscono ma che probabilmente nessuno vorrebbe mai incontrare. Tratto dunque dall’omonimo gioco di ruolo del 1981 e, ovviamente, traendo spunto dal Ciclo di Cthulhu, questo investigativo-RPG-survival horror, è stato attentamente seguito dagli appassionati, mettendo sulle spalle degli sviluppatori un peso enorme, costituito da milioni di aspettative parecchio elevate. Sarà riuscito nell’intento?

Citazione a scelta N.1

Tutte le vicende ruotano attorno alla famiglia Hawkins e al suo tragico destino. Ma, come potete immaginare, nulla è come sembra e Edward Pierce, investigatore privato prossimo al fallimento, dovrà scoprire la verità celata tra le strade di Darkwater. Proprio questa cittadina costiera, riesce ad assumere il ruolo di co-protagonista, creata ad hoc come habitat naturale delle idee “lovecraftiane” e in cui, Edward verrà immerso come guidato da un beffardo destino. Le ispirazioni al Ciclo di Cthulhu sono palesi ma fanno capolino altre citazioni da ogni racconto partorito dalla mente dello scrittore statunitense divenendo quasi un “parco giochi” per ogni fan, alla ricerca di riferimenti e piccole “chicche” sparse dappertutto. La narrazione dunque procede spedita ma forse, in maniera fin troppo lineare: nonostante l’utilizzo di dialoghi a scelta multipla infatti, la sensazione di non aver alcun controllo sulle vicende rasenta di tanto in tanto l’imbarazzo, che si fa ancor più marcato una volta arrivati alla conclusione. In generale tutto risulta discretamente interessante  e anche i colpi di scena presente, risultano un po’ telefonati. Ogni scelta intrapresa porterà ad alcune conseguenze più o meno tangibili ma trascurabili, una volta scoperto che per arrivare ai diversi finali, in fin dei conti è l’ultima scelta la più importante. Il viaggio di Edward Pierce verso la follia (non poteva essere altrimenti), è sorretta però da poche ma decisamente interessanti trovate narrative e dalle atmosfere, vero fulcro su cui ruotano attorno le vicende: l’aria opprimente di Darkwater e dei suoi abitanti, schiavi di un singolo evento accaduto anni prima e dell’inquietante setta, è l’elemento più riuscito del titolo, che ci spinge ad approfondire come si è arrivati a questo punto, sfruttando tutto quello che abbiamo a disposizione, come l’innaturale fiuto da detective e l’innaturale talento nel mettersi nei guai. Anche i personaggi con cui interagiremo non brillano per caratterizzazione, interpretando delle “maschere” magari funzionali alle vicende ma che, insieme al contesto creato, minano ulteriormente l’immedesimazione. Call of Cthulhu basa tutto il suo essere sulla narrazione che comunque, nonostante alti e bassi riesce a intrattenere e trasportare il giocatore sino ai titoli di coda; ci vorranno una decina di ore, ma offre la possibilità di rigiocarlo compiendo scelte diverse dalle precedenti, sperando cambi realmente qualcosa.

Citazione a scelta N.2

Come detto nell’incipit, si tratta di un investigativo che mischia alcuni elementi da gioco di ruolo e survival horror. Nostra premura appunto, è quella di cercare e trovare gli indizi necessari per proseguire e ricostruire interamente gli avvenimenti accaduti; esplorazione e interazione con ambiente e personaggi sono elementi essenziali per ogni buon investigatore e anche noi lo siamo, visto che non potrà essere altrimenti; la risoluzione di piccoli enigmi infatti, si presenta in maniera semplicistica, non dando al giocatore modo di sfruttare le proprie sinapsi. Tutto sembra abbastanza abbozzato e anche la ruota delle abilità sembra indicare altrettanto: la componente RPG è riassunta in punti esperienza acquisiti a ogni azione significativa conclusa e lo sviluppo di sette diverse branche che vanno dall’investigazione alla medicina, passando occulto e psicologia, che potranno esser sviluppate in modo da sbloccare nuove abilità (sopratutto oratorie). Tecnicamente è possibile dunque specializzare il nostro Pierce a nostro piacimento, visto che non potremmo potenziare tutto al massimo livello; purtroppo però questo si scontra con la realtà dei fatti, in cui ogni categoria sviluppata non sembra incidere come dovrebbe, ne durante i dialoghi e ne durante l’esplorazione, limitandosi al semplice compitino. Anche i dialoghi a scelta multipla tendono a far storcere il naso, suddivisi in base alle caratteristiche sopracitate e in grado sì di approfondire la narrazione ma che a conti fatti, influiscono davvero poco sul suo prosieguo. C’è da dire però che nel mettere assieme gli indizi, scovando nuove informazioni, dialogare con più personaggi possibile diventa fondamentale per capire quanto sta avvenendo attorno a noi. Ma queste nuove informazioni purtroppo, hanno un valore risicato in quanto, qualunque cosa noi facciamo, arriviamo comunque all’obiettivo.
Ma a parte questo, bisogna anche muoversi da un punto “A” a un punto “B” e solitamente lo si può fare accovacciati visto che, in molte sezioni, essere scoperti significa essere uccisi. Nascondersi dunque è un buon modo per per farla franca e qui entra in gioco una meccanica purtroppo poco sfruttata: il Panico. Pierce prima di tutto è un uomo, capace anch’egli di tremare di fronte l’inconoscibile – o una guardia… – e questo in game, non fa altro che generare confusione, esplicato attraverso frastornanti movimento di camera e desaturazione dei colori, ovviamente contornate dai lamenti del protagonista. Una simile meccanica, se implementata a dovere, avrebbe portato quasi qualcosa di innovativo, immedesimando di più il giocatore con un personaggio di fronte a un pericolo potenzialmente letale. Anche la meccanica della Follia – e che vi aspettavate!? – che aumenta a ogni evento traumaticamente inspiegabile, è solo abbozzata, avendo reale valore solo per uno dei finali (tre in tutto). Il risultato finale dunque è solo discreto visto che ogni elemento di gioco possiede dei pregi ma anche dei grossi difetti.

