Dune II: tre regole per un buon videogame su licenza

«Creare videogiochi è un lavoro difficile. Molto di ciò che facciamo richiede un salto nel buio. Dobbiamo immaginare il gameplay, la tecnologia con cui il videogioco prenderà vita. Immaginare gli scenari e i suoni che meglio trasmetteranno il gioco nella sua interezza al videogiocatore»

Così esordisce Tomas Rawlings, Design Director per Auroch Digital su Gameindustry.biz. Durante il corso dell’intervista afferma che vi sono diversi punti critici in cui è facile sbagliare durante la creazione di un videogioco ma, una volta che si è riusciti nell’intento, il risultato appaga tutti gli sforzi e crea una sorta di “magia”. Ma come si riconosce questa magia? Ce ne si accorge quando si è completamente assorti nel videogioco tanto da dimenticare il mondo esterno, cioè quando il gioco diventa il proprio mondo.
Racconta di quando era giovane e di quando scoprì il videogioco Dune, tratto dal romanzo fantascientifico di Frank Herbert, così come l’omonimo film di David Lynch. Allora decise di dedicarsi 20 minuti a questo gioco, giusto per conoscerlo, ma dopo che lo provò passò l’intera nottata e parte della successiva giornata a giocarci; ma perché questo preambolo? Per spiegare meglio la sua idea di immersione nel gioco e per rafforzare il concetto decide di raccontare il gioco.

Dune

Dune è un gioco incentrato su una risorsa limitata, chiamata Melange, che permette viaggi a velocità superiori della luce, ma molto rara e costosa, quasi un’allegoria del petrolio nel mondo moderno. La Melange si può trovare solo in un pianeta chiamato Dune, caratterizzato anche da enormi vermi che rendono un azzardo la raccolta di questa risorsa. Il controllo del pianeta è dato a turno a varie casate che dividono le quote della risorsa come meglio credono, preoccupati solo che questa spezia sia in circolo, ma non a come ci si arrivi.
Rawlings spiega, che questo gioco può essere considerato uno dei primi strategici in tempo reale, avendo al suo interno molte innovazioni che oggi sono alla base degli strategici che vanno per la maggiore, tra cui League of Legends, Dota 2, Clash Royale. Queste innovazioni spaziano dal controllo diretto delle risorse all’albero della tecnologia.

Le tre regole

Andiamo però alla parte saliente dell’articolo, le tre regole cardine che un buon gioco deve rispettare: Rawlings parte dalla regola che può sembrare la più banale e facile da seguire in cui semplicemente, un gioco deve essere un buon gioco, deve essere ben strutturato e, come terza regola, riesca a coinvolgere il giocatore facendolo diventare parte del gioco stesso, vivendo l’esperienza da una prospettiva personale. Tutto ciò scaturisce da un’IP originale, equilibrata e con ben integrate nuove meccaniche di gioco.




HTC: Vive o Vive PRO? Il confronto

 

Per chi fosse intenzionato ad acquistare un visore HTC, con l’uscita del nuovo modello PRO, il dubbio su quale scegliere sorge spontaneo: comprare quest’ultimo o risparmiare acquistando il primo?
Entrambi hanno impostazioni simili, permettono di giocare gli stessi titoli e hanno accesso a gran parte delle stesse periferiche per migliorare l’esperienza immersiva, ma in realtà presentano differenze che, in base alle preferenze, potrebbero rivelarsi significative.

Design e comfort

Il design dei due visori potrebbe sembrare molto simile, ma presenta in realtà delle differenze che incidono molto sull’esperienza. Il più ovvio riguarda la modalità con cui si indossano: il primo Vive si indossa per mezzo di un cinturino elasticizzato regolabile, mentre il Vive Pro ha una fascia in plastica rigida con imbottitura significativa intorno alla testa con una ruota di torsione per adattarla. HTC afferma che il nuovo Vive Pro è più leggero dell’originale, ma questa differenza di peso non risulta troppo evidente. Tuttavia, è provato che Vive Pro sia più confortevole da indossare per periodi leggermente più lunghi, con anche la presenza di cuffie integrate; include controlli del volume e offre una qualità del suono straordinariamente ricca e potente.
Inoltre, il Vive Pro supporta la possibilità di regolare la distanza delle lenti dagli occhi, il che lo rende più comodo per chi indossa gli occhiali.
Un’altra caratteristica da menzionare è la fotocamera frontale aggiuntiva sul pannello anteriore: non è chiaro in che modo questa nuova funzione verrà sfruttata, ma sembra indicare che ciò darà alla versione Pro un vantaggio su alcune future esperienze VR in fase di sviluppo. Nel Vive più evoluto inoltre, stati risolti alcuni problemi di progettazione e limitazioni del vecchio modello,il tutto racchiuso da un nuovo look blu ed  esteticamente molto gradevole.

Installazione

Configurare un visore come Vive richiede un po’ di tempo ed è ancora necessario un PC abbastanza potente per eseguire l’operazione, insieme a una coppia di controller Vive e un paio di stazioni base di HTC per sbloccare la capacità di tracciamento dei movimenti. Il collegamento del visore al PC richiede lo stesso procedimento, anche la periferica di collegamento che unisce i due è migliorata nel Pro, essendoci un cavo in meno di cui preoccuparsi e un pulsante d’accensione apposito.
L’attuale configurazione di Vive Pro non include le stazioni base o i controller, cottenibili comunque in bundle con Vive. Sono del tutto simili al primo modello, ma se non le si possiede sarà necessario comprare le stazioni base a circa 160€ ciascuna e a 150€ circa i controller. Oppure è possibile investire nel pacchetto Vive Pro, che attenzioneremo meglio in seguito.

Display

Principlalmente, la più rilevante miglioria effettuata per quanto riguarda il Vive Pro è il display. Oltre a passare dalla tecnologia di visualizzazione OLED a quella AMOLED, anche la risoluzione risulta fortemente migliorata: il Pro offre una risoluzione di 2.880×1.600 (615 PPI) contro i 2.160×1.200 (448 PPI) del primo Vive.

Monitoraggio

Essendo necessarie le stazioni base, lo spazio richiesto per utilizzare entrambi i visori è ancora un minimo di 2 metri x 1,5 metri e il massimo è di circa 5 metri.
Questo è destinato a cambiare, almeno nel caso di Vive Pro, che supporterà le stazioni base di prossima generazione che verranno lanciate entro la fine dell’anno. Ciò consentirà ai proprietari di Vive Pro di collegarne più di due per estendere l’area di gioco a 100 metri quadrati, anche se per adesso entrambi sono limitati alla stessa quantità di spazio VR libero.
Tralasciando questo, il nuovo adattatore wireless del PRO, eviterà la preoccupazione di inciampare sui vari cavi; questo componente aggiuntivo non viene fornito insieme al visore, quindi l’impostazione di monitoraggio è in definitiva la stessa per entrambi.

Prezzo

L’HTC Vive Pro ha attualmente un prezzo di 879€ per il solo visore mentre il prezzo dell’intero pacchetto (visore, controller e due stazioni base) sfonda il muro dei 1200€, prezzo fuori portata per la maggior parte degli utenti.
Il prezzo del pacchetto Vive Standard nel frattempo, è sceso a a circa 650€, con inclusi tutti gli accessori. Vale comunque la pena di tenere conto della concorrenza, in quanto è ora possibile acquistare il pacchetto Oculus Rift, che include visore e controller Touch a quasi allo stesso prezzo.

Il verdetto

Per assicurarsi di avere il meglio per quanto riguarda l’esperienza di realtà virtuale, la scelta ovviamente ricade sul Vive Pro. Basta essere disposti a spendere di più per concedersi il lusso dell’aggiornamento della risoluzione e un design più confortevole. Inoltre, stanno per essere lanciati tante nuovi elementi per migliorare ulteriormente l’esperienza con questo nuovo visore.




Ubisoft si appresta ad aprire un nuovo studio a Winnipeg

La nota software house e publisher Ubisoft si appresta ad aprire un nuovo studio in suolo canadese. In aggiunta alle sedi di Montreal, Quebec City, Saguenay, Toronto e Halifax, la società ha scelto Winnipeg come sede per il suo nuovo studio.
A capo del nuovo studio vi è suo primo e unico impiegato al momento, l’amministratore delegato Darryl Long. Quest’ultimo ha trascorso gli ultimi 15 anni all’interno della sede di Montreal, inzialmente come programmatore specializzato in intelligenza artificiale e, al momento, ricopre la carica di produttore di Far Cry 5.

Il team di GamesIndustry.biz ha approfittato di quest’occasione per intervistare Long, il quale ha affermato che la possibilità di avviare uno studio da zero è stata un’opportunità irripetibile e che, inoltre, lo avvicinerà alla sua città natia.
L’amministratore delegato ha affermato che questa sede  è stata creata per contribuire alla realizzazione di giochi AAA del calibro di saghe quali Assassin’s Creed, Far Cry e Watch Dogs. L’obiettivo della sede è quello di ricercare, sviluppare strumenti, aumentando la qualità del “fattore open world” dei loro giochi.
Long ha affermato che lo studio conta di raggiungere i 100 impiegati entro 5 anni; Ubisoft conta di trovare impiegati talentuosi e, ha specificato, che tra Manitoba e Winnipeg è presente un’ampia quantità di talenti videoludici nascosti. Infatti, ha sottolineato che i vari corsi della Red River College e i programmi d’ingegneria, informatica, intelligenza artificiale e robotica dell’Università di Manitoba siano adatti a produrre sviluppatori in grado di aiutarli nel loro progetto.
Prima di ricoprire le vesti d’amministratore delegato, Long, si è appunto occupato della costruzione di 1/3 del mondo di Far Cry 5 presso Ubisoft Toronto, popolando l’universo di gioco con la fauna insiema al team di Shanghai mentre, con il team della sede di Kiev, ha lavorato sul motore grafico e sulla versione per PC.
Attualmente Ubisoft conta 13.000 dipendenti distribuiti in 30 paesi di tutto il mondo, anche se 4.500 di lavorano in Canada.




La dura vita di un recensore e di Destiny 2

Moltissimi giochi hanno subìto lanci disastrosi per poi essere scartati pochissimo tempo dopo, sono stati abbandonati per lunghi mesi fino ad avere improvvisamente un boom di vendite, diventando quasi virali. Ma ne esistono altrettanti che hanno visto avverarsi un meccanismo inverso, vendendo parecchie copie al lancio, per essere abbandonati dopo aver deluso la maggioranza dei giocatori. Ottimi esempi sono sicuramente Tom Clancy’s Rainbow Six Siege, The Division, Destiny, Watch Dogs e moltissimi altri titoli, tutti accomunati da un lancio accompagnato da un fortissimo hype da parte degli utenti ma che poi si sono rivelati disastrosi o deludenti.
Il feedback negativo dei giocatori, nel caso di Rainbow Six per esempio, ha acceso una lampadina in casa Ubisoft, che ha subito contattato dei player professionisti e competenti che, lavorando in team, hanno evidenziato tutte quelle problematiche che, secondo loro, affliggevano il gioco. Una simile mossa ha dato nuova vita a R6Sche è riuscito, durante l’inizio del 2017, a vendere moltissime copie e vive tuttora con la pubblicazione di diversi bundle e aggiornamenti gratuiti.
Il caso non si è ripetuto con un titolo che mi sta particolarmente a cuore, e che dopo l’iniziale boom, ha visto decrescere l’interesse nei suoi confronti, lasciando poche speranze su una sua eventuale risalita: Destiny 2.

In molti, dai più noti redattori delle grandi testate videoludiche ai più piccoli e meno noti, hanno dibattuto riguardo la scelta di recensire un gioco pochi giorni dopo la pubblicazione o se attendere qualche settimana in più per non incorrere nel rischio di non approfondire alcuni aspetti fondamentali, e compiere dunque una buona analisi. Le grandi testate tendono sempre più a pubblicare le recensioni di titoli più importanti e famosi al day one, o comunque pochi giorni dopo, ma c’è chi sostiene – e fra questi ci includiamo noi di GameCompass, che sposiamo dall’inizio del nostro percorso la filosofia dello Slow Journalism – la necessità di prendersi il tempo adeguato per riuscire a fare una disamina più articolata e approfondita di un gioco.
Un simile dibattito riguarda molto da vicino titoli come Destiny 2, recensito su queste pagine poco dopo l’uscita – seppur dopo altre testate di settore –  non facendo completamente caso a problemi, anche abbastanza gravi, che sono presenti tuttora all’interno del gioco.
Questo articolo può essere considerato in parte una rettifica postuma della recensione, andando in parallelo a una community intenta tutt’oggi a segnalare le problematiche che affliggono l’ultimo titolo di casa Bungie, ma difficilissime da notare durante la concitata fase di recensione.
Questo non significa “non fidatevi di ciò che scriviamo”, ma serve a segnalare come, a volte, l’analisi di videogiochi complessi non venga adeguatamente approfondita per mancanza di tempo, in un mondo estremamente competitivo come quello dell’editoria.

Destiny 2 è un gioco che a primo acchito sembra davvero ben strutturato e degno erede del primo Destiny, ma che dopo pochi mesi dall’uscita si è rivelato abbastanza noioso e poco convincente per i fan.
Il primo capitolo della saga non ha avuto inizialmente un grande successo, ma pian piano, con i vari aggiornamenti ed espansioni, ha ricevuto una spinta tale da arrivare a essere considerato uno dei migliori FPS degli ultimi anni. Il titolo di Bungie è riuscito a raggruppare una vastissima community in tutto il mondo, accogliendo nuovi player e facendo ritornare chi l’aveva mestamente abbandonato. Per sfortuna, Destiny 2, ha avuto un “destino” molto simile a quello del suo predecessore, ma per vari versi ben peggiore: la maggior parte della community, formatasi già durante il ciclo di vita del primo capitolo, è rimasta molto delusa e – come il sottoscritto – amareggiata dopo aver giocato praticamente per due mesi intensivi.
Destiny 2 presenta parecchi problemi che, all’occhio di un neofita, possono sembrare semplici scelte tecniche, ma per chi ha già molta familiarità con il mondo di gioco e con le scelte di Bungie, risultano in maniera più lampante il frutto di una cattiva gestione delle meccaniche del gameplay.

Si potrebbe partire parlando del drop rate, una feature parecchio equilibrata nel precedente capitolo, che è riuscita ad aumentare di parecchio le ore di gioco, con la possibilità di trovare l’arma con i perk giusti e con le giuste caratteristiche, versatile sia in PvE che in PvP, oppure un materiale/arma di grande rarità. Una simile meccanica in Destiny 2 è stata completamente cancellata: le armi sono facilmente ottenibili dopo qualsiasi attività e hanno un set di abilità programmato, quindi non si possono trovare più armi differenti. A detta di Bungie questo doveva servire per equilibrare il lato PvP, creando un gunplay meno sbilanciato, ma così non è stato. Il drop rate è aumentato esponenzialmente a ogni partita, come in “Crogiolo” o in ogni attività PvE, in cui si riceve sempre un cospicuo bottino, rendendo le partite PvP sì più bilanciate, ma troppo monotone e soprattutto poco competitive, vista la presenza delle stesse identiche armi, con lo stesso identico roll.
Altra modalità bistrattata è stata “Cala la Notte“, una delle attività più difficili e riuscite di Destiny, ma resa inutile da questo ultimo capitolo (anche se, a essere onesti, la sua decadenza era iniziata durante l’ultimo periodo di vita di Destiny). I drop ottenuti nei “Cala la Notte” sono praticamente sempre gli stessi e la possibilità di trovare un’arma esotica è quasi pari a zero; scelta davvero infelice perché, dopo svariati minuti o addirittura ore passate a provare a completare questa modalità, resa più difficile da buffer e malus per aumentare la sfida, il drop ottenuto non riesce a ricompensare le nostre fatiche e, in molti casi, frustra il giocatore fino a disinteressarlo alla modalità per farmare. Molti scelgono di virare verso il “Crogiolo” o altre attività, meno difficili e sicuramente più redditizie.

Dulcis in fundo, il problema che ha fatto impazzire letteralmente l’intera nazione italiana: l’infrastruttura online, il network. Proprio così, un gioco che basa tutto il proprio gameplay sul comparto online ha avuto problemi di questo, più precisamente ha sofferto di una mancanza di compatibilità. Dopo che Bungie ha aperto le porte della closed beta, sia su PC che su console, molti utenti, soprattutto italiani, hanno riscontrato un problema specifico, un codice d’errore che ha terrorizzato mezza utenza: il codice Cabbage.
Un’incompatibilità tra i modem Technicolor e i server di Bungie, ha creato non pochi problemi al D1 (non ancora risolto), che ha costretto tutta l’utenza a impostare il tipo NAT 1 o, addirittura, cambiare modem, una decisione abbastanza drastica per un videogioco.
Fortunatamente però, questi problemi, principalmente l’ultimo elencato, sono stati presi in considerazione dalla stessa Bungie che sta cercando, con i vari aggiornamenti futuri, di sistemare o quantomeno arginare le problematiche. Infatti è già stato annunciato un nuovo grande update che porrà fine alla maggior parte degli errori e complicazioni vari. Sperando che con il nuovo DLC, in uscita per il prossimo Maggio, Destiny 2 possa risollevarsi e riesca a riottenere la gloria e l’utenza che non ha ancora avuto, rimane ancora un problema: quanto tempo occorre davvero per recensire un titolo in un’epoca come quella che stiamo vivendo? Ed è il caso di pensare, in certi casi, a dei “richiami” alla recensione, degli update che fotografino lo stato dell’arte in parallelo all’andamento dei videogame nel medio periodo e ai loro cambiamenti in presenza di update sostanziosi?
Interrogativi da tener presenti se si vuole un giornalismo videoludico sempre migliore.




Dimmi cosa giochi e ti dirò chi sei

Facile dividere i videogiochi per genere: RPG, Fantasy, Adventure, FPS, TPS e così via, ma nella nostra mente non funziona allo stesso modo, non si pensa per genere. Se pensiamo di voler giocare un Fantasy, lo si mette in relazione col tempo che abbiamo a disposizione per giocare oppure, può anche succedere il contrario, dove per far passare del tempo decidiamo di giocare qualcosa che normalmente non toccheremmo nemmeno. Per questo abbiamo deciso di classificare i giochi in base a nuovi generi, del tutto soggettivi e che in qualche modo, riguardano tutti noi.

La fissazione

Da questo tipo di gioco si è quasi ossessionati, ci si gioca di continuo senza sapere perché e una volta smesso, non fai altro che pensare a lui, sognando il momento in cui sarete ancora insieme. Non è un gioco, è IL gioco che sembra fatto apposta per voi, un gioco che, per quanto vi riguarda, non finirà mai. Nemmeno dopo i titoli di coda.

Il passatempo

Siete in coda alle poste? Ci giocate. Siete al lavoro e lo sguardo del vostro capo non si posa su di voi? Ci giocate. Non avete un preciso obbiettivo nella vostra vita? Giocate. Spesso si tratta di titoli per smartphone, semplici e con molti livelli, ma è anche la difficoltà alle volte a stimolarvi, trasformando un titolo da passatempo a fissazione in men che non si dica.

Il rigiocabile

Alert: se siete under 20 potrebbe non essere il vostro caso. Si tratta di quei giochi che puntualmente ri-completate una volta l’anno, vecchio ma bello, vi appassiona da subito ma poi, per qualche motivo, finisce nel dimenticatoio. Ma periodicamente, come un Fenice, la voglia di rigiocarlo risorge, facendo risalire quei vecchi brividi lungo la schiena, ormai dimenticati. Con buona probabilità si tratta di giochi old gen.

Il passatempo (da viaggio)

Probabilmente si tratta di un porting su telefono della versione PC/console di un titolo che giochereste se foste rimasti a casa. Fallout Shelter o gli ultimi arrivati PUBG Mobile e Fortnite sono stati e probabilmente saranno amici della relatività generale di Einstein, riuscendo a trasportarvi da un punto A a un punto B in men che non si dica. Non parliamo poi di Switch! La console Nintendo ha ormai portato questi concetti all’estremo, facendo sorgere ai giocatori l’idea di viaggiare solo per il gusto di giocare a Zelda tra i sedili di un aereo.

Il “perché gioco con gli altri” (online e locale)

Tra online e locale cambia molto ma la finalità resta quella: stare insieme divertendosi. L’online può essere anche una scusa per stare in contatto con vecchi amici ma ciò che cambia veramente è la dinamica di gioco. Di questi tempi, le battle royale a squadre e non riescono a creare fazioni, eserciti o semplicemente simpatizzanti come se ci trovassimo in un liceo americano, cosa che offline, risulta abbastanza mitigato. Se è vero che stare assieme può essere piacevole, rafforzando dei rapporti che normalmente sarebbero stantii è anche vero che le più grandi amicizie (o amori) sono terminati per un gol al novantesimo o un sorpasso all’ultima curva, per cui, occhio!

Il bello da leggere e il bello da guardare

Probabilmente non giocate entrambe le tipologie ma, in qualche modo, vi sentite parte integrante della community, leggendo news, aggiornamenti e vi basta questo per immaginarvi il gameplay di un titolo di cui avete visto solo qualche immagine. Poi ci sono gli stalker, che godono di un gioco soltanto guardandolo, magari con un pò di distacco ma con al contempo, la voglia di sentirsi parte di qualcosa. È il gioco perfetto per gli streamer, il tipico titolo che magari, si gusta meglio da fuori.

L’incentiva ego

Era probabilmente il vostro gioco preferito: tante ma tante ore di sano gameplay che vi hanno reso i migliori al mondo. Siete talmente bravi che nonostante non giochiate da un po’, battereste chiunque a mani basse, sentendovi come “un Principe dei Saiyan” che però vince, a dispetto delle invidie altrui.

Il “lo gioco mentre”

Tangente alla categoria “passatempo” è solitamente un titolo a cui dedicate più tempo del previsto, nonostante qualche leggero impegno e che in qualche modo riempie le nostre giornate. Non si tratta di un AAA, ma ci va vicino: è quel titolo che piace ma che non ci ha catturati a sufficienza, portando la sua conclusione con un mesto “meh!”.

La brutta abitudine

Il tipo gioco di cui parliamo non è necessariamente bello o il migliore, ma affascina; Lo giochiamo tutti i giorni a tutte le ore trattandosi molto spesso di un Free-To-Play che si è scaricato per noia e non abbiamo più disinstallato. Come drogati coscienti, sappiamo che fa male, fa perdere solo tempo e non aggiunge nulla alla nostra vita però è lì, pronto per essere avviato e giocato un’ultima volta, come con una sigaretta.

Quello brutto (per gli altri)

Si tratta di un gioco fatto male, né più né meno, ma che vi piace, senza capire bene perché. Quelle piccole grandi cose fatte male in qualche modo divertono, come fosse un film dell’Asylum e che ci spinge a dire «dai su, un sei glielo do». È il gioco più subdolo di tutti, un manipolatore per eccellenza, in grado di far gli occhi dolci solo per essere accarezzato, nonostante non lo meriti.

Lo zenzero

Ora penserete, che cosa c’entra lo zenzero? E invece c’entra. Lo usano i giapponesi tra una portata e l’altra per pulire il palato, e questo tipo di gioco serve per questo motivo, a disintossicarsi dalle “brutte abitudini” o dai “passatempo”. Si tratta di un gioco alquanto moderato per riposarsi tra un nighiri di FPS e un uramaki di GDR.

Lo pseudo lavoro

Un gioco può anche essere simile a un lavoro: organizzare, gestire, smistare, management, ecc. Può essere anche simile al nostro vero lavoro, per poterlo immaginare come lo si vuole, ordinato, senza intoppi e senza antipatie, perfetto insomma. Bel sogno, non trovate?

La frustrazione

Ogni uomo ha bisogno di adrenalina, allora perché non trovarla in un videogioco difficile? La linea che divide difficile da frustrante è sottile e questo tipo di gioco la supera con facilità. Il livello di sfida è alto e poco importa l’esser preso a calci per la maggior parte delle ore di gameplay. L’obbiettivo è uno soltanto: sopravvivere per raccontare ai futuri nipoti le nostre gesta.

Quello che “forse un giorno”

Su Steam c’erano i saldi? Avete comprato molti giochi a prezzo stracciato? Brutta notizia per quei videogiochi, saranno sempre visti e mai avviati, comprati solo per il gusto di farlo. Diventano in tutto e per tutto come una dieta, che dovremmo fare ma che non faremo mai, ma è bello pensare averne solo la possibilità. Non si sa mai.

Queste sono le categorie più comuni e con cui noi tutti dobbiamo convivere giorno dopo giorno. Ma ce ne saranno sicuramente altre, per cui fateci sapere se le vostre categorie coincidono con le nostre.




Epic Games: la barriera tra Xbox e Playstation cadrà inevitabilmente

Fortnite è uno di quei prodotti che ha fondato un nuovo modello di gioco nella games industry, secondo Tim Sweeney, CEO di Epic Games,  e uno dei motivi per il quale le barriere tra le piattaforme verranno presto abolite promuovendo il cross-platform.

Sweeney, parlando durante la sessione State of Unreal di Epic al GDC, ha descritto il boom dei giochi mobile negli ultimi dieci anni come una delle cose più eccitanti che possano accadere nel settore videoludico. Tuttavia, quello che una volta risultava essere nuovo ed entusiasmante forse oggi non lo è più:

«Per un po’, questa industria mobile è stata stagnante. Ci sono oltre 100.000 giochi pubblicati ogni anno sugli store, molti dei quali sono giochi ad-driven e molti di loro hanno modelli di monetizzazione abbozzati. L’industria ha davvero bisogno di rivitalizzazione».

Tuttavia, nei mercati asiatici si è sviluppata una nuova tendenza, una che mette in discussione l’ipotesi che il mercato della telefonia mobile sia dominato dai “casual games”. Parlando con GamesIndustry.biz in una riunione prima dello State of Unreal, Sweeney ha descritto questa “tendenza” come: «la cosa più eccitante per Epic nel settore in questo momento.»

«Stiamo assistendo a un cambiamento di tendenza, dove prima esistevano i casual games, adesso, come successo in Corea e in Cina, ci sono dei veri e propri giochi per “gamer”. Lo abbiamo visto con Lineage 2, un MMO open-world che ha avuto un successo enorme. Adesso in moltissimi paesi giochi come questo, segnano grandi numeri per le entrate, per il tempo di gioco e per la nuova forma che stanno dando al settore nella games-industry

Epic ritiene che stia cominciando ad accadere lo stesso processo in mercati come gli Stati Uniti e l’Europa, grazie in gran parte alle rifiniture e ai miglioramenti apportati al motore grafico Unreal Engine. Sempre durante lo State di Unreal, i co-fondatori di Studio Wildcard, Doug Kennedy e Jesse Rapczak, sono saliti sul palco per parlare di Ark: Survival Evolved su smartphone, annunciando anche il porting su Nintendo Switch.

Un altro esempio è ovviamente Fortnite della stessa Epic Games, che secondo Sweeney è l’esempio migliore, considerato lo sviluppo su Unreal Engine oltre che ovviamente per il “trend” che ha fino a ora sviluppato il gioco in sé.

La versione per Android di Fortnite deve ancora essere rilasciata, ma quando  questo avverrà, sarà il prodotto che girerà su tutte le principali piattaforme, con la stessa esperienza condivisa al suo interno e proprio questo, secondo Sweeney, sarà un aspetto essenziale di come la game-industry cambierà e continuerà a crescere negli anni a venire.

«Non riesco a immaginare nulla di meglio per la crescita collaterale del settore console rispetto a questa nuova generazione di bambini, cresciuta con dispositivi Android e iOS e che stanno imparando a giocare lì. Magari giocando a Fortnite [sui dispositivi mobili, ndr], che poi magari vorranno giocare sulla TV di casa, con controlli più precisi grazie a un joypad e una migliore esperienza visiva, facendo quindi un passaggio a piattaforme come PlayStation o Xbox.»

Ovviamente, l’idea che i possessori di PlayStation e Xbox possano un giorno giocare insieme, è e rimane un tema di grande attualità. Fortnite sarà solo uno in più tra quei giochi che non possono essere riprodotti su entrambe le piattaforme, con Microsoft che sostiene molto più la necessità di cross-play rispetto a Sony. Da parte sua, Sweeney è un grande sostenitore del cross-platform, ma è attento anche a sottolineare la natura senza precedenti di Fortnite, pienamente inter-operabile su mobile, PC, Mac e console. Proprio per questo motivo crede fermamente che questa situazione di stallo, non durerà ancora per molto. Sempre durante l’evento, il CEO di Epic, menziona anche la legge di Metcalfe, secondo la quale “il valore di qualsiasi esperienza connessa per un determinato utente è direttamente proporzionale al numero di persone a cui è possibile connettersi nel mondo reale”. In parole povere il prossimo passo logico nel settore console, sarebbe quello di eliminare le barriere tra gli utenti Sony e il resto del mondo.

In effetti ormai i giochi sono diventati esperienze sociali allo stesso modo di Facebook o Twitter, e queste esperienze hanno davvero senso e possono definirsi tali, solo se gli utenti possono comunicare con tutti i loro amici indistintamente.




Street Fighter V: il punto della situazione

Dopo tante anticipazioni, Street Fighter V  venne rilasciato il 16 Febbraio 2016 su PC e PS4. In molti sperarono che il titolo riuscisse a superare le vecchie edizioni, grazie anche al nuovo engine, introducendo nuovi personaggi, nuove strategie e combat system innovativi, basate sull’utilizzo della barra V-Gauge e EX Gauge, in grado di fornire alla saga un ulteriore livello di coinvolgimento e sistema di combo. Ma nello specifico, su cosa si basano queste nuove tecniche?

  • Il V-Trigger si basa su tecniche uniche che usano la V-Gauge e che consentono al giocatore di cambiare il corso dell’incontro.
  • Il V-Skill comprende mosse uniche che si differenziano da personaggio in personaggio e che si possono usare in qualsiasi momento.
  • Il V-Reversal si basa su un sistema di contromosse che consumano una sezione della V-Gauge.
  • Le Critical Arts sono attacchi finali che consumano tutta la EX Gauge.

Purtroppo pur avendo delle novità molto importanti, i fan non furono soddisfatti, soprattutto a causa della povertà di contenuti, la mancanza di una modalità single-player e l’instabilità del matchmaking che provocava un delay tra client-server che rendeva l’esperienza di gioco davvero spiacevole e che penalizzava i giocatori che oltre al competere online desiderano dedicarsi alle modalità in singolo.
Il team di sviluppo, guidato da Yoshinori Ono, noto produttore di videogame, ha deciso di dare una svolta al futuro del titolo, migliorando a poco a poco l’esperienza grazie a correzioni tecniche, una modalità storia in single-player, sfide periodiche e nuovi contenuti da sbloccare tra arene e personaggi aggiuntivi. Percorso durato due anni e completato con il lancio della Arcade Edition, espansione scaricabile gratuitamente per coloro i quali hanno già Street Fighter V originale. Mentre chi lo dovesse acquistare direttamente in negozio, avrà a disposizione i dodici personaggi aggiuntivi delle Stagioni 1 e 2. Una delle novità di Street Fighter V: Arcade Edition è proprio il concetto “Arcade” stesso: fin dal primo momento, la mancanza di questa modalità era tra le cose che hanno fatto storcere il naso a molti appassionati della saga. Ci sono voluti circa due anni prima che una feature che molti consideravano “base” venisse introdotta, ma dopo tanti errori e promesse, Capcom ha deciso di fare sul serio, provando a farsi perdonare. Quella arrivata in Street Fighter V non è semplicemente un’opzione Arcade, ma rivivere l’intero franchise, partendo dalla genesi fino ad arrivare ai giorni nostri. È possibile scegliere sei diversi percorsi, ognuno collegato a un capitolo precedente della saga, partendo dal primo Street Fighter del 1987 fino a Street Fighter V, passando dall’amatissima serie Alpha o Street Fighter III: New Generation, considerati da molti appassionati due dei migliori capitoli della saga. Scegliendo Street Fighter II, per esempio, possiamo trovare solo i personaggi presenti nella line-up di quello specifico capitolo (Chun-li, Balrog, Vega, Guile, Ken), accompagnati dal boss finale M.Bison.

La possibilità di avere il concetto di completismo all’interno del gioco, fornisce ai giocatori la possibilità di sbloccare illustrazioni e finali per ciascun personaggio, invogliandoli a completare ogni ramo della Modalità Arcade con tutti i combattenti. Capcom è stata – stavolta – attenta a offrire una difficoltà molto equilibrata e mai banale: infatti il livello degli avversari cresce man mano che si va avanti all’interno della modalità, raggiungendo difficoltà molto impegnative al boss. Arcade a parte, tornano le battaglie a squadre già viste nel precedente capitolo Street Fighter IV, che permettono a squadre di massimo cinque persone di affrontarsi, personalizzando la tipologia d’incontro e le regole di eliminazione. Altrettanto interessanti sono le Battaglie Extra, ovvero sfide periodiche in cui è possibile vincere skin, targhette, punti esperienza o Fight  Money.

Novità meno evidenti, ma molto gradite dai fan è la diminuzione dei tempi di caricamento, nuove opzioni nella Modalità Allenamento che permettono di controllare i singoli frame degli attacchi, permettendo di applicare una strategia diversa ogni volta e capire quando è vantaggioso utilizzare determinate combo. La novità più importante, come accennato all’inizio dell’articolo, sta nell’aggiunta di un secondo V-Trigger per ciascun personaggio, in maniera simile alle Ultra di Street Fighter IV: adesso si ha la possibilità di scegliere quale dei due trigger utilizzare prima di entrare in partita.

Per un maggiore approfondimento, pareri e delucidazioni, noi di GameCompass vi invitiamo a recuperare la puntata sui picchiaduro presentata da Gerò Micciché, Lanfranco della Cha, Andrea Celauro e Marcello Ribuffo.




Shika Arcades: Sozu.S1

Creato dalla società britannica Shika Arcades, il Sozu.S1 è un arcade stick per il Super Nintendo. Realizzato in legno di bambù, non è solo un semplice controller, ma anche un’opera d’arte. Progettato con precisione e rifinito a mano, il Sozu.S1 è disponibile in due combinazioni di colori: duotone e natural. Ogni arcade stick è costruito interamente a mano, quindi nessun controller è uguale a un altro.

Specifiche tecniche

Nella parte superiore del controller sono presenti sei pulsanti azione e tre interruttori che consentono di modificare la disposizione dei pulsanti, con i pulsanti Start e Select e nell’angolo in basso a sinistra e uno simile a una moneta da 100 Yen. Sul lato inferiore del Sozu.S1 sono presenti quattro piedini in gomma, che conferiscono al controller una buona stabilità. Il cavo che collega il controller alla console è coperto da una treccia rossa super resistente.
I pulsanti di Sozu.S1 sono precisi e resistenti, ma ogni volta che vengono premuti, si percepisce un rumore molto fastidioso. È possibile attivare con il semplice tocco di un interruttore un sistema che consente di rimappare i controlli, utile se si desidera un layout dei pulsanti diverso per alcuni giochi.

Prezzo e compatibilità

Questo controller è disponibile a un costo di circa 450 euro. Considerando il prezzo si suppone che questo controller sia compatibile con il maggior numero di sistemi possibile ma,  in realtà, è compatibile solo con il Super Nintendo (o nella sua versione giapponese Super Famicom). A sua discolpa, la società ha dichiarato che il suo obiettivo era quello di creare il miglior controller possibile per SNES e che se fosse stato stato compatibile con altri sistemi, il suo costo sarebbe aumentato ulteriormente.




Come Nintendo potrebbe essersi sbarazzata della timeline ufficiale di Zelda

The Legend of Zelda è una delle saghe più amate della storia dei videogiochi, se non la più amata; la devozione dei fan verso questa serie è senza precedenti e questo amore è continuamente versato su ogni nuovo episodio, quasi sempre impeccabile. Tuttavia, tal volta i fan possono rivelarsi delle bestie feroci: per anni, sin dai primi Zelda apparsi su NES, SNES, Gameboy e Nintendo 64, hanno speculato che la saga seguisse una sua timeline e, dunque, che tutte le storie fossero collegate. Una volta Miyamoto, in un intervista per la rivista Nintendo Power nel Novembre 1998 (volume 144), non diede una risposta esaustiva quando i giornalisti gli chiesero la collocazione temporale di Ocarina of Time, che di lì a poco sarebbe uscito, rispetto agli altri giochi; la sua risposta gettò il fandom nella confusione più assoluta poiché egli disse che Link to the Past, che fu presentato come il prequel del primo titolo per NES, adesso si collocava dopo Zelda II: the Adventure of Link. Le connessioni fra alcuni giochi sono da sempre state poverissime e, a tutt’oggi, sono poche le prove che le trame dei singoli titoli siano il proseguimento (o i prequel) di alcuni precedenti; è vero anche che quando si sono presentate le prove di una continuazione di trama queste sono state molto evidenti (vedi l’intro di The Wind Waker o di Majora’s Mask) ma ogni volta che usciva un nuovo gioco i fan cominciavano da capo: e via con le speculazioni spesso assurde e poco credibili.
La pressione della timeline è esistita sin dal primo gioco e così Nintendo diede una volta per tutte la spiegazione definitiva: nel 2013 esce Hyrule Historia, una vera e propria enciclopedia cartacea della saga in cui, per la prima volta, viene stabilita una timeline ufficiale. Tuttavia in molti si accorsero che questa era “leggermente” imprecisa e la stessa Nintendo comunicò di prendere queste spiegazioni con le pinze; chiaramente la grande N gettò la spugna sull’argomento e le correzioni, argomentazioni e obiezioni sulla timeline ufficiale continuano a tutt’oggi.
Noi non siamo qui necessariamente per discutere se la linea temporale sia corretta o meno ma siamo qui per parlare invece di come Nintendo potrebbe aver messo finalmente un punto a tutti questi dibattiti con l’ultimissimo The Legend of Zelda: Breath of the Wild per Switch e far si che i fan vedano i giochi della saga come loro li hanno sempre visti (ve lo diremo alla fine). In questo articolo verranno svelati alcuni risvolti di trama, decisivi soprattutto per Ocarina of Time, perciò lanceremo uno spoiler alert; gli altri, relativi a Breath of the Wild e ad alcuni titoli della saga della famosa serie Nintendo, non rovineranno necessariamente la vostra esperienza con il resto dei titoli però vogliamo comunque avvisarvi dei possibili spoiler. Inoltre vi consigliamo di guardare bene l’immagine qui sotto: questa è la pagina della timeline ufficiale della saga contenuta in Hyrule Historia e tante delle sue diramazioni e titoli verranno citati più volte.

Timeline e multiverso

Innanzitutto, dando uno sguardo linea temporale di Hyrule Historia, ci accorgiamo che questa in realtà, non è una timeline! Bensì questa è più una spiegazione del multiverso della saga. Per quanto da Skyward Sword, che segna l’inizio della saga, ci sia una linea del tempo lineare, arrivati a Ocarina of Time questa si divide in tre universi: una con Link che torna nel passato, l’altra che prosegue le vicende della Hyrule della Zelda adulta che rimanda l’eroe indietro nel tempo e una terza intitolata “The hero is defeated”, che diventa realtà se Link viene sconfitto. Al di là del fatto che pensiamo che quest’ultima possa avviarsi da qualunque punto della saga (sia dalla fase lineare che divisa) questa però è la prova del che esistono tre universi distinti e separati che poi proseguono, ognuno, per una propria linea temporale.
Questo è un concetto proprio della fisica quantistica, preso e ripreso più volte sia da scienziati che scrittori, e si basa su un concetto non semplicissimo (trattato già in Bioshock e Dark Souls). Proveremo a spiegarlo in poche parole: ogni evento o scelta nel nostro universo crea un universo alternativo in cui la possibilità scartata prende luogo. Vi facciamo un esempio: nel nostro universo Hitler è stato sconfitto e ha perso la Seconda Guerra Mondiale ma, secondo questo principio, ne esiste un altro in cui il dittatore tedesco abbia sconfitto le potenze mondiali e tutti, in questo universo, girano con capigliature e baffi orrendi. Stamattina eravate indecisi se bere del latte, del caffè, del tè o mischiare latte e caffè o latte e tè ma alla fine vi siete decisi nel mangiare uno snack ipercalorico al volo perché eravate in ritardo per la scuola o per il lavoro? Congratulazioni! Avete creato ben 5 universi paralleli in cui voi compiete le scelte scartate. E che dire di quelle in cui potevate mangiare lo snack e una di quelle 5 di quelle possibili bevande? È una di quelle situazioni in cui Mario direbbe: «mamma mia»!
A ogni modo, il concetto del multiverso può applicarsi perfettamente nel mondo dei videogiochi: di potrebbe spiegare, per esempio, come mai Cammy e Mega Man condividano gli stessi obiettivi in Cannon Spike per Sega Dreamcast o come mai Kratos, che ha solitamente un temperamento rovente, riesca a rientrare nei par in Everybody’s Golf 5, uno sport in cui la pazienza, la calma e la concentrazione non sono certo il suo forte. Dunque in Ocarina of Time avvengono 3 eventi fondamentali che creano 3 universi diversi che coesistono allo stesso tempo in cui però sussistono eventi e fatti diversi; ricordiamo che alla fine di questo titolo, Link, tornando nel passato, fa arrestare Ganondorf e così, le imprese compiute da Link adulto, non avverranno mai, non nel suo universo. Tuttavia, nonostante questa premessa, esistono certe cose che potrebbero non essere mai spiegate nella saga di Zelda (come le apparizioni dei Moblins, che sono dei tirapiedi forgiati da Ganon, in The Legend of Zelda: the Minish Cap, gioco in cui il temuto antagonista è assente) e dunque rimarranno per sempre senza una vera spiegazione.

Dove si colloca Breath of the Wild?

Eiji Aonuma in un intervista con Game Informer, parlando della collocazione di The Legend of Zelda: Breath of the Wild nella timeline rispetto a Ocarina of Time, ha apertamente risposto: “after”. Questo è un indizio fondamentale ma bisogna fare un po’ di analisi per capire meglio in quale linea temporale questa nuova avventura è collocata.
La geografia della nuova Hyrule ha una certa somiglianza con quella di A Link to the Pastessa presenta un monte (con un vulcano) a nord est, un deserto a sud ovest e il lago Hylia verso il sud, nonché la presenza del “Colle Occhiali” (Spectacle Rock in inglese) che appare solamente in questo titolo e nel primo per Nes, giochi della linea temporale “The hero is defeated”, universo generato dalla sconfitta di Link. Sempre collegato al suo fallimento, Ganon, secondo Hyrule Historia, rinuncia per sempre alla sua forma umana diventando per sempre il mostro che abbiamo conosciuto nei primi tre giochi accumulando, volta dopo volta, sempre più potere fino a diventare la Calamità Ganon,  forma della sua malignità più pura; non solo Ganondorf, la sua menzionata forma umana, non appare in nessun titolo della timeline ma a supporto di questa tesi Urbosa, dopo che avremo “esorcizzato” il titano Vah Naboris, cita il fatto che le origini di Ganon sono legate in qualche modo ai Gerudo, una comunità composta da sole donne, e la cui nascita comportò per loro un grande disordine e segno di sventura.
Altro elemento fondamentale è la presenza dei Lynel, i terribili centauri dalla forza sovraumana; dopo un’attenta analisi è possibile accertare che questi particolari mostri non appaiono in nessun’altra timeline e sono dunque esclusiva di questa. Tuttavia, le prove schiaccianti a sostegno dell’appartenenza di Breath of the Wild a questo particolare universo narrativo risiedono negli abiti tradizionali di Link (quelli verdi), ottenibili solo dopo aver completato le prove di tutti i 120 santuari. Il cappello e la veste, in particolare, presentano rispettivamente le seguenti caratteristiche: una banda gialla nel primo e una maglia marrone sotto la seconda. È incredibile notare non solo che gli abiti de “i Link” delle altre linee temporali non hanno queste caratteristiche ma anche che quelli della timeline “The hero is defeated” presentano tutti questi particolari nel cappello e nella maglia. È diventata dunque teoria solida fra i fan che Breath of the Wild appartenga a questo specifico universo e queste prove, insieme ai suoi assetti generali come la Hyrule distrutta, siano la prova schiacciante della sua collocazione.

(The Legend of Zelda: A Link betweenWorlds, sequel diretto di A Link to the Past, appartiene a questa specifica timeline; notate bene cappello e veste)

«Obiezione!»

Tuttavia, le discussioni sulla timeline ufficiale non sarebbero complete senza delle incongruenze tali da contraddire tutto quello di cui abbiamo discusso finora, facendo imbestialire i fan più accaniti, al punto da distruggere il proprio PC o buttare dalla finestra il proprio smartphone (non fatelo, altrimenti non potreste seguire questo fantastico sito). Esistono prove a supporto invece, all’appartenenza di questo titolo nelle altre due linee temporali, e dunque negli universi creati dopo il successo di Link in Ocarina of Time.
La primissima prova si trova nel salgemma, ottenibile frantumando le rocce che contengono i minerali; la sua descrizione recita: «sale cristallizzato del mare ancestrale». Il fatto che possa essere il deserto di Ranel o Lanayru di Skyward Sword, che era anticamente un oceano, è in realtà un ipotesi da escludere in quanto questo circoscriveva una zona ben precisa nella mappa del titolo per Wii; il salgemma, per altro, si trova in moltissime zone della Hyrule di Breath of the Wild perciò l’unica ipotesi valida è che il “Mare Ancestrale” (o “Grande Mare” in inglese) citato nella sua descrizione è quello di The Wind Waker, che sommerse l’intera landa per contrastare il risorto Ganon in assenza del, così chiamato, eroe del tempo. La prova che il nuovo titolo della saga possa essere collocato nella timeline della Hyrule precedentemente sommersa è anche sostenuta dalla presenza dei Korok e dei Rito, entrambe razze presenti nel fantastico titolo per Gamecube; i primi, così come spiegato Aonuma nella pubblicazione giapponese “Zelda Box: The Wind Waker Fanbook”, discendono direttamente dai Kokiri, la razza delle foreste della Hyrule del leggendario titolo del Nintendo 64 mentre i secondi, sempre secondo il direttore della saga, sono un’evoluzione della specie Zora. Questa affermazione, nonostante sia citata proprio dalla mente della maggior parte dei titoli della saga, risulta un po’ strana in quanto è improbabile che questi, in una Hyrule sommersa dal loro elemento naturale, abbiano avuto l’esigenza di uscire dall’acqua ed evolversi in creature alate; certi fan sono concordi con Aonuma ma noi pensiamo che ci sia qualche imprecisione, altrimenti non si potrebbe spiegare la coesistenza degli Zora e dei Rito in Breath of the Wild. Chissà, magari alcuni di loro sono usciti dall’acqua, durante la grande alluvione, per poi evolversi nelle creature alate mentre altri sono rimasti nascosti in acqua, saltando così la loro apparizione in The Wind Waker. Probabilmente non avremo mai una risposta definitiva. A ogni modo è bene ricordare che i Rito appaiono in tutti gli universi paralleli: nella “Thehero is defeated” vi è la presenza dei Fokka, i guerrieri alati che difendono il Great Palace, l’ultimo dungeon di Zelda II: the Adventure of Link; nei titoli della timeline di Link che torna dal futuro non c’è la loro effettiva presenza ma almeno abbiamo la prova della loro esistenza: in Twilight Princess, nei pressi del castello di Hyrule, c’è un incisione in un muro che mostra Link bambino incontrarsi con le razze principali del regno e i Rito sono presenti insieme ai Goron, Zora e gli umani.
E ora, avendo citato questo bellissimo titolo, vorremo citare anche le parole di Zelda (in inglese) nella cutscene “La finta cerimonia” in Breath of the Wild:

«[…] whether skyward bound, adrift in time or steeped in the glowing ember of of twilight […]»

Il dialogo, essendo collocato dopo Ocarina of Time, rimanda al tempo – il titolo citato poc’anzi – al cielo, rievocando le vicende in Skyward Sword, e al crepuscolo, che si collega direttamente agli avvenimenti in Twilight Princess, gioco invece, della linea temporale in cui Link torna dal futuro dopo aver sconfitto Ganon; trovandoci nell’universo in cui Link è stato sconfitto o in quello in cui il Grande Mare ha sommerso Hyrule per diverso tempo è impossibile che gli eventi di questo oscuro titolo possano essere avvenuti, semplicemente perché questi eventi sono propri di un altro universo. E ancora, rimanendo in questo tema “crepuscolare”, l’architettura del castello dell’ultimo titolo della saga è veramente molto simile a quello del gioco in questione. Stando a Hyrule Historia sembra ci sia un vero paradosso temporale e perciò pare che il tutto abbia poco senso. Ma qual è la vera risposta?

Il nostro responso

Anche se l’ipotesi più gettonata è quella dell’appartenenza alla timeline “The hero is defeated” noi vogliamo comunque arrivare alla nostra personalissima conclusione: The Legend of Zelda: Breath of The Wild potrebbe prendere luogo in ogni timeline oppure, più credibilmente (e preferibilmente), Nintendo ha voluto convergere definitivamente tutti questi universi paralleli senza dover pensare troppo al come, sbarazzandosi una volta e per tutte della loro stessa debole spiegazione. Per anni i fan hanno voluto una chiosa alla timeline della saga ma la vera risposta è che forse non c’è mai stata; in molti giochi si parla spesso delle origini di Hyrule, di come Link si renda conto del suo ruolo nel mondo, della Triforza e pochissimo invece dei collegamenti, sempre se ci sono, con titoli precedenti; noi crediamo che tutto ciò avviene probabilmente non solo per avvicinare sempre più nuovi giocatori ma anche per dare una spiegazione alle sempre diverse meccaniche di ogni gioco della saga.
Il punto forte di questa specifica serie non è solamente il suo eccelso gameplay o la sua intrigante storia ma la sua accessibilità e il fatto di poter cominciare a vivere le vicende di Hyrule da qualunque titolo; ogni gioco è una leggenda diversa e in ognuno di essi c’è un diverso Link, discendente, molto probabilmente, da uno precedente. Questa saga non è come la trilogia delSignore degli Anelli o qualcos’altro di super espanso come Star Wars oStar Trek; The Legend of Zelda è in realtà un qualcosa di molto semplice: tutto nasce dalla passione di Miyamoto nell’esplorare i boschi vicino la sua casa dell’infanzia, l’immaginario di un bambino che prende vita. Per ogni giocatore è dunque possibile prendere un qualsiasi titolo, per qualsiasi console, e trarre una conclusione; con questo non vogliamo dire che gli episodi della saga siano autoconclusivi ma probabilmente meno complessi di quel che sembrano.
È fatto risaputo che gli sviluppatori, per la creazione di un nuovo titolo di questa specifica saga, pensano prima alla meccanica portante del gioco e poi a una trama che possa girarci attorno, mai il contrario e mai lo sarà; Aonuma e Miyamoto non vorranno mai che i giocatori, dai più appassionati ai più novizi, debbano giocare a un titolo precedente per far sì che capiscano la trama e le meccaniche di un nuovo titolo di The Legend of Zelda ed è per questo che, probabilmente, la saga non ha mai avuto una timeline solida. In fondo tutto questo non è nulla di nuovo: Nintendo, prima che i fan possano dire qualsiasi cosa sulla grafica o sulla trama di un titolo, vuole che l’esperienza sia divertente e unica, una di quelle che non potrà mai essere fruita in un’altra console concorrente ed è anche per questo che questa fantastica saga, e specialmente quest’ultimo Breath of the Wild, è davvero unica.
A partire da questo ultimo titolo ci possiamo chiedere: avremo da adesso una timeline più lineare o verrà scartata del tutto? Avremo nuovi prequel, sequel o universi paralleli dopo tutto questo? Ma la domanda fondamentale è: dove si collocano Zelda: The Wand of Gamelon e Link: The Faces of Evil per Philips CDI?

(Tranquilli, l’articolo è finito, anche se… Hey! C’è una banda gialla! Appartengono alla timeline “-The hero is defeated”, caso chiuso!)




La storia del più grande Kickstarter del sud-est asiatico

Se siete a Kuala Lumpur e state cercando sviluppatori indipendenti, potreste andare al fiorente centro tecnologico di Bangsar South.

Grazie a un accordo con UOA Holdings, agenzia che si occupa dello sviluppo immobiliare, la Malesia Digital Economy Corporation (MDEC) ha compiuto un grande passo verso il suo obiettivo, cioè quello di trasformare rapidamente, Bangsar South (zona di Kuala Lumpur) nel principale centro del paese per lo sviluppo di giochi di ogni tipo; ospiterà da grandi aziende come Streamline Studios, ai tanti team piccoli e creativi che operano da Komune.
Forse, il più interessante tra tutti questi sviluppatori è Magnus Games, che è riuscito a  raggiungere una fama senza precedenti per uno sviluppatore del sud-est asiatico delle sue dimensioni. Lo studio è stato fondato nel 2015 dai due fratelli malesi, DC Gan e Welson Gan. I loro primi sforzi di sviluppo erano tutti rivolti a un’area del mercato che i tutte le software house emergenti preferiscono scegliere come target: giochi mobile gratuiti. Questo portò i due fratelli in una zona inesplorata, visto che non sapevano “creare” un gioco circondato dalle monetizzazioni, infatti, come ha affermato DC «quando compro un hamburger mi aspetto di ricevere un hamburger».
Quindi, i due fratelli si trovarono rapidamente al di fuori della loro zona di comfort, cercando di programmare titoli che raramente giocavano. Infatti, lo stesso, definisce il loro lavoro di quel periodo come un fallimento.
Magnus Games è sempre stata alla ricerca di free-to-play capaci di fornirgli una reputazione e, di conseguenza, fargli ottenere qualche finanziamento per ciò che DC chiama “il nostro gioco dei sogni”. Tuttavia, vicini al fallimento, i fratelli si riunirono e decisero di puntare il tutto per tutto.
Essi passarono dal free-to-play al premium, dai dispositivi mobile al PC e alle console, il tutto reso possibile da una piccola quantità di investimenti privati ​​e denaro preso in prestito da amici e familiari. Grazie ai loro innumerevoli sforzi riuscirono a realizzare il loro sogno sviluppando Re: Legend, l’ibrido simulatore di giochi di ruolo. Il titolo è stato approvato da Square Enix nel 2016.

In Re:Legend, i fratelli hanno cercato di combinare le varie esperienze fornitegli dalle ore di gioco di titoli che hanno fatto la storia.
Ma cos’ha portato la Magnus Games tra le braccia di Square Enix? Quando la società si è rivolta a Kickstarter, era sicura di avere un prodotto che fosse in grado di suscitare entusiasmo in diversi tipi di giocatori e quindi, di attrarre il tipo di pubblico che avrebbe investito in un gioco che potrebbe essere vicino al rilascio.
La campagna “Re: Legend Kickstarter” è iniziata alla fine di luglio 2017, con un obiettivo di finanziamento di circa $53.000 ma dopo 30 giorniera già a quota 480.000, garantendo al gioco versioni per Xbox One, PlayStation 4 e Nintendo Switch,  assicurandogli un doppiaggio completo nei dialoghi. La loro non era solo la più grande campagna Kickstarter di uno sviluppatore di giochi in Malesia; infatti è stato, inoltre, il più grande Kickstarter nella storia del sud-est asiatico.
Durante questi 30 giorni, DC ha affermato che lui e suo fratello lasciarono a malapena la loro casa. Infatti, trascorrevano le giornate gestendo tutto,  dalla copertura della stampa, al contatto con gli streamer, inviando centinaia di e-mail e rispondendo direttamente a ogni singolo commento lasciato dalla comunità Kickstarter.
Il denaro che Magnus Games ha racimolato, quando la campagna è finita nell’Agosto del 2017, è stato abbastanza da permettergli di creare la versione di Re: Legend che i fratelli avevano immaginato. In pochissimo tempo, il loro titolo cominciò a essere confrontato con i titoli AAA. Il che costringe la società a mantenere il livello di aspettativa che tutti i loro fan si aspettano da questo titolo.
In Malesia, raccogliere fondi per una start-up di giochi non è un’impresa da poco: L’industria locale è ancora troppo giovane ed è per questo che il governo è intervenuto per aiutare le società, con il sostegno e le sovvenzioni con organizzazioni come MDEC. Tre anni fa, Magnus Games ha deciso di abbandonare il settore mobile e free to play per inseguire il suo sogno, ma così facendo, si è trovata davanti a qualcosa di più grande di quanto potesse immaginare. Per la giovane start-up, la nuova sfida è soddisfare il suo pubblico senza rovinare tutto quello che è stato costruito con il loro duro lavoro.