Call of Cthulhu – Pronto? C’è Qualcuno?

Beh, qui le scelte sono due: potremmo offrire una recensione piena zeppa di citazioni e frasi altisonanti di “voi sapete chi” oppure, una recensione che analizza il gioco in modo che anche voi lettori potrete arrivare a delle conclusioni per valutarne l’acquisto.
Dunqueper molti, Call of Cthulhu non è un videogioco come tutti gli altri ed effettivamente, l’ultima fatica di Cyanide non lo è. Troppo potente è il “richiamo” di uno dei più grandi autori mainstream degli ultimi anni, quel H.P. Lovecraft che in qualche modo tutti conoscono ma che probabilmente nessuno vorrebbe mai incontrare. Tratto dunque dall’omonimo gioco di ruolo del 1981 e, ovviamente, traendo spunto dal Ciclo di Cthulhu, questo investigativo-RPG-survival horror, è stato attentamente seguito dagli appassionati, mettendo sulle spalle degli sviluppatori un peso enorme, costituito da milioni di aspettative parecchio elevate. Sarà riuscito nell’intento?

Citazione a scelta N.1

Tutte le vicende ruotano attorno alla famiglia Hawkins e al suo tragico destino. Ma, come potete immaginare, nulla è come sembra e Edward Pierce, investigatore privato prossimo al fallimento, dovrà scoprire la verità celata tra le strade di Darkwater. Proprio questa cittadina costiera, riesce ad assumere il ruolo di co-protagonista, creata ad hoc come habitat naturale delle idee “lovecraftiane” e in cui, Edward verrà immerso come guidato da un beffardo destino. Le ispirazioni al Ciclo di Cthulhu sono palesi ma fanno capolino altre citazioni da ogni racconto partorito dalla mente dello scrittore statunitense divenendo quasi un “parco giochi” per ogni fan, alla ricerca di riferimenti e piccole “chicche” sparse dappertutto. La narrazione dunque procede spedita ma forse, in maniera fin troppo lineare: nonostante l’utilizzo di dialoghi a scelta multipla infatti, la sensazione di non aver alcun controllo sulle vicende rasenta di tanto in tanto l’imbarazzo, che si fa ancor più marcato una volta arrivati alla conclusione. In generale tutto risulta discretamente interessante  e anche i colpi di scena presente, risultano un po’ telefonati. Ogni scelta intrapresa porterà ad alcune conseguenze più o meno tangibili ma trascurabili, una volta scoperto che per arrivare ai diversi finali, in fin dei conti è l’ultima scelta la più importante. Il viaggio di Edward Pierce verso la follia (non poteva essere altrimenti), è sorretta però da poche ma decisamente interessanti trovate narrative e dalle atmosfere, vero fulcro su cui ruotano attorno le vicende: l’aria opprimente di Darkwater e dei suoi abitanti, schiavi di un singolo evento accaduto anni prima e dell’inquietante setta, è l’elemento più riuscito del titolo, che ci spinge ad approfondire come si è arrivati a questo punto, sfruttando tutto quello che abbiamo a disposizione, come l’innaturale fiuto da detective e l’innaturale talento nel mettersi nei guai. Anche i personaggi con cui interagiremo non brillano per caratterizzazione, interpretando delle “maschere” magari funzionali alle vicende ma che, insieme al contesto creato, minano ulteriormente l’immedesimazione. Call of Cthulhu basa tutto il suo essere sulla narrazione che comunque, nonostante alti e bassi riesce a intrattenere e trasportare il giocatore sino ai titoli di coda; ci vorranno una decina di ore, ma offre la possibilità di rigiocarlo compiendo scelte diverse dalle precedenti, sperando cambi realmente qualcosa.

Citazione a scelta N.2

Come detto nell’incipit, si tratta di un investigativo che mischia alcuni elementi da gioco di ruolo e survival horror. Nostra premura appunto, è quella di cercare e trovare gli indizi necessari per proseguire e ricostruire interamente gli avvenimenti accaduti; esplorazione e interazione con ambiente e personaggi sono elementi essenziali per ogni buon investigatore e anche noi lo siamo, visto che non potrà essere altrimenti; la risoluzione di piccoli enigmi infatti, si presenta in maniera semplicistica, non dando al giocatore modo di sfruttare le proprie sinapsi. Tutto sembra abbastanza abbozzato e anche la ruota delle abilità sembra indicare altrettanto: la componente RPG è riassunta in punti esperienza acquisiti a ogni azione significativa conclusa e lo sviluppo di sette diverse branche che vanno dall’investigazione alla medicina, passando occulto e psicologia, che potranno esser sviluppate in modo da sbloccare nuove abilità (sopratutto oratorie). Tecnicamente è possibile dunque specializzare il nostro Pierce a nostro piacimento, visto che non potremmo potenziare tutto al massimo livello; purtroppo però questo si scontra con la realtà dei fatti, in cui ogni categoria sviluppata non sembra incidere come dovrebbe, ne durante i dialoghi e ne durante l’esplorazione, limitandosi al semplice compitino. Anche i dialoghi a scelta multipla tendono a far storcere il naso, suddivisi in base alle caratteristiche sopracitate e in grado sì di approfondire la narrazione ma che a conti fatti, influiscono davvero poco sul suo prosieguo. C’è da dire però che nel mettere assieme gli indizi, scovando nuove informazioni, dialogare con più personaggi possibile diventa fondamentale per capire quanto sta avvenendo attorno a noi. Ma queste nuove informazioni purtroppo, hanno un valore risicato in quanto, qualunque cosa noi facciamo, arriviamo comunque all’obiettivo.
Ma a parte questo, bisogna anche muoversi da un punto “A” a un punto “B” e solitamente lo si può fare accovacciati visto che, in molte sezioni, essere scoperti significa essere uccisi. Nascondersi dunque è un buon modo per per farla franca e qui entra in gioco una meccanica purtroppo poco sfruttata: il Panico. Pierce prima di tutto è un uomo, capace anch’egli di tremare di fronte l’inconoscibile – o una guardia… – e questo in game, non fa altro che generare confusione, esplicato attraverso frastornanti movimento di camera e desaturazione dei colori, ovviamente contornate dai lamenti del protagonista. Una simile meccanica, se implementata a dovere, avrebbe portato quasi qualcosa di innovativo, immedesimando di più il giocatore con un personaggio di fronte a un pericolo potenzialmente letale. Anche la meccanica della Follia – e che vi aspettavate!? – che aumenta a ogni evento traumaticamente inspiegabile, è solo abbozzata, avendo reale valore solo per uno dei finali (tre in tutto). Il risultato finale dunque è solo discreto visto che ogni elemento di gioco possiede dei pregi ma anche dei grossi difetti.

Citazione a scelta N.3

Nonostante siamo ormai a fine generazione, Call of Cthulhu sembra essere un memorandum di titoli apparsi per la prima volta su PlayStation 4 e Xbox One, nel limbo tra vecchia e nuova era. Se, come detto, l’atmosfera generale è ben gestita, arricchita da una direzione artistica che ricrea a piene mani le opere di riferimento, la componente meramente tecnica rischia di tanto in tanto di lasciare l’amaro in bocca, smorzando così l’entusiasmo. Tutto comincia dai modelli dei personaggi, avara di dettagli e che consta di animazioni davvero datate. Ma nonostante l’utilizzo di texture non esaltanti ed effettistica generale deludente, il titolo soffre anche di un’inadeguata ottimizzazione, non solo su PC ma persino su console, visibile in toto durante i caricamenti tra un capitolo e l’altro, talmente lunghi che nel frattempo potreste scrivere un Ciclo di Cthulhu tutto vostro.
Anche dal punto di vista sonoro la situazione non cambia: il doppiaggio (inglese con sottotitoli) si attesta su buoni livelli, con ovviamente Edward Pierce a fare da padrone. Nessuna eccellenza dunque, soprattutto durante gli attacchi di panico del nostro investigatore privato, ispirati probabilmente dal Tony Stark di Iron Man 3. Ovviamente, anche il comparto sonoro, tra musiche ed effetti non poteva che non andare diversamente, segnalando come il lavoro Cyanide Studio non sia stato dei migliori.

In conclusione

Call of Cthulhu in fin dei conti, può essere considerato un buon omaggio a quel bontempone di H.P. Lovecraft, nonostante l’adattamento a una trama ben diversa dagli scritti originali. Le atmosfere, vissute tra Darkwater e la famiglia Hawkins sono ben riprodotte, gettandoci in avvenimenti ai limiti della comprensione ma smorzati da alcune scelte narrative che rendono la vicenda sin troppo guidata, annullando di fatti il senso dei finali multipli. Chiudendo poi un occhio sul comparto tecnico il titolo Cyanide è consigliato a tutti gli amanti delle opere dello scrittore di Providence ma anche degli amanti dell’horror in generale, che magari non conoscono Lovecraft come dovrebbero.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




My Hero One’s Justice – Poco Plus, Poco Ultra

Con la facilità odierna nel reperire manga e anime in occidente era naturale che la diffusione di tali media travalicasse la carta stampata o animata. Ormai siamo circondati da live action cinematografici di ogni tipo e anche il videogioco non è stato da meno; dai Dragon Ball Budokai, passando per i più recenti Naruto Shippuden di Cyberconnect 2 sino alle trasposizioni di Attack on Titan, Black Clover, Seven Deadly Sins e Kill la Kill, stessa sorte non poteva che non toccare al battle shonen del momento: My Hero Academia. L’opera di Kohei Horikoshi, targata 2014, è diventata in breve tempo il nuovo punto di riferimento per gli orfani di Naruto & Co. trovando sostegno anche dai pezzi grossi del settore come Masashi Kishimoto e Eiichiro Oda. My Hero One’s Justice non poteva che presentarsi come un picchiaduro e come prima iterazione, risulta essere una buona base di partenza su cui sviluppare eventuali seguiti.

I due moschettieri

Da un po’ di tempo a questa parte il mondo non è più lo stesso: improvvisamente cominciarono a manifestarsi nuove capacità nell’essere umano, forse un salto evolutivo che ben presto interessò circa l’80% della popolazione mondiale. L’apparizione dei Quirk (o Quork se guardate Italia 2) portò il mondo nel caos e solo alcuni uomini valorosi riuscirono a mettervi ordine. La nuova società formatasi ha reso possibile la realizzazione di un sogno d’infanzia, essere Super Eroi, un mondo precluso però al protagonista delle vicende: Izuku Midoriya. Nonostante la passione e la voglia di realizzare il suo sogno, Izuku è una delle poche persone al mondo a non possedere alcun Quirk e solo dopo un evento significativo potrà cominciare la sua rincorsa verso la propria realizzazione. Questo è in sostanza l’incipit di My Hero Academia ma stranamente, non lo è di My Hero One’s Justice. La scelta di Byking, sviluppatori del titolo, è quella di far partire le vicende già nel vivo, con Izuku (o da questo punto se preferite, Deku), intento a eseguire il tirocinio da Gran Torino, vecchia gloria tra gli eroi. Non partire dall’inizio dunque, è una scelta a dir poco coraggiosa, in quanto il rischio di tener fuori chi ancora non si è affacciato alle vicende di Horikoshi è presto detto: non basta una piccola introduzione iniziale infatti per creare il giusto contesto; solo chi segue il manga o l’anime dello studio Bones, riuscirà ad apprezzare quanto vede su schermo. Narrazione che prosegue attraverso tre tronconi principali di cui il primo dedicate al punto di vista degli Eroi e il secondo dei cosiddetti Villain, che ripercorrono le vicende del manga/anime con combattimenti singoli intervallati da piccole cutscene in stile fumetto. Sono presenti anche combattimenti “what if“, che cercano di aggiungere un minimo di profondità a storie già narrate. Nel complesso dunque, benché l’idea di separare le campagne rispecchia l’idea originale del mangaka, la narrazione non riesce a rendere giustizia alla famosa opera anche per chi conosce nei dettagli quanto avvenuto. Purtroppo anche le tematiche vengono un po’ lasciate da parte, palesando la natura di tie-in senza troppe pretese. My Hero Academia infatti, rappresenta l’ultima evoluzione dei battle shonen, con personaggi estremamente approfonditi, siano essi protagonisti o personaggi secondari, dando anche spazio a personaggi femminili di livello cosicché, anche il pubblico del gentil sesso abbia la possibilità di immedesimarsi nella sua eroina preferita. L’unione di manga giapponese con uno stile vicino ai fumetti americani inoltre, è la ciliegina sulla torta, in grado di far spiccare, anche visivamente, i disegni di Horikoshi, un altro punto forte dell’intera opera.
Ma il videogioco, non cerca di narrare solo le vicende del manga ma anche di divertire attraverso alcune modalità extra: oltre ai classici scontri uno contro uno e la modalità allenamento, My Hero One’s Justice offre anche le Missioni, un sistema di combattimenti suddivisi in vari stage con difficoltà crescente, in cui via via è possibile aumentare il livello del proprio personaggio e sbloccare le componenti dedicate alle personalizzazione, anche se purtroppo solo estetiche. Questa modalità rappresenta tutto il gioco: l’idea sulla carta è buona ma molti elementi risultano sin troppo abbozzati. A questo punto possiamo desumere che l’eventuale My Hero One’s Justice 2 potrebbe avvicinarsi a quanto mostrato in Dragon Ball Xenoverse, Attack on Titan 2 o Naruto to Boruto: Shinobi Striker, in cui la creazione del proprio alter ego, sfruttando componenti RPG, potrebbe dare quella profondità necessaria per tenere incollati i giocatori più a lungo.