Citazione a scelta N.3

Nonostante siamo ormai a fine generazione, Call of Cthulhu sembra essere un memorandum di titoli apparsi per la prima volta su PlayStation 4 e Xbox One, nel limbo tra vecchia e nuova era. Se, come detto, l’atmosfera generale è ben gestita, arricchita da una direzione artistica che ricrea a piene mani le opere di riferimento, la componente meramente tecnica rischia di tanto in tanto di lasciare l’amaro in bocca, smorzando così l’entusiasmo. Tutto comincia dai modelli dei personaggi, avara di dettagli e che consta di animazioni davvero datate. Ma nonostante l’utilizzo di texture non esaltanti ed effettistica generale deludente, il titolo soffre anche di un’inadeguata ottimizzazione, non solo su PC ma persino su console, visibile in toto durante i caricamenti tra un capitolo e l’altro, talmente lunghi che nel frattempo potreste scrivere un Ciclo di Cthulhu tutto vostro.
Anche dal punto di vista sonoro la situazione non cambia: il doppiaggio (inglese con sottotitoli) si attesta su buoni livelli, con ovviamente Edward Pierce a fare da padrone. Nessuna eccellenza dunque, soprattutto durante gli attacchi di panico del nostro investigatore privato, ispirati probabilmente dal Tony Stark di Iron Man 3. Ovviamente, anche il comparto sonoro, tra musiche ed effetti non poteva che non andare diversamente, segnalando come il lavoro Cyanide Studio non sia stato dei migliori.

In conclusione

Call of Cthulhu in fin dei conti, può essere considerato un buon omaggio a quel bontempone di H.P. Lovecraft, nonostante l’adattamento a una trama ben diversa dagli scritti originali. Le atmosfere, vissute tra Darkwater e la famiglia Hawkins sono ben riprodotte, gettandoci in avvenimenti ai limiti della comprensione ma smorzati da alcune scelte narrative che rendono la vicenda sin troppo guidata, annullando di fatti il senso dei finali multipli. Chiudendo poi un occhio sul comparto tecnico il titolo Cyanide è consigliato a tutti gli amanti delle opere dello scrittore di Providence ma anche degli amanti dell’horror in generale, che magari non conoscono Lovecraft come dovrebbero.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




My Hero One’s Justice – Poco Plus, Poco Ultra

Con la facilità odierna nel reperire manga e anime in occidente era naturale che la diffusione di tali media travalicasse la carta stampata o animata. Ormai siamo circondati da live action cinematografici di ogni tipo e anche il videogioco non è stato da meno; dai Dragon Ball Budokai, passando per i più recenti Naruto Shippuden di Cyberconnect 2 sino alle trasposizioni di Attack on Titan, Black Clover, Seven Deadly Sins e Kill la Kill, stessa sorte non poteva che non toccare al battle shonen del momento: My Hero Academia. L’opera di Kohei Horikoshi, targata 2014, è diventata in breve tempo il nuovo punto di riferimento per gli orfani di Naruto & Co. trovando sostegno anche dai pezzi grossi del settore come Masashi Kishimoto e Eiichiro Oda. My Hero One’s Justice non poteva che presentarsi come un picchiaduro e come prima iterazione, risulta essere una buona base di partenza su cui sviluppare eventuali seguiti.

I due moschettieri

Da un po’ di tempo a questa parte il mondo non è più lo stesso: improvvisamente cominciarono a manifestarsi nuove capacità nell’essere umano, forse un salto evolutivo che ben presto interessò circa l’80% della popolazione mondiale. L’apparizione dei Quirk (o Quork se guardate Italia 2) portò il mondo nel caos e solo alcuni uomini valorosi riuscirono a mettervi ordine. La nuova società formatasi ha reso possibile la realizzazione di un sogno d’infanzia, essere Super Eroi, un mondo precluso però al protagonista delle vicende: Izuku Midoriya. Nonostante la passione e la voglia di realizzare il suo sogno, Izuku è una delle poche persone al mondo a non possedere alcun Quirk e solo dopo un evento significativo potrà cominciare la sua rincorsa verso la propria realizzazione. Questo è in sostanza l’incipit di My Hero Academia ma stranamente, non lo è di My Hero One’s Justice. La scelta di Byking, sviluppatori del titolo, è quella di far partire le vicende già nel vivo, con Izuku (o da questo punto se preferite, Deku), intento a eseguire il tirocinio da Gran Torino, vecchia gloria tra gli eroi. Non partire dall’inizio dunque, è una scelta a dir poco coraggiosa, in quanto il rischio di tener fuori chi ancora non si è affacciato alle vicende di Horikoshi è presto detto: non basta una piccola introduzione iniziale infatti per creare il giusto contesto; solo chi segue il manga o l’anime dello studio Bones, riuscirà ad apprezzare quanto vede su schermo. Narrazione che prosegue attraverso tre tronconi principali di cui il primo dedicate al punto di vista degli Eroi e il secondo dei cosiddetti Villain, che ripercorrono le vicende del manga/anime con combattimenti singoli intervallati da piccole cutscene in stile fumetto. Sono presenti anche combattimenti “what if“, che cercano di aggiungere un minimo di profondità a storie già narrate. Nel complesso dunque, benché l’idea di separare le campagne rispecchia l’idea originale del mangaka, la narrazione non riesce a rendere giustizia alla famosa opera anche per chi conosce nei dettagli quanto avvenuto. Purtroppo anche le tematiche vengono un po’ lasciate da parte, palesando la natura di tie-in senza troppe pretese. My Hero Academia infatti, rappresenta l’ultima evoluzione dei battle shonen, con personaggi estremamente approfonditi, siano essi protagonisti o personaggi secondari, dando anche spazio a personaggi femminili di livello cosicché, anche il pubblico del gentil sesso abbia la possibilità di immedesimarsi nella sua eroina preferita. L’unione di manga giapponese con uno stile vicino ai fumetti americani inoltre, è la ciliegina sulla torta, in grado di far spiccare, anche visivamente, i disegni di Horikoshi, un altro punto forte dell’intera opera.
Ma il videogioco, non cerca di narrare solo le vicende del manga ma anche di divertire attraverso alcune modalità extra: oltre ai classici scontri uno contro uno e la modalità allenamento, My Hero One’s Justice offre anche le Missioni, un sistema di combattimenti suddivisi in vari stage con difficoltà crescente, in cui via via è possibile aumentare il livello del proprio personaggio e sbloccare le componenti dedicate alle personalizzazione, anche se purtroppo solo estetiche. Questa modalità rappresenta tutto il gioco: l’idea sulla carta è buona ma molti elementi risultano sin troppo abbozzati. A questo punto possiamo desumere che l’eventuale My Hero One’s Justice 2 potrebbe avvicinarsi a quanto mostrato in Dragon Ball Xenoverse, Attack on Titan 2 o Naruto to Boruto: Shinobi Striker, in cui la creazione del proprio alter ego, sfruttando componenti RPG, potrebbe dare quella profondità necessaria per tenere incollati i giocatori più a lungo.

