C’era una volta alla… Milan Games Week

Questo è un articolo diverso dal solito. Normalmente questa rubrica cerca di sviscerare tutte le tematiche possibili del mondo videoludico (da qui il nome 42), ma oggi no. Oggi vi propongo un racconto personale della mia prima esperienza alla Milan Games Week, una fiera che ho sempre voluto visitare ma che si è scontrata con le mie aspettative, quelle di un sognatore capace di meravigliarsi per qualunque cosa, anche di una “auto blu”.

Un nero mare di infinita gente

Saltando a piè pari il lungo viaggio che mi ha portato in quel di Milano, dopo lo straniamento causato da due palazzi adiacenti alla fiera, ecco che finalmente vedo l’ingresso della Milan Games Week 2019. Il primo pensiero è andato verso il tesseratto della società odierna, formato da tante piccole menti accomunate da un solo pensiero: la f…ortuna di trovarsi nel centro nevralgico del videogame in Italia. In poche parole, gente, gente e ancora gente. Incredibilmente, il paragone più efficace per far rendere l’idea è quello del casinò, un luogo chiuso, ipnotico, strapieno di luci e belle ragazze. Tralasciando il piccolo dettaglio che non viene servito da bere gratis, tutto risulta abbastanza similare, creando così l’effetto Trainspotting: pochi minuti diventano ore e, improvvisamente, è tutto finito. Ma andiamo con ordine.
Partiamo con lo stand di Cyberpunk 2077, per quanto mi riguarda il titolo che aspetto di più il prossimo anno. Stand carino come quelli di JoJo ma povero di contenuti come Pomeriggio Cinque. Ovviamente niente demo giocabile (ci mancherebbe) e con questa ultima frase potrei chiudere qui l’articolo. Ma mi faccio forza, recupero dalla delusione e proseguo.
Si, perché di stand ce ne sono a bizzeffe, alcuni con ottime trovate come in quello di FIFA 20, allestito con una gabbia al cui interno era possibile testare le nostre qualità di calciatori professionisti a parole. Purtroppo non sono riuscito a giocare fisicamente (avrei umiliato tutti quanti…) ma digitalmente si, visto che da diversi anni gioco al calcistico EA dopo una pre-adolescenza passata in Konami. La novità più eclatante è senza dubbio la Modalità Volta, come si evinceva dalla gabbia lì fuori: un FIFA Street dentro FIFA 20 è quello che Electronic Arts ci propone e nonostante funzioni, in qualche modo non mi ha entusiasmato. Inutile dire come le vere novità cominceranno ad apparire l’anno prossimo con l’avvento della nuova generazione, ma la stagnazione comincia a farsi sentire ed è per questo cari amici, che sono tornato da PES. Anche per Pro Evolution lo stand era ben presente ma visto che avevo provato abbondantemente la demo e il gioco completo precedentemente sono semplicemente passato oltre.
Le prove effettuate con diversi titoli sono state abbastanza interessanti, grazie anche alla scoperta di app atte alle prenotazioni dei vari test… ammesso e concesso che ci si riesca, certo.
L’unica prova prenotata con successo è stata quella di Nioh 2, seguito del fortunato RPG a tinte “souls like” di Team Ninja. Giocare con qualcosa che uscirà solo tra qualche mese è interessante per diversi aspetti: il primo è quello di sentirsi privilegiati, toccando con mano qualcosa che la gente comune vedrà solo nel prossimo futuro. Tralasciando questi finti sensi di onnipotenza, la prova è utile anche per poter discutere delle sensazioni preliminari con altri utenti e con gli sviluppatori (che ovviamente non erano presenti ma mi piace pensare che osservassero i nostri gameplay in gran segreto).
Terzo e ultimo punto, puoi suggerire cambiamenti o miglioramenti che ovviamente non verrebbero presi in considerazione a pochi mesi dal lancio. E quindi Nioh 2? Risulta molto simile al precedente capitolo, con la differenza che il nostro alter ego non è più un personaggio predefinito ma “customizzabile” e la possibilità di trasformarsi in un potentissimo Yokai, anche se ancora quest’ultima non sembra essere contestualizzata narrativamente, almeno per ora. Inoltre non vi è stato modo di testarne eventuali malus, un po’ come la trasformazione “draconica” dei Dark Souls ma, in ogni caso, è una soluzione che regala gran soddisfazione.