Quirk, quork e quark

È chiaro sin da subito come in My Hero One’s Justice bisogna menare le mani e lo si fa all’interno di arene che replicano gli stage più importati del manga. Una volta scesi in campo dunque si ha a che fare con un combat system ibrido, che mischia piccoli tecnicismi all’accessibilità, soprattutto per rendere ogni tipo di utente già pronto per il campo di battaglia. Oltre a combo fisiche eseguibili con la sola pressione di un tasto, abbiamo la possibilità di eseguire salti e scatti, quest’ultimi differenziati da personaggio a personaggio. In questo caso infatti, si nota una cerca cura al dettaglio: lo scatto di Lida col suo Quirk Engine è del tutto diverso da quello di Bakugo, che sfrutta le esplosioni generate dalle mani per muoversi rapidamente. Questo, oltre al fattore visivo, influenza anche gli scontri in piccola dose, dato che oltre allo scatto anche alcune movenze sono influenzate dal Quirk posseduto. Sembra che ogni personaggio sia stato modellato sulla base del proprio potere, risultando dunque diverso da qualunque altro. Ma esistono Quirk e Quirk e il loro sbilanciamento si riscontra anche sul roster, che conta soltanto 22 personaggi, lasciando fuori oltre ad alcuni elementi della della sezione A, anche la sezione B e soprattutto molti Pro Hero. Una delle pecche più grandi del titolo è appunto lo sbilanciamento: alcuni personaggi risultano del tutto inutili mentre altri, fin troppo efficaci. All for One, AllMight ma anche Todoroki, sono dei veri killer e utilizzarli permette già di partire con un minimo di vantaggio.
Ogni combattimento purtroppo soffre di molti alti, ma anche di profondi bassi, dovuti essenzialmente a un’IA in single player veramente deficitaria e una risposta ai comandi non sempre all’altezza. Anche la scelta di poter utilizzare alcuni colpi Quirk base a ripetizione, senza quindi ricaricare alcunché, rende le partite, sopratutto online, un vero incubo, in quanto si è portati allo spam di qualunque tecnica a nostra disposizione. I veri colpi Quirk, denominati Plus Ultra, richiedono il caricamento di una barra apposita (attraverso colpi inferti o subiti), su tre livelli, ognuno corrispondente a un determinato colpo spettacolare tranne il terzo, utilizzabile sono quando i due compagni a seguito (à la Naruto), sono a disposizione. Il risultato generale è soddisfacente ma è indubbio che è possibile fare di meglio. Resta inoltre inspiegabile come sia possibile combattere sulle pareti verticali di ogni stage come nell’opera di Masashi Kishimoto visto che, sia in manga che anime, questo non avviene.
Anche la personalizzazione dei propri personaggi preferiti non riesce a far centro: se è vero che abbiamo a disposizione molti asset differenti per grado di rarità, appartenenti ai vari personaggi, purtroppo questi hanno solo valenza estetica, senza dunque influire su alcuna statistica di gioco. Però possiamo divertirci a personalizzare le entrate in scena dei personaggi, partendo dal suo slogan e per sino le frasi da utilizzare in battaglia, piccole chicche per gli amanti della saga.

JoJo style

Se escludiamo l’eccellente Naruto Shippuden: Ultimate Ninja Storm 4, tutti i tie-in di anime e manga soffrono del medesimo problema e purtroppo, anche My Hero One’s Justice, non fa eccezione. Si può notare infatti una forte discrepanza visiva tra i modelli poligonali dei protagonisti e gli scenari, che vantano si un’ottima distruttibilità ambientale,  ma rispetto agli ottimi modelli dei personaggi, soffrono di una mancata cura nei dettagli e nell’uso di shader e texture. Come dicevamo appunto, i protagonisti risultano eccellenti, con ottime animazioni e in grado di rispecchiare le tavole di Koei Horikoshi, con tanto di onomatopee su schermo. Il risultato, almeno visivamente, è quello di un manga interattivo, molto bello a vedersi. Inoltre, tutto risulta stabile sui 60fps, con leggeri cali solo quando vi è un forte spam di Quirk. Anche i filtri svolgono un buon lavoro, tra anti-aliasing e anisotropico (anche se quest’ultimo non regolabile su PC), regalando una buona pulizia.
Sul fronte audio non poteva mancare il doppiaggio originale dell’anime giapponese, introducendo i capitoli nella modalità storia, nelle poche cutscene animate presenti e ovviamente durante gli scontri, forse in questo caso un po’ ripetitivi, ma con la possibilità di personalizzarli una volta sbloccati gli asset necessari. A sorpresa, anche le musiche risultano di buon livello, cercando di replicare nei suoni l’eccellente colonna sonora dell’anime, firmata Yuki Hakashi.

In conclusione

My Hero One’s Justice è, a conti fatti, un discreto punto di partenza: riesce a divertire nonostante qualche imprecisione qua e la e un comparto tecnico che pur soffrendo di alti e bassi, riesce a regalare un buon colpo d’occhio. Quello che manca è una reale profondità, con Byking che forse si è limitata a svolgere un semplice compitino con l’intento di  aggraziarsi senza fatica i fan della serie. L’auspicio è quello di vedere un futuro secondo capitolo più curato in ogni aspetto, in grado di dare giustizia a uno dei manga migliori degli ultimi anni.

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La creazione di un Open World

Con l’avanzare delle tecnologie, la creazione di nuovi interi mondi digitali in ambito videoludico è divenuta realtà. Dai primi esponenti del genere Open World a oggi l’evoluzione è stata enorme, sino ad arrivare ai recenti Assassin’s Creed: Odyssey, Red Dead Redemption II e Cyberpunk 2077. L’immersione del videogiocatore in un contesto credibile non è solo l’obbiettivo principale: intrattenere, prolungare la durata del titolo e sopratutto restituire un senso di crescita e libero arbitrio, sono tra le componenti più difficili da bilanciare anche perché, questi titoli, possono viaggiare su un limbo molto sottile, dividendosi tra il divertimento e la noia. Come nasce dunque un Open Word e come si sviluppa sino alla sua pubblicazione non è noto a tutti, e oggi cercheremo di raccontarlo. Si tratta di uno dei generi di più complessa elaborazione in assoluto, in poche parole, una “bomba alla legge di Murphy” pronta a esplodere.

Il Mondo in uno Schermo

Sembra incredibile ma gli open world conoscono un proprio Medioevo: più di dieci anni fa infatti, titoli come Beyond Good & Evil, Gran Theft Auto III e Far Cry, si attestavano già su buoni livelli se paragonati alle macchine su cui dovevano girare. Ma a un certo punto, gli open world cominciarono a sparire, in favore di avventure più lineari e, di conseguenza, più “semplici” da produrre. Chiedete al pubblico il perché di questa scelta: fatto sta che l’evoluzione di questa tipologia di videogame subì un drastico rallentamento e per questo l’avvento di saghe come Assassin’s Creed, dopo anni di “buio”, fu una vera e propria rivoluzione, che contribuì a rendere la categoria così come la conosciamo ora. Con l’avvento delle console di attuale e precedente generazione le cose cominciarono a farsi interessanti, arrivando a quel The Witcher III divenuto pietra miliare e nuovo metro di paragone del genere, almeno fino a oggi.
La creazione di un Open World varia a seconda dell’obiettivo finale, racchiudendosi in due macro universi: quelli basati sul mondo reale e quelli fittizi. Entrambi sono uniti dalla gigantesca mole di lavoro necessaria a produrli, che non si limita alla creazione del mondo in sé ma, sopratutto, al bilanciamento generale, al fine di restituire il giusto senso di progressione.
I primi si basano su rilevamenti sul campo, al fine di ricreare nella maniera più dettagliata possibile strade, palazzi, piazze che potremmo vedere dal vivo; ovviamente tutto in scala. Esempi di questo tipo ne abbiamo a bizzeffe come ad esempio il dimenticato The Gateway (2002) in grado di riprodurre una piccola Londra su Playstation 2, passando ovviamente per gli Assassin’s Creed fino ai giorni nostri, dove i rilievi effettuati, soprattutto nella planimetria delle città e dei luoghi storici raggiunge livelli sopraffini. Ma c’è chi ha fatto di più e sempre in casa Ubisoft: The Crew, racing arcade immerso negli interi Stati Uniti. Era possibile letteralmente viaggiare da New York a Los Angeles, (impiegando circa tre ore; niente male) e visitare non solo le maggiori città americane ma anche i piccoli centri e luoghi più famosi dei coloni di tutto il mondo. Creare degli ambienti reali ha la propria dose di responsabilità e, essendo il videogioco un’opera globale, è possibile incappare in qualche imprevisto, come la scelta di censurare statue patrimonio dell’umanità, per evitare di urtare la sensibilità di qualcuno (vedi Assassin’s Creed: Origins). E per chi crea un mondo da zero? La difficoltà viene decuplicata, non tanto per la realizzazione tecnica quantoper quella artistica: anche se fittizio, un mondo possiede delle sue regole, e far sì che l’ambiente di gioco sia coerente con se stesso è la prima regola da rispettare. Del resto abbiamo visto come in The Elder Scrolls V: Skyrim e Fallout 3 tutto questo è estremamente rilevante in quanto, il contesto visivo è la chiave di volta per far sì che la narrazione possa attecchire su solide basi. Questo perché alle volte, un open world può essere anche un pretesto, “mascherando” la poca qualità della trama con la frammentazione della stessa in varie quest, principali e non o, ancora peggio, non sfruttando l’ambiente e il contesto creato. Assassin’s Creed è sempre un franchise da cui è possibile trarre numerosi spunti e anche in questo caso ci accontenta: Unity è stato un disastro per tanti motivi, ma sopratutto perché il suo svolgimento sembra del tutto slegato dalla Parigi rivoluzionaria di fine 1700. Immergere un videogiocatore in un contesto visivo credibile è la base su cui si poggia un open world in tutte le sue declinazioni, una sorta di regola scrittore-lettore che, una volta infranta, riduce di molto l’appeal verso il titolo interessato.