Quirk, quork e quark

È chiaro sin da subito come in My Hero One’s Justice bisogna menare le mani e lo si fa all’interno di arene che replicano gli stage più importati del manga. Una volta scesi in campo dunque si ha a che fare con un combat system ibrido, che mischia piccoli tecnicismi all’accessibilità, soprattutto per rendere ogni tipo di utente già pronto per il campo di battaglia. Oltre a combo fisiche eseguibili con la sola pressione di un tasto, abbiamo la possibilità di eseguire salti e scatti, quest’ultimi differenziati da personaggio a personaggio. In questo caso infatti, si nota una cerca cura al dettaglio: lo scatto di Lida col suo Quirk Engine è del tutto diverso da quello di Bakugo, che sfrutta le esplosioni generate dalle mani per muoversi rapidamente. Questo, oltre al fattore visivo, influenza anche gli scontri in piccola dose, dato che oltre allo scatto anche alcune movenze sono influenzate dal Quirk posseduto. Sembra che ogni personaggio sia stato modellato sulla base del proprio potere, risultando dunque diverso da qualunque altro. Ma esistono Quirk e Quirk e il loro sbilanciamento si riscontra anche sul roster, che conta soltanto 22 personaggi, lasciando fuori oltre ad alcuni elementi della della sezione A, anche la sezione B e soprattutto molti Pro Hero. Una delle pecche più grandi del titolo è appunto lo sbilanciamento: alcuni personaggi risultano del tutto inutili mentre altri, fin troppo efficaci. All for One, AllMight ma anche Todoroki, sono dei veri killer e utilizzarli permette già di partire con un minimo di vantaggio.
Ogni combattimento purtroppo soffre di molti alti, ma anche di profondi bassi, dovuti essenzialmente a un’IA in single player veramente deficitaria e una risposta ai comandi non sempre all’altezza. Anche la scelta di poter utilizzare alcuni colpi Quirk base a ripetizione, senza quindi ricaricare alcunché, rende le partite, sopratutto online, un vero incubo, in quanto si è portati allo spam di qualunque tecnica a nostra disposizione. I veri colpi Quirk, denominati Plus Ultra, richiedono il caricamento di una barra apposita (attraverso colpi inferti o subiti), su tre livelli, ognuno corrispondente a un determinato colpo spettacolare tranne il terzo, utilizzabile sono quando i due compagni a seguito (à la Naruto), sono a disposizione. Il risultato generale è soddisfacente ma è indubbio che è possibile fare di meglio. Resta inoltre inspiegabile come sia possibile combattere sulle pareti verticali di ogni stage come nell’opera di Masashi Kishimoto visto che, sia in manga che anime, questo non avviene.
Anche la personalizzazione dei propri personaggi preferiti non riesce a far centro: se è vero che abbiamo a disposizione molti asset differenti per grado di rarità, appartenenti ai vari personaggi, purtroppo questi hanno solo valenza estetica, senza dunque influire su alcuna statistica di gioco. Però possiamo divertirci a personalizzare le entrate in scena dei personaggi, partendo dal suo slogan e per sino le frasi da utilizzare in battaglia, piccole chicche per gli amanti della saga.

JoJo style

Se escludiamo l’eccellente Naruto Shippuden: Ultimate Ninja Storm 4, tutti i tie-in di anime e manga soffrono del medesimo problema e purtroppo, anche My Hero One’s Justice, non fa eccezione. Si può notare infatti una forte discrepanza visiva tra i modelli poligonali dei protagonisti e gli scenari, che vantano si un’ottima distruttibilità ambientale,  ma rispetto agli ottimi modelli dei personaggi, soffrono di una mancata cura nei dettagli e nell’uso di shader e texture. Come dicevamo appunto, i protagonisti risultano eccellenti, con ottime animazioni e in grado di rispecchiare le tavole di Koei Horikoshi, con tanto di onomatopee su schermo. Il risultato, almeno visivamente, è quello di un manga interattivo, molto bello a vedersi. Inoltre, tutto risulta stabile sui 60fps, con leggeri cali solo quando vi è un forte spam di Quirk. Anche i filtri svolgono un buon lavoro, tra anti-aliasing e anisotropico (anche se quest’ultimo non regolabile su PC), regalando una buona pulizia.
Sul fronte audio non poteva mancare il doppiaggio originale dell’anime giapponese, introducendo i capitoli nella modalità storia, nelle poche cutscene animate presenti e ovviamente durante gli scontri, forse in questo caso un po’ ripetitivi, ma con la possibilità di personalizzarli una volta sbloccati gli asset necessari. A sorpresa, anche le musiche risultano di buon livello, cercando di replicare nei suoni l’eccellente colonna sonora dell’anime, firmata Yuki Hakashi.

In conclusione

My Hero One’s Justice è, a conti fatti, un discreto punto di partenza: riesce a divertire nonostante qualche imprecisione qua e la e un comparto tecnico che pur soffrendo di alti e bassi, riesce a regalare un buon colpo d’occhio. Quello che manca è una reale profondità, con Byking che forse si è limitata a svolgere un semplice compitino con l’intento di  aggraziarsi senza fatica i fan della serie. L’auspicio è quello di vedere un futuro secondo capitolo più curato in ogni aspetto, in grado di dare giustizia a uno dei manga migliori degli ultimi anni.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




Top 5: Novembre 2018

La fine di questo 2018 videoludico è ormai vicina e il mese di Novembre ci ha regalato alcuni dei titoli più importanti di tutta l’annata. Andiamo a vedere quali.

#5 Fallout 76

Il titolo Bethesda era uno dei più attesi dell’anno: dopo la pubblicazione di The Elder Scrolls Online gli sviluppatori americani si lanciano nel loro primo MMORPG, un prequel narrativo ambientato nel 2102, venticinque anni dopo la guerra nucleare che ha devastato il mondo. Noi impersoneremo un abitante del Vault 76 atto a riconolonizzare il territorio. Attualmente il titolo soffre di qualche problema con i server e probabilmente ingranerà dopo qualche patch correttiva e un po’ di mesi di rodaggio, quindi è da considerare come un investimento a lungo termine.

#4 Football Manager 2019

Nuova interazione per l’amata saga manageriale calcistica di Sports Interactive: quest’anno il team ha voluto cambiare faccia, con una nuova interfaccia grafica e una rinnovata attenzione sul lato tecnico-tattico. Mai come quest’anno sarà fondamentale trovare il giusto assetto e progettare bene la sessione di allenamenti, facendo attenzione a non strafare ed evitare di esser falcidiati dagli infortuni, esattamente come nella realtà. Probabilmente uno dei migliori capitoli della serie, ottimo anche per chi non ne ha mai giocato uno e vorrebbe iniziare ad emulare le gesta di Allegri, Guardiola o Mourinho.

