Nintendo Switch Online: un nuovo supporto per le chat vocali

Nato come un helper per alcuni titoli come Splatoon 2, Nintendo Switch Online ha da poco ricevuto un aggiornamento, aggiungendo un supporto per chat vocale per Mario Tennis Aces, Arms, Mario Kart 8 Deluxe e la raccolta di giochi NES forniti con il servizio di abbonamento a pagamento. Per questi titoli la chat vocale è supportata non solo tra amici, ma anche in lobby come la free-play di Mario Tennis e le gare globali di Mario Kart 8, le cui lobby saranno popolate da estranei con cui giocare.




The Low Road

1976. La giovane Noomi Kovacs, diplomata al LeCarré Institute for Exceptional Spies viene assunta nella divisione Intelligence della Penderbrook Motors, che presiede alla protezione di importanti segreti industriali (e alla corrispettiva sottrazione ai concorrenti). Noomi è talentuosa e intelligente tanto quanto impaziente, e vuole mettersi alla prova sul campo ma, come ogni nuova leva, viene relegata a compiti di poco conto dal suo supervisore, Barry “Turn” Turner, ex agente governativo dall’oscuro passato. Un’interessante missione è alle porte, l’obiettivo è il recupero di un geniale progettista misteriosamente scomparso nel quartier generale della REV Inc., ma Noomi non è la prima scelta, anzi: il suo capo le dice a chiare lettere che manderebbe lei solo se non ci fosse proprio nessun altro. Ed è così che la nostra agente vedrà profilarsi il suo primo obiettivo personale: fare in modo che ciò accada.

A hard road

Prima di addentrarci nei dettagli del gioco, è bene ripercorrerne lo sviluppo: il lavoro su The Low Road inizia nel 2014 da un’idea dell’allora CEO di Xgen Studios, Skye Boyes e dell’Art Director Scott Carmichael, con l’intento di creare qualcosa di completamente diverso dal precedente Super Motherload.
Viene fatto un investimento in know-how di genere con l’assunzione di Jed Lang come Lead Programmer e Leif Oleson-Cormack come Narrative Designer, e nel 2015 lo studio ottiene il supporto economico del Canada Media Fund. Tutto sembra andare per il meglio, quando il progetto subisce un improvviso stop a causa della prematura scomparsa di Skye Boyes a soli 33 anni, a seguito di un arresto cardiaco.
Superato lo shock e con il lutto nel cuore, il team si rimette al lavoro con al comando la moglie di Boyes, Kaelyn, che lavora assieme al gruppo per portare a termine The Low Road, il quale viene finalmente rilasciato nel luglio 2017 per PC, Mac e Linux, fino ad arrivare la scorsa estate su Nintendo Switch. La versione che abbiamo provato tiene conto della classica combo mouse-tastiera, come si addice a un amante della prima ora delle avventure grafiche punta e clicca.

Il Canto della Missione

Ma ritorniamo alla storia narrata: abbiamo detto che Noomi Kovacs si troverà a fare di tutto per avere assegnata la sua prima missione. Come in ogni adventure game, bisognerà compiere una sequenza di azioni per arrivare al risultato finale. Prima di portare però a termine questo primo obiettivo, la nostra protagonista si ritrova a dover fare una telefonata di prova su incarico di Turn. Viene così introdotta una delle particolarità del titolo, una meccanica quantomeno singolare nell’ambito di  un punta e clicca: la prospettiva cambia, dallo scorrimento orizzontale in stile platform che caratterizza The Low Road si passa a una visuale in prima persona con in primo piano le mani del nostro personaggio, che dovremo muovere con il mouse. La prima prova di questo tipo consiste in una conversazione telefonica (che può produrre svariati esiti) durante la quale dovremo fornire le migliori risposte all’interlocutore basandoci su informazioni presenti in documenti consultabili dentro a un fascicolo. Un’idea intelligente, che spezza l’univocità del gameplay tipica delle dinamiche punta e clicca. Si trovano circa una quindicina di questi momenti in tutto il gioco, mini-game di vario genere che non sempre risultano adeguatamente elaborati, e che avrebbero potuto compensare alla quasi totale mancanza di difficoltà del titolo sul piano degli enigmi: è quasi impossibile rimanere arenati in The Low Road e, se questo agevola la fruizione della narrativa, d’altro canto toglie un po’ di mordente a un gioco che esigerebbe un livello di sfida maggiore. Quando l’architettura del design fa della narrazione la colonna portante (come accade nei titoli Telltale e Quantic Dream, per citare gli esempi più noti), la scrittura necessita di un maggior grado di cura sul piano contenutistico e di un ritmo di racconto che vada di pari passo con le esigenze narrative. The Low Road gode globalmente di una buona scrittura, incarnata in un efficace uso dell’ironia, in dialoghi ben pensati, alcuni dei quali davvero divertenti come lo scambio di battute in rima con Hab (che fa da prodromo a una vera e propria sfida di rima baciata svolta in una modalità picchiaduro che ricorda da vicino Oh…Sir! The Insult Simulator) o alcuni siparietti grotteschi che stimolano una storia globalmente solida, che risulta godibile e diramata pur non riservando momenti di stupore: è infatti utile anche fallire in determinati frangenti, e vedere quali futuri sono riservati ai personaggi dopo quel singolo (falso) game over. Il racconto, in questo caso, sfuma nel nero ed è affidato a semplici scritte che raccontano un finale alternativo ma “parziale”, perché un “forward” da videoregistratore ci riporterà immediatamente al punto in cui avevamo perso, dandoci la possibilità di effettuare scelte alternative, fino a imbroccare quella corretta. I finali possibili in The Low Road sono effettivamente due, e il bivio si presenterà nell’ultimo scenario, che sarà possibile ripercorrere soltanto a seguito di un salvataggio.

Imperfect Spies

In termini di gameplayThe Low Road è quanto di più essenziale ci si possa aspettare da un titolo del genere: privo di qualsiasi interfaccia di scelta con azioni contestuali effettuabili tramite un semplice click del mouse, ci si servirà del tasto destro per l’analisi degli oggetti e del tasto sinistro per le azioni vere e proprie. Il puntatore cambia aspetto e forma ogni qualvolta sarà possibile interagire con un oggetto, che a sua volta verrà messo in rilievo rispetto al background. Proprio nell’interazione con gli oggetti circostanti si può ravvisare uno dei limiti del titolo: sempre per una scelta di game design, si è optato per asciugare il più possibile le interazioni, a favore di quelle con elementi che risultino funzionali alla risoluzione degli enigmi. Se questa è una scelta in favore della snellezza e del ritmo, d’altro canto rischia di lasciare il quadro narrativo un po’ spoglio. In un titolo del genere, l’analisi degli “elementi inutili” da parte di un personaggio ha una funzione ben precisa, quel che risulta dalle interazioni può contribuire a dare forza al contesto o caratterizzare di rimando alcuni personaggi o ambienti, o ancora può aumentare la carica ironica o poetica, o epica, o altro relativo al messaggio veicolato dal gioco, in relazione alla prospettiva e al feel che si vuole restituire all’utente. Questo tipo di interazioni sono qui portate ai minimi termini, e spesso è un peccato, specie davanti a scenari così belli e ricchi di dettagli.
Lo stile grafico è infatti uno degli aspetti più ammirevoli del gioco: ispirandosi alle illustrazioni “gouache“, Scott Carmichael mette in scena ambienti e personaggi di grande godibilità, più improntati allo stile utilizzato da moderni illustratori, fumettisti e cartoonisti che ai pittori classici, creando un ottimo effetto visivo, elegante e vivido al contempo, con un equilibrio non facile fra l’altro da raggiungere, dovendo rendere credibili le animazioni quasi da luna park di personaggi che si muovono come burattini. Ma tutto è così ben realizzato che la credibilità della finzione scenica non vacilla, risultando anche le dinamiche d’animazione perfettamente in linea con l’art-style e con i toni improntati al “comedy”.
A tutto ciò fa da sfondo il comparto sonoro di Eric Cheng, con buoni effetti e un’ottima soundtrack sospesa tra sonorità british e accenti psichedelici che riportano all’epoca di riferimento senza risultare marcatamente retrò. Sarebbe stato un lavoro perfetto sul piano audio se non fosse inficiato da alcuni doppiaggi che, seppur buoni, hanno alcune fastidiose sbavature in termini di resa, tra echi e riverberi poco gradevoli. Roba da poco, comunque, che non rende meno buona un’operazione globalmente di rilievo.

Si vive solo due volte

The Low Road è un titolo lontano dall’essere perfetto, ma è un’avventura grafica degna di essere giocata: una buona scrittura, che non sottovaluta un efficace equilibrio di trama e ironia, valorizzata da un ottimo comparto grafico e da una colonna sonora ben curata, a cui si aggiungono una varietà di mini-game che fanno da valido contraltare a enigmi non impegnativi ma funzionali a entrambi i finali della storia. Il cui risultato è globalmente più che positivo.
Se esiste un paradiso per i creatori di avventure grafiche, Skye Boyes, alla cui memoria il gioco è dedicato, avrà giocato con gusto a The Low Road, e da qualche parte sorride soddisfatto del risultato dei ragazzi di Xgen Studios, che hanno affrontato con successo il banco di prova del primo punta e clicca della loro storia di development.