Faccio cose, vedo gente

Dopo aver modellato un nuovo mondo come novelle divinità, arriva la parte più complicata, riassunta nella domanda “e mo’ che ci metto?”. È chiaro che questo processo arriva dopo centinaia di ore di brainstormig, storyboard, idee azzeccate e sbagliate fino a quando si arriva alle decisioni finali. In questo frangente molto dipende dal tipo di videogioco creato che può andare da FPS, TPS, Racing, RPG e persino spaziale. In un racing game, ad esempio, come l’eccellente Forza Horizon 4, il focus, oltre ad andare alla realizzazione dei modelli delle auto, è indirizzato a rendere l’intero ambiente di gioco abbastanza vario da poterne definire diverse regioni, enfatizzandone magari differenze di flora, fauna e clima, oltre a cercare di restituire il giusto colpo d’occhio nelle grandi città. In questo caso, il numero di NPC presenti ad esempio ha una limitata rilevanza così come, elementi di contorno che poco hanno a che fare con le corse sfrenate a bordo di bolidi.  Tutt’altra storia con open world con componente narrativa ed esplorativa come Assassin’s Creed: Odyssey e Red Dead Redemption II, anche se con approcci diametralmente opposti. Entrambi però sembrano aver risolto un problema intrinseco presente in mappe molto vaste: il vuoto. È capitato, in diversi frangenti, che vastità non fa rima con divertimento, presentando zone senza elementi particolari tra altre che esplodevano di vita. Questo equilibrio spezzato, visibile anche nell’acclamato The Legend of Zelda: Breath to the Wild (ma non preoccupatevi, verrà elogiato successivamente), è stato il tallone d’Achille di quasi tutti gli open world ma fortunatamente, grazie forse a macchine più performanti (o magari una maggiore attenzione), questo problema sembra essere risolto: quest, zone intere da esplorare, segreti o semplici scorci mozzafiato, sono la cura di questo male, ma che Rockstar al contrario di Ubisoft, è riuscita a plasmare nella maniera più naturale possibile.
Ma esistono titoli che fanno degli ambienti ricreati il loro punto di forza: Dark Souls vanta una direzione artistica che difficilmente è riscontrabile in altri titoli, con una cura maniacale necessaria, perché è proprio la mappa che ci parla. Questa, visibile quasi interamente da ogni dove e benché non sia un open world in senso stretto, è utile a capire quanto sia importante inserire elementi corretti, coerenti e soprattutto in grado di risaltare agli occhi del videogiocatore.
Quello che colpisce nel titolo Nintendo e Rockstar precedentemente citati è la capacità di reinventarsi, cercando di portare qualcosa di nuovo. Link è immerso in un mondo sconosciuto e libero da vincoli dettati da missioni in sequenza da svolgere per portare al termine il titolo. Siamo vicini alla pura libertà d’azione in cui, il progresso avviene in maniera del tutto naturale, un’approccio molto diverso dai rivali, probabilmente anche per limitazioni hardware; ma non basta fare di necessità virtù: bisogna saperlo fare. Il team di sviluppo è riuscito a portarci tra le mani un’avventura genuina, una scelta che è stata ben premiata durante tutto il corso del 2017. Ma con Red Dead Redemption si è andati oltre, e sicuramente piccolo anticipo di quel che vedremo nei prossimi anni: un mondo vivo, in costante evoluzione e mai uguale a sé stesso; l’evoluzione, visibile sia negli ambienti che fra i personaggi giocanti e non, è un elogio alla cura per il dettaglio, spiegando anche i circa dieci anni di sviluppo. Ed è proprio questo il punto: l’open world è qualcosa di mastodontico e serve il giusto tempo per poter portare qualcosa di innovativo e curato in ogni dettaglio; ma ne vale la pena? In un mercato frenetico come quello di oggi, con questa moda che sembra più prendere il largo, non c’è il rischio del copia-incolla? Sì, e lo vediamo in continuazione. Eppure, basta variare l’intento con cui si crea un mondo aperto: Avalanche Studios, ad esempio, è maestra in questo e il suo Just Cause è una festa per gli occhi. La libertà concessa al giocatore (ben diversa da quella di Link) è in qualche modo indirizzata verso la spettacolarizzazione, rendendo di fatto questo titolo uno dei più divertenti e intrattenti sul mercato. Inoltre, anche il futuro Rage 2 potrà contare su una vasta mappa che metterà assieme il contesto esagerato di id Software con la cura per gli ambienti di Avalanche.
Il contesto è e resterà sempre fondamentale: creare un mondo credibile in tutti i suoi aspetti la regola d’oro per chi vuole cimentarsi in questa faticosa missione. Ma poi c’è la tecnica e, come Bethesda insegna, basta poco per distruggere tutto.

L’abito fa il monaco

Il bello della tecnologia è che ogni anno c’è sempre qualcosa di nuovo. Quello che un tempo era impensabile a un certo punto diventa possibile ma l’insidia è sempre dietro l’angolo. I moderni open world sono molto complessi anche dal punto di vista tecnico, dove si cerca di mettere assieme diverse simulazioni nella maniera più omogenea possibile. Una delle più grandi innovazioni l’ha introdotta Ubisoft con il suo Sea Engine, apparso in Assassin’s Creed III e ulteriormente potenziato in Assassin’s Creed IV: Black Flag: l’utilizzo di diverse equazioni sulla fisica dell’acqua, ha permesso un’attenta simulazione delle onde, cosa essenziale quando oltre al suolo, è possibile esplorare anche gli oceani. Da questo punto di vista le ultime produzioni dedicate agli Assassini, sono davvero eccellenti, mostrando mondi così diversi come quello acqueo e terrestre in tutta la loro complessità. Negli ultimi anni ha fatto anche capolino la simulazione del clima, passando da caldo afoso a intense nevicate, in grado tra l’altro di influenzare il gameplay. Anche questo processo è estremamente delicato: gestire centinaia di elementi diversi nello stesso momento può risultare davvero arduo e solo con le recenti macchine si è riusciti a raggiungere ottimi risultati. Questo perché è tutto l’ambiente a risentire del cambiamento: prendiamo ad esempio la pioggia; ogni goccia è indipendente l’una dall’altra e, ognuna di esse, viene influenzata dall’ambiente circostante dunque, già di per sé, molto complesso. Se aggiungiamo anche la simulazione dei venti o la gestione di elementi volumetrici come nebbia o fumo, il rischio del patatrac è dietro l’angolo. Per non parlare di come le superfici, una volta bagnate, debbano riflettere ancora più luce e di conseguenza ambiente circostante, appesantendo ancor di più il tutto. Ma per rendere veramente reale l’ambiente in cui ci muoviamo, devono intervenire le luci, che stanno pian piano passando da un’illuminazione globale al ray tracing. L’illuminazione globale è stata croce e delizia per ogni sviluppatore, che ha permesso sì una buona approssimazione nella simulazione dei fasci di luce ma molto distante dalla realtà. Funzionando in stretta relazione con gli shader, questo sistema riproduce centinaia di fasci di luce multi-direzionali, influenzando anche le ombre e le rifrazioni. Niente male, ma il ray tracing? Non abbiamo ancora visto la sua applicazione su larga scala ma le potenzialità sono sotto gli occhi di tutti. I prossimi open world potrebbero contare su un rivoluzionario sistema di illuminazione, trasformando gli odierni Odyssey o Marvel’s Spider-Man, in oggetti da antiquariato. Ma tutto questo ben di dio richiederà macchine ancor più performanti delle attuali GPU, visto la fatica con cui la GTX 2080 riesce a gestire tutto ciò, solo con anti aliasing DLSS.
A meno che non si tratti di post apocalittici come Fallout o Rage, anche la vegetazione ha il suo bel da fare, a dimostrazione di come un’innovazione tecnica possa influire sul gameplay. Il caso eclatante arriva sempre da Assassin’s Creed, che con un maggior dettaglio del fogliame 3D dinamico è riuscita ad aggiungere alcune meccaniche stealth anche in mancanza di architetture. E non dimentichiamo le animazioni: ci vorrebbe un articolo a parte per parlare di quanto sia difficile gestire animazioni uniche in base al contesto, non solo per il personaggio che controlliamo ma per tutti gli NPC presenti su schermo. Non siamo ancora al punto di avere personaggi non giocanti unici, avendo a che fare molte volte con la ripetizione esasperata dei diversi modelli (vedi We Happy Few). Proprio le animazioni, unite alla gestione della fisica, sono le vere gatte da pelare e serve un ottimo lavoro di pulizia dei vari codici affinché non avvenga il disastro. Come dicevamo, Bethesda è ormai habitué in questi termini, contando su un motore di gioco (Creation Engine) targato 2011 e già imperfetto alla sua nascita. La buona norma, sarebbe quella di creare un nuovo motore di zecca a ogni passaggio di generazione piuttosto che aggiornare il precedente perché, a ogni riscrittura, possono generarsi conflitti che se presi sottogamba, possono rovinare l’intera esperienza.

In sostanza, questi sono i parametri da tener d’occhio nella creazione di un open world: tutto deve funzionare in perfetta armonia affinché il giocatore possa sentirsi integrato all’interno di nuovo mondo. La creazione della mappa è solo la punta dell’iceberg di un immenso lavoro e magari, ora che state giocando uno di questi titoli, soffermatevi davanti a una roccia o un cespuglio, chiedetevi perché si trovi lì e il tempo necessario alla sua modellazione. Poi alzate lo sguardo verso l’orizzonte: vi accorgerete di quanto ogni programmatore e artista abbia faticato per permettervi di godervi sane ore di svago.




X018: la formica Microsoft

L’X018 di Microsoft era molto atteso, soprattutto dopo un E3 interessante e che ha posto ottime basi per la prossima generazione. E proprio come una formica, che in inverno deposita risorse per il prossimo periodo florido, Microsoft effettua altri piccoli passi per cambiare un’immagine che forse si era un po’ distaccata all’essenza del gaming. Tanti sono stati gli annunci ma soprattutto, si è intravista la voglia di rimboccarsi le maniche, mettendo subito in chiaro l’intento della casa di Redmond: si gioca, prima di tutto. E Lawrence “Larry” Hryb ha cercato sin dall’inizio di mostrare come la divisione gaming di Microsoft sia pronta a dar battaglia a Sony e Nintendo nel prossimo futuro, confermando anche l’acquisizione esclusiva dei servigi di Obsidian. Ecco dunque tutte le novità mostrate a Città del Messico.

Si comincia con Playerunknown’s Battlegrounds, che entra nel Game Pass a partire dal 12 Novembre. Aggiunta interessante, considerando che tra un mese il battle royale arriverà su PlayStation 4, approfittando dunque ancora di questo mese d’esclusiva.

La prima World Premiere arriva dagli ex di Irrational (Blue Manchu) e disponibile subito sul Game Pass dal day one, un roguelike, simile a Prey: MooncrashVoid Bastard si presenta completamente in cell shading e ispirato da pezzi grossi come Bioshock e System Shock 2. Questo shooter in prima persona arriverà come esclusiva temporanea sulla console di Redmond.

Crackdown 3 è già leggenda, forse per i motivi sbagliati ma qui, all’X018, è stato finalmente mostrato con un trailer a dir poco fuori di testa. 15 Febbraio 2019 (nel Game Pass dal day one) è la data di rilascio, scelta infelice considerando l’uscita di numerosi AAA molto attesi. Il multiplayer (denominato Wrecking Zone) vede due squadre 5vs5 affrontarsi in un ambiente completamente distruttibile. Ovviamente tutto risulta estremamente frenetico ma visivamente interessante una volta cominciato a devastare l’intero ambiente di gioco. Le perplessità permangono ma, nonostante tutto, la sua uscita è giù una buona notizia di per sé. Contento anche Phil Spencer, che forse si è liberato di un peso.

L’altra World Premiere riguarda Sea of Thieves e il suo nuovo DLC The Arena, un PvP dedicato al combattimento tra team per recuperare tesori inimmaginabili. The Arena sarà disponibile gratuitamente agli inizi del 2019 come riferito anche dai producer Craig Duncan e Joe Neate sul palco. Sea of Thieves è stata la riscossa di Rare e questa introduzione, richiestissima dai fan, non è altro che la dimostrazione di come il team dia molta importanza ai feedback dei giocatori. Ogni match si presenterà diverso e avvincente, cambiando modo di approcciare il titolo. Nuove informazioni arriveranno nei prossimi giorni, facendo il punto sui prossimi aggiornamenti.

Jump Force trova il suo spazio grazie a un nuovo trailer in anteprima, presentando le versioni SSGSS di Goku e Vegeta, oltre alla trasformazione Gold di Freezer. Dunque anche Dragon Ball Super trova spazio nel nuovo picchiaduro che racchiuderà i combattenti di Weekly Shonen Jump, che ha sfornato la maggior parte dei nostri eroi preferiti.  È probabile che i Saiyan non saranno gli unici a sfruttare questo tipo di boost; attenderemo notizie in merito prossimamente. Anche qui, uscita prevista per il 15 Febbraio 2019.

Non poteva mancare ovviamente Just Cause 4, probabilmente il gioco più “caciarone” del momento. Il nuovo trailer World Premiere ha visto susseguirsi sul palco Francesco Antonini, creative director di questo titolo targato Avalanche. Il rampino, introdotto nel terzo capitolo, torna ulteriormente potenziato, trasformando il titolo in una festa per youtuber e streamer di varia natura.  Il 4 Dicembre è il giorno prefissato per trasformare l’isola di Solìs nel nostro parco divertimenti.

Devil May Cry 5, previsto per l’8 Marzo 2019, si arricchisce di una nuova modalità, denominata The Void,  praticamente la modalità allenamento. Lo storico ideatore Hideaki Itsuno e Matt Walker, il producer, hanno unito le forze per creare l’atmosfera perfetta per il team a lavoro sul quinto capito della saga dedicata a Dante & Co.

Kingdom Hearts III ha il suo trailer all’X018, presentando un nuovo personaggio: Winnie the Pooh. Il trailer presenta anche alcuni elementi di trama, con i piani malvagi di Maestro Xehanort e dell’Organizzazione XIII. L’uscita è sempre prevista per il 29 Gennaio 2019.

The Forge è il primo DLC di sette di Shadow of the Tomb Raider. Sul palco, il narrative director Jason Dozois e il senior associate producer Jo Dahan hanno commentato le nuove meccaniche co-op. L’espansione è prevista per il 13 Novembre.

Il 13 Dicembre sarà il turno della prima espansione di Forza Horizon 4, denominato Fortune Island, in cui verranno implementati nuovi tracciati e nuove vetture. Ambientato nelle isole nordiche della Gran Bretagna, questo DLC metterà alla prova i videogiocatori con condizioni meteorologiche avverse, tra tempeste e persino aurore boreali. Inoltre, anche Ken Block tornerà protagonista con cinque nuove vetture che faranno sfoggio nel prossimo video Gymkhana.

 

Infine, piccola carrellata delle altre notizie:

  • State of Decay 2, si espanderà il 16 Novembre con un nuovo DLC gratuito denominato Zedhunter Pack, contenente nuove armi e aggiornamenti al gameplay.
  • Give With Xbox è la nuova campagna di beneficenza Microsoft, creata per la raccolta fondi destinati a Gamers OutreachSpecialEffectChild’s Play, e  Operation Supply Drop. Per partecipare basta inviare un’immagine con il tag #givewithxbox, sfruttando il tema dello stare insieme. Per ogni immagine, Microsoft, destinerà cinque dollari fino a un totale di 1 Milione di dollari agli enti sopracitati.
  • Dalla prossima settimana, tutti gli utenti Xbox potranno contare sul supporto di tastiera e mouse. Ovviamente il focus è destinato principalmente agli sparatutto (e cross-platform) come Fortnite, che sarà uno dei primi a sfruttate tale novità. Inoltre, Razer (nuovo patner Microsoft) realizzerà specifiche tastiere e mouse per console, presentate al prossimo CES di Las Vegas.
  • Xbox Game Pass si arricchirà di 16 nuovi titoli nei prossimi mesi:Hellblade: Senua’s SacrificeAgents of MayhemOri and the Blind ForestPlayerUnknown’s BattlegroundsMutant Year ZeroVoid Bastards e molto altro, proveniente dalla scena indipendente. Inoltre per i nuovi abbonati, sarà possibile provare il primo mese del servizio a solo un dollaro.
  • Richiesta da moltissimi utenti, anche Xbox Game Pass avrà la sua App:  sarà possibile sfogliare la libreria Microsoft, selezionare e mettere in download i titoli interessati, al fine di trovarli già pronti sulla propria console. Disponibile ovviamente sia per Android che iOS.
  • Final Fantasy XIII, Final Fantasy XIII-2 e Lightning Returns: Final Fantasy XIII, saranno inseriti nel catalogo retrocompatibilità Xbox a partire dal 13 Novembre. Come da abitudine, i titoli subiranno un boost tecnico, per usufruire al meglio della potenza di Xbox One X. Arriveranno nel catalogo anche Final Fantasy VII, Final Fantasy IX, Final Fantasy X e X-2 e Final Fantasy XII.
  • Ci avviciniamo al Black Friday  e ovviamente Microsoft non poteva starsene con le mani in mano. Con un video à la Roberto Da Crema, “Il Maggiore” Lawrence “Larry” Hryb, ha presentato le nuove offerte: meno 100 dollari sulle console, e sconti a partire dal 35% sulla maggior parte della libreria Microsoft.
  • InXile Entertainment entra a far parte della famiglia Microsoft, conosciuti soprattutto per Wasteland 2 e altri lavori di natura RPG. Lo studio potrà lavorare autonomamente ma potendo contare sulle ingenti risorse del colosso di Redmond.
  • Come per il calciomercato, bisogna aspettare l’ufficialità prima di poter crederci. Obsidian Entertainment è ufficialmente di proprietà Microsoft. Fondata nel 2003 e creatori, tra gli altri,  di Fallout: New Vegas e Pillars of Eternity, il nuovo team è subito a lavoro su un nuovo progetto, che probabilmente potremmo vedere solo tra qualche anno.



Il videogioco come upgrade cognitivo spiegato agli italiani

Viviamo un’epoca molto particolare, dove la tecnologia sembra andar più veloce della capacità che ha l’uomo di apprenderla. Tutto il mondo è lì che freme, sperando in una scoperta o in un’invenzione in grado di cambiare la storia ma c’è un posto particolare, un paese che vive di mille contraddizioni, capace di collaborare attivamente al lancio di una sonda su Marte e, al contempo, di andare in paranoia dopo alcune dichiarazioni di Fabrizio Corona. Questo paese purtroppo non è la Francia ma il nostro, quell’amata/odiata Italia che nonostante tutti i problemi continua a rimanere la settima nazione più potente al mondo (o così dicono). E in un paese simile, diviso tra Papa, Barbara d’Urso e Calenda, i videogiochi non potevano che essere visti alla stessa maniera con cui un britannico vede il bidet: oggetti misteriosi, la cui funzione può solo esser recepita da prescelti.
Ma non siamo certo qui a parlare di come noi poveri videogiocatori veniamo osteggiati dalla comunità italiana bensì, di illuminare la loro visione con alcuni dati importanti sugli effetti che alcune tipologie di videogiochi possono avere sul cervello umano. Ma attenzione: non stiamo nemmeno dicendo che tutti i videogiochi siano formativi e nemmeno che dovreste passare 25 ore al giorno a giocare davanti alla TV. Come ogni media, quello videoludico è in grado di passare da vette elevate come Bioshock a quelle più terragne come Fortnite. Del resto non tutti i film sono Quarto Potere o tutti i romanzi sono 1984.
Dunque «cari italiani e care italiane», scopriamo assieme come sfruttare questo potente mezzo, invece di gridare “al lupo!” senza un valido motivo.

Facile facile

Essere arrivato fin qui è già un bel traguardo dopo aver letto qualche riga introduttiva: vuol dire che in qualche modo si è interessati all’argomento. Grazie.
Partiamo dal principio: il concetto de “il videogioco fa male” esiste sin da quando i primi esemplari arrivarono sul mercato italiano. C’è da dire che Pong non vanta certo una trama interessante o per lo meno, degli insegnamenti da trarre; un semplice passatempo ma già in grado di allarmare genitori di tutto lo stivale, abituati a fare cruciverba sui giornali. Ma cari italiani e care italiane, seriamente: il pericolo è lo strumento in sé o l’uso che se ne fa? In base a un simile ragionamento dovremmo tutti eliminare dalla cucina i coltelli; ma poi vorrei vedervi tagliare una bistecca col cucchiaio. Ma siamo sicuri che qualcuno potrebbe uscirsene con “eh ma almeno lo sforzo che fai in più ti permette di bruciare calorie in eccesso”. Quasi quasi divento vegano.
Ma veniamo al punto: già quel Pong, composto da due barrette e un quadratino, era in grado di apportare piccoli ma significativi cambiamenti nel cervello umano, aumentandone riflessi e capacità visiva. Da allora, centinaia sono gli studi che si sono avvicendati, a volte contraddicendosi, a volte arrivando alla stessa medesima conclusione. Di pari passo, anche i videogiochi si sono evoluti, da semplici passatempo a super blockbuster sino a videogame in grado di approfondire tematiche e concetti in maniera più efficace di qualunque altro media. E gli effetti che ognuno di questi generi ha sul cervello umano sembrano specialistici, sviluppando aree diverse e con diversa efficacia.
Partiamo dunque dalla Queen Mary University di Londra e l’University College London che pochi anni fa, hanno condotto studi sulle potenzialità dei videogiochi nello sviluppo del cervello umano; del resto di questo stiamo parlando. Un gruppo di 72 persone, suddiviso in tre sottogruppi, è stato sotto esame da parte degli scienziati delle Università, facendoli giocare a StarCraft e The Sims, entrambi gestionali ma con una forte vena strategica per il titolo spaziale Blizzard. Nel primo infatti, l’organizzazione di risorse e del proprio esercito è fondamentale per riuscire ad avere la meglio sul nemico, cose che spinge un videogiocatore ad adattarsi velocemente a diverse situazioni, creando o rielaborando tattiche e strategie in tempo reale. In poche parole è quello che dovrebbe fare un allenatore di calcio nel bel mezzo di una partita e utilizziamo questo esempio proprio perché l’italiano medio, oltre a esser politico, economista, filosofo, letterato, fisico nucleare e chi più ne ha più ne metta, è anche allenatore. Capito questo è facile arrivare al cosiddetto multitasking, capacità di effettuare più compiti contemporaneamente che sembra essere una prerogativa di ogni videogiocatore.
The Sims invece è semplicemente The Sims, un simulatore di “Dio” che dovrebbe guidare il proprio popolo verso la felicità ma che invece cerca di applicare la legge di Murphy al 100% delle sue possibilità. Rispetto a StarCraft siamo in tutt’altro ambito, con una gestione molto più semplificata e quindi più alla portata di tutti. L’aver giocato quaranta ore, distribuite in sei-otto settimane, cosa avrà comportato? Sicuramente ci sarete arrivati da soli ma è giusto sottolinearlo: i risultati dei test, pubblicati sulla rivista PLoS One, hanno evidenziato come i videogiocatori di StarCraft siano molto più rapidi nel prendere decisioni, dovute essenzialmente a una maggiore attenzione e velocità nell’elaborare in tempo reale quanto stia avvenendo. Essendo una capacità discretamente importante, capace di portarci qui dove siamo ora, è interessante come questa possa essere allenata e migliorata semplicemente giocando, divertendosi; ammesso e concesso che con StarCraft ci si diverta, ma non entriamo nel merito.
E quelli che hanno giocato a fare Dio? Risultati discreti, dovuti a una minore attenzione allo svolgimento del gioco, essendo più semplice in linea generale. Questo lo si nota anche dai test psicologici avvenuti dopo le sessioni di gioco che hanno dimostrato una migliore risposta ai cambiamenti e problem solving nei giocatori dello strategico spaziale. Ma anche la vista, sembra risultare potenziata, al contrario di quello che i nostri cari ci hanno detto: sembra che l’estrapolazione di dati in un contesto confuso e la distinzione di maggiori gradazioni di grigio, migliori a tal punto che si sta pensando di produrre videogiochi specifici per pazienti affetti con problemi alla vista. Ma questi studi, vi chiederete voi, hanno una qualche finalità? Esistono alcune problematiche legate a deficit d’attenzione o iperattività che potrebbero essere alleviate semplicemente giocando a videogiochi specifici, ma ovviamente andranno eseguiti studi più approfonditi. Se non sapete bene di cosa parliamo, basta fare un giro su Facebook.

Nietzsche, D’Annunzio e Super Mario

Dunque, abbiamo capito come alcuni videogiochi possano migliorare multitasking e problem solving ma sappiamo che esistono altre aree del cervello e altre capacità umane. Se state pensando “eh ma io sto già su Facebook, Twitter, Instagram e PornHub contemporaneamente, commentando”, buon per voi. Ma non vi piacerebbe migliorare la visione d’insieme, distinguere più oggetti ed esser più reattivi? Qui intervengono, secondo l’Università di Ginevra, un’altra tipologia di videogiochi: quelli d’azione. Calma, calma. Cari italiani e care italiane, possiamo percepire le vostre paure riassunte in “mio figlio diventerà un delinquente se gioca ai videogiochi violenti”; certo, potrebbe accadere, con la stessa probabilità che ha il Foggia di vincere la Champion’s League tra tre anni. Ma mettiamo da parte gli allarmismi ingiustificati e ragioniamo a mente fredda, traendo le dovute conclusioni. Pubblicato sul Psychological Bulletin, lo studio dei ricercatori svizzeri, è stato condotto su 15 anni di test su diversi pazienti (o cavie se preferite), arrivando alla conclusione che determinati videogame à la Call of Duty, possono migliorare in maniera sensibile le capacità cognitive dei videogiocatori. Questo include la cosiddetta “attenzione spaziale“, la capacità di riconosce oggetti in ambienti confusi, oltre al già citato multitasking e la capacità di cambiare direzione di pensiero, per così dire la capacità di contraddirsi, andando contro un’idea predeterminata. Anche qui i videogiocatori, ne escono vincitori rispetto a chi non fa uso di questi mezzi ma c’è una domanda che ogni buon scienziato si è posto, invece di accettare dati per assodati come fosse un titolo di un giornale scandalistico: sono i videogiocatori, che avendo insite queste predisposizioni, sono portati a giocare oppure, queste capacità derivano dall’aver giocato? Lo studio condotto su un campione di 2883 giocatori (specifichiamo che all’interno del gruppo i soggetti erano sia maschili che femminili), divisi in due gruppi distinti, messi a giocare rispettivamente videogiochi d’azione (FPS, TPS, Action) e videogiochi di ruolo e casual (Sims e Puzzle Game), per circa otto ore settimanali. I risultati, scontati: chi ha giocato a titoli action ha migliorato di gran lunga le loro capacità cognitive rispetto ai videogiocatori casual e questo, sembra risultare anche da altri studi in tutto il mondo come la Columbia University, California University e del Wisconsin. Quindi sembra tutto rose e fiori e, cari italiani e care italiane, forse state cambiando idea sull’uso dei videogame. C’è un “però”, e per completezza andiamo a citare anche altri studi. Abbiamo già detto come i videogiochi interessano aree del cervello specifiche e, se abbiamo notato come i videogiochi action aumentino le capacità cognitive, a quanto pare, da uno studio effettuato dall’Università di Montreal, proprio l’anno scorso, ha evidenziato una riduzione della massa dell’ippocampo di circa il 2%. Prima di gridare “oddio moriremo tutti”, osserviamo con attenzione lo studio partendo dalla definizione di ippocampo, che non è in questo caso il cavaluccio marino ma una parte fondamentale del cervello che ci permette di orientarci e di ricordare esperienze passate. Dunque, se ricordare il primo vincitore del Grande Fratello è tutto merito (o demerito) di questa parte del corpo. Ma nello studio pubblicato su Molecular Psychiatry era interessato anche lo striato, un’altra parte del cervello che ci permette di formare le abitudini, come il ricordarci come ci si siede.
Questo studio è stato effettuato prendendo come campione 51 uomini e 49 donne (maledetta disparità), mettendoli a giocare con Call of Duty, Killzone: Shadow Fall e Super Mario, proprio lui, separando i gruppi in “apprendisti spaziali” (ippocampo) e “apprendisti da risposta” (striato). I pazienti dunque, sono stati posti davanti a un labirinto virtuale in cui raccogliere determinati oggetti e uscendone il più rapidamente possibile. Si è notata una certa differenza d’approccio tra i due gruppi, in cui, quello spaziale, era più propenso a orientarsi attraverso oggetti specifici come alberi o montagne mentre quelli da risposta, ricordando il percorso, nelle sequenze di svolte a destra e sinistra. Dopo 90 ore di gioco, tra CoD, Killzone e Mario, i nodi sono venuti al pettine: ai giocatori che hanno giocato agli action è stata riscontrata la riduzione dell’ippocampo sopracitata mentre i giocatori di Super Mario ne hanno visto un’aumento. Da notare come chi affetto dalla riduzione, abbia recuperato con lo stesso titolo Nintendo. Se tutto questo è ancora oggetto di studio, anche perché gli effetti potrebbero essere temporanei, c’è da notare come la diversificazione di genere da parte di un videogiocatore, possa portare benefici generali. Questo, ovviamente con un uso attento, senza esagerare.

Alla Calenda greca

Non potevamo che concludere con l’ex Ministro Carlo Calenda che con «Sarà forte ma io considero i giochi elettronici una delle cause dell’incapacità di leggere, giocare e sviluppare il ragionamento. In casa mia non entrano» ha quasi sfiorato l’incidente diplomatico all’interno del nostro stesso paese, perché si sa, l’italiano medio è quella creatura che possiede la propria visione del mondo, unica e inattaccabile. Non parleremo di come l’ottava arte (quella videoludica, se vi fosse sfuggito), abbia un forte impatto sulla cultura moderna e di come sia viatico di una nuova forma di comunicazione del sapere di questo secolo. Come ogni media abbiamo a che fare con opere d’arte e con opere pessime, e se per “leggere” si intende soltanto 50 Sfumature di Grigio o il libro di Barbara d’Urso è chiaro che non andiamo da nessuna parte anche con un medium sacro come quello librario. Calenda esprime un’opinione che come tale va rispettata ma che esprime un parere molto italiano sul mondo videoludico, visto come un universo di serie B popolato da nullafacenti e perditempo. Tutto questo è dovuto semplicemente all’ignoranza sul medium in questione, nel senso che si ignora completamente ciò di cui si sta parlando. C’è da dire che l’Onorevole ha un po’ ritrattato quanto affermato anche perché, senza dati alla mano, è difficile sostenere simili posizioni. Questo articolo, un po’ goliardico, cerca di riportare alla luce dati scientifici che sicuramente vanno ancora approfonditi, ma che si dimostrano utili in un universo di opinioni così diverse e pronte a prendere di mira il “mostro” di turno. Dunque, no i videogiochi non fanno male se usati adeguatamente e anzi sembrano migliorare alcune delle nostre capacità. No, i videogiochi non rendono violenti i ragazzi e no, i videogiochi non rendono analfabeti.
Per cui, cari italiani e care italiane, non preoccupatevi. Probabilmente siamo all’alba di una una nuova era, in cui il “videogioco” potrà integrarsi nella vita di tutti i giorni, implementando lo studio, trasmettendo e migliorando conoscenze in maniera più rapida ed efficacia, lo sport con il miglioramento dei riflessi e capacità visive, supporto ad alcuni pazienti e così via. Il futuro è radioso e per una volta, cari italiani e care italiane, informatevi, siate coscienziosi e miglioratevi. I videogame sono un’opportunità.
E tutto questo parte da voi cari italiani e care italiane e dalle scuole: bisogna educare, già da bambini, all’utilizzo dei videogiochi (ma aggiungiamo anche i social), proprio perché utilizzandoli nella maniera corretta, possono essere un boost per tutte quelle attività che oggigiorno svolgiamo.

– E no, non ritratterò la mia affermazione su Fortnite. –




Bloodborne: l’incubo di H.P. Lovecraft

Di Hidetaka Miyazaki abbiamo parlato tanto, un uomo che ha aperto la strada ai souls-like grazie a Demon’s Souls, prima, e la trilogia di Dark Souls dopo. Ma c’è un’opera in particolare che l’ha consacrato come uno dei migliori autori videoludici contemporanei, creando una delle maggiori esclusive PlayStation 4 di successo: Bloodborne.
Sin dai suoi primi trailer, il titolo colpì sin da subito per ambientazioni intrise di un misto fra gotico, vittoriano e la classica spruzzata di dark fantasy che qui trova il suo picco. Eppure fu altro ad attirare l’attenzione, dei legami forse all’inizio flebili ma che man mano sarebbero risultati palesi: l’influenza di uno dei più grandi scrittori horror e di fantascienza del ‘900, ben presto saldarono un legame inaspettato tra Miyazaki e H.P. Lovecraft, un’unione perfetta che oggi sviscereremo.

Attento a ciò che desideri

Nato nel 1890 a Providence (Stati Uniti), Howard Philips Lovecraft è uno scrittore che, come in molti casi, ebbe maggior fortuna e successo solo dopo la sua morte (1937), divenendo vero e proprio autore cult dei nostri tempi per tutti gli amanti dell’horror, dark fantasy e fantascienza. Tra i temi principali delle sue narrazioni spicca la ricerca della conoscenza definita dall’autore “proibita”, in quanto, una volta ottenuta, il destino non è dei più auspicabili. Ne Il Richiamo di Cthulhu (1926), infatti, è proprio l’ignoranza la vera salvezza dell’uomo, intesa come l’incapacità di mettere assieme i vari pezzi del puzzle cosmico, un fattore misericordioso, capace di tenerci lontano dalle oscure verità che si celano al di là dei neri mari dell’infinito. Fondamentale è anche il tema del sogno e la struttura onirica derivante, protagonista in molte opere dello scrittore statunitense e, soprattutto, la filosofia del Cosmicismo, un pensiero tangente al nichilismo, che converte la mancanza di significato in insignificanza, della quale l’uomo è all’oscuro. Secondo Lovecraft, infatti, l’essere umano non è altro che una particella dell’infinito, tanto che se la nostra specie dovesse un giorno scomparire nessuno lo noterebbe. Nessuna scienza, fede o conoscenza porterà l’uomo ad avere un posto di rilievo nel Cosmo.  Questi temi dunque, sono quelli che si legano maggiormente l’autore di Providence a Bloodborne e Miyazaki, che ne ha mescolato il pensiero con le opere di  Heidegger ed Ernst Jünger, è riuscito a trasporre in maniera coerente l’ideologia e il simbolismo dell’intera struttura narrativa “lovecraftiana”.
Punti intuizione, conoscere l’inconoscibile, i Grandi Esseri, le mutazioni, l’Incubo, non sono altro che la realizzazione di un pensiero preciso e forse condiviso tra i due autori.

«La più antica e potente emozione dell’uomo è la paura e, la più antica e potente paura, è la paura dell’ignoto.»
«Temi ciò che non comprendi. Temi il sangue Antico.»

Con queste due frasi, appartenute a Lovecraft e a Maestro Willem, fondatore dell’Accademia di Byrgenwerth in Bloodborne, apriamo la nostra analisi di un’opera che non solo trae ispirazione dagli scritti di H.P. ma riesce anche ad andare oltre.

The call of the Moon Presence

L'”andare oltre” è stato possibile grazie a un’opera interattiva come il videogioco. Si è discusso a lungo di come “l’ottava arte” possa intersecarsi con opere di natura diversa, approfondendone diversi aspetti, esaltandone qualità o elaborandone il potenziale in nuce. Questo è ciò che è avvenuto con Bloodborne, un’opera che, come da tradizione From Software, è indicata a chi sa ascoltare e leggere attraverso i simboli, traendone conclusioni una volta terminato il gioco più volte.
Tutto ciò che troviamo a Yharnam lo si deve ai Pthumeriani, esseri capaci di raggiungere una conoscenza superiore, grazie alle tracce di entità “aliene”, potenti e capaci di interagire su piani diversi dell’esistenza. L’ascensione verso i Grandi Esseri fu un evento fondamentale ma uno di essi in qualche modo rimase indietro, generando gli eventi iniziali di Bloodborne. La scoperta di questo Grande Essere (Ebrietas) avviò uno scontro di idee tra Maestro Willem e il suo allievo prediletto, Laurence, in una dialettica che è metafora di uno scontro tra scienza e fede. Entrambi infatti, capirono l’enorme possibilità che si era appena aperta ai loro occhi: elevare la specie umana, al fine di scoprire i significati più reconditi dell’esistenza. Ma mentre Willem attuò tale idea attraverso lo studio dei Grandi Esseri, cercando di “allineare” occhi e mente per svelare il nascosto, Laurence intraprese un’altra via, seguente a un’incredibile scoperta avvenuta nei sotterranei della città di Yharnam. Una volta trovato il Sangue Antico, Laurence comprese che l’unico modo per raggiungere i Grandi Esseri era quello di utilizzare questa sostanza dalle proprietà incredibili, capace di curare qualsiasi male. Nacque così la potente Chiesa della Cura, che la distribuì come fosse una benedizione concessa dagli dèi (avvenimento simile nel ciclo dei Miti di Cthulhu). Inutile dire che il Sangue Antico rivelò conseguenze inaspettate. Ma in realtà la questione è un’altra: il Sangue Antico è qualcosa che deve essere temuto, l’umanità non è pronta ad aprire gli occhi, e questa è una cosa che Willem e Laurence sanno molto bene. Ma quest’ultimo, decide comunque di andare oltre. Possiamo affermare che l’elevazione dell’uomo non avviene tramite l’utilizzo della “benedizione” divina ma attraverso il superamento delle proprie paure nei confronti delle divinità che, ben presto, divenne pura e semplice arroganza. Non a caso, il rapporto con le divinità in Lovecraft è una delle chiavi per la comprensione della sua poesia, che si evolverà al punto da divenire vero e proprio Misoteismo, la visione negativa e malvagia degli dei.
Al nostro primo ingresso tra le vie di Yharnam tutto questo ha già trovato una connotazione ben precisa: gli uomini curati si trasformarono in bestie e qualcosa di potente ma inconoscibile sta per arrivare (o è già arrivato). Proseguendo, scopriamo che Maestro Willem è riuscito nel suo intento, riuscendo a svelare la natura dei Grandi Esseri e forse, i loro piani: la riproduzione. Forse è dovuto a questa scoperta la creazione di Rom, unica barriera dimensionale capace di fermare l’ingresso dei Grandi Esseri nel nostro piano esistenziale. Infatti, proprio dopo la sua eliminazione, l’inganno viene svelato, entrando nella dimensione della Presenza della Luna, probabilmente architetto di tali incubi. È qui che la visione onirica degli scritti di Lovecraft raggiunge il suo picco in Bloodborne: quello che viviamo all’interno del gioco è sempre una realtà (sogno o incubo) generata da qualcun’altro e, via via, riusciremo a infrangere le varie barriere in cui si intersecano le varie dimensioni. Questo è possibile anche grazie all’utilizzo delle Rune, descritte come la trascrizione in simbolo della voce dei Grandi Esseri e palese collegamento alle iscrizione su pietra ne Il Richiamo di Cthulhu.

Noi siamo i Grandi Esseri

Lo scopo del Sogno del Cacciatore è quello di eliminare un Grande Essere o, se volete, una divinità. Siamo ben lontani dalle azioni di Kratos in quanto, non cerchiamo vendetta, non cerchiamo comprensione verso noi stessi e ben che meno sollievo. La morte della divinità non rappresenta nemmeno la decadenza di Yharnam, come poteva essere nel caso della morte di Dio in Nietzsche. La fine del Grande Essere segna la libertà, il potere di decidere il proprio destino, elevandoci però, a un Grande Essere noi stessi una volta consumati tutti i cordoni ombelicali. Se il nostro alter ego evoluto sarà una presenza benevola o malevola non ci è dato saperlo, ma è interessante notare come l’unica scappatoia alla comprensione totale del mondo sia diventare ciò che non vorremmo essere, quasi seguendo la filosofia degli “oppressi oppressori”.  Negli altri finali avremo l’opportunità di risvegliarci dall’incubo grazie e solo alla nostra morte per mano di Gehrman, il Primo Cacciatore, ma potremo divenire anche i nuovi burattini della Presenza della Luna, alla ricerca di qualcuno che elimini altri Grandi Esseri.
Ma c’è molto di più.
All’interno del titolo, due sono i consumabili più importanti: le Fiale di Sangue per ripristinare punti vita e i Punti Intuizione, necessari per comprendere il mondo intorno a noi e svelare l’inimmaginabile (ma portandoci alla Follia). Abbiamo bisogno di entrambi e, come abbiamo detto, entrambi gli oggetti vengono da idee contrapposte. In poche parole l’elevazione dell’umanità, è possibile solo attraverso l’unione di scienza e fede, capaci di completarsi a vicenda, svelando i punti nascosti dell’una o dell’altra. Ma, come Lovecraft insegna, tutto ciò non fa altro che portare alla follia o alla morte, vista anche come una sorta di liberazione, cosa che effettivamente avviene – come detto – in uno dei finali.
L’opera di Miyazaki va oltre Lovecraft. Bloodborne è un esperimento metaludico in cui le nostre azioni sono ben più significative rispetto al mero uccidere mostri per le vie di Yharnam. Ma con “le nostre azioni” non ci riferiamo alle azioni del nostro alter ego bensì alle nostre, quelle che compiamo da videogiocatori.
Il nostro alter ego agisce da protagonista delle vicende, alla ricerca di quel libero arbitrio reso insignificante dai Grandi Esseri. Ma così come il nostro personaggio è all’oscuro di essere una marionetta nelle mani di qualche divinità, così come per Lovecraft potrebbe essere l’essere umano, il personaggio è all’oscuro della nostra esistenza come videogiocatori e guida diretta delle sue azioni. Questo perché, essenzialmente, i Grandi Esseri siamo noi.
E se non c’è paura più grande dell’ignoto, questo potrebbe rivelarsi come atroce una volta compreso forse che Lovecraft c’era andato vicino e che Miyazaki non ha fatto altro che portare avanti il suo pensiero, forse trovando il coraggio di chiudere la frase dopo una virgola. Tutto quel che di spaventoso e inimmaginabile troviamo nelle opere lovecraftiane e in Bloodborne forse racchiude la risposta all’ignoto: ovvero che i mostri siamo noi.
E cosa c’è di peggio dello scoprire che tutto ciò che odiamo, disprezziamo, che ci terrorizza, è lì, davanti lo specchio?




Perché Mass Effect: Andromeda ha fallito

La saga di Mass Effect è probabilmente una delle più riuscite storie a tema sci-fi, non solo per il meta videoludico. L’opera di Bioware, firmata Casey Hudson ha appassionato milioni di videogiocatori, attratti da un contesto fantascientifico ottimamente costruito in cui i background dei personaggi si intersecano a intrighi politici, antiche leggende e perché no, relazioni amorose. Ma oggi non parleremo di questo: a un certo punto infatti, qualcosa si è rotto, ben prima che Mass Effect: Andromeda entrasse in sviluppo. Cerchiamo di capire cosa non ha funzionato e magari, cosa aspettarci da prossimo capitolo, in sviluppo in parallelo assieme al prossimo Dragon Age.

Un finale imperfetto

Per chi non conoscesse la storia, Mass Effect narra di Jonh (o Jane) Shapard, comandante dell’Alleanza terrestre nel 2183. Dopo alcune vicissitudini si scopre che la nostra galassia potrebbe essere ben presto sotto attacco da un’antica forza, in grado di estinguere ogni forma organica. Anche se a livello narrativo non presenta particolari picchi, è la sua profondità a colpire: già il primo capitolo vanta oltre 20.000 linee di dialogo, in cui pesa molto più l’atteggiamento con cui si interagisce piuttosto che il cosa si comunica. Mass Effect è dunque qualcosa in grado di regalare centinaia d’ore di gameplay di alto livello, ricca di mondi da scoprire e storie di interi popoli da approfondire. Ma Bioware non è mai stata immune da critiche: col passaggio a Mass Effect 2, molte delle componenti RPG vennero messe da parte, in favore di una maggiore attenzione sulle fasi di shooting e l’azione in generale. Questo non piacque all’inizio alla maggior parte del pubblico, accusando la software house di essersi in qualche modo “adeguata alla massa”; ma come accade solitamente, ci si concentrò su quel singolo aspetto piuttosto che sull’intero progetto e questo, come vedremo, si è ripetuto più volte. Se è vero che Mass Effect 2 vanta un maggiore focus sull’azione è altrettanto vero che l’intero impianto narrativo e soprattutto il gameplay, è di gran lungo superiore al suo predecessore, trovando il culmine nella Missione Suicida, uno dei picchi più alti della storia videoludica recente: in questo frangente infatti, ogni vostra scelta intrapresa nel corso dell’avventura può decidere la vita o la morte definitiva dei vostri compagni che, di conseguenza, non troveranno posto nel sequel.
Dopo diversi anni, Mass Effect 2 è forse riconosciuto come il migliore della trilogia, nonostante Mass Effect 3 ne abbia migliorato ogni caratteristica. Perché? La risposta risiede in un solo e unico motivo: il finale. Mass Effect è una storia di sacrifici, dove si è disposti a sacrificare un’intera specie pur di avere una possibilità di salvare la galassia. Ogni scelta intrapresa, sin dal primo capitolo, trova culmine in queste immense battaglie per la sopravvivenza e il cui epilogo si suddivide in diversi finali. Benché abbiamo tutti un senso ben preciso, è il modo che non è andato giù ai fan, trovando le conclusioni forse un po’ sbrigative e poco chiare, tanto che le speculazioni su quanto avveniva rivaleggiarono con quelle di Dark Souls (ne parleremo in futuro).
Bioware corse ai ripari, fornendo gratuitamente a tutti i possessori di Mass Effect 3 il DLC Extended Cut, con cutscene più strutturate, ma anche qualche variazione in grado di modificare le reali conclusioni della saga. Se per alcuni, la software house canadese è stata da elogiare per aver ascoltato e ben interpretato il volere dei fan, dall’altro si è palesata una mancanza di personalità, in grado di difendere il proprio lavoro. Perché alla fine – diciamocelo – le variazioni apportate sono dovute a un manipolo di persone che come noi, hanno semplicemente goduto da spettatori l’immensità dell’opera.
Qualcosa dunque cominciava a scricchiolare e, su queste crepe, venne sviluppato Mass Effect: Andromeda.

Un’enorme occasione mancata

Dopo il termine di una trilogia così importante, costruirne un seguito non è affatto semplice. Infatti prima del suo reale annuncio, molte furono le teorie dei fan, di cui alcune vertevano verso “antichi” prequel o futuribili sequel. Andromeda è, a conti fatti, un sequel datato 600 anni dopo gli eventi della prima trilogia ma che trova il suo incipit ben prima del termine di Mass Effect 3, con la galassia che escogita un “piano B” qualora le cose si mettessero male: vennero infatti costruite enormi Arche, che avrebbero portato le specie nella vicina galassia di Andromeda, salvandole dall’estinzione. Incredibilmente, presero il via entrambi i piani. Eppure, tutti questi enormi cambiamenti all’interno del gioco, non sembrano tangibili.
Non parleremo di Scott o Sara Ryder, i protagonisti, ma di come alcune scelte cozzano violentemente con quanto costruito in precedenza; non parliamo di lore o di incongruenze narrative ma piuttosto di scelte di design vere e proprie.
Partiamo con qualcosa di leggermente soggettivo: il nostro lavoro è quello di essere Pionieri e scovare una nuova casa per le specie sopravvissute. Ci capiterà di scandagliare pianeti disabitati, ma c’è un però: il nostro compito di Pionieri è essenzialmente inutile. Questo perché sappiamo già quale pianeta sarà predisposto alla colonizzazione escludendo completamente la scelta del giocatore, compromettendo così non solo il ruolo che ci viene affibbiato ma il senso stesso del gioco. Qual è il senso appunto,  di esplorare nuovi pianeti, decidere se sono adatti o meno alla vita, quando la scelta è del tutto assente? Questo problema è forse uno dei più invisibili, abituati forse a seguire, percorsi prestabiliti; eppure è un Mass Effect e di nuova generazione per giunta.
L’esser Pionieri fa pendant con un’altra scelta ampliamente discutibile: siamo nella galassia di Andromeda, una galassia evolutasi in maniera completamente indipendente dalla Via Lattea. Eppure, una volta reclutato un’Angara, una specie autoctona, avrà gli stessi poteri a disposizione dei nostri. Questa leggerezza mina pesantemente la credibilità del titolo, creato da un team solitamente estremamente puntiglioso con i dettagli.
Ma l’occasione mancata più grande è il non sapere cosa accade alla nostra galassia dopo aver passato tre capitoli a gestire il destino dei suoi abitanti in relazione a un arco temporale di ben 600 anni. Curare o no la Genofagia dei Krogan a cosa ha portato ad esempio? Si sono estinti o hanno ricominciato a dar battaglia a chiunque li ostacoli? In mancanza di una minaccia comune, i popoli della galassia sono ancora in pace? Non lo sapremo mai  e questo non saperlo, è probabilmente il fallimento più grande. La storia di Mass Effect si svolge su più cicli di distruzione della durata complessiva di milioni di anni, con un’attenzione riservata in special modo al tempo in cui giochiamo ovviamente, ma anche a quanto accaduto prima, narrando eventi di migliaia di anni fa.
600 anni in Mass Effect sono un’inezia ma sufficienti per mostrare le conseguenze delle nostre scelte e sacrifici, fulcro centrale della saga. Mancando questo, Mass Effect: Andromeda si è mostrato inadeguato a portare avanti un progetto lungo 10 anni, nonostante il titolo sia valido sotto moltissimi punti di vista.
Complice questi elementi, oltre ad alcuni problemi tecnici e un data di rilascio in mezzo a The Legend of Zelda: Breath to the Wild, NieR: Automata, Horizon Zero Dawn e Nioh, Mass Effect: Andromeda fu un fiasco, non riuscendo a conquistare ne il cuore dei fan ne nuovo pubblico. Non si sa ancora se il prossimo sarà Mass Effect: Andromeda 2, nonostante un finale del primo capitolo che faceva presagire l’inizio di una nuova trilogia. Attendiamo riscontri, magari dal prossimo E3, sperando che le critiche abbiano risollevato uno dei team migliori in circolazione.




Fear the Wolves: un battle royale, un perché

Le mode sono una brutta bestia: da quando il genere battle royale ha cominciato la scalata verso il successo, sembra essere l’unica caratteristica che possa spingere un progetto verso sogni di gloria. Inutile raccontare della diffusione di Fortnite o Playerunknown’s Battlegrounds, o di come persino Electronic Arts e Activision siano sottostate alle spietate leggi di mercato, inserendo questa modalità – forse in ritardo – negli imminenti Battlefied V e Call of Duty: Black Ops IIII ma una cosa possiamo dirla: anche i titoli più acclamati non vantano elementi qualitativamente eccelsi; sì, qualche idea di fondo è interessante ma diciamoci la verità: tutto ruota intorno al marketing, spietato e anche “manipolatore”, capace di portare il pubblico da una sponda all’altra in men che non si dica. E gli altri? Si, ci sono altri battle royale e Fear the Wolves è uno di questi, ancora in early access ma che, senza dilungarci tanto, probabilmente è già morto.

C’è nessuno in casa?

Partendo dalla personalizzazione del proprio avatar, con la possibilità di acquistare pacchetti con moneta in game (almeno per ora), i problemi cominciano già dal matchmaking, capace già di segnalare la qualità dell’infrastruttura online ma soprattutto del traffico, ovvero il numero di giocatori presenti sul server desideroso di darsi battaglia. Quando venne annunciato l’early access, lo stato di salute di Fear the Wolves era già preoccupante visto che normalmente la community, solitamente senza freni inibitori, invade l’internet con commenti, immagini, hype e tanto altro ancora ma, per sfortuna di Vostok Games, tutto sembra essere caduto nell’anonimato, facendo sorgere un’annosa domanda se sia meglio in questi casi l’insulto o l’indifferenza.
Nonostante l’influenza di S.T.A.L.K.E.R. si faccia sentire, l’anonimato è il punto dolente del titolo: l’obbiettivo dei 100 giocatori è praticamente impossibile da raggiungere arrivando alla quindicina – se tutto va bene – dopo aver aspettato anche decine di minuti la creazione di una partita. È già chiaro che non si comincia con buoni presupposti.

E quindi?

E quindi si arriva alla partita, paracadutati su una mappa che propone una Chernobyl distrutta dalle radiazioni. Comincia dunque la corsa agli armamenti, per nulla faticosa, visto le tanti abitazioni presenti, insediamenti industriali e così via. La mappa dunque è molto vasta e al suo interno possiamo scovare un paio di differenze quantomeno interessanti: oltre allo scontro con altri giocatori potremmo aver a che fare anche con entità guidate da intelligenza artificiale, dei mostri generati dall’avvelenata terra ucraina. L’aggiunta di meccaniche PvE all’interno di un battle royale è effettivamente una difficoltà in più in quanto gestire le già risicate risorse a nostra disposizione risulterà più difficoltoso. Possiamo dunque utilizzare proiettili per difenderci ma creando l’eventualità di rimanere senza colpi durante lo scontro a fuoco con il nemico, oppure darsela a gambe e pregare di non essere seguiti. Ma tecnicamente ci sarebbe una terza via, solo immaginata visto il risicato numero di giocatori: nel caso in cui potessimo avvistare in tempo questi NPC, potremmo sfruttarli a nostro vantaggio, sfruttando la derivata disattenzione del malcapitato nei nostri confronti ed eliminarlo senza problemi. Oltre a questo, intervengono anche alcuni modificatori ambientali, oltre al ciclo giorno/notte: la componente survival, anche se non molto approfondita, ci costringe a star attenti anche alla temperatura e soprattutto alle radiazioni, che possono diventare letali qualora non riuscissimo ad allontanarci in tempo o curarci. Questi modificatori inoltre fungono anche da restrizione territoriale, sostituendo il cerchio di fuoco convergente verso gli ultimi superstiti.
Ma queste differenze sono ben poca cosa quando di giocatori non ce ne sono. Anche il feeling con le armi è pressoché simile alle altre produzioni, fornendo feedback risicati e per nulla soddisfacenti. Per lo meno una volta defunti potremmo divertirci ancora un po’: come per The Darwin Project, gli spettatori possono decidere alcuni cambiamenti da apportare alla mappa, come una violenta variazione meteo in grado di modificare leggermente il gameplay.
Escludendo dunque questi fattori, di Fear the Wolves rimane molto poco, davvero troppo simile alla concorrenza e, con uscita prevista per il 2019, servirà tanto lavoro per rendere questo titolo appetibile. Da non dimenticare anche la pericolosa concorrenza dei top di gamma come Battlefied V e Call of Duty: Black Ops IIII, che con le loro modalità Firestorm e Blackout potrebbero stravolgere il mercato da qui in avanti.

In conclusione

È veramente difficile valutare Fear the Wolves, anche se in versione early access. Almeno finora, il titolo sembra affetto più da problemi che riguarderanno il marketing e chi dovrà lanciarlo sul mercato, non proponendo qualcosa di realmente nuovo. Le poche differenze presenti infatti, non giustificano la migrazione dal vostro battle royale preferito a questo e, se il buongiorno si vede dal mattino, il lavoro di Vostok Games potrebbe arenarsi ben prima di partire. Vedremo come si evolverà la situazione, sperando che questo team sappia convergere i propri sforzi verso un gioco quantomeno autorevole.




P.A.M.E.L.A.

Ogni tanto capita di vedere sviluppatori indipendenti alla ricerca di Eldorado, con quel progetto cominciato dall’unione di tanti piccoli sogni e culminato con uno sviluppo più o meno travagliato ma capace comunque di vedere la luce, uscendo tra i vari store sia fisici che digitali. Nvyve Studios si aggiunge a tale novero dal 2015, anno in cui P.A.M.E.L.A cominciò il suo sviluppo, approdando nel 2017 in early access su Steam. Dopo alcuni aggiornamenti abbiamo deciso di testarlo, e il titolo pare presentarsi abbastanza bene nonostante ci sia ancora un po’ di lavoro da fare.

Tra Rapture e Wellington Wells

Negli anni abbiamo visto come a un certo punto qualcuno decide di lasciare la società in cui vive per fondare la propria città ideale, approfittando di alcuni mutamenti sociali, catastrofi o perché no, semplice voglia di cambiare aria. Questi paradisi però hanno una cosa in comune: hanno tutti fallito nel modo o in un altro. Nel mondo videoludico basta citare Bioshock e la sua Rapture, fallita miseramente nonostante la totale libertà da vincoli etici, morali, religiosi ecc, o la più recente Wellington Wells, protagonista in We Happy Few o qualche Vault in Fallout; tutte sono la rappresentazione dell’ego umano, incapace di gestire se stesso senza che si arrivi all’autodistruzione. E l’Eden, fulcro di P.AM.E.L.A., ha lo stesso destino, durando quanto la lettura delle prime pagine della Bibbia. La città ideale, massima espressione del Transumanesimo, è caduta in rovina sotto una misteriosa epidemia dilagata tra i suoi abitanti a seguito di esperimenti eugenetici non riusciti correttamente. Noi veniamo risvegliati dal sonno criogenico da P.A.M.E.L.A., un I.A. estremamente avanzata, in grado di gestire l’intero complesso urbano. Al contrario di quanto siamo stati abituati a vedere da HAL 9000 a Skynet, P.A.M.E.L.A. sembra un’entità benevola, che sin da subito ci aiuta, cercando di risolvere i misteri di Eden. Una volta coi piedi per terra, le associazioni con altri titoli saltano subito all’occhio, dal già citato Bioshock, a Prey fino a Dead Space, in un connubio di generi che già da adesso sembra discretamente funzionare. La narrazione del titolo sembra seguire i classici canoni di un souls like in cui, immersi in un mondo di cui siamo totalmente all’oscuro, abbiamo come unica possibilità di capire dove ci troviamo e cosa sta succedendo quella di leggere alcuni documenti o ascoltare diari di P.A.M.E.L.A. sparsi lungo le vie della città. Questo, assieme all’ambientazione a tratti claustrofobica e a tinte horror, riesce a creare un’ottima atmosfera, in cui cercare di sopravvivere con ogni mezzo diventa la nostra prerogativa. Non ci sono – almeno per ora – quest da seguire: ci siamo solo noi e l’Eden in tutto il suo splendore, capace di raccontarci visivamente quanto stia accadendo. Interessante è la presenza, oltre che di nemici di cui parleremo in seguito, di androidi progettati probabilmente per servire i cittadini e che ora senza uno scopo preciso vagano per le vie della città forse alla ricerca di se stessi; altri androidi adibiti alla protezione continuano invece a pattugliare, rimanendo sfruttabili per gli scontri, rendendoli molto più accessibili. La loro presenza pare segnalare una trama molto più articolata di quanto sembri, ma solo al day one potremmo avere un’effettiva risposta. Sulla carta il progetto sembra funzionare, eppure qualche criticità rischia di minare pesantemente i sogni di questo piccolo studio.

L’uomo deve essere superato

P.A.M.E.L.A. mischia tanti generi: un sandbox con elementi survival horror, FPS-RPG (probabilmente bisognerà creare una categoria apposita per questo tipo di titoli, che vada oltre la generica dicitura “action”). Sin da subito possiamo scegliere che tipo di bonus o malus saranno presenti in partita, dalla difficoltà in se sino al permadeath, in cui saremo costretti a ricominciare da capo una volta tirate le cuoia. La sua molteplice natura dunque salta subito fuori: è fondamentale raccogliere il maggior numero di risorse possibili per il crafting e per il potenziamento del proprio equipaggiamento, che consta in una speciale tuta, presente in diverse versioni e gradi di evoluzione, oltre a perk aggiuntivi e armi corpo a corpo e a distanza come del resto l’elemento survival, in cui rischieremo la morte se non si è mangiato o bevuto a sufficienza.
Il titolo sembra abbastanza vario, donando un buon senso di progressione, soprattutto durante le fasi di combattimento, forse il vero punto debole del lavoro Nvyve Studio. Al grido di “ho i pugni nelle mani” saremo costretti a farci strada attraverso combattimenti poco entusiasmanti: tutto sta nella gestione della schivata, poco intuitiva e che gioverebbe davvero di un buon sistema di targeting del nemico, in modo da rendere più semplice girare intorno all’avversario e scoprire eventuali punti deboli. Essendo comunque ancora il titolo in early access, si può chiudere un occhio e si spera vivamente che il combat system venga implementato a dovere. Purtroppo le cose non cambiano una volta ottenute delle armi a distanza, incapaci di restituire un feedback reale. I combattimenti sono dunque una danza in cui è necessario schivare i pochi pattern d’attacco nemici, abbastanza semplici da gestire anche se potrebbe capitare di affrontarne ben più di uno. In questo caso eseguire la “tecnica segreta della fuga” o attirare i nemici verso robot sentinella, potentissimi e in grado di gestire da soli una piccola orda. In generale questo funziona ma purtroppo ci sono da segnalare numerosi bug all’intelligenza artificiale, oltre a quelli tecnici: capiterà infatti di osservare strani comportamenti, come robot impassibili alle aggressioni o nemici capaci di rimanere ostacolati da oggetti insormontabili come una sedia.
Uno dei pochi obbiettivi chiari è quello di riportare Eden a esser quantomeno funzionante, cercando di riparare piccoli guasti all’alimentazione energetica, fondamentale per esplorare adeguatamente le vie della città in quanto, essendoci anche un ciclo giorno/notte, molte zone resteranno al buio, relegandoci all’ausilio della nostra fedele torcia. Insomma, si cerca di rendere il tutto quanto più immersivo possibile, anche grazie alla totale mancanza di HUD e l’utilizzo di menu e interfacce in tempo reale olografiche. Questo, come del resto l’intera struttura tecnica, poggia le sue solide basi sul motore Unity, estremamente versatile e qui sfruttato al suo meglio. Gli ambienti sono ben dettagliati, alcuni estremamente grandi e, nonostante il colpo d’occhio  generale sa di già visto, artisticamente sembra avere una propria, forte identità. A colpire è l’impianto luci, capace di regalare ottimi scorci sia di giorno che di notte fuori, ma anche all’interno, dove si fa uso di elementi olografici e simil-oled. Il risultato dunque è molto buono, anche se la componente audio sembra forse ancora indietro, in cui manca una vera profondità dei vari suoni presenti, ma anche componenti sonore di contorno, stile Alien Isolation o Dead Space, per intercederci: suoni ambientali sinistri, vento, vibrazioni, insomma, un campionario più vario in grado di esaltare quanto vediamo a schermo.

In conclusione

P.A.M.E.L.A. è forse ancora lontano dalla sua release definitiva ma già ora riesce a intrattenere e invogliare il giocatore a scoprire i piccoli segreti di Eden. Le meccaniche presenti sembrano ben studiate e frutto di una buona programmazione, mentre altri elementi, come il combat system, necessitano ancora di molto lavoro. Potenzialmente questo titolo potrebbe diventare davvero interessante e starà alle mani di  Nvyve Studio far si che ciò accada.




Ha ancora senso Assassin’s Creed?

Sin dalla sua comparsa, Assassin’s Creed è stato capace di dividere il pubblico, anche se per motivi diversi. Se il capitolo originale veniva criticato per l’eccessiva ripetitività o elogiato per le novità apportate ai free roaming e per la narrativa, i successivi hanno cominciato a esser presi di mira per le mancate novità, per la poca incisività della trama, pur comunque mantenendo una buona dose di vendite e di critica in generale. Oggi, con l’avvento di Odyssey, la questione è un’altra: il nuovo capitolo, può essere definito Assassin’s Creed? La mancanza della famosa setta e l’andare così a ritroso nel tempo, ha cominciato a far venire dubbi persino ai fan più accaniti, ma oggi vedremo di analizzare la situazione, concentrandoci prevalentemente sulla narrativa.

Un passato pericoloso

Partiamo con i periodi storici, punti focali nella saga di Assassin’s Creed: siamo passati dalle Crociate all’Italia Rinascimentale a varie rivoluzioni sino a scoprire l’origine della Setta degli Assassini, nell’Egitto Tolemaico. C’è stato un periodo in cui, a seguito dell’avanzare nel tempo da parte di Ubisoft, il cui sviluppo dei titoli della saga sembrava seguire un progressione temporale costante, molti fan hanno cominciato a sospettare che il brand un giorno avrebbe calcato palcoscenici moderni, magari vedendo Desmond come Maestro Assassino del XXI secolo. Ovviamente sappiamo che non è andata così; Desmond ha trovato il suo destino e con lui la specie umana. Ma se c’è una cosa che è finita nel dimenticatoio, anche per colpa degli stessi sceneggiatori, è un piccolo, grande particolare: la storia degli Assassini ha inizio molto prima della creazione della setta. Se, appunto, in Assassin’s Creed: Origins abbiamo visto la creazione “ufficiale” della congregazione, in realtà l’essere Assassini ha risvolti molto più antichi, un ordine sparso, travagliato, ma con radici molto profonde. Ma ne parleremo dopo.
Assassin’s Creed: Odyssey, come sappiamo, è un prequel di Origins e la domanda posta da molti utenti è stata: qual è il senso di un Assassin’s Creed ambientato prima della creazione del Credo? Prima di rispondere con la parola “soldi”, scendiamo un attimo sui particolari: avete notato come, in Origins, Bayek entri in possesso di una Lama Celata? Se ne entra in possesso, quella lama, deve avere qualche origine. Guarda caso Odyssey è ambientato quasi nello stesso periodo in cui la lama fece la sua prima comparsa per opera di Dario, che con quest’arma eliminò Re Serse I. Questo accadde per una ragione semplicissima: Templari e Assassini esistevano già. Il focus non deve andare dunque sul nome, ma sul credo in sé; l’ideologia, così simile eppure così diversa tra le due sette, è antica come il mondo e poco importa il nome a cui fanno riferimento.
Questo dunque ci porta a un altro elemento: andare ancora a ritroso, prima ancora dell’Antica Grecia ha indubbiamente senso e questo potrebbe portare alla prima civiltà umana conosciuta come i Sumeri ad esempio. Eppure non sarebbe ancora abbastanza.
Grazie ai ricordi ricostruiti dal Soggetto 16Clay Kaczmarek, altra cavia dell’Abstergo oltre a Desmond, sappiamo che gli “Assassini” hanno un’origine risalente a più di 75000 anni fa (no, non è un errore di battitura).
Che Ubisoft sotto sotto voglia portarci tra le città della prima civilizzazione? Non è da escludere a priori anche se potrebbe essere un titolo ben diverso da come lo conosciamo, per via della tecnologia estremamente avanzata che renderebbe questo ipotetico Assassin’s Creed praticamente fantascientifico. Potete già immaginare lame laser e qualunque cosa partorisca la vostra immaginazione.
Assassin’s Creed: Odyssey ha dunque senso senza la setta degli Assassini/Occulti? Certo che sì, e la risposta è contenuta già nel titolo: il Credo degli Assassini è il vero punto focale dell’opera e, volendo essere ancor più precisi, è la parola Creed su cui si concentra davvero tutto il franchise.
Cambiare nome del brand è un’altra possibilità ma questo dipende dalle direttive di Ubisoft per il futuro della serie, se si vuole proseguire o meno nella direzione sopracitata o creare titoli prettamente “usa e getta”, con i piccoli collegamenti necessari per giustificare l’utilizzo della proprietà intellettuale.

Adamo ed Eva

Coloro che vennero prima” è il fantomatico nome della prima civilizzazione sul pianeta Terra, antecedente ovviamente alla razza umana. Durante gli eventi della prima trilogia di Assassin’s Creed, ovvero dall’originale, ai capitoli dedicati a Ezio Auditore e al terzo episodio, sappiamo abbastanza di questa civiltà grazie ai vari documenti presenti ma soprattutto grazie al racconto diretto delle coscienze preservate di Minerva, Giunone e Giove, in grado di raccontare a grandi linee quanto è successo. La razza umana venne creata da Coloro che vennero Prima (da adesso CVP, per facilità d’uso), per utilizzare gli umani come schiavi, controllandoli attraverso il potere dei Frutti dell’Eden. Ma a un certo punto la ribellione di due di loro, Adamo ed Eva appunto, segnò l’inizio della guerra tra le due specie, distraendole da quanto stava per avvenire sulla Terra, una sciagura conosciuta come Catastrofe di Toba, che portò alla quasi estinzione di entrambe le razze. Come sappiamo grazie ad Assassin’s Creed II, tutto ha inizio nell’Eden, alle falde del Kilimangiaro (del resto si presuppone che la razza umana abbia avuto inizio proprio in Africa), in cui possiamo osservare due individui (Adamo ed Eva appunto) scappare da qualcosa o qualcuno con in mano un Frutto dell’Eden, rimanendo immuni ai sui effetti. La loro agilità e forza, nonché l’immunità agli effetti della tecnologia “ancestrale” ci dice due cose: la loro natura è molto probabilmente ibrida, data dall’unione di geni umani e di CVP, e poi, cosa ben più importante, gli Assassini iniziano da loro. Ma attenzione: anche i Templari.
Nulla è reale, tutto è lecito” ha inizio molto probabilmente in questo frangente, più di 75000 anni fa: liberati dall’influsso della tecnologia, gli esseri umani per la prima volta conoscono il libero arbitrio, scoprendo la menzogna posta ai loro occhi con la forza. Le differenze tra Assassini e Templari sono ovviamente post-catastrofe, vedendo la pace in modi diametralmente opposti: grazie alla libertà per i primi, imposta con la forza per i secondi.
Come potete aver capito, parlare del “senso” di Assassin’s Creed ha davvero poco significato. Essere Assassini o Templari è qualcosa che va al di là del nome, mettendo l’accento sul Credo e sul suo significato. Kassandra (semplificando) crede nella pace e nella libertà? È un’Assassina, come lo furono Altaïr ed Ezio Auditore. È altresì vero che questo filone narrativo purtroppo è stato un po’ tralasciato nel corso degli ultimi anni, soprattutto dal termine della trilogia. Che Odyssey sia dunque un piccolo segnale? Non ci resta che attendere ma è davvero un peccato che la saga, narrativamente parlando, abbia perso un po’ la rotta, senza concludere o per lo meno ampliare quanto già narrato. Appuntamento dunque al 2020, con un Assassin’s Creed di nuova generazione.