Non accontentiamoci

Passiamo a un gioco molto simile: Grid. Battute a parte, il nuovo remake Codemasters può diventare una delle migliori sorprese dell’anno, con quel sistema Nemesi che tanto ricorda (ma forse solo per omonimia) il tanto decantato La Terra di Mezzo: L’Ombra di Mordor o L’Ombra della Guerra, ma applicato ai piloti. Effettivamente l’intelligenza artificiale degli avversari sembra rivaleggiare con i Drivetar dei Forza Motorsport  e Horizon, anche se è ancora molto presto per sbilanciarsi. Il titolo sembra ricordare per diversi aspetti il precedente Grid: Autosport, un ibrido simulativo-arcade che può si aprire verso un pubblico molto vasto ma che rischia di non accontentare nessuno. Essendo un grande fan dell’originale Grid, non vedo l’ora di toccarlo con mano, per cui attendevi ben presto una recensione tra queste pagine.
Ma altro titolo molto atteso non poteva che essere il remake di Final Fantasy VII, progetto misterioso ma ora più concreto che mai. Il titolo si presenta molto bene, con quel gameplay ibrido che ha inizialmente suscitato molti dubbi ma che in realtà si rivela essere la scelta più azzeccata. Siamo comunque nel 2020, la gente è abituata all’azione e, per quanto un sistema a turni possa dare quel tocco di tatticismo in più, non riesce a regalare la giusta dose di adrenalina di cui siamo assuefatti nell’età contemporanea. Effettivamente, vedere un titolo giocato non so quanti anni fa in questa veste totalmente rinnovata fa abbastanza impressione: la cosa interessante, almeno per quanto mi riguarda, è che quando avevo l’età in cui la vita risulta molto semplice, il gioco, mi sembrava così, con la stessa veste grafica. In poche parole, era come se l’immaginazione mettesse del suo, producendo elementi che l’hardware non riusciva a riprodurre. Un po’ come il viso di Snake in Metal Gear Solid.
Saltando altri episodi discretamente interessanti, sono rimasto sorpreso dello spazio dedicato al mondo degli Indie, alcuni dei quali veramente interessanti come Forgotten Hill Disillusion e altri lavori che puntano non solo al divertimento in senso stretto ma in grado di approcciare l’apprendimento o il management in maniera innovativa. Inutile dire come alcuni Indie erano pressoché scadenti, nonostante le buone idee di base: l’impressione è che alle volte non si sfrutti pienamente il palcoscenico di una fiera così importante, mancando totalmente il bersaglio. Si può avere l’idea migliore del mondo ma se non si sa esprimere diventa essenzialmente come uno sputo in pieno oceano: è vero che il livello del mare aumenta, ma è del tutto irrilevante.

Sugli e-sport dedicherò probabilmente un articolo (più serio) a parte; del resto è un fenomeno interessante e che sta evolvendo precipitevolissimevolmente e uso questa parola semplicemente perché non ho mai trovato occasione per farlo.
La Milan Games Week arriva al termine dopo aver visto cose che voi umani non potreste immaginarvi, aver incontrato tantissime persone e nuove realtà, aver provato titoli in anteprima e camminato per decine di chilometri. Il risultato: potrebbe essere fatto molto di più. Non fraintendete, è stata un gran bella esperienza, eppure il sentore che in qualche modo ci si accontenti permane. Forse servirebbero più anteprime, magari internazionali, ospiti di maggior livello ed eventi in grado di far partecipare più attivamente il pubblico.
La scena videoludica italiana sta crescendo, anche grazie a questa fiera ma forse, è arrivato il momento della sferzata decisiva e dare lustro a un settore che nel nostro paese non ancora apprezzato come dovrebbe.




Contro la Cultura del Voto

I voti nelle recensioni. A lungo si è discusso su quanto facessero del bene o del male alla community videoludica, probabilmente una delle più tossiche in questo Universo. Mentre GameCompass sta attraversando una nuova fase di transizione che – si spera – porterà ingenti e benevolenti novità entro pochi mesi, inutile dire come uno dei tasselli della fase di brainstorming sia stato dedicato alle recensioni, croce e delizia di ogni sito di videogaming. La verità è che la questione voto riguarda un po’ la vita di tutti i giorni; siamo circondati da valutazioni di ogni genere che sì, quantificano subito la qualità (forse) ma che dire delle esperienze e le emozioni provate dal recensore? Hanno importanza se in fin dei conti, conta solo un maledetto numero?