Nintendo annuncia la sua line-up per il 2019

Ieri sera si è svolto uno dei tanti Nintendo Direct, che però questa volta sembra aver lasciato il segno più che le altre volte. Nintendo doveva infatti affrontare uno dei problemi relativi all’elevato successo di Switch nei primi 12 mesi, ovvero la poca grandezza del parco titoli, e lo ha fatto, ieri ne sono passati in rassegna 50 tra grandi brand Nintendo e terze parti. Tutti questi giochi sono riusciti a oscurare anche il lancio del Nintendo Online Service, che é riuscito a passare quasi indenne da critiche.
Di fatto l’azienda nipponica con così tanti annunci ha svelato la sua line-up per il 2019 che si differenzierà da quella del 2018 per la presenza di IP più importanti per il marchio. Infatti il 2018, nonostante non fosse stato un cattivo anno per la Nintendo, che ha creato buoni giochi, è stato caratterizzato dall’assenza delle grosse IP.
Tra i titoli annunciati troviamo New Super Mario Bros U, Yoshi’s Crafted World, Fire Emblem: Three Houses, Pokémon, Animal Crossing e Luigi’s Mansion 3 probabilmente avremo Metroid Prime 4, e magari alcuni giochi come Game Freak’s Town. Dovrebbero essere previste alcune espansioni e anche dei nuovi prodotti Labo.
Tutti questi annunci non sono però da Nintendo, l’abbiamo conosciuta come un’azienda che agisce con un certo metodo, annuncia nei primi mesi dell’anno i suoi giochi e annuncia i titoli natalizi all’E3 ma ora cinque dei titoli sopracitati esistono solo sotto forma di logo e si tratta di Pokémon, Luigi Mansion 3, Metroid Prime 4, Animal Crossing e Bayonetta 3, chissà che la fretta dagli stessi fan non pregiudichi la qualità, tutto ciò potrebbe però essere poco veritiero nel caso in cui Nintendo abbia deciso di annunciare questi giochi a sviluppo inoltrato.




20 anni di Pokémon Giallo

Che siate fan o meno della serie Pokémon, quello di Pikachu è un nome che difficilmente passa inosservato: antonomasia nel 90% in cui mamme/papà/zii/nonni vedono un esserino dalle forme tipicamente nipponiche, non importa se sia un altro Pokémon, un Digimon o uno Yo-kai, per loro sarà sempre e solo un Pikachu, allo stesso modo in cui tutte le console fisse sono “la PlayStation”. Tutto ciò dà l’idea dell’importanza del topo giallo, mascotte indiscussa del brand, presente negli spot televisivi e soprattutto nella serie animata; le console Sony  sono sempre state più popolari rispetto alle controparti, tranne che sul mercato handheld, dove la grande N ha fatto e fa da padrona indiscussa. E se oggi quel mostriciattolo elettrico è ancora così popolare, è anche grazie a Pokémon Giallo, uscito in Giappone il 12 settembre 1998, esattamente 20 anni fa, e arrivato da noi “solo” due anni più tardi.

Successivo a Rosso e Blu (o Verde nel paese del Sol Levante) e considerato più una versione aggiornata e migliorata di questi ultimi che un gioco a sé, quest’edizione speciale ha portato piccole ma importanti novità all’interno della saga, alcune permanenti, altre esclusive del capitolo, altre ancora riprese solo in seguito.
Per chi non lo avesse mai giocato, la trama è rimasta pressoché la stessa dei capitoli precedenti ma con qualche variazione, per renderla più vicina a quella dell’anime: vestiremo i panni di un bambino di 10 anni che inizia quasi per caso la sua avventura come allenatore di Pokémon partendo da Biancavilla, la sua città natale. Il nostro starter sarà un Pikachu catturato poco prima dal Professor Oak, il quale chiederà a noi e a suo nipote (che partirà con un Eevee a disposizione) di esplorare la regione di Kanto per catturare e raccogliere informazioni su tutti i Pokémon esistenti (ai tempi solo 151) all’interno del Pokédex, un’enciclopedia virtuale creata ad hoc. Oltre a ciò, dovremo creare il nostro personalissimo team per sconfiggere allenatori, capipalestra (modificati sempre per essere fedeli all’anime), il malvagio Team Rocket (con Jessie e James come ospiti d’eccezione) e la temuta Lega Pokémon per diventare Campione.

«Realizzare una guida completa di tutti i Pokémon del mondo… era questo il mio grande sogno!»

Fin qui la differenza sostanziale con gli altri capitoli sta nel non poter scegliere il nostro starter e, volenti o nolenti, Pikachu sarà la nostra unica opzione. E, proprio come nell’anime il Pikachu di Ash non aveva intenzione di passare buona parte della propria vita all’interno di una PokéBall (chiamatelo fesso), il nostro non farà eccezione, e camminerà accanto a noi durante le scorribande in giro per Kanto, almeno finché lo terremo in squadra. E non sia mai che vi venga in mente di farlo evolvere!
Qui fa la sua prima apparizione una delle feature più amate dai fan, quella del Pokémon accompagnatore, che consente di portarsi un mostriciattolo in giro e poter interagire con lui per conoscere il suo stato d’animo e il livello di affinità con l’allenatore. Dopo Giallo, questa caratteristica verrà ripresa solo molti anni più tardi e in modo parziale su Diamante/Perla/Platino (solo in un determinato luogo e con Pokémon speficici) e completamente su HeartGold/SoulSilver dove possiamo andare a spasso con chiunque e quasi ovunque; ci si aspetta lo stesso anche dai futuri Let’s Go Pikachu e Let’s Go Eevee.
Non a caso abbiamo prima citato l’affinità tra allenatore e Pokémon: da questa versione in poi entra in campo il fattore affetto, che misura appunto quanto il nostro Pikachu è affezionato a noi. A partire da giochi successivi, Oro e Argento, l’effetto sarà esteso a tutti i mostri tascabili e avrà effetti rilevanti sul gameplay: alcuni di loro infatti potranno evolversi solo quando raggiungeranno un livello di affetto abbastanza alto.
E ovviamente non scordiamoci del minigioco Spiaggia di Pikachu.

Come molti altri giochi per Game Boy, anche Pokémon Giallo entra nella nostra categoria “missione nostalgia”, e pensare che siano passati ben 20 anni dal suo rilascio non può che far sentire “vecchi” chiunque abbia ricordi d’infanzia legati a questo titolo specifico. Che vogliate tornare bambini o approcciarvi al brand per la prima volta, il consiglio è ovviamente quello di giocarci. Se non avete idea di come reperire una copia fisica ma possedete un Nintendo 3DS o 2DS, la versione digitale è sul Nintendo eShop che vi aspetta. Andate, e acchiappateli tutti!




Detective Gallo

Non di rado, di questi tempi, si sente esprimere a un amico, a un collega o a un avventore qualunque la voglia di andare via da questo paese, vuoi per il poco lavoro, le troppe tasse, i populisti, i terrapiattisti, i no-vax, la disillusione galoppante, va a sapere.  C’è sfiducia nell’Italia, e soprattutto poca stima verso gli italiani. Non che sia un discorso a me incomprensibile, a volte mi sento così anch’io. Quando ho giocato a Detective Gallo, dell’italianissima Footprints, ho provato infatti un senso di piccolo conforto.
Il mio primo incontro con il pingue pennuto avviene nel 2016, in un angolo della Milan Games Week riservato ai soli sviluppatori indie italiani (grazie, AESVI). I giochi erano tanti, e pure interessanti, ma dove volete che cada l’attenzione di uno cresciuto a pane e avventure grafiche? Non solo ho provato il gioco, ma ho scambiato anche due chiacchiere con le due menti creative che hanno presieduto alla sua creazione, i fratelli Francesco (programmatore, nonché script e UI developer) e Maurizio De Angelis (Art director, animator e story editor). Ne era venuta fuori un’intervista interessante andata in onda durante uno speciale su Teleacras, e che poi fu persa assieme ad altri file a causa di un “Millennium bug” che affettò i server dell’emittente in quei giorni, prima che ne venisse effettuato il backup. Un vero e proprio delitto. Un caso forse buono per il Detective Gallo. Che però, almeno in questa interessantissima avventura grafica, ha ben altro di cui occuparsi.

Prima l’uovo o il Gallo?

Ma facciamo un passo indietro: sappiamo che creare un videogame non è facile, tantomeno in un paese come il nostro. Vale quindi la pena raccontare un po’ la gestazione di questo progetto. Prima del gallo, del resto, deve nascere l’uovo. E l’uovo è stato deposto nel 2015, anno di rilascio della prima build del gioco, covato poi assieme all’attuale publisher, Adventure Productions, che ha dato al progetto motivi e sostanza per continuare. Si è arrivati così al crowfunding nella seconda metà del 2016, con una campagna su Eppela che ha fruttato circa 15.500 €, permettendo di lavorare su cutscene, animazioni, localizzazione in altre lingue e un doppiaggio italiano e inglese tuttora presente nel titolo. Il gioco è stato quest’anno rilasciato dapprima per PC e successivamente anche su PS4 e Nintendo Switch, dove è stato distribuito da MixedBag, che ne ha curato anche il porting su console lavorando su Unity partendo dall’engine originario del gioco, Adventure Game Studio. Oggi il titolo sta registrando un buon apprezzamento di critica e pubblico, ed è quasi una storia da fiaba per i developer di Detective Gallo, che hanno messo su non solo un’avventura grafica di grande equilibrio, ma anche trainata da una storia molto ben curata, che vede al centro un protagonista di un certo appeal e ben caratterizzato che andiamo a conoscere subito.

Le 3 P

Professionista, polemico e puntiglioso: chi avrebbe il coraggio di mettersi contro il Detective Gallo? Forse nessuno, tranne un serial killer di piante che semina il terrore fra i proprietari di vegetali della città. Il più sconvolto dalla vicenda è il ricco e stralunato Phil Cloro, botanofilo incallito che dà inizio all’avventura portando il Nostro nella propria villa per constatare lo sterminio di massa delle sue piante rare (un vero e proprio botanicidio) e incaricandolo di scoprire l’efferato autore di simili delitti a fronte di un cospicuo compenso. Detective Gallo ha un vero esperto in materia ad affiancarlo, l’assistente Spina, un fiero e acuminato cactus nano, personaggi non giocabile che diverrà silenzioso contraltare delle arzigogolate deduzioni e convinzioni espresse in un susseguirsi di regole etiche che compongono la singolare weltanschauung dell’investigatore.
Si intuisce bene già da queste scelte la portata di ironia trasfigurante di quest’avventura grafica, che si arricchisce di personaggi caratteristici quali la venditrice di caramelle Candy Bop, eternamente innamorata di Detective Gallo, il baby teppista, il commerciante, il taxista (con la sua singolare evoluzione spirituale), fino all’informatore che non vedremo mai ma di cui emerge nitida la caratterizzazione attraverso i soli dialoghi telefonici intercorsi con l’investigatore.
Insomma, un approccio del tutto “comedy” che si intesse in una struttura narrativa da noir investigativo. Quando si approcciano i generi (non solo videoludici), il rischio di scivolare nel banale del canone è grosso, e i ragazzi Footprint Games mostrano di esserne consapevoli. Detective Gallo gioca bene con i cliché, occhieggia al meta, indulge al citazionismo e non nasconde le influenze alla base dell’opera, e riuscire a fare tutto ciò senza banalizzare è il primo grande merito dei fratelli De Angelis. L’altro è quello di aver curato egregiamente la scrittura: la storia assume un tono umoristico ma non superficiale, apprezzabile da un pubblico eterogeneo per età e cultura, con linee di testo che non sforano i limiti del politicamente corretto senza però risultare rattenute. Equilibrio e qualità, insomma, si ha la sensazione di star leggendo quella che è una storia Disney per toni, scrittura (una scrittura ibridata con l’umorismo delle vecchie avventure della fine dello scorso secolo) e anche nel finale, dove si è messi davanti a un coup de théâtre che fa sorridere. Una simile storia non sfigurerebbe nella collana Disney noir, sia in ragione dei contenuti, sia, come è chiaro già a un primo sguardo, grazie al proprio art-style.

Storie di Paperi

Difficile non pensare agli albi di Topolino, a Mega 2000, a TopomisteryDetective Gallo ha quello stile visivo interamente incentrato sull’universo tanto caro a Don Rosa e Carl Barks. Non sono presenti altre figure zoomorfe, soltanto degli amabili pennuti coi loro becchi di forma varia, dal sardonico sorriso del commerciante alla tonda e bonaria Candy Bop sino al nerboruto e duro proprietario della discarica, senza dimenticare il nostro scontroso protagonista.
Gli scenari sono armonicamente deformati, ricordandoci gli ambienti di alcuni classici della LucasArts come Day of The Tentacle Sam ‘n Max; proprio da quest’ultima iconica avventura grafica sembrano provenire non poche ispirazioni, a partire da quella che è l’atmosfera di fondo del gioco (in merito alla quale si vede chiara anche l’influenza di avventure come Tony Tough Discworld) sino ad alcuni scenari, su tutti quello onirico e surreale in cui Detective Gallo si troverà a dover estorcere preziose informazioni a un personaggio, che ricorda concettualmente il Mistery Vortex dell’avventura di Steve Purcell. Oltre a risultare visivamente bello ed efficace in fase di gioco, lo scenario della dimensione del sogno contribuisce anche a rompere una monotonia che la scarsa varietà di ambientazioni rischia alla lunga di creare, che è uno dei pochi difetti del gioco (pur risultando una buona idea in termini di design, i cartelli direzionali in ogni scenario non sarebbero necessari) alla pari di alcuni enigmi che potevano essere meglio congegnati: difficilmente un utente avvezzo alle avventure grafiche si troverà bloccato, i puzzle sono abbordabili ma non per questo semplificati, il punto debole di alcuni (davvero pochi, in verità) sta nella mancanza di una ferrea consecutio di indizi atti a condurre alla soluzione, ma si tratta di eccezioni ampiamente compensate dal resto delle quest che invece tengono ben presenti questi pattern, e che assicurano un buon livello d’impegno e un ritmo di gioco che non si spegne praticamente mai.
In questo aiuta anche non poco la scelta intelligente di alcune meccaniche: i game designer hanno optato per una grande semplicità di interazione portando al minimo il concetto di “interfaccia ad azioni contestuali“, e che ci vedrà utilizzare i tasti sinistro e destro del mouse rispettivamente per compiere azioni e analizzare ambiente e oggetti, in linea di massima. Questa scelta, assieme alla facoltà di saltare i dialoghi e alla possibilità di intuire quelli già affrontati, alla facoltà di vedere tutti gli hotspot disponibili su schermo premendo la barra spaziatrice e alla “courtesy option” che permette di andare direttamente allo scenario con un semplice doppio click nella direzione prescelta, massimizza la godibilità del titolo e riduce al minimo i tempi morti.
A far da adeguato contorno a tutto ciò c’è la colonna sonora di Gennaro Nocerino che restituisce molto bene le atmosfere da noir investigativo, mantenendosi su stilemi classici ma non stantii, ed elaborando melodie sospese tra il serio e il dilettevole, che contribuiscono a dar ritmo e leggerezza alle sequenze di gioco senza mai astrarre il giocatore dal contesto, e contribuendo a un comparto sonoro di ottimo livello, che unisce SFX appropriati a un doppiaggio di tutto rispetto, dove la voce del Detective Gallo (interpretato in italiano da Federico Maggiore, che dà voce anche a Skinny di The Wardrobe, gioco distribuito dallo stesso publisher e di cui si trova un easter egg) conferisce carattere al protagonista, non sfigurando affatto con l’omologo inglese assieme a tutto il resto del cast.

Potenziale seriale

L’opera prima di Footprints porta a casa un risultato il cui equilibrio non è affatto scontato, né facilmente raggiungibile: una storia godibile e dal buon ritmo, che riesce sorprendentemente a capovolgersi anche quando sembra aver imboccato una soluzione narrativa banale, personaggi  ben caratterizzati, un art-style straordinariamente curato, che sbava solo in alcune animazioni di certo migliorabili, una soundtrack appropriata, enigmi di medio impegno che seguono un’adeguata curva di difficoltà crescente, il tutto incastonato in un sistema di gioco intelligente, semplice ed efficace. Se, oltre a enigmi più elaborati, avessimo avuto una maggior varietà di ambientazioni, Detective Gallo sarebbe un gioco davvero senza sbavature.
Si può poi discutere, sul piano narrativo, della bontà o meno della soluzione finale che, se da un lato può sembrare un po’ facilona, dall’altro ha i connotati rocamboleschi e leggeri delle storie disneyane, e risulta certamente in linea con l’intero mood del gioco, contribuendo all’armonia globale dell’opera.
Se la limitatezza delle ambientazioni deriva certamente dalle risorse disponibili, sul resto si può benissimo lavorare, le basi ci sono tutte, anche per fare di Detective Gallo un personaggio seriale. Il potenziale del personaggio c’è, il talento dei creatori pure: perché non provarci?




Octopath Traveler

Sin dal suo annuncio nel gennaio del 2017, Octopath Traveler ha riscontrato parecchio interesse tra i possessori dell’ibrida di casa Nintendo, molti dei quali (me compreso) nostalgici dell’era a 16 bit, che non potevano restare indifferenti a uno stile grafico richiama chiaramente giochi come Final Fantasy VI e in generale molti jrpg presenti sulla console Super Nintendo.
Da allora sono state pubblicate due versioni dimostrative, la prima permetteva di utilizzare soltanto 2 personaggi (Primrose e Olberic), mentre la seconda permetteva di giocare con tutti gli 8 personaggi, e permetteva di mantenere il salvataggio per poterlo utilizzare nella versione completa.

Possiamo scegliere un personaggio tra gli 8 disponibili, ognuno dei quali ha una storia personale; progredendo nell’avventura potremo incontrare gli altri protagonisti e scegliere se portarli insieme a noi oppure ignorarli. Nel primo caso sarà possibile anche ascoltare la loro storia e inserirli nel nostro party (è possibile utilizzare soltanto 4 personaggi alla volta).
Ogni storia è suddivisa in 4 parti, ognuna delle quali con un livello consigliato per affrontarla e un un boss finale (unico per ogni personaggio): ciò che differenzia maggiormente il gioco dagli altri jrpg è il tono più maturo di alcune delle storie, che affrontano anche temi difficili e scottanti quali la prostituzione, e sono raccontati molto bene, godendo di buona localizzazione in italiano, di cui sono presenti i sottotitoli.
Un limite narrativo è dato dalla mancata interazione dei personaggi tra loro: a parte qualche dialogo opzionale, ogni storia è vissuta allo stesso modo indipendentemente dagli elementi del nostro party, i quali servono soltanto ad aiutarci nelle battaglie e non influiscono minimamente nella trama.

Gli sviluppatori hanno voluto adottare uno stile grafico (chiamato da loro HD-2D) atto a evocare la nostalgia degli appassionati di jrpg a 16 bit degli anni ’90, usando però anche le tecnologie moderne; il gioco gira sull’ Unreal Engine 4, gli sprite sono rigorosamente in pixel art 2D, mentre il mondo di gioco è in 3D, pur mantenendo uno stile rigorosamente retrò: come se un gioco del Super NES acquistasse la terza dimensione ed effetti di luce e particellari moderni, insomma.
Di certo non si griderà al miracolo, non può certo reggere il paragone con i giochi AAA attuali, ma gli appassionati apprezzeranno sicuramente il lavoro di Acquire.
La colonna sonora a cura di Yasunori Nishiki è di ottima fattura e calza a pennello con ogni situazione di gioco, sia nei combattimenti che durante l’esplorazione della mappa o le visite nelle  città, anche il doppiaggio in inglese è ottimo, gli attori fanno il loro dovere nelle svariate situazioni, il gioco è sottotitolato in italiano per la gioia di chi non mastica l’inglese.