#3 Battlefield V

Il nuovo capitolo del popolare sparatutto di casa DICE fa buon uso delle critiche arrivate nel periodo della beta, regalandoci uno dei migliori titoli della saga: abbandonato il periodo della Prima Guerra Mondiale di Battlefield 1 si ritorna sui campi da battaglia della Seconda Guerra Mondiale, prendendo i punti di forza del predecessore e ampliandoli in un gameplay frenetico e fluido. Battlefield V è anche uno dei primi titoli che sfrutta appieno le potenzialità della serie di schede grafiche RTX di Nvidia con la tecnologia ray tracing, capace di avvicinarci sempre di più al fotorealismo. Manca ancora l’attesa modalità battle royale in arrivo a breve, ma al momento il titolo pubblicato da Electronic Arts ha fatto centro.

#2 Darksiders III

Terzo attesissimo capitolo della saga di Darksiders, il primo dopo il fallimento di THQ e il passaggio a THQ Nordic: questa volta vestiremo i panni di Furia, uno dei quattro cavalieri dell’Apocalisse, atta a distruggere le impersonificazioni dei sette vizi capitali.
Pur mantenendo l’aspetto action-adventure con elementi RPG dei predecessori, Darksiders III aggiunge degli elementi hack and slash e soulslike al mix, rendendo il titolo sviluppato da Gunfire Games un gradito ritorno.

#1 Red Dead Redemption II

Il titolo di Rockstar Games era uno dei più attesi dell’anno e non ha deluso le aspettative: Red Dead Redemption II ci riporta negli impolverati sentieri del Far West, dove impersoneremo Arthur Morgan, leader di una banda di fuorilegge che dovremo gestire e dirigere come ogni buon capo che si rispetti. Ogni nostra mossa avrà un impatto sulle cittadine e sugli NPC che incontreremo lungo l’avventura, siano essi nella storia principale che durante le fasi di free roaming, e sotto questo punto di vista il lavoro di Rockstar è enorme: la già grande base del precedente capitolo viene ampliata a dismisura, restituendo al giocatore un titolo open world vivo e capace di evolversi come poche volte si è visto nella storia dei videogiochi, rendendo Red Dead Redemption II non solo uno dei migliori titoli del 2018, ma probabilmente uno dei migliori degli ultimi anni.




Red Dead Redemption II

Ci sono pochi titoli in grado di generare hype quanto le produzioni di Rockstar GamesRed Dead Redemption II ne è la prova lampante. Oltre a essere stato premiato unanimemente dalla critica mondiale, il gioco ha venduto circa 17 milioni di copie nei primi otto giorni, una cifra pazzesca non soltanto per il mondo dei videogiochi ma dell’intrattenimento in generale.
In questa recensione cercheremo di analizzare il gioco a freddo, dopo l’ondata iniziale di hype che ha colpito anche noi, elencando sia gli innegabili numerosi pregi e anche qualche difetto.

Nel gioco, ambientato nel 1899, impersoniamo Arthur Morgan, un fuorilegge facente parte della banda di Dutch Van Der Linde,  che vede tra le sue file una vecchia conoscenza:  John Marston, protagonista del primo capitolo (come avrete capito dalle date e i personaggi, questo è un prequel di Red Dead Redemption).
Il gioco inizia con la banda di Dutch in fuga da una rapina non riuscita alla banca della città di Blackwater, i fuorilegge sono costretti a scappate sulle montagne innevate, alcuni membri della banda sono dispersi e altri sono morti durante la fuga; la situazione è abbastanza tragica e noi, nei panni di Arthur, dobbiamo aiutare i superstiti a cercare un rifugio, per poi poter andare a cercare i dispersi.
Sin dalle prime ore di gioco, si nota l’alto  livello narrativo e la bravura dei doppiatori (il gioco è doppiato soltanto in lingua inglese), i quali riescono a dare ai personaggi una credibilità raramente vista in un videogioco. Proseguendo con la storia, si abbandoneranno le montagne innevate per raggiungere un accampamento vicino la piccola città di Valentine e, da qui in poi, inizierà il vero viaggio, dove avremo la piena libertà di esplorare la mappa e dedicarci a tutte le attività secondarie.
Il comparto narrativo è qualcosa che mai si era visto in un titolo Rockstar:  la storia riesce a essere avvincente nonostante la sua lunghezza e con alcuni momenti riflessivi, necessari a farci calare nei panni del protagonista e farci empatizzare con gli altri componenti della banda. Non mancheranno infatti “festicciole” nell’accampamento – di solito dopo un colpo ben riuscito – in cui potremo sederci insieme ai compagni e bere una birra, oppure cantare insieme agli altri, giocare a poker e tantissimo altro.
Durante questi momenti, scopriremo dei risvolti dei nostri alleati che altrimenti non verremo mai a sapere durante la storia principale e il gioco è pieno di queste chicche, dove elencarle tutte risulta praticamente impossibile, sottolineando l’immenso lavoro del team di sviluppo. Alcuni giocatori probabilmente non riusciranno mai a vedere buona parte dei contenuti, rimanendo comunque soddisfatti da qualcosa che raramente si è visto in un videogame.
Andando avanti con il gioco ci saranno una moltitudine di avvenimenti, sia comici, che emozionanti, e momenti duri come un pugno allo stomaco, il tutto accompagnato da una colonna sonora indimenticabile composta da Bill Elm e Woody Jackson con brani azzeccatissimi, che ben si sposano con l’ambientazione di tipo western; inoltre, durante la storia, potremo ascoltare anche delle musiche originali, come l’indimenticabile That’s the way it is di Daniel Lanois.

Red Dead Redemption II non è soltanto un gioco incredibile dal punto di vista tecnico: il mondo di gioco è realizzato con una cura maniacale, ogni cosa rappresentata su schermo è ricca di dettagli che possono sfuggire anche dopo diverse ore di gioco; ad esempio, nei saloon il nostro protagonista può sgranocchiare delle noccioline prendendole da un piatto e, ogni volta che ne prende una, esse diminuiscono fino a quando il piatto non diventa vuoto. C’è un’infinità di esempi simili e sicuramente, ce ne sono tanti altri da scoprire per chi scrive.
Oltre a tutte queste minuzie, Rockstar ci delizia con dei personaggi principali (alcuni personaggi secondari non raggiungono purtroppo lo stesso livello) modellati alla perfezione, con animazioni facciali tra le migliori in un gioco open world, paesaggi idilliaci abitati da una fauna ricchissima e realizzata con cura e luoghi abitati che vanno da piccoli villaggi sporchi con case di legno a città lussureggianti come Saint Denis, in cui tra le altre cose, è possibile assistere a spettacoli teatrali sempre diversi con attori, ballerine di Can-Can, prestigiatori e via dicendo.
I centri abitati sono ricchi di personaggi che svolgono svariate attività a seconda dell’orario, come i negozianti che chiudono di notte per poi riaprire la mattina seguente; inoltre si ricordano di noi e del nostro comportamento nei loro confronti, relazionandosi con il nostro alter ego in maniera positiva, aggressiva o timorosa a seconda della situazione.

Il gioco offre tantissime cose da fare, contornato da un ottimo gameplay, anche se non perfetto da questo punto di vista. Infatti può capitare spesso di commettere dei crimini senza volerlo a causa dei controlli, visto che con lo stesso tasto si possono aprire delle porte ma anche aggredire altri personaggi: capita infatti, che dietro una porta passi qualcuno e premendo lo stesso tasto due volte lo attaccheremo subito dopo aver aperto la porta, commettendo immediatamente un crimine, venendo così ricercati dalle forze dell’ordine, che ci arresteranno o inizieranno a spararci se non ci arrenderemo. Quando siamo in un centro abitato si deve fare anche attenzione a non urtare le persone mentre siamo a cavallo: basta anche sfiorarle per commettere un crimine e questi, sono solo due esempi, ma possono capitare tante altre situazioni simili in cui bisogna abituarsi ai comandi.
Per quanto riguarda il gunplay, i giocatori abituati a TPS come Tomb Raider o Uncharted noteranno una certa lentezza nelle animazioni, le quali per rendere realistico il gioco, rallentano i movimenti del nostro protagonista, che ogni volta che deve sparare ad esempio, perderà del tempo per ricaricare l’arma. Inoltre la gestione delle coperture non è all’altezza dei due titoli sopra citati e tutto ciò, potrebbe far storcere il naso ai giocatori abituati a un’azione più frenetica.
Come nel titolo precedente è qui presente il Dead Eye, ovvero un bullet time in cui potremo uccidere chiunque si trovi davanti, dandoci il tempo di mirare ai punti vitali mentre i nemici saranno quasi paralizzati, rappresentando l’unico “potere sovrumano” del nostro protagonista insieme all’Occhio dell’Aquila, palesemente “preso in prestito” da Assassin’s Creed, in cui possiamo analizzare il paesaggio che ci circonda per trovare punti di interesse o seguire tracce esattamente come nel titolo Ubisoft.
A parte i difetti citati in precedenza, il titolo eccelle in quasi tutto il resto: le missioni sono davvero tante e ben strutturate, comprese le secondarie che non hanno nulla da invidiare alle missioni principali; anzi sono in grado di approfondire il background del nostro personaggio valorizzando il suo cammino di redenzione. Ogni missione ha una storia ben scritta e non capita mai di affrontarne due simili tra loro.
Oltre a queste possiamo dedicarci a una moltitudine di attività secondarie: possiamo andare a caccia, a pesca, organizzare rapine a banche o diligenze, giocare a poker, a domino o domare cavalli per poi utilizzarli o venderli. C’è così tanto da fare che la longevità raggiunge vette di tutto rispetto e se aggiungiamo la modalità online, compresa nel prezzo, siamo sicuri che si parlerà ancora di questo gioco nei prossimi anni, alla stregua di GTA V.

Il titolo Rockstar Games rappresenta con molta probabilità quanto di meglio possa offrirci l’attuale generazione videoludica. Contando anche i difetti citati in fase di recensione, non può che essere premiato a pieni voti, i quali non vogliono indicare la perfezione assoluta, ma la qualità generale dell’opera, una spanna sopra il resto delle produzioni odierne, nella sua totalità.
Non possiamo che consigliare a tutti i possessori delle console targate Sony e Microsoft l’acquisto, i quali rimarranno soddisfatti da questa lunghissima avventura ricca di momenti memorabili che difficilmente verranno cancellati negli anni a venire.




Assassin’s Creed: Odyssey

Un anno dopo l’uscita dell’ottimo Assassin’s Creed: Origins, il quale ha rappresentato un netto cambiamento con il passato grazie a un combat system riveduto e all’inserimento di alcuni elementi ruolistici, Ubisoft prova ancora a percorrere questa strada spingendo l’acceleratore ancora di più verso la componente ruolistica con Assassin’s Creed: Odyssey, che può essere considerato il primo vero RPG appartenente alla saga.

Dopo una breve introduzione ambientata ai giorni nostri, il giocatore è chiamato a scegliere il proprio personaggio, cosa che rappresenta un netto cambiamento con il passato: possiamo scegliere se impersonare un personaggio femminile o maschile,  Kassandra o Alexios, anche se Ubisoft ha dichiarato che Kassandra è la protagonista canonica di questo episodio. In ogni caso la storia sarà la medesima a prescindere dal personaggio che si sceglierà, risultando come una scelta puramente estetica.
Il nostro protagonista è un misthios ovvero un mercenario di origini spartane (il gioco è ambientato nell’antica Grecia circa 400 anni prima di Origins) il quale, sopravvissuto alla morte da bambino, andrà alla ricerca della famiglia e della verità. Dopo un breve capitolo introduttivo ambientato nella piccola isola di Cefalonia, in cui impareremo a familiarizzare con i comandi  e a intraprendere le prime missioni, il nostro protagonista partirà  attraversando l’intera Grecia, da Atene alla Macedonia, passando ovviamente per Sparta.
Come da tradizione per il franchise, incontreremo personaggi celebri come Socrate, Erodoto e Pericle, con cui potremmo interagire tra alleanze e scelte discretamente rilevanti visto che, per la prima volta nella saga, abbiamo a disposizione dialoghi a scelta multipla, che potranno portare a un diverso esito di alcune quest e a finali differenti.
La narrazione purtroppo non è il punto forte di questo titolo: la lunga avventura che dovremo affrontare non è raccontata con maestria e le interazioni con i personaggi di spicco dell’epoca risultano forse poco credibili con inoltre, una difficoltà palese a empatizzare con il protagonista il quale, essendo un mercenario, è in grado di schierarsi e combattere a piacimento con una fazione o l’altra (spartani o ateniesi) salvo poi ottenere successivamente, missioni anche dalla fazione nemica appena affrontata, come se nulla fosse accaduto.
Inoltre la trama ambientata nei nostri giorni, con protagonista la Leyla Hassan conosciuta in Origins,  assume un ruolo ancor più marginale con i rimandi alla mitologia della saga, relegati alla parte finale dell’avventura.

Il mondo di Assassin’s Creed: Odyssey è il più vasto dell’intera saga, ed è interamente esplorabile sin dalle prime ore di gioco anche via mare, grazie alla nostra nave: l’Adrestia. Inoltre, la cura per i dettagli è paragonabile a quella del prequel, offrendo scorci mozzafiato, pur rimanendo ancorato ai 30 FPS (provato su PS4 Pro).
I personaggi, anche se  ben realizzati, non risultano validi rispetto al capitolo precedente, con animazioni facciali a volte discutibili e accompagnati da una minore espressività; lo stesso discorso vale anche per i personaggi secondari, che non godono di dettagli e modellazione su alti livelli.
Anche il comparto sonoro, pur vantando una colonna sonora orecchiabile, non riesce a suscitare le stesse emozioni avutesi con Origins e anche i dialoghi in italiano sembrano soffrire dello stesso problema: infatti, si può notare alcune frasi, che dovrebbero appartenere allo stesso dialogo, vengano recitate con tonalità molto differenti, e forse accentuata da Jolanda Granato, la doppiatrice di Kassandra.  Di ottima fattura invece la controparte inglese, con tonalità e accenti adatti alle ambientazioni greche.

Il vero punto forte del gioco è rappresentato dal gameplay: gli sviluppatori hanno preso quanto di buono fatto in Origins, migliorandolo, trasformando il titolo  in un gioco di ruolo al 100%. I miglioramenti partono dal combat system, che ripropone gli stessi comandi del prequel, con l’impossibilità di utilizzare uno scudo; quindi potremo soltanto schivare o deflettere i colpi ricevuti con la nostra arma e questa modifica, rende molto più frenetici e divertenti gli scontri. Vengono inoltre introdotti diversi colpi speciali sia per gli attacchi corpo a corpo che per gli attacchi con l’arco,oltre ovviamente che per l’assassinio: potremo specializzare il nostro personaggio in una delle tre discipline attraverso altrettanti alberi delle abilità, spendendo i punti guadagnati con l’aumento di livello. Infatti ai livelli più bassi, risulta davvero difficile eliminare alcuni nemici con un colpo solo come accadeva in precedenza senza spendere adeguatamente dei punti nelle abilità di assassinio ma possiamo anche rendere più efficaci le nostre frecce spendendo punti in abilità con l’arco. Insomma, la scelta è ampia.
La libertà di personalizzazione è uno dei punti forti del gioco e spinge i giocatori a provare le diverse discipline grazie anche all’equipaggiamento che può offrire diversi bonus sia alle armi che al tipo di combattimento. Come ogni gioco di ruolo che si rispetti però, si avrà la necessità di aumentare di livello per potere affrontare nemici sempre più forti e quindi sarà richiesto al giocatore di compiere diverse missioni secondarie per poter essere del livello adatto per proseguire nella storia principale.
Per “aiutare” i giocatori, Ubisoft ha inserito un boost all’esperienza di gioco permanente, acquistabile con denaro reale: tale pratica, già presente in Origins, nonostante il gioco possa essere portato tranquillamente a termine senza il suo utilizzo, basta soltanto fare qualche missione secondaria di tanto in tanto per accumulare i punti esperienza necessari, senza grosse fatica. La presenza di questo tipo di microtransazioni mette  gli sviluppatori sotto una cattiva luce, essendo il gioco venduto a prezzo pieno, e chiedere al giocatore di pagare un prezzo maggiore per renderlo più facile è una pratica che a nostro avviso rovina l’esperienza di gioco. Speriamo venga eliminata nei titoli seguenti.
A parte questa spiacevole parentesi, Assassin’s Creed: Odyssey è un gran bel gioco, che offre svariate ore di divertimento, con numerosissime missioni secondari che garantiscono tante ore di gameplay. In questo gioco inoltre sono state inserite anche diverse missioni da affrontare in mare, in cui saremo al comando della nostra nave (come accadeva in Assassin’s Creed IV: Black Flag) che è possibile potenziare per renderla più efficace contro avversari di livello più alto che incontreremo nei nostri viaggi.
Per portare a termine la storia principale serviranno almeno 50 ore, ma non è tutto: infatti, oltre a quella, verranno sbloccati altri due filoni principali che dovranno essere affrontati a un livello avanzato e che sveleranno importanti elementi della trama. Considerato dunque che per completare anche queste storyline impiegheremo diverse ore e se aggiungiamo l’enorme quantità di missioni secondarie, il quantitativo di ore totali necessarie a completare il tutto supera abbondantemente il centinaio.

Assassin’s Creed: Odyssey è un gioco di ruolo immenso e segna un cambiamento netto con il passato, forse anche troppo per gli appassionati. Se però lo si guarda come gioco a sé stante non si può negare l’enorme impegno degli sviluppatori nel realizzare il titolo, che offre il  gameplay migliore di tutta la saga e tantissime ore di gioco. Alcuni difetti però, negano al titolo di arrivare all’eccellenza  e speriamo che Ubisoft in futuro, possa regalarci l’Assassin’s Creed perfetto che gli appassionati aspettano da lungo tempo.




Kingdom Hearts III avrà i DLC

Durante questa settimana si è tenuta la Black Friday Week, la famosissima settimana dedicata agli sconti. Il colosso americano Amazon ha ovviamente partecipato e, oltre a rilasciare moltissime offerte sul suo sito, ha anche tenuto uno streaming venerdì 23 alle 21:00 (ora italiana) in cui ha annunciato alcuni particolari sul prossimo gioco di Tetsuya Nomura: Kingdom Hearts III.
All’interno della live, avvenuta su Twitch, si è parlato di un trailer che verrà rilasciato durante il Cyber Monday (lunedì 26) verso le 22:00 italiane, un bonus per i clienti Prime e un DLC. Proprio così, pare che Kingdom Hearts avrà dei contenuti digitali scaricabili, ma ancora non si sa se questi amplieranno il mondo di gioco, aggiungendo mondi, personaggi e altro, o se includeranno, per esempio, solamente degli oggetti estetici. Alcuni fan sono rimasti colpiti negativamente dall’annuncio della presenza di DLC, avendo il terrore che questa scelta possa modificare l’approccio a un gioco che non ha mai conosciuto alcun contenuto a pagamento. Non avendo ancora delle informazioni chiare non possiamo che aspettare la serata di lunedì con lo streaming per riuscire a capirci di più.




Chicago tassa PlayStation Plus

Tutto è cominciato nel luglio 2015, quando nella città di Chicago è stata emanata una nuova legge, soprannominata dai residenti “legge sul divertimento“. Questa, entrata in vigore poco più di tre anni fa, impone una tassa su tutti i servizi streaming online, proprio come Netflix o Spotify per i residenti di Chicago, quindi vengono tassati servizi utilizzati da milioni di utenti nel tempo libero.
Questa imposta, che equivale al 9%, ha portato molte aziende che offrono un servizio di streaming nel territorio della grande metropoli, ad aumentare il costo dei propri abbonamenti. La stessa Netflix ha dovuto modificare i prezzi della sua piattaforma e la medesima cosa sta accadendo anche a Sony, che dal 14 novembre, tasserà servizi come PlayStation Plus, PS Now, PS Music e altri, che riceveranno un incremento dei prezzi.
Molti si sono schierati contro la scelta del Dipartimento delle finanze di Chicago, persino Apple, che ha cercato di far valere l’Internet Tax Freedom Act, una legge firmata nel 1998 che vieta la tassazione di internet e dei servizi di e-commerce, ma per adesso sembra non essere cambiato nulla.
Questa tassa, non solo ha creato un malcontento generale per chi usufruisce di tali servizi, ma alla lunga potrebbe favorire la pirateria, che potrebbe portare a un consistente calo delle vendite di tali abbonamenti nel territorio di Chicago.

I servizi simili a Netflix, che permettono lo Streaming di videogiochi, stanno vivendo un periodo di crescita, soprattutto negli ultimi anni. Anche la stessa Sony ha registrato dei numeri davvero ottimi per il suo servizio di streaming videoludico, PlayStation Now, che ha raggiunto circa il 52% delle entrate totali del settore, circa 143 milioni di dollari in un solo trimestre. PlayStation Now ha superato persino il servizio streaming di Microsoft, Xbox Game Pass e quelli di Ubisoft ed EA che singolarmente ricavano poco meno di 90 milioni di dollari.
In totale la fatturazione del settore dello streaming videoludico si aggira a circa 273 milioni di dollari guadagnati durante il terzo trimestre dell’anno; molti utenti definiscono questa crescita come la sempre più netta affermazione dei servizi cloud e streaming, servizi che potrebbero essere la base delle nuove console next-gen.
La tassa imposta a Chicago non influirà pesantemente su questi numeri, ma sicuramente non è positivo per l’industria e per i cittadini che si ritrovano a pagare di più per usufruire di un servizio di streaming.




Zeus’ Battlegrounds

Sviluppato da Industry Games, Zeus’ Battlegrounds è un battle Royale free to play che, a differenza di colossi come Fortnite e PUBG, propone uno stile di combattimento basato principalmente sul combattimento melee (corpo a corpo).
Il titolo è ambientato nell’antica Grecia, dove vestiremo i panni di un combattente che tenterà di prevalere sugli altri così da guadagnarsi il suo posto d’onore nell’Olimpo.

Fin dalla schermata iniziale avremo la possibilità di scegliere il sesso del nostro personaggio, e di personalizzarlo a nostro piacimento così da creare qualcosa di più vicino alla nostra forma ultra-terrena. Una volta finita l’attesa nella piattaforma dove ci “accoglierà” Zeus, verremo catapultati fuori e come meteore ci schianteremo sulla terra. Una volta atterrati ci ritroveremo disarmati. L’obiettivo primario sarà quello di cercare delle armi fra le molte all’interno del titolo, da asce, martelli, doppie spade e altro ancora. Inoltre, sarà possibile trovare armi da lancio, e anche delle magie elementari consumabili. Per facilitarci i movimenti gli sviluppatori hanno inserito anche le cavalcature, infatti, in svariati punti della mappa sarà possibile trovare dei cavalli da poter usare come mezzi di trasporto. Tuttavia, il controllo di quest’ultimi è abbastanza impreciso ma, fortunatamente, essendo un gioco in early access tutto può ancora variare. Inoltre, come in ogni titolo del genere potremo scegliere diverse modalità quali solo, duo e team.

Durante la nostra permanenza nel battleground, potremo dotarci di vari tipi di armi, grazie all’enorme quantità di varianti presenti. Anche le armature non sono da meno: infatti, potremmo trovare 4 livelli d’armatura e vari tipologie di quest’ultime. Come ogni altro titolo del genere, ogni tanto per la mappa verrà “inviato” un forziere sacro che conterrà armi di tutt’altro livello, in una parola “divine”. Inoltre, all’interno della mappa saranno presenti i templi di dei come Atene e Zeus, dei quali, una volta raggiunti, si otterrà il loro favore, che conferirà un’abilità temporanea atta a favorire il nostro personaggio con alcuni vantaggi. Al momento, il titolo necessita di alcuni bilanciamenti su alcune armi che risultano troppo forti, o altre dove l’hit box è pessima. Infatti, in alcuni casi, mi sono ritrovato realmente in difficoltà nell’effettuare delle lotte con determinate armi.

La mappa di gioco è veramente gigantesca e molto variegata, talmente grande che è come se si giocasse a nascondino. Il titolo presenta una coerenza ammirevole, non sono presenti forzature visibili, ogni scelta stilistica risulta congrua. Un punto in suo favore è sicuramente la possibilità di poter giocare il titolo sia in prima che in terza persona. Il FOV è ben regolato in entrambi i casi. Una delle pecche è la resa grafica, vedere tante di magnifiche ambientazioni semplificate nella definizione è veramente uno strazio per gli occhi, spero vivamente che la migliorino al più presto, anche se da quel punto di vista c’è da dire che il team di sviluppo ha fatto un buon lavoro con la gestione dei modelli e delle texture. Dal punto di vista del sonoro, la OST è orecchiabile e gli effetti sono discreti.

Per gli amanti del genere battle royale, il titolo è assolutamente da consigliare, Zeus’ Battlegrounds merita sicuramente una possibilità. Togliendo i vari bug e la grafica di medio livello, questo gioco ha grandissime chance di riuscire a farsi valere con la grande quantità di opportunità che un titolo del genere, se migliorato, può proporre. Infine, vi ricordiamo che il titolo sarà disponibile su PC e PS4.




Dragon Quest XI: Echi di un’era perduta

La saga di Dragon Quest può essere considerata come quella che ha definito il genere JRPG nella sua accezione più classica, persino la saga di Final Fantasy ha tratto ispirazione dal titolo targato Enix uscito nel lontano 1986 su NES, sebbene siamo giunti all’undicesimo capitolo, sono passati ben tredici anni dall’ultimo episodio puramente single player (Dragon Quest VIII uscito su PS2), in questa recensione cercheremo di analizzare i pregi e difetti di quest’opera mastodontica.

Come in ogni Dragon Quest che si rispetti, la storia ha il tono di una favola, in cui l’eroe che rappresenta la luce (il Lucente in questo caso) dovrà sconfiggere il male che rappresenta l’oscurità e riportare la pace nel mondo con l’aiuto di altri eroi.
Il gioco inizia con la nascita del nostro protagonista, principe del regno di Dundrassil, nato con una strana voglia che si illumina sulla mano sinistra; i genitori capiscono presto che è la reincarnazione del Lucente, il quale in un periodo passato aveva salvato il mondo dall’oscurità. Ben presto il castello verrà attaccato da mostri demoniaci, e la regina, nel tentativo di salvarlo, lo affida a un’ancella, la quale però non riesce a proteggerlo e lo affida alle acque di un fiume. Il piccolo verrà trovato e accudito da un vecchietto e da sua figlia che non gli riveleranno le proprie origini finché non sarà abbastanza grande da poter combattere e andare in giro per il mondo.
L’opera di Yūji Horii, benché possa sembrare banalotta, riserva dei colpi di scena degni di nota e tiene sempre vivo l’interesse del giocatore per tutta la durata del gioco, alternando momenti comici a momenti drammatici con maestria.

Gli sviluppatori hanno utilizzato l’Unreal Engine 4, e il risultato è veramente una gioia per gli occhi, la grafica cartoonesca ben si sposa con il character design del maestro Akira Toriyama (il quale ha lavorato anche ai titoli precedenti) i dettagli su schermo sono numerosi, le texture molto dettagliate e specialmente su PS4 Pro grazie alla maggiore risoluzione è difficile notare segni di aliasing, a mio avviso la miglior grafica in stile anime mai vista su console.
La stessa cosa non può essere detta per il comparto audio, specialmente per una colonna sonora che rappresenta il punto negativo del gioco, realizzata in un formato midi che richiama in maniera incongrua certi giochi per Super Nintendo, con brani sono molto ripetitivi, al punto che chi scrive ha dovuto mutare la musica a causa dell’effetto nauseante dopo tante ore di gioco: che sia una scelta per evocare la nostalgia dei vecchi titoli (anche gli effetti sonori sembrano essere usciti da una console a 16 bit) o una mossa del compositore Koichi Sugiyama atta a vendere i cd musicali con la colonna sonora del gioco suonata da un’orchestra, sta di fatto che il risultato stona con la grafica di ultima generazione e anche con le voci doppiate (in lingua inglese).

Dragon Quest XI è un JRPG di stampo classico, con combattimenti a turni, in cui si potrà attaccare con le armi oppure lanciare incantesimi di attacco o di cura, si potranno anche usare gli oggetti come le classiche pozioni di salute o di mana e via dicendo. La vera novità è rappresentata dalla possibilità di diventare “pimpante” per i personaggi che controlliamo, ovvero uno stato in cui si avrà un’attacco e una difesa maggiore e si potranno effettuare delle mosse speciali anche combinando le abilità fra diversi personaggi anch’essi pimpanti, le combinazioni sono tantissime e aumentano di potenza in base al numero di personaggi che ne fanno parte e anche alle abilità che si possono sbloccare con l’aumentare del livello.
Per buona parte del gioco gli scontri avranno un livello di difficoltà molto basso, basti pensare che non ho mai avuto bisogno di usare dei consumabili fino all’endgame, in cui la difficoltà è rappresentata maggiormente dal livello superiore dei nemici, è possibile al primo avvio del gioco modificare dei parametri che cambieranno il livello di difficoltà del gioco, come ad esempio togliere la possibilità di scappare via dai combattimenti, potenziare i nemici o guadagnare meno punti esperienza con gli scontri; non è possibile aggiustare certe opzioni a partita iniziata, se si desidererà una maggiore difficoltà in fase avanzata di gioco sarà necessario iniziare da capo.
Il titolo offre un vasto mondo da esplorare, con tantissime città da visitare, in cui incontreremo validi alleati o preziosi mercanti o personaggi che ci faranno affrontare delle missioni secondarie, fuori dalle città potremo viaggiare sia su cavalcature che a piedi, troveremo sparsi nel mondo anche dei falò in cui potremo riposare, forgiare armi o armature e salvare il gioco. Le attività saranno tantissime e, grazie anche alla semplicità del gioco non saranno mai noiose, tutto sommato è proprio l’essenzialità uno dei punti forti del gioco, non si avvertirà mai senso di frustrazione e l’avventura, anche se lunghissima, scorrerà via senza alcuno sforzo, anche grazie alle numerose attività.

Tirando le somme, Dragon Quest XI: Echi di un’era perduta è probabilmente il miglior episodio dell’intera saga, e anche uno dei migliori JRPG degli ultimi anni, che non raggiunge l’eccellenza a causa di una colonna sonora pessima in formato midi, e una difficoltà un po’ troppo bassa, ma nel complesso è un gioco che consigliamo a tutti i possessori di PS4 (la versione per 3DS purtroppo non è arrivata in occidente) senza remore, che potranno godere di questa avventura di circa 100 ore che scorreranno via senza fatica e frustrazione.




Rockstar Games: tra traguardi stellari e dipendenti scontenti

È ormai un dato di fatto che Red Dead Redemption 2 sia il gioco più acclamato di quest’anno e non solo superando di netto tutti i suoi “coetanei” come Spider-Man, Assassin’s Creed Odyssey e il sempre annuale appuntamento EAFIFA 19, giusto per citare alcuni tra i più recenti. Ha persino raggiunto  il secondo posto tra i giochi più venduti di sempre durante il periodo di lancio, preceduto dal fratello maggiore GTA V, un primato tutto Rockstar Games insomma.
Si può solo lontanamente immaginare quanto lavoro ci sia dietro a titoli dove il free roaming e la cura per i dettagli sono solo alla base e sopratutto, nelle fasi finali dello sviluppo (di solito si parla dell’ultimo anno prima del rilascio), la mole di cose da fare può essere davvero massacrante per un dipendente le cui ore settimanali non sono abbastanza per terminare tutto: ecco che entrano in gioco gli straordinari. Fin qui tutto normale, se non fosse che nessun pagamento extra è stato previsto per chi non avesse un contratto a ore e avesse deciso di rimanere per più tempo in ufficio.

Questa situazione ha creato parecchie reazioni differenti tra i membri dei vari team di sviluppo, molti dei quali hanno voluto raccontare le loro esperienze, spesso discordanti, a Kotaku: chi ha detto di aver considerato l’esperienza di RDR2 ambiziosa e soddisfacente, seppur molto impegnativa; chi invece ha dovuto rinunciare a malincuore a tempo libero, amici e famiglia per portarsi avanti con il lavoro, arrivando a compromettere la propria salute mentale; chi dice di essere passato dalle normali 37 ore settimanali a 60, chi invece a 80; chi è ottimista e spera di ricevere un meritato bonus per le vendite del gioco e chi infine ha deciso di abbandonare tutto. Di contro, Rockstar ha messo in chiaro, tramite Jennifer Kolbeche nessun dipendente è obbligato a prendere parte agli straordinari, sia esso assunto da poco o da molto tempo, e chi decide di non farlo non è in alcun modo screditato o considerato meno lodevole.
Probabilmente in molti vi starete chiedendo il perché di tanto trambusto quando situazioni simili sono all’ordine del giorno in un paese come il nostro, che da altre parti sono “abituati troppo bene”, che “dovrebbero essere grati di avere un lavoro”. Ma tutto ciò non vuol forse dire che in posti come l‘Inghilterra o gli USA il lavoratore è molto più socialmente considerato e tutelato? Facciamoci due domande e chiediamoci se non siamo effettivamente noi quelli in torto, se parlare male della propria situazione lavorativa (quando non è effettivamente buona) sia più da persone deboli che non sanno adattarsi e stare al loro posto o da persone consapevoli di poter meritare di meglio.