Tutto tutto, niente niente

Come detto, siamo tutti abituati alle valutazioni e benché molte risultano utili, come quelle fra i banchi di scuola, altre possono creare alcuni problemi. Certo, anche la questione istruzione andrebbe rinnovata un po’ da questo punto di vista, ma non è questa la sede adatta per discuterne.
Ogni cosa, ma proprio tutto, può essere quantificato da un numero, una lettera, una stella, melanzane (è vero, cercate sull’internet) con il solo scopo di dare quella chiosa finale al testo, un modo per l’utente di interfacciarsi immediatamente con le valutazioni finali del critico. Questo è quello che ci siamo raccontati per anni e che ci raccontiamo ancora oggi, e andava tutto bene sino a quando chiunque si è trovato tra le mani il potere di esprimere qualunque suo pensiero al mondo. Internet ha reso il mondo più piccolo, ma anche immensamente stupido.
Per carità: siamo ben consci del fatto che si può essere o non essere d’accordo con una valutazione finale, ma non è questo il punto. Il punto, è il trasformarsi di una cortesia fatta all’utenza come dogma, un sacro comandamento da accettare senza se e senza ma; il voto è legge, poco importa del suo perché.
Ma andiamo a ritroso: che cos’è una recensione? Non stiamo qui a ripetere una definizione ma cerchiamo di capire cosa rappresenta, non solo per chi la scrive ma anche chi la legge. Una recensione è un'”esperienza critica”, un racconto che l’autore vuole tramandare affinché in qualche modo tutti possano empatizzare e comprendere cosa quella opera suscita o no, indipendentemente dal tempo dedicatoci. Ogni parola è una traslitterazione del pensiero e delle emozioni di chi scrive ed è dal testo che si evince se qualcosa è valido o meno. Provate a pensare a recensioni senza il classico voto finale: dopo un leggero e comprensibile smarrimento finale, comincereste a vedere quel testo con occhi diversi e non una semplice cornice intorno a quello che è ritenuto più importante. Inoltre, una recensione può anche valore educativo, serve a trasmettere qualcosa ma sopratutto di far scaturire un senso critico all’utenza.
Quante discussioni per un mezzo punto in più o in meno? Quante sentenze ha prodotto un otto e mezzo a un titolo, cassato perché non rappresenta un capolavoro? Perché poche cose influiscono sul mercato come il voto.

O zero o mito

Sta per uscire Death Stranding. Dio ce ne scampi se il nuovo lavoro di Hideo Kojima prendesse una valutazione di otto e mezzo nella maggior parte delle testate internazionali.
Quello che i voti hanno creato negli ultimi anni è anche una netta spaccatura tra ciò che è buono e ciò che non lo è, come se tutto ciò che esistesse nel mezzo sia insignificante. E vai di capolavoro o di materia fecale solo dando uno sguardo al quel numerino, senza capire realmente di cosa si stia parlando. E sappiamo che alcuni di voi lo stanno pensando: «il voto è solo uno strumento; di per sé non è ne buono e ne malvagio». Giusto, ma nel mondo reale, è qualcosa che probabilmente ha intossicato il pubblico come poche altre cose, e qui cari amici, ci siamo dentro tutti. Sì, perché molto spesso, il voto può essere sfruttato in modo subdolo, presagendo cosa quel numerino possa scatenare all’interno della community. Inutile che ci giriamo intorno, ma è anche così che una testata vive e, senza utenza, ingressi, discussioni e anche una buona dose di sana polemica, il rischio è quello di finire sul necrologio di Internet. il voto non è solo uno strumento dunque, ma sopratutto un’arma, capace di influenzare in maniera diretta il pubblico: può far decidere se acquistare o no qualcosa, se dedicare del tempo fino a voler far parte di un gruppo di amici o meno (chiedetelo a chi gioca PES o FIFA), senza capire realmente il perché. È chiaro che ogni voto debba essere la prosecuzione di quanto riferito dal testo ma alle volte qualcosa non quadra, e questo qualcosa, molto spesso, ha le sembianze di un dieci. Non siamo qui a sindacare se sia giusto o meno darlo o se rappresenti vera critica, ma quanta influenza ha quel voto, nonostante nella recensione vangano riportati difetti su cui molti non sorvolerebbero?
Anche la contestualizzazione gioca un ruolo chiave. Molto spesso capita che l’utenza confronti titoli completamente diversi ma con lo stesso voto, azzardando paragoni fantasiosi. Il contesto deriva appunto dal testo: piattaforma, anno di pubblicazione, genere ed elementi di spicco, spariscono alla visione del voto, magari accompagnato da qualche riga del commento finale.
È per questo che è importante il testo, la critica, la recensione. È sempre stato detto che conta più il viaggio che la meta e questo è uno di quei casi in cui effettivamente ha senso applicare questa massima.