I produttori di Octopath Traveler hanno lavorato precedentemente a Bravely Default Bravely Second: End Layer e la somiglianza maggiore tra questi titoli sta nel combat system: se in Bravely  Default potevamo accumulare potenza mettendoci in difesa, per poi eseguire fino a 4 colpi consecutivi, in Octopath Traveler saremo in grado di colpire i punti deboli dei nemici (una volta trovati) fino a quando questi entreranno nello status “dominio”, nel quale rimarranno storditi per un turno, e noi potremo punirli accumulando potenza dei colpi fino a 4 volte e rilasciarla con un devastante attacco.
Gli scontri sono rigorosamente a turni, e offrono un livello di sfida sempre crescente, alcuni boss necessitano di una buona strategia per essere sconfitti, ma il tutto non risulta mai frustrante, e le sconfitte ci spronano a trovare nuove strategie e combinazioni di classi.
Ogni personaggio rappresenta una classe: Olberic è il guerriero, Ophilia è la guaritrice, Therion il ladro e via dicendo. Ognuno di loro ha delle abilità uniche, Olberic può sfidare altri NPC a duello per guadagnare esperienza, mentre Therion può rubare loro degli oggetti. Ogni personaggio può però scegliere una classe secondaria (trovando dei santuari che le sbloccano) tra cui anche 4 classi speciali (segrete). Le combinazioni sono davvero tantissime, considerando sia le abilità attive che quelle passive che ogni personaggio acquisisce con l’aumentare del proprio livello.
Gli scontri avvengono in maniera casuale mentre si esplora la mappa o i numerosi dungeon, esattamente come i vecchi jrpg dell’era a 16 bit, e potrebbe essere motivo di frustrazione per chi non digerisce questo tipo di meccanica.
Oltre alle storie principali dei protagonisti, possiamo affrontare tantissime missioni secondarie, alcune delle quali aggiungono degli importanti pezzi alla trama principale, ma trovarle è davvero difficile, e potrebbero passare inosservate ai poco attenti; inoltre il gioco non ci aiuta minimamente su come risolverne alcune davvero ostiche, il diario tiene traccia soltanto delle storie principali e non c’è modo di controllare le missioni che stiamo seguendo, e forse riguardo questo aspetto si poteva fare di più.
La longevità si attesta su ottimi livelli, per finire le storie principali ci vogliono circa 40 ore di gioco, mentre per completarlo al 100% ce ne vorranno almeno il doppio.

Octopath Traveler si rivela un titolo molto interessante, ma non per tutti, chi non digerisce la grafica in pixel art e i jrpg old school con combattimenti a turni e scontri casuali ne stia alla larga, ma per i nostalgici dell’era a 16 bit è un gioco da tenere altamente in considerazione. Anche se non perfetto, offre tantissimi contenuti che terranno impegnati per svariate ore. Se amate i giochi di ruolo giapponesi di altro tempo e siete possessori di Nintendo Switch, non lasciatevelo scappare.




Nintendo e i recenti sviluppi sull’emulazione

In queste settimane il mondo del retrogaming ha subito una scossa tellurica senza precedenti; il più grande sito di emulazione, emuparadise.me, ha rimosso l’intera sezione download di ROM, ISO e emulatori, decretando così la fine della sua storia, preziosissima nel recupero di titoli che altrimenti sarebbero andati perduti. Dietro a una simile decisione c’è la “minaccia Nintendo” che ha fatto causa ai siti LoveROMs e LoveRETRO per aver violato il loro copyright, in quanto non solo lo stile del sito faceva largo uso delle proprietà intellettuali della compagnia giapponese ma il sito si presentava, più che come un un sito di emulazione, come una sorta di skin somigliante ai canali ufficiali Nintendo o qualsiasi altro store digitale proposto con le console casalinghe (ovviamente, però, il tutto era ceduto gratuitamente). In seguito alla chiusura della sezione download di Emuparadise, la cui unica fonte di sostentamento erano le donazioni volontarie degli utenti, altri siti di emulazione potrebbero far lo stesso per non evitare conseguenze legali e i retrogamer di tutto il mondo riversano la propria rabbia alla responsabile di tutto ciò, che è ovviamente la casa di Kyoto. Ma cosa è in potere della compagnia giapponese e che ne sarà del futuro dell’emulazione? Quali sono i veri effetti che una mossa del genere potrebbe portare alla comunità di retrogaming? Proviamo ad analizzare i fatti che hanno portato a questi nuovi inquietanti eventi.

Le cause e gli effetti

Per capire le cause della querela da parte di Nintendo a LoveROMs e LoveRETRO basta guardare qualche screenshot degli ormai defunti siti: sin dalle homepage è possibile notare i paesaggi presenti nei New Super Mario Bros. e la presenza di altre proprietà intellettuali nonché, nelle sezioni ROM, le boxart dei giochi da scaricare, come un vero e proprio servizio di streaming a pagamento. Nei più normali siti di emulazione, come in Emuparadise, ci sono solamente liste che mostrano solamente i titoli dei videogiochi che vogliamo scaricare e gli screenshot e/o box-art appaiono una volta che il link ci rimanda alla pagina del download. Per il resto, l’unica altra cosa di proprietà di Nintendo su Emuparadise, al di là delle ROM, è giusto un vettoriale di Samus Aran in basso a sinistra nella home.

Per quanto Nintendo sia stata tempestiva nel far causa a LoveROMs e LoveRETRO senza pensare alle conseguenze, i due siti gemelli non hanno mai considerato di stare usando materiale protetto da copyright riguardo la skin delle loro piattaforme. Il fulcro della causa sono ovviamente le ROM ma è anche vero che se si avvia un sito del genere, la cui legittimità dello scopo si trova in una zona grigia (senza contare che le leggi sul copyright e il libero download cambiano da paese a paese), bisogna anche provare ad alzare meno polveroni possibili e rimanere nell’ombra più che si può. Adesso, come effetto, Emuparadise e altri grossi siti di emulazione, come The Isozone, stanno chiudendo le proprie sezioni download per evitare che Nintendo possa far loro causa per gli stessi motivi; è difficile dire che siano nello stesso “torto” di LoveROMs e LoveRETRO ma, preventivamente, è stato meglio rimuovere le ROM dai loro siti e continuare a esistere come comunità per il retrogaming. Ma adesso: cosa succederà alla scena dell’emulazione?

Una nuova scena?

Vogliamo ricordare, come prima cosa, che Emuparadise, LoveROMs e LoveRETRO sono siti i cui proprietari si trovano negli Stati Uniti e dunque, da cittadini americani, devono rispettare le leggi del loro paese, le stesse che permettono inoltre a Nintendo di compiere azioni legali (e che dopo commenteremo). Per tanto, anche se lo scenario attuale può sembrare desolante, l’emulazione continuerà a esistere anche senza Emuparadise e The Isozone. Il problema principale per chi usa Everdrive per le console o semplicemente chi scarica anche solo per provare determinati titoli per poi comprarli su Ebay o nelle piattaforme legali che offrono titoli retro sarà semplicemente legato a sicurezza, reperibilità e accessibilità. Emuparadise per anni è stato sinonimo di emulazione, offriva (con buona probabilità) il più grosso database per ciò che riguardava le console precedenti alla settima generazione di console, ovvero quella di PlayStation 3 e Xbox 360 (esisteva una sezione per il Nintendo Wii), offriva i titoli per Satellaview, add-on per il Super Famicom che consentiva di utilizzare giochi esclusivi via satellite e mai più messi in commercio, titoli di sviluppatori in attività e defunti come la Toaplan che non hanno mai più rivisto un secondo rilascio, neppure per la Virtual Console, e, cosa più importante in simili siti, era libero da ogni rischio di phishing, malware o qualsiasi altro elemento per i PC di coloro che volevano solamente giocare a qualche gioco pixelloso; inutile a dirlo, Emuparadise non monetizzava in alcun modo e le donazioni servivano primariamente a pagare il dominio e i server che contenevano l’enorme database.
Esistono ancora altri siti di emulazione in altri paesi (e dunque in altre lingue), senza contare l’incontenibile scena dei torrent in cui possiamo trovare un sacco di materiale ma il problema per gli appassionati rimane: saranno abbastanza sicuri? Saranno abbastanza forniti? Cosa succederà alla scena degli hack e delle traduzioni che hanno portato in occidente titoli, come Mother 3, di cui Nintendo ignora la domanda da anni? Che ne sarà dell’emulazione non-Nintendo? Che ne sarà della scena del MAME che ha preservato un’infinità di titoli che altrimenti sarebbero andati persi per sempre? Che ne sarà della scena del MSX, avviata persino dall’ideatore stesso dello standard Kazuhiko Nishi? Che ne sarà dei giochi 3DO? Ci sono un sacco di domande alla quale per ora è impossibile dare risposte; l’unica plausibile, sebbene abbia una risposta abbastanza semplice, è quella di aspettare che finisca la tempesta e di lasciare che la scena dell’emulazione si riformi tenendo conto degli eventi che hanno portato a chiudere i maggiori colossi del web. Forse negli Stati Uniti, epicentro degli scontri, si dovrà in futuro ricorrere a indirizzi VPN e relegare una nuova scena all’interno del deep web, probabilmente non sarà così in Stati come la Russia, in cui la scena degli scambi virtuali fila liscia come l’olio; per ora l’emulazione vede giorni bui ma, come si dice spesso, “ciò che arriva in rete, rimane in rete” e perciò, secondo noi, è solo una questione di tempo perché l’emulazione torni forte e affidabile come prima (insomma, Nintendo per anni non ha nemmeno considerato il problema, è possibile che non lo considererà più neanche il futuro).

