Transformers: l’ultimo cavaliere

Chi scrive è un grande fan dei Transformers: serie animate, action figures (in tenera età) e videogiochi mi hanno accompagnato fino a quando, con mia somma commozione, venne annunciato il primo lungometraggio diretto da Michael Bay e prodotto da Steven Spielberg. Il primo capitolo di questa saga – nonostante i difetti che diventeranno marchio di fabbrica nei capitoli successivi – rimane il migliore, con la magia dei robottoni ancora presente e lo scontro finale tra Optimus Prime e Megatron come doveva essere, o quasi.
Da La vendetta del Caduto in avanti, la qualità del brand cinematografico è andata via via precipitando in un limbo dal quale risulta veramente difficile uscire e, se pensiamo che sono già previsti almeno altri quattro film più un lungometraggio dedicato a Bumblebee, si può facilmente immaginare che prima o poi il pubblico reagirà di conseguenza, come già visto con i minori incassi avuti in Stati Uniti e Europa de L’ultimo cavaliere.
Ma sarà riuscito Michael Bay a portare una svolta con quest’ultimo capitolo? La risposta probabilmente non vi piacerà.

I Transformers ci sono sempre stati: anche Re Artù e Mago Merlino hanno avuto l’opportunità di incontrare i Cybertroniani, aiutandoli nelle battaglie e preservando la pace. Questa rivelazione può essere considerata uno dei tanti incipit dell’intricata trama – non necessaria – di Transformers: l’ultimo cavaliere. Come ormai siamo abituati a vedere, la sceneggiatura è uno dei punti deboli del franchise e io partirei proprio da qui. Nel corso delle due ore e mezza del film assisteremo a quanto di più confusionario e contraddittorio sia stato scritto nell’ultimo periodo. Raccontare l’origine dei robottoni era qualcosa di scontato e sapevamo già che prima o poi questo argomento sarebbe stato trattato, magari con l’occasione di approfondire qualcosa che è sempre stato molto vago all’interno del franchise. Invece, anche questo argomento è stato trattato con pressappochismo, inserendo divinità (o considerate tali) praticamente a caso e senza un vero background narrativo. Proprio una di queste cosiddette divinità, Unicron, è stata inserita in un contesto talmente sbagliato che chiunque abbia visto un episodio della serie animata avrebbe potuto fare di meglio. Unicron è un elemento cardine del franchise ma nella trasposizione cinematografica è stato completamente annullato.
Uno dei difetti tipici dei Transformers di Bay è sicuramente lo spazio eccessivo dato alla controparte umana, qui personificata da Cade Yeager (Mark Wahlberg) che torna dopo l’Era dell’estinzione. Yeager è al centro delle vicende, così come lo sono Edmound Burton (Antony Hopkins) e Vivian Wembley (Laura Haddock): tutto viene portato avanti in modo quasi del tutto autonomo, con i Transformers non del tutto necessari, quando dovrebbero essere i protagonisti della pellicola. L’ampio uso degli umani potrebbe anche essere un modo interessante di osservare le vicende da un punto di vista diverso, ma nelle mani di Michael Bay diventa soltanto l’espediente per mostrare le sue virtù da regista: continue inquadrature dal basso verso l’alto, scavalcamenti di campo, camera tremolante, le solite sequenze d’azione confusionarie e ridondanti, il tutto contornato da un montaggio visibilmente sbagliato.
Tutto il cast umano risulta quindi mal gestito (un esempio su tutti è Izabella) e soprattutto la loro caratterizzazione mal congegnata. Nessuno degli attori riesce a ritagliarsi lo spazio sufficiente per stabilire una vera empatia col pubblico e personalmente dispiace molto vedere attori del calibro di Anthony Hopkins e Stanley Tucci naufragar “dolci” in questo mare.
Insomma, siamo sempre di fronte ai soliti problemi di scrittura: personaggi mal caratterizzati (umani e non), coerenza narrativa inesistente, troppe storyline non necessarie ad appesantire il tutto, espedienti narrativi nonsense e soprattutto l’inserimento di momenti che dovrebbero essere esilaranti che invece risultano pacchiani.
L’unico lato positivo riguarda gli effetti visivi, davvero ottimi, con i Transformes perfettamente amalgamati al contesto ambientale. Ma è davvero troppo poco per portare questo film anche vicino alla sufficienza.

In conclusione Transformers: l’ultimo cavaliere è probabilmente uno dei peggiori blockbuster di quest’anno. È l’ennesimo film della saga che si porta dietro gli stessi problemi sinora ampiamente messi in luce da critica e pubblico, e che per di più crea contraddizioni con i capitoli precedenti. L’intrattenimento non si riduce al susseguirsi continuo di esplosioni e questo Michael Bay dovrebbe cominciare a capirlo: basta guardare Pacific Rim di Gullermo del Toro per capire cosa sia un bel film di intrattenimento con al centro mostri e robottoni giganti.
Transformers: l’ultimo cavaliere è invece un film che trasuda presunzione dalla messa in scena alla regia. Di capitolo in capitolo ogni cosa sembra diventare più grande e intricata e a questo punto la curiosità di vedere il prossimo film della saga non è più dettata da nuovi personaggi introdotti o da approfondimenti narrativi, ma viene sostituita dalla curiosità di vedere come Michael e soci riusciranno a fare peggio del precedente.




Spider-Man: Homecoming

Ammetto di non avere un gran rapporto con i reboot: li vedo spesso come un elemento di confusione nell’universo di una serie, una diversione dalla linea principale che aggiunge elementi di cui non sento quasi mai la necessità riguardo a storie che ho già apprezzato a loro tempo. Nel caso di marchi storici, longevi e consolidati come Spider-Man un reboot diventa un rischio ancora maggiore, dovendo “tradire” una mitologia ormai consolidata da decenni e sulla quale il cinema si è già più volte preso svariate libertà. Homecoming è infatti il secondo reboot cinematografico della saga che vede per protagonista l’Uomo Ragno, un lungometraggio nel quale il regista e sceneggiatore Jon Watts (e con lui Jonathan Goldstein, John Francis Daley, Christopher Ford, Chris McKenna ed Erik Sommers, che lo hanno affiancato in fase di scrittura) opera svariate rivoluzioni – com’è anche giusto che sia – alla storia del fumetto.
Peter Parker è sempre il quindicenne che tutti conosciamo, e il film non affronta la parte ormai nota dell’acquisizione dei superpoteri, ma ci introduce alla storia prendendoli come dati di fatto. Peter abita con una “zia May” enormemente ringiovanita nella sempreverde Marisa Tomei e sta svolgendo uno “stage” presso la Stark Industries, di fatto un apprendistato da supereroe sotto l’egida di Happy Hogan (un adattissimo Jon Favreau) che nella sua trasposizione cinematografica è ormai il braccio destro di Iron Man (ormai inscindibile dalla figura di Robert Downey Jr). Tom Holland si dimostra quello che è potenzialmente il più calzante degli Spider-Man già dal punto di vista fisico: più atletico di Tobey Maguire, più adolescente di Andrew Garfield, il giovanissimo attore britannico (che vedremo anche nei panni del giovane Nathan Drake nel film di Uncharted) è probabilmente la miglior sintesi tra i due predecessori, e lo dimostra anche sul piano recitativo, offrendo una prova rispettosa del personaggio originario che ben si innesta in tutti gli elementi innovativi derivati dalla contestualizzazione contemporanea.
In parallelo si sviluppa la storia di Adrian Toomes, capo di una ditta di smaltimento di rifiuti che vede interrotti i propri lavori dall’U.S. Department of Damage Control, causando un danno alla sua attività. Dalla rabbia per l’ingiustizia subita a diventare un cattivissimo villain il passo è breve; il mite imprenditore Toomes si trasformerà nel supercriminale che il giovane Spider-Man dovrà affrontare, lo storico Vulture, l’Avvoltoio, interpretato qui dall’immenso Michael Keaton, (e chi meglio di Birdman?), il quale, poco tempo dopo, avvierà una nuova attività imprenditoriale dandosi alla compravendita di armi aliene (Chitauri, nella fattispecie) sul mercato nero. E in qualche modo bisogna pur campare, però se arriva Spider-Man a romperti le uova nel paniere…

Il film è interamente gestito su un’equilibrata alternanza di toni fra serio e faceto, momenti di grande azione e scambi di battute efficaci (con un paio di picchi verso il basso sulla linea comica).
Quello in cui si colloca la storia è un mondo diverso da quello in cui un tempo nascevano i supereroi: se ogni fumetto dell’epoca vedeva spesso il proprio protagonista totalmente isolato e reietto, in un mondo spesso afflitto dal crimine e privo di possibilità di salvezza che rendeva necessario l’intervento del “supergod“, qui siamo in un universo totalmente ribaltato, dove i supereroi sono una realtà consolidata
– con la squadra degli Avengers in primo piano – non meno di quanto lo siano pericolosi alieni e i continui attacchi alla civiltà da parte di esseri potentissimi e cattivissimi. È la nuova weltanschauung Marvel, ed è chiaro che si parta da un totale ribaltamento di prospettiva rispetto al mondo fumettistico: ciò comporta che le storie e i personaggi debbano inevitabilmente svilupparsi su una base culturale e sociale totalmente diversa, nella quale Capitan America gira video educativi destinati alle scuole e la Damage Control è una realtà consolidata. Non è dunque strano che la variazione del contesto attorno a Peter Parker cambi anche il modo di vivere del giovane Spider-Man, il quale soffre, sì, di poca fama nel contesto scolastico e del conseguente bullismo da parte di Flash Thompson (Tony Revolori, che qualcuno avrà già visto lavorare con Wes Anderson) ma rispetto ai comics è meno isolato, ha un migliore amico, Ned (Jacob Batalon), e un gruppetto di compagni nerd con cui gareggiare a un decathlon scientifico, nonché gli stessi Tony Stark e il buon vecchio Happy a supportarlo, a formarlo, ma soprattutto a bacchettarlo.

Da queste basi prende le mosse la ripartenza della saga di Spider-Man, in un contesto in cui non è necessario uno zio Ben a sacrificarsi per la sua formazione morale, dove il protagonista è meno eroe epico e più personaggio a tutto tondo, al punto da rimettere in discussione gli stessi desideri che lo animano durante l’intera storia, anche quelli legati al suo essere supereroe. C’è un punto focale infatti, nel film, un momento di intersezione tra i desideri (incarnati da Liz, la ragazza di cui Peter è innamorato, interpretata da Laura Harrier) e i doveri del supereroe: il momento di intersezione si traduce in uno scontro che non a caso ha luogo durante il tradizionale ballo scolastico che segna il ritorno a scuola degli studenti, l’“homecoming” appunto, che diviene una sequenza cruciale della storia. Probabilmente Watts gioca con questa ambiguità, perché fin dall’inizio si intuisce come il titolo faccia riferimento al ritorno a casa dopo il grande combattimento all’aeroporto di Berlino in Civil War, quello che sancisce il vero e proprio inizio del rapporto tra Peter Parker e la Stark Industries; ma l’homecoming scolastico diventa occasione per rivelazioni e decisioni importanti per il giovane Spider-Man e, pur essendo la sequenza forse gestita in maniera un po’ spicciola e sbrigativa, si rivela uno dei punti chiave del film. È a Tom Holland che dobbiamo riconoscere il merito di restituire un personaggio roso dal proprio dilemma, non gravato dalle responsabilità derivanti dal grande potere né dai sensi di colpa familiari, ma ineluttabilmente diviso dalla frattura fra il Peter Parker adolescente e lo Spider-Man in divenire che animano la dialettica di questo “romanzo di formazione”. Anche questo aspetto avrebbe forse meritato un maggiore approfondimento, ma non era l’obiettivo del film (e dobbiamo pur sempre ricordare che il mondo Marvel, come quello di Star Wars, hanno preso una piega diversa da quando sono stati inglobati nell’universo Disney, la quale ha comunque il merito non da poco di aver mantenuto una buona qualità in entrambi i brand).

Il livello di scrittura però rimane globalmente molto buono, mantenendo bene l’equilibrio tra un aspetto action, supereroistico e spettacolare ben gestito e quello comico che, al di là di qualche scivolone, mantiene il film sempre su un piano “brillante”; buona anche la prova registica di Jon Watts, il quale manifesta alcuni propri limiti nelle sequenze più difficili come quella del traghetto di Staten Island, nella quale si sente il peso di una certa inesperienza e il fatto di essere alle prese con il proprio primo lavoro ad ampio budget.
Le musiche di Michael Giacchino (The Incredibles, ma anche compositore in vari lavori J. J. Abrams, una garanzia in qualunque film arrivi a musicare) e la fotografia dell’italo-americano Salvatore Totino (The Da Vinci Code, Frost/Nixon, Angels & demons), completano un quadro molto ben strutturato, nel quale gli attori possono dare del loro meglio; a tal proposito, se possiamo rimanere colpiti dell’ottima prova del ventunenne Tom Holland alle prese con un ruolo difficile dentro un costume pesante da portare, quello che continua a impressionare nonostante la lunghissima carriera è sempre Michael Keaton, che impersona in maniera magistrale un cattivo dotato di uno spessore degno dei grandi film del genere (i Batman di Nolan su tutti) e che non si rivela un semplice contraltare atto a valorizzare il supereroe, come spesso accade nel film Marvel; al contrario, Toomes/Vulture è un personaggio problematico, animato da una rabbia con cui potremmo facilmente empatizzare, scaturendo da un senso di un’ingiustizia subita, da un lavoro sottratto a un uomo  che arriva ad affermare pure che “questi uomini hanno delle famiglie”, riferendosi ai propri operai, un capo d’azienda che possiamo immaginare amministri la propria attività da “buon padre di famiglia” e che diventa un villain per reazione, un cattivo che non gode della morte altrui o della distruzione fine a se stessa ma che è disposto a far qualunque cosa per difendere la propria famiglia e il proprio territorio, senza pentimenti e con tutto il cinismo possibile, beninteso; ed è forse l’odio verso tutti i grossi capitalisti che aggrediscono e fagocitano il mercato e verso lo stesso Tony Stark (che li rappresenta) a rendere il personaggio per certi versi vicino al nostro Spider-Man, non a caso definito da Iron Man «eroe springsteeniano della classe operaia», un working class hero proiettato più alla difesa del quartiere che alla ribalta nazionale.
La dialettica fra due personaggi così ben congegnati fa la differenza in un film che pare un ottimo inizio per un brand che non sente il peso dei suoi quasi 60 anni di vita e nel quale Spider-Man pare finalmente essere davvero ritornato a casa.