GameCompass sta cambiando e vuol cambiare coraggiosamente, andando contro una moda, il mercato, le esigenze o qualunque cosa sia, ed escludere il voto dalle recensioni. Protagonista deve tornare il rapporto tra la critica e il pubblico, informare e trasformare almeno chi ci segue a essere più razionale, formarsi un’opinione e discutere su alcune dinamiche di gameplay e non su un gioco che ha avuto 7.8 invece che di 7.5. Ma è anche vero che il mondo è cambiato e quasi nessuno dedica il proprio tempo alla lettura di un testo approfondito, anche se quel testo critica un titolo molto atteso. Testi più contratti ma ugualmente validi dal punto di vista dell’approfondimento, più contenuti video e audio e molto altro è quello che stiamo preparando, cercando di venire ancor più incontro alle vostre esigenze. Molto passa da voi: sappiamo benissimo che questa scelta, ben che vada, sia controproducente ma in qualche modo può essere un’opportunità per tutti noi, di crescere e di migliorare assieme, condividendo nella maniera più serena possibile la nostra amata passione.

È un discorso molto romantico e idealista? Ovviamente, ma siamo dei sognatori.




Control – La Tana del Bianconiglio

Evidentemente questo è un anno particolare, l’ultimo dedicato a questa generazione. Tutti stanno impazzendo e alcuni dei titoli proposti finora sembrano andar contro la mera razionalità tanto cara al videogiocatore. Se questo può essere definito probabilmente l’anno di Kojima e del suo Death Stranding, l’influenza del New Weird che sta spopolando ultimamente è riuscita a contagiare grandi e piccoli studio e, in qualche modo, lo troviamo un po’ dappertutto: Cyberpunk 2077, Wolfenstein Youngblood, il già citato Death Stranding e molti titoli indie ma ce n’è uno che sale dritto al vertice del podio (finora) come esperienza più “strana” degli ultimi anni. L’ultimo lavoro di Remedy è un videogioco realizzato con amore, un titolo memorabile che tutti, almeno una volta, devono giocare. Tra visioni ispirate da David Lynch, Stanley Kubrick e una spruzzata di Carl Jung, Control vale da solo il prezzo del biglietto.

Al di là del bene e del male

Il primo impatto con Control è decisamente straniante: ci troviamo di fronte a fatti in pieno svolgimento e di difficile comprensione. Jesse Faden (Courtney Hope) non è solo una semplice protagonista ma è niente meno che la nuova direttrice del Federal Bureau of Control, una sorta di FBI allestita per studiare e scoprire eventi paranormali. Ma all’interno della Oldest House, centro nevralgico delle nostre avventure, niente è come sembra e continui colpi di scena e momenti di meraviglia vi terranno incollati allo schermo per tutta la durata delle vicende. Il mondo creato da Remedy è quasi una prosecutio di quanto allestito con Alan WakeQuantum Break e Max Payne, mescolate in salsa puramente “lynchiana” e l’impatto dell’autore del Montana (benché non sia stato in alcun modo reso partecipe del progetto) è tangibile sin dai primi istanti di gioco, attraverso una ricercatezza stilistica che rende Control unico nel suo genere. La regia e l’attenzione ai dettagli è qualcosa di sublime, arricchita da quell’aria da Serie TV che lo studio ci ha ormai abituati a vedere: tra primi piani caratterizzati da una fotografia capace di generare inquietudine, piccoli “sommari” all’inizio di ogni missione principale e sopratutto il non sapere cosa aspettarsi in qualunque frangente di gioco rendono Control un interessante esperienza videoludica e meta-narrativa.