La voce del padrone

Per quanto si possa condannare Nintendo per ciò che stanno facendo ai siti di emulazione, la grande N ha tutte le basi per procedere: sui giochi proposti in quei siti possono accampare diritti, si tratta delle loro proprietà intellettuali e pertanto possono bloccarne la diffusione. Per quanto romantiche possano sembrare frasi come “i giochi appartengono alla community dei videogiocatori”, i giochi non sono di dominio pubblico e nessuno può permettersi di diffondere le IP di qualcun altro senza consenso, anche di fronte all’imprescindibile fatto che, se servizi come la Virtual Console o Xbox Live Arcade hanno avuto il loro successo, lo devono alla scena dell’emulazione preesistente. Il problema principale adesso, per Nintendo, sta nel restituire ai fan tutto ciò che hanno fatto sì fosse rimosso dai siti per l’emulazione e renderli di nuovo disponibile, sia per il bene degli sviluppatori e sia per i fan che vogliono quei giochi; pensate al solo Super Mario Sunshine, sequel di Super Mario 64, rimasto relegato al Nintendo Gamecube e che non ha mai visto il rilascio in nessuna console di generazione successiva. Alla luce di questi fattori, sorge spontanea una gigantesca domanda: riuscirà Nintendo a preservare la sua stessa libreria di titoli per il suo bene, quello degli sviluppatori e quello dei fan? Per ora la console principale della compagnia di Kyoto, il Nintendo Switch, non propone nessun titolo proveniente dalle loro vecchie console (solamente alcuni giochi arcade delle librerie Neo Geo e qualche altra piccola rarità) e gli unici canali ufficiali, ovvero la Virtual Console per Wii e quella più magra del Wii U, semplicemente non hanno vita lunga. Nintendo, nel compensare la fame di retrogaming nei fan, sta costruendo un servizio simile al PS Plus e al GamePass di Microsoft da lanciare insieme al servizio online di Switch ma purtroppo parliamo solamente di una manciata di titoli al mese (con l’aggiunta, per alcuni, del multiplayer online) che non rimarranno nella memoria delle console dei giocatori; i titoli per ora riguardano solo il Nintendo Entertainment System ma tutti i giocatori si chiedono la stessa cosa: e i giochi per Super Nintendo, Nintendo 64, Gamecube, Wii, Sega Mega Drive, Commodore 64, PC Engine, insomma, tutte le console che abbiamo visto sulla Virtual Console? Per i possessori delle console Nintendo la situazione non è affatto rosea e probabilmente nemmeno gli iper-popolari NES e SNES mini (che si avvalgono per altro delle ROM caricate nei siti di emulazione e non dei codici madre originali) potranno mai risolvere la situazione in loro favore, nemmeno se un giorno verranno resi disponibili tutti i titoli tolti ai siti di emulazione perché nessuno avrà modo di provarli (e per le nuove generazioni di giocatori, che non guardano questi giochi con lo stesso occhio nostalgico di alcuni, serve davvero un canale di prova). Nintendo perora avrà vinto la battaglia ma tutti sanno che è una guerra che non potrà mai vincere del tutto, nemmeno offrendo il miglior servizio di streaming o vendita per il retrogaming; potranno anche uscirsene a testa alta offrendo persino agli sviluppatori una soluzione che possa far sì che monetizzino sui loro vecchi titoli ma l’emulazione è semplicemente un movimento troppo diffuso per estinguersi, e saprà trovare contromisure. Non ci resta che aspettare e vedere l’epilogo di questa storia, sia per Nintendo sia per la scena dell’emulazione.




42: Il cut content di Dark Souls II

Abbiamo visto come Dark Souls abbia avuto uno sviluppo in parte travagliato, con numerosi tagli, cambi di idee e mancanza di tempo che fortunatamente non ne hanno intaccato la qualità. Se pensate che con il sequel le cose siano andate meglio vi sbagliate di grosso: Hidetaka Miyazaki, probabilmente molto coinvolto nello sviluppo di Bloodborne, lasciò il progetto Dark Souls II nelle mani di Tomohiro Shibuya e Yui Tanimura, che portarono numerose novità e migliorie ma anche diverse problematiche, con scelte a volte difficili da comprendere, come la rimozione di un elemento fondamentale – che avrebbe chiarito una volta per tutte – le implicazioni del finale.
Oggi tocca appunto a Dark Souls II: vedremo armi, equipaggiamento ed elementi ben più importanti rimossi dal gioco e mai apparsi, nemmeno nella Scholar of the First Sin, che ha cercato di mettere la pezza ad alcune magagne del titolo.

Un taglio col passato

Sappiamo benissimo che Dragleic, terra protagonista del nostro peregrinare, è situata in un ciclo molto in là nel futuro rispetto agli eventi di Lordran, e questo ha consentito di portare diverse novità sul piano contenutistico ma anche di gameplay, approfittando delle nuove “conoscenze” di Re Vendrick, di Aldia e del resto degli abitanti. Tante sono le nuove armi, scudi, magie e anelli, portati a quattro come numero, approfondendo di gran lunga le meccaniche GDR. E partiamo proprio da qui, da questi oggetti misteriosi e che tanto hanno da raccontare, come gli Anelli Illusori del Vendicatore e del Colpevole, strumenti speciali in grado di nascondere alla vista determinati equipaggiamenti. C’è da dire che questi anelli probabilmente avrebbero dovuto completare un set, visto la presenza in game dell’Anello Illusorio dell’Esiliato, in grado di rendere invisibile l’arma nella mano destra e ottenibile esclusivamente completando il gioco senza mai sedersi a un Falò, e dell’Anello Illusorio del Conquistatore che rende invisibile l’arma impugnata nella mano sinistra e ottenibile solo completando il gioco senza morire. Non è chiaro dunque, quali equipaggiamenti sarebbero stati influenzati da tali anelli e questo purtroppo rende difficile capirne la reale efficacia; ma speculiamo, del resto la saga From Software si basa su questo: immaginate l’effetto invisibilità applicato ad altri elementi come gli oggetti da lancio, come pugnali avvelenati o bombe. L’avversario avrebbe visto solo la corrispondente animazione, cercando di capire in una frazione di secondo la traiettoria dell’oggetto lanciato. Di conseguenza, il PvP sarebbe stato un incubo e forse proprio per questo questi anelli furono tagliati dal gioco. Però grazie ai loro nomi possiamo evincerne la provenienza: l’Anello Illusorio del Colpevole probabilmente sarebbe stato donato servendo la Fratellanza del Sangue mentre, quello del Vendicatore, attraverso il patto con le Sentinelle Blu.
Sono presenti altri anelli, purtroppo senza nome e descrizione, ma alcuni di essi probabilmente legati in qualche modo all’Anello del Sole, in grado di provocare un’esplosione una volta assorbita una certa quantità di danno. Probabilmente questi anelli avrebbero fatto lo stesso, ma generando scariche elettriche, avvelenamento o esplosioni magiche.
Non si vive di soli anelli, tra i contenuti tagliati figurano anche armi particolari o semplicemente dei re-skin di armi già esistenti. Salta all’occhio la rimozione della Spada Oscura dei Darkwraith di cui sarebbe stato interessante vedere il moveset, visto l’appiattimento avutosi in tal senso in questo secondo capitolo. Di descrizioni purtroppo nemmeno l’ombra in tutte le armi interessate, tranne che per gli Artigli delle Ombre, appartenuti a quanto pare a disertori del patto cavalleresco, accecati dall’avidità. Sembra non esserci moveset apposito, mentre un piccolo accenno vi è per una sorta di mazza che sembra riprodurre un fiore blu (ma perché no, anche la testa di Xanthous) e delle pinze di cui si fa fatica a trovarne un senso.
Ovviamente, non potevano mancare le armature dove, tra il vestiario dei Sigillatori di Dark Souls e l’armatura del cavaliere di Alonne nuova fiammante, spiccano due elementi in particolare, contornati nientemeno che da una descrizione: partiamo con il vestito di Rosabeth di Melfia, piromante che liberiamo dalla sua prigione di pietra, estremamente consumato e che effettivamente, non abbiamo mai avuto modo di ottenere. La sua descrizione ci narra di come lei tenesse tantissimo a questo vestito, nonostante non avesse alcun legame con la piromanzia. Essendo una “studentessa devota” dello stregone Carhillion del Profondo, potremmo presumere che il rapporto tra i due sia stato in origine più profondo di quanto mostrato nel gioco; magari è stato proprio lui a donarle questo vestito. Certo, visto come ella se ne liberi al più presto subito dopo averla liberata, crolla tutto il ragionamento, ma ci piace essere romantici. Incredibile ma vero, l’altra “armatura” è un barile; si, non c’è modo di girarci intorno, è un barile che avrebbe impedito quasi tutti i movimenti, “confortante” però, in quanto avrebbe avuto un’alta percentuale di rigenerazione dei punti vita. È uno dei pochi casi in cui siamo contenti che un elemento sia stato rimosso dal titolo.

Confusione e Ambizione

Prima di arrivare al piatto forte, è carino notare come From Software avesse previsto una versione fanciullesca dell’Araldo della Smeraldo, confermato non solo dal modello presente e inutilizzato e dai concept art ufficiali, ma persino dalla presenza del nome della sua doppiatrice nei titoli di coda. Non è chiaro se la bimba fosse prevista come personaggio originale, e quindi poi sostituita con la versione più adulta che incontriamo in-game, oppure se dovesse apparire in luoghi specifici (laboratorio di Aldia ad esempio, chi ha orecchie per intendere intenda) o in qualche “flashback”. Ma che effetto avrebbe fatto una pargoletta Guardiana del Fuoco? Considerato che probabilmente i dialoghi sono stati scritti e doppiati, siamo sicuri che avrebbe avuto la stessa caratterizzazione della versione adulta? Dark Souls II è un titolo profondamente diverso dal suo predecessore, anche nei toni; non ci avrebbe sorpreso una Guardiana capricciosa e magari immatura, con scopi e ragioni del tutto diversi dalla Shanalotte che abbiamo conosciuto. Eppure, in una sua rara animazione, l’araldo sembra quasi una bambina, dondolando i piedi da seduta; siamo dunque sicuri che la sua caratterizzazione sia stata modificata con il cambio d’età? Probabilmente non lo sapremo mai, ma è interessante notare come nei Souls ogni dettaglio possa aprire un mondo di speculazioni.
Ma veniamo ai tagli più dolorosi, addirittura di natura tecnica. Lo sviluppo di Dark Souls II andava “a quasi gonfie vele”, implementando un sistema di luci dinamiche che rendevano questo titolo completamente diverso dal predecessore. Se vi siete chiesti come mai si è data così importanza alle torce all’interno del gioco è presto detto: senza di esse avremo fatto veramente fatica a vedere qualcosa all’interno di edifici, grotte o zone simili e, occupando una delle nostre mani, avremmo dovuto decidere se tenere uno scudo ma non vedere nulla o la torcia ma senza difenderci. Oltre a questo, l’impatto più evidente era sul fronte artistico: in tutti i Souls, compreso il terzo capitolo, abbiamo sempre avuto una “luce artistica” oltre all’alone luminoso generato dal personaggio (anche se giustificato soltanto in Demon’s Souls con l’Augite) per cui, tranne eccezioni volute (Tomba dei Giganti), il gioco garantiva la giusta quantità di illuminazione, scegliendo accuratamente cosa mostrare e come. Paradossalmente, questo è sempre stato uno dei maggiori punti di forza dei lavori di Miyazaki e poco importa se tutto ciò risulti irrealistico. Fatto stà che da Aprile 2013, mese di presentazione alla stampa, al giorno della release ufficiale, Dark Souls II era semplicemente un altro gioco, castrato tecnicamente sotto tutti i punti di vista. Questo è avvenuto perché semplicemente le console non potevano reggere la mole di dati necessaria a far girare adeguatamente il tutto, e questo fa anche sorgere una domanda spontanea: perché implementare sistemi esosi pur sapendo dell’inadeguatezza dell’hardware? La risposta risiede molto probabilmente nello sviluppo confusionario del titolo, con variazioni di idee da un giorno all’altro. Potrebbe esser accaduto che una volta visto il sistema di illuminazione dinamica agli sviluppatori di Dark Souls II non sia piaciuto il risultato finale. Considerato troppo poco “artistico”, magari anche per questa ragione il sistema fu rivisto, in favore di un’illuminazione globale e classica per i Souls.

La goccia di fuoco

Se dopo aver visto il video qui sopra i vostri pensieri sono andati verso situazioni simili in altri giochi come Watch Dogs, Bioshock Infinite o Alien: Colonial Marines, state calmi, è stato fatto molto di peggio.
Una volta sconfitto il boss finale, le porte del Trono del Desiderio si aprono dinanzi a noi: ma cos’è esattamente questo trono e perché è così importante? Queste domande hanno avuto risposta solo dopo attente analisi, studiando la lore e le azioni di protagonisti e antagonisti. Ma bastava un semplice elemento, talmente sciocco nella sua creazione che la sua assenza risultò davvero inspiegabile. Il Trono del Desiderio non è altro che la Fornace della Prima Fiamma e il trono sul quale ci sediamo avrebbe dovuto essere circondato dal fuoco. Questo sarebbe stato un input diretto al nostro cervello, facendoci capire immediatamente che non solo noi diveniamo il nuovo regnante di Drangleic ma soprattutto un Lord of Cinder. Questo è forse il taglio più difficile da digerire in quanto parte integrante della lore di tutti i Souls. Tra l’altro, la sua conformazione è del tutto simile ai troni presenti in Dark Souls III nell’Altare del Vincolo, dove appunto i Lord of Cinder delle varie epoche sedevano. C’è anche un motivo particolare per la quale i troni hanno ugual conformazione ma sarebbe uno spoiler eccessivo per il terzo capitolo.
Completando Dark Souls II, dunque, non è possibile capire cosa stia effettivamente accadendo e neppure se si stia per vincolare la fiamma o meno. Una cosa quindi abbastanza grave, corretta in parte con l’edizione Scholar of the First Sin in cui vi è l’aggiunta del secondo finale grazie all’introduzione di Aldia.
La mancata fiamma dal Trono del Desiderio rappresenta il culmine di una produzione attanagliata da indecisioni, ripensamenti e soprattutto castrata dalla mancata direzione di Hidetaka Miyazaki, il cui tocco si è reso visibile non appena il creatore ha ripreso le redini della saga con Dark Souls III. Nonostante dunque Dark Souls II vanti alcune innovazioni importati al new game plus e al sistema delle dual, con una trama forse più curata rispetto al predecessore, il titolo non è riuscito a trovare il giusto spazio nel cuore degli appassionati, finendo per giacere nel Cumulo di Rifiuti del DLC The Ringed City. Una punizione forse ingenerosa, ma i troppi problemi hanno finito con avvolgere con l’oscurità l’anima di un Dark Souls II che avrebbe meritato uno sviluppo più brillante.




Dusty Rooms: 32 anni di Metroid

Nel 1985 il Nintendo Entertainment System sanciva una volta per tutte la fine della crisi dei videogiochi in Nord America, sostituendosi ad Atari nel mercato delle console. Col suo spettacolare lancio, prima circoscritto nello stato di New York con i giochi “Black Box” (ovvero quelli con lo stesso box-art nero come Excitebike, Clu Clu Land o Wild Gunman) e poi in tutti gli Stati Uniti in bundle con Super Mario Bros., l’allora semi-ignota compagnia giapponese cominciava la sua scalata al potere e, come Atari lo fu per la precedente generazione, Nintendo si poneva come sinonimo di videogioco. Come il NES fu posto era chiaro a tutti: la nuova console 8-bit era un HI-FI casalingo, da accostare tranquillamente al videoregistratore, mangianastri o giradischi, pensato per tutta la famiglia e, i giochi proposti, riflettevano senza ombra di dubbio queste scelte di mercato. Tuttavia, nel 1986, Nintendo decise di lanciare un gioco più tetro, decisamente molto distante dai tipici colori accesi per la quale il NES stava diventando famoso; oggi, per i suoi bei maturi 32 anni, daremo uno sguardo a Metroid e i suoi sequel, una saga Nintendo diventata con gli anni sinonimo di eccellenza tanto quanto quella di Super Mario eThe Legend of Zelda, se non persino superiore.

Un gioco rivoluzionario

Metroid uscì per il Famicom Disk System il 6 Agosto 1986 ponendo atmosfere ed elementi di gioco mai visti prima. Sebbene l’action-platformer, più comune oggi come metroidvania, fosse già stato implementato in precedenza (anche se non è facile trovare una vera origine) questo è il titolo che lo ha reso famoso e ha messo le basi per tutti quei giochi che avrebbero voluto emulare questo nuovo tipo di gameplay. Metroid presentava un gameplay sidescroller tradizionle à la Super Mario Bros. ma con un overworld immenso completamente interconnesso grazie a portali, bivi, cunicoli e ascensori; per poterlo esplorare interamente i giocatori avrebbero dovuto trovare i diversi power up per l’armatura di Samus Aran per poi tornare in determinate sezioni dell’overworld e usarle per arrivare in dei punti altrimenti inaccessibili. Diversamente dai più colorati Super Mario Bros. e The Legend of Zelda, dalla quale traeva un pizzico della sua componente puzzle solving, il gameplay di Metroid era volto a far sentire il giocatore un vero e proprio “topo in un labirinto”, sperduto e isolato per via dei suoi toni cupi, fortemente ispirati al film Alien di Ridley Scott, e la totale assenza di NPC con la quale interagire; pertanto, il giocatore era spinto a usare tutti i mezzi a sua disposizione, pensare fuori dagli schemi e, in un certo senso, superare la quarta parete che lo separava dal videogioco disegnandosi, per esempio, la mappa dell’overworld in un foglio di carta accanto a lui (visto che non era presente alcuna mappa in-game).
Il gioco sancisce ovviamente la prima apparizione di Samus Aran, il cui sesso rimase ignoto ai giocatori fino al termine dell’avventura. Sebbene la scelta di rendere donna il personaggio principale fu una decisione presa durante le fasi finali dello sviluppo per creare un effetto shock (principalmente perché nel libretto ci si riferiva a Samus come un lui), fu anche una scelta molto saggia per ciò che riguarda la rappresentazione dei protagonisti donna nel mondo videoludico. Per la prima volta, una ragazza veniva messa allo stesso livello dei virili eroi che erano spesso protagonisti dei giochi d’azione; Samus spianò senza dubbio la strada a tante altre audaci protagoniste femminili, come Lara Croft, Jade e Jill Valentine, e grazie a lei il muro che separava gli eroi dalle eroine fu definitivamente abbattuto. Insieme a lei, Metroid introdusse molte delle caratteristiche che definirono il suo gameplay e che sussistono ancora oggi, come le sezioni da percorrere in morfosfera, i passaggi in cui ci servirà l’ausilio di un nemico da congelare col raggio gelo e i mille e mille segreti nascosti nella mappa del pianeta Zebes; non dimentichiamoci inoltre degli iconici nemici Kraid e Ridley, le forme base dei Metroid e la malefica Mother Brain. Giocare oggi con l’originale Metroid per NES è senza dubbio educativo e interessante ma non tutti, forse, possiamo accettare le lunghissime password, che includono lettere maiuscole, minuscole e numeri arabi, l’assenza di una mappa in-game (che ai tempi apparì per la prima volta soltanto nel primo numero di Nintendo Power nel 1988) e di un vero metodo per ricaricare l’energia di Samus. Pertanto, secondo noi, il miglior metodo per giocare alla prima avventura di Samus è senza dubbio il remake Metroid: Zero Mission per Gameboy Advance: in questa versione uscita nel 2004, possiamo godere di uno storytelling moderno, una mappa in-game rivisitata, sezioni inedite e tantissime nuove armi che si rifanno ai successivi capitoli.

Un sequel carente

Il primo sequel di questo gioco per NES arrivò nel 1992 su Nintendo Gameboy e il suo titolo fu Metroid II: Return of Samus. In questo nuovo gioco, Samus arriva sul pianeta SR388 per debellare la minaccia dei Metroid, eliminandoli definitivamente nel loro habitat naturale. In questa nuova avventura conosceremo questi parassiti più nel profondo in quanto affronteremo delle specie che si evolvono dalla forma base e sono decisamente più aggressive e pericolose. Metroid II è un capitolo spesso dimenticato dai fan ma ha comunque dato alla serie altre caratteristiche che hanno decisamente migliorato il gameplay proposto nel primo titolo per NES: per prima cosa, Samus può accovacciarsi senza entrare in morfosfera e può sparare verso il basso quando si trova in aria; vengono finalmente implementate le stazioni di ricarica, che permettono di ricaricare la nostra energia e la scorta di missili, viene fatta una chiara distinzione fra la Power Suit e la Varia Suit, che costituisce a oggi il design tipico della cacciatrice di taglie spaziale, ma soprattutto viene scartato il sistema di password in favore del più comodo salvataggio su RAM. Ciononostante, molte altre caratteristiche hanno limitato le forti potenzialità di questo gioco: la mappa in-game continuò a non essere presente ma la sua assenza fu compensata da un gameplay semplificato. L’azione si svolge nel sottosuolo del pianeta SR388 e dunque, più si scende più andremo avanti nel gioco. Tuttavia, è impossibile procedere fino a quando non bonificheremo una zona dai Metroid perché dei laghi di lava ce lo impediranno; una volta debellato il numero indicato in basso a destra nel menù di pausa,  potremo proseguire verso il livello inferiore, almeno fino al prossimo impedimento. Questa meccanica permette sicuramente a coloro che vogliono approcciarsi alla serie tramite questo gioco, un gameplay graduale, dove si perde quel senso di dispersione infuso col precedente titolo. Per via della memoria del Gameboy, le aree proposte sono abbastanza piccole ma cercare i Metroid presenti in una determinata sezione può risultare tedioso, in quanto si perde facilmente il senso dell’orientamento (sempre per l’assenza di una mappa in-game). Sempre per i problemi di memoria, gli unici boss che incontreremo sono i Metroid e nonostante ci siano diverse forme di tali nemici il gioco, sotto questo aspetto, risulta poco vario (essendo anche questi ultimi abbastanza facili da sconfiggere).
Essendo invecchiato male, Nintendo ha pensato bene di rilasciare giusto l’anno scorso Metroid: Samus Return per Nintendo 3DS che ripropone un operazione di remake simile a quella di Metroid: Zero Mission. A ogni modo, prima dell’intervento di Nintendo, lo sviluppatore indipendente Milton Guasti aveva rilasciato AM2R (Another Metroid 2 Remake), un remake indipendente dalle fattezze grafiche di Zero Mission e rilasciato gratuitamente su Gamejolt; con buona probabilità, la compagnia giapponese stava già sviluppando il remake ufficiale di Metroid II, perciò non poterono fare altro che bloccare i download del gioco. Tuttavia, ciò che viene caricato su internet ci rimarrà per sempre e perciò, con un po’ di fortuna, è ancora possibile trovarlo in siti diversi da Gamejolt (anche se noi vi consigliamo vivamente di giocare al remake ufficiale di Nintendo per 3DS).

L’eccellenza di Super Metroid

Dopo due anni, nel 1994, arriva il terzo capitolo della saga che riprende esattamente la storia dove l’avevamo lasciata. Il finale di Metroid II: Return of Samus vedeva la cacciatrice essere inseguita da un piccolo Metroid larvale in preda a uno strano imprinting; all’inizio di Super Metroid vediamo la nostra cacciatrice di taglie incubare la creatura in una capsula e cederla a un laboratorio scientifico. Una volta allontanata, Samus trova una strage e Ridley intento a rubare la capsula contenente il Metroid. Samus non riuscirà a fermarlo e così lo inseguirà fino al vecchio pianeta Zebes dove scoprirà che i pirati spaziali stanno costruendo una base per poter utilizzare i Metroid per i loro scopi terroristici.
Super Metroid elimina tutto ciò che rendeva tedioso il primo e il secondo capitolo, prendendone i suoi aspetti più riusciti, migliorandoli ulteriormente. In questo capitolo Samus può finalmente sparare in diagonale, vantando anche una maggiore mobilità sin dall’inizio grazie ai wall jump che, se impareremo a utilizzarli come si deve, potranno addirittura rompere le sequenze di gioco e ottenere armi e potenziamenti prima del normale andamento del gioco; non a caso, questo è uno dei giochi più gettonati dagli speedrunner, i cui scopi sono completare determinati giochi nel minor tempo possibile. Tornano tutti i power up dei precedenti titoli insieme ad alcuni nuovi, come la supercinesi, il visore a raggi-x, la giga-bomba e altri, che finiranno per diventare degli standard per tutta la serie. Grazie alla cartuccia di 24MB, la più grande mai prodotta prima dell’arrivo di Donkey Kong Country, è stato finalmente possibile inserire un’immensa mappa all’interno del gioco in grado di segnalare i luoghi già visitati e quelli ancora da scoprire, decretando così la fine dei giorni in cui giravamo a vuoto per Brinstar o ci arrangiavamo con carta e penna. Grazie inoltre alla potenza del Super Nintendo è stato possibile creare una grafica iper-dettagliata (per l’epoca) che finalmente riusciva davvero a dare quelle sensazioni che il primo titolo sperava di dare, ovvero quel senso di profondità, isolamento, e anche paura, dovuto all’isolamento, alla solitudine e al doversi trovare a che fare con specie aliene di cui non sappiamo niente; il tutto accompagnato da una componente di storytelling che si srotola senza alcun dialogo ma sempre chiara: man mano prendono luogo i momenti salienti della trama, specialmente durante l’avvincente finale del gioco, e da una colonna sonora magistrale resa possibile grazie all’impressionante chip sonoro S-SMP. Per tutti questi motivi Super Metroid si annovera fra i migliori giochi mai creati e ancora oggi risulta incredibilmente attuale e intenso, come del resto lo è sempre stato. A oggi ci sono molti metodi per giocare questo gioco: se avete a casa un Nintendo 3DS o un Wii U potrete trovarlo tranquillamente sull’E-Shop, ma se volete un’esperienza più vicina all’originale allora vi converrà comprare uno SNES Classic Edition e giocarlo con il suo controller originale.

Pausa e ritorno in grande stile

Dopo il successo di Super Metroid nel 1994 era normale aspettarsi un nuovo capitolo della saga in 3D per il Nintendo 64, con nuovi controlli e un gameplay ancora più spettacolare del precedente. Tuttavia, Yoshio Sakamoto, il creatore, e Shigeru Miyamoto si ritrovarono senza alcuna idea per la nuova generazione, specialmente per ciò che riguardava i controlli e la prospettiva del gioco. Proprio per questo motivo non vi fu alcun Metroid per questa generazione. la sua unica apparizione su N64 fu per il divertentissimo Super Smash Bros. nel 1999 e poco dopo la sua uscita si riaccese la speranza di rivedere presto la cacciatrice di taglie più famosa di tutta la galassia. I fan dovettero aspettare ancora altri tre anni ma furono premiati con l’uscita di ben due nuovi giochi della saga per due diverse console: il primo fu Metroid Fusion, in 2D e sviluppato dalle stesse persone che lavorarono su Super Metroid e rilasciato su Gameboy Advance. la storia vedeva Samus Aran accompagnare una squadra di ricerca sul pianeta SR388 quando all’improvviso venne attaccata da una specie sconosciuta; mentre stava tornando alla base per ricevere soccorso, il parassita conosciuto come X entrò nel sistema nervoso di Samus arrivando alla stazione di ricerca in fin di vita. I parassiti X, che nel frattempo si stavano moltiplicando, avevano letteralmente fuso alcune parti della sua armatura sul corpo della protagonista, tanto è vero che i medici dovettero operarla con l’armatura addosso, rimuovendo le parti infette, con Samus in fin di vita; fortunatamente qualcuno trovo una cura, ovvero un siero a base del DNA del Metroid, predatore naturale del parassita X. Così, Samus fu salvata, perdendo buona parte dell’armatura, ma in compenso diventò immune ai parassiti X. Un altro prezzo da pagare fu l’avere le stesse debolezze di un Metroid, come la forte sensibilità al freddo; adesso si poneva una nuova avventura davanti a lei: recuperare le parti della sua armatura rimosse chirurgicamente e mandate alla stazione di ricerca B.S.L., luogo da dove ricevette inoltre un preoccupante allarme.
L’altro nuovo titolo, sviluppato da Retro Studios, era invece Metroid Prime, che avviava pertanto la nuova sottoserie in 3D. Il nuovo titolo per Gamecube fu visto all’inizio con molto scetticismo ma con le prime recensioni da parte di critici e fan, il gioco raggiunse presto il successo sperato. Si sentiva nell’aria una sorta di fallimento assicurato: si pensava che potesse succedere alla saga di Metroid quanto accaduto con Castlevania su Nintendo 64 ma fortunatamente, avvenne l’esatto contrario. Ogni elemento che rese grande la saga, come appunto le sezioni in morfosfera, l’esplorazione graduale e il forte senso di isolamento, fu rivisitato e rinnovato per un mondo 3D dinamico che funzionava alla perfezione; persino la mappa in 3D era chiara e capire dove si era stati e dove no era semplice come in Super Metroid. I controlli non si si rifacevano invece asparattutto “pre-dual analog” per Nintendo 64 come Goldeneye 007 o Turok; il secondo analogico, presente comunque nel controller del Gamecube (se è per questo, usato normalmente in altri FPS che uscivano sulla console), veniva usato per scegliere una delle quattro armi disponibili ma il gioco offriva un sistema di puntamento di precisione, a discapito dei movimenti e un sistema di mira automatica durante le battaglie più movimentate, compensando in maniera completa l’assenza di questa opzione. Il sequel Metroid Prime 2: Echoes, uscito nel 2004, presentava lo stesso schema di controlli ma, così come per il primo titolo, non rappresentò per niente un ostacolo per il successo del gioco. L’avventura, in questo capitolo, veniva letteralmente raddoppiata in quanto a un “light world” si sovrapponeva un “dark world“, un po’ come accadeva in The Legend of Zelda: a Link to the Past, e il gioco prese appunto nuove componenti di gameplay mai viste in precedenza: i controlli furono cambiati e in un certo senso ultimati in Metroid Prime 3: Corruption per Wii che sfruttavano, ovviamente, il sistema di puntamento proposto coi Wii-mote, sposandosi al meglio con un gameplay da FPS della saga Prime. Più tardi, nel 2009, tutti i tre titoli Prime furono rilasciati nella collection Metroid Prime: Trilogy, introducendo così i motion controlller anche nei primi due titoli della sotto-saga.

L’ultimo capitolo e i tempi recenti

Dopo la trilogia Prime, acclamata come una delle migliori della scorsa decade, garantire la medesima qualità era una mossa molto ardua, specialmente senza l’aiuto di Retro Studios che si concentrava a ridar vita a un altro franchise Nintendo smesso in disparte: Donkey Kong Country. In una mossa a sorpresa, Nintendo decise di allearsi con Team Ninja, autori delle acclamatissime serie Dead or Alive, Ninja Gaiden e Nioh, per concentrarsi su un Metroid che unisse sia componenti in 2D, sempre molto richiesta dai fan, che elementi in 3D. Ciò che ne venne fuori, nel 2010, fu Metroid: Other M, un titolo ibrido con sezioni in 2D ispirate a Super Metroid e fasi in 3D che presentano un gameplay dinamico, che ricorda in parte Ninja Gaiden, in cui in ogni momento possiamo cambiare la visuale in prima persona (sempre a discapito dei movimenti). Tuttavia, il punto focale era dare a Samus una voce e presentare il suo personaggio in una maniera tutta nuova, con dialoghi e monologhi (tal volta forse troppo lunghi). Il gioco ricevette opinioni discordanti da parte di critici e fan ma in fondo il tutto si riduceva a pareri soggettivi: il gioco in sé era buono e non presentava grosse sbavature ma in molti, di fonte a così tante novità, faticarono ad apprezzare il lavoro di Team Ninja e così Metroid: Other M rimane a oggi un bel gioco ma non imperativo per godere della saga di Samus.
La saga rimase dormiente fino al 2016, anno in cui fu rilasciato Metroid Prime: Federation Force per Nintendo 3DS, uno spin-off che nessuno voleva. All’E3 2015 il trailer ricevette 25.000 dislike e solamente 2500 like su YouTube; partì persino una petizione su Change.org per raccogliere 20.000 consensi per cancellare questo nuovo progetto ma nonostante le 7500 firme in un’ora l’obiettivo non fu mai raggiunto. Il gioco venne rilasciato l’anno successivo e, contrariamente a ciò che si presagiva, il gioco non fu distrutto dalla critica ma semplicemente accettato per quello che era. Fortunatamente, nel 2017, Nintendo si è rifatta, lanciando il già citato remake Metroid: Samus Return e, all’E3 dello scorso anno, un teaser trailer in cui fu annunciato che Metroid Prime 4 è momentaneamente in sviluppo per Nintendo Switch (anche se d’allora non abbiamo più ricevuto notizie).
L’esperienza dei fan con la saga ci insegna principalmente una cosa: Metroid è uno dei brand più importanti di Nintendo ed è proprio per questo motivo che non vediamo uscite frequenti, visto che ogni release, sia per i fan che per la compagnia stessa, deve essere speciale, portando una grande innovazione a livello di gameplay. Basta dare un occhiata al comparto spin-off della saga per niente numeroso: abbiamo solamente Metroid Prime: Hunters, Metroid Prime Pinball e Metroid Prime: Federation Force e ciò dimostra le intenzioni di Nintendo per non far di questa saga una sorta di Call of Duty o Assassin’s Creed; nonostante abbia un fortissimo appeal e grosse potenzialità il brand è intenzionato a mantenere quell’aura di sacro che da sempre l’ha contraddistinta e anche se i fan ogni volta dovranno attendere molto tempo fra un gioco e l’altro almeno si ha la semi-certezza che alla consegna verrà rilasciato un grande gioco, che sia un episodio principale o uno spin-off. Incrociamo le dita e aspettiamo pazientemente il prossimo Metroid Prime 4!




Overcooked 2

Sono trascorsi esattamente due anni dal lancio su PC del primo capitolo di Overcooked, adrenalinico party-game culinario sviluppato da  Team17 e Ghost Town Games. Oggi, visto l’enorme successo raccolto dal predecessore su tutte le piattaforme, esce OverCooked 2, riproponendo un invariato stile di gioco accompagnato da nuovissimi livelli e con una veste grafica leggermente più curata sotto certi aspetti.

Master Chef

Nel primo Overcooked abbiamo dovuto cimentarci in una folle corsa contro il tempo e in un durissimo allenamento per poter arrivare all’ultimo stage e batterci con il terribile appetito del final boss per salvare il mondo, passando attraverso coloratissimi livelli fuori di testa del Regno delle Cipolle. Sicuramente Overcooked è stato – ed è tutt’ora – uno di quei giochi dell’universo indipendente che ha lasciato a bocca aperta per la sua unicità, per una riuscitissima meccanica di gioco e per le tantissime ore di divertimento che è in grado di regalare. È possibile giocarlo da soli nella modalità campagna o in compagnia di uno o più giocatori, dividendo il joypad o la tastiera metà per uno o utilizzando una periferica per ognuno. In Overcooked 2 conosceremo tanti nuovi e bizzarri chef che si aggiungeranno a quelli già conosciuti nel primo capitolo, con piatti nuovi ed elaboratissimi che metteranno a dura prova le nostre doti culinarie!
Ogni livello nasconde nuove insidie e piatti sempre più elaborati che renderanno difficile la preparazione delle nostre ordinazioni. Lo scopo dei giocatori per ogni livello, sarà quello di completare più piatti possibili in un tempo limite senza troppi errori, in modo da poter guadagnare più stelle possibile – massimo 3 stelle per livello che serviranno per lo sblocco degli stage successivi.
Overcooked 2 è a tutti gli effetti il sequel del primo capitolo, o dovremmo forse dire, la continuazione?
Sì perché a conti fatti, anche i primi livelli di questo nuovo capitolo, potrebbero sembrare un po’ ostici per chi non abbia avuto la fortuna di potersi infarinare con le meccaniche di gioco del primo, quasi come se gli sviluppatori diano per scontato che l’utente debba conoscere il gioco. La complessità di alcuni livelli spesso impedisce di prendere al primo tentativo le agognate 3 stelle, costringendo anche i giocatori che hanno già approcciato al primo capitolo a dover ritentare per sperare in un risultato migliore. Sin dall’inizio vengono richiesti una forte dose di manualità con i comandi base del gioco e un altissimo spirito di squadra, in una eventuale modalità cooperativa, per poter completare i vari stage.

Il Co-Op: la morte sua

Chi abbia giocato al primo Overcooked e ai suoi DLC potrà notare facilmente le doti richieste da questo secondo capitolo. Per il primo, come per il secondo, la modalità “giocatore singolo” a volte potrebbe risultare troppo macchinosa e complessa, tra lo switch dei 2 personaggi e l’organizzazione delle pietanze ci si confonde con molta facilità. In definitiva, la modalità vincente è sicuramente quella cooperativa: completare la campagna in multiplayer, non ha prezzo. Anche per il nuovissimo Overcooked 2, che abbiamo giocato su PC, con joypad per uno e tastiera per l’altro giocatore, la massima espressione risiede nella modalità multi-giocatore. Giocando in compagnia le ore trascorreranno talmente veloci tra urla, spintoni e risate, che non vorrete più staccarvi dalla TV. C’è da dire che è un gioco studiato per l’utilizzo di joypad, ragion per cui la tastiera è altamente sconsigliata, devo ammettere di aver avuto non poche difficoltà nel controllare il mio personaggio.

Cosa puzza di bruciato?

Nonostante io adori questo gioco in tutte le forme, c’è da dire che forse qualcosa non è proprio come dovrebbe essere. Partiamo dalla mappa, che con la sua nuova veste grafica è tanto bella quanto confusionaria, uno zoom troppo vicino impedisce di trovare subito i nuovi livelli sbloccati, che seguono una curiosa numerazione che avanza per multipli (1-2, 1-4, 1-6, 2-3, 2-6). Non è chiaro il motivo di questa scelta considerato che nel primo Overcooked erano numerati normalmente. In secondo luogo, come già detto, il livello di difficoltà si mostra sin da subito eccessivo, diventando ancora più impegnativo avanzando nel gioco, caratteristica questa che potrebbe far desistere chi si affacci per la prima volta alle meccaniche di Overcooked – fuoco sul pavimento che impedisce il movimento, automobili che investono il giocatore e tantissime altre insidie che non fanno ben sperare già dai primissimi livelli.

Tecnicamente

Il comparto tecnico è ineccepibile, il gameplay è rimasto invariato e altrettanto ben congegnato, molto fluido e semplice. Graficamente le migliorie sono visibili nei piccoli dettagli, shader più elaborati e texture più definite, soprattutto nella mappa di selezione dei livelli che vede un nuovo tabellone sviluppato su più livelli, per il resto il gioco non sembra aver subito significativi cambiamenti in questo versante. La colonna sonora cavalcante, chiaramente ereditata dal primo capitolo, è azzeccatissima e accompagna il gioco col giusto ritmo incalzante, rendendolo ancor più adrenalinico di quanto già non sia.

Tirando le somme

In definitiva questo nuovissimo Overcooked 2, a differenza del primo, non è un gioco proprio per tutti. Perché questa scelta? Selezione naturale? Mi rendo conto solo a posteriori che, se non avessi giocato il primo capitolo, con molta probabilità non avrei potuto apprezzare davvero il lavoro svolto da Team17 in questo secondo OverCooked. A ogni modo, se vi piacciono i party-game in locale e un alto livello di sfida che nei suoi picchi massimi potrebbe rasentare la frustrazione, sento di potervene consigliare caldamente l’acquisto, perché credo che, nonostante le sue imperfezioni, al momento la serie Overcooked, per la sua extra-dose di divertimento, detenga il titolo di “Re dei party-game” su ogni piattaforma.

Update After Launch: E luce fù!

Ed è come l’arcobaleno dopo la tempesta che Overcooked dopo la release ufficiale al day one, da bruco si fa farfalla e spicca il volo come prima era stato capace di fare il suo predecessore. La versione inviataci prima del rilascio sul mercato deludeva sotto vari aspetti.
Andando sullo specifico, dopo la data di uscita sono stati inseriti diversi elementi, uno su tutti diverse possibilità di gioco in multiplayer, organizzando partite pubbliche o private; All’inizio del gioco in modalità “storia” è stata aggiunta una clip iniziale che funge da breve premessa agli avvenimenti che spingeranno i nostri mini-chef, a intraprendere quest’avventura.
Il più importante cambiamento lo vediamo sulla mappa, in cui adesso l’avanzamento dei livelli avviene in modalità naturale, seguendo l’ordine numerico 1-1, 1-2, 1-3 e così via. Un’ altra delle mancanze sottolineate nella versione inviataci, è stata fortunatamente colmata e anche qui, come nel primo capitolo di Overcooked, dopo ogni stage completato avremo un percorso da poter seguire con il nostro furgoncino – senza perderci, come capitava spesso nell’anteprima – fino al prossimo livello appena sbloccato.
Insomma, a guardarlo adesso Overcooked 2 è quasi un altro gioco, degno erede di quello che prima di lui conquistò secondo noi il titolo di party game definitivo.
Non è la prima volta che videogame a rilascio sia sostanzialmente diverso rispetto all’anteprima: un altro chiaro segno della necessità Per ogni professionista di settore di rivedere un gioco più volte – al netto Dunque di patch e aggiornamenti – prima di poter emettere un verdetto definitivo.