Di fatto, Jesse Faden, non è sola: come una novella J.D. – Scrubs, ovviamente – saremo diretti spettatori dei suoi pensieri, senza filtri; lei è arrivata alla Oldest House per un motivo che, come potete immaginare, aprirà la strada a qualcosa ben più grande di lei. Ma questa continua introspezione dicevamo, prende anche la forma di dialogo con un’entità astratta e fin dall’inizio tende a confondere il videogiocatore: questa entità siamo noi? È in antitesi con l’Hiss? È una presenza reale legata a Jesse per qualche motivo? Lo scoprirete solo giocando, ma è incredibile come la sceneggiatura e la messa in scena giochi continuamente con le aspettative dello spettatore. E questo, ci porta finalmente all’Hiss, l’entità manifestata all’interno della Oldest House e in grado di assumere diverse forme, capaci di corrompere chiunque. Il suo ruolo, come quello dell’edificio, è di fondamentale importanza, non solo come mero nemico da affrontare ma importante stimolo nell’approfondire l’intera lore imbastita dai ragazzi di Remedy. A tal proposito numerosi sono i documenti e video in grado di incollare le tessere del puzzle di Control e mai come in questo caso, la lettura e la visione dei vari contenuti diventa fondamentale. Certo, l’eccessiva mole di informazioni multimediali può far presupporre una carenza di sceneggiatura “diretta”, ma questo titolo è anche questo, l’essere immersi in un mondo che gioca con le sue regole in cui persino la protagonista è a conoscenza di fatti che per il giocatore resteranno ignari per molte ore. In poche parole, Control si prospetta come una delle migliori esperienze degli ultimi anni, grazie a una scrittura di livello, coerente e soprattutto magnetica.

Un po’ Sylar, un po’ Chuck Norris

Tutte le vicende a cui prenderemo parte saranno all’interno della Oldest House con i suoi oscuri segreti. A volte si ha come l’impressione che lo stesso edificio sia un personaggio, alla stregua dei vari comprimari con cui potremmo interagire grazie a dialoghi ben scritti e recitati, permettendoci di approfondire il contesto. La struttura di gioco dunque, replica quella dei “metroidvania“, stile visto in tantissime salse ma che qui sembra avere una rilevanza particolare: ogni luogo scoperto o esplorato è un piccolo mondo, anch’esso con una storia alle spalle capace di integrarsi perfettamente all’intera sceneggiatura del titolo. L’esplorazione, benché contornata da un consultazione della mappa abbastanza difficoltosa, è semplicemente un piacere, sospinti dalla curiosità, cercando di scoprire le tante sfaccettature della F.B.C.
In questo contesto, dove gameplay e trama sembrano estremamente interconnessi, le fasi shooting vivono di vita propria grazie all’arma in dotazione del Direttore in grado di assumere diverse forme, dalla classica pistola, alla mitragliatrice sino a una sorta di lanciagranate. È possibile switchare in tempo reale tra due modalità d’arma che risulta essere al contempo utile e limitante: se passare ad esempio da lunga a corta gittata crea dei vantaggi sottintesi, lascia un po’ l’amaro in bocca la sola possibilità di ulteriore cambio modalità senza l’ausilio del menu apposito, mettendo in pausa il gioco. Le cinque modalità disponibili, se intercambiate in tempo reale avrebbero portato ancor più varietà e tatticismo a un gameplay che comunque, nonostante ciò, risulta molto appagante. Jesse non è un essere umano qualunque e l’incontro con alcuni Oggetti del Potere, oggetti speciali in grado di racchiudere peculiarità particolari grazie all’influenza dell’Hiss, la renderanno una macchina paranormale micidiale; senza elencarli tutti per non rovinare la sorpresa, ci soffermeremo sul Lancio, ovvero l’uso della telecinesi per attrarre gli oggetti per poi spedirli contro i nemici. Questa abilità rispecchia la volontà di Remedy di produrre qualcosa di estremamente esaltante e coreografico, facendo sentire il giocatore davvero all’interno del mondo di gioco: l’interazione ambientale è ai massimi livelli così come, ovviamente, la distruttibilità ambientale; ne consegue che durante gli scontri, avremo l’inquadratura stracolma di elementi, in grado di enfatizzare ogni piccolo anfratto di gameplay. Anche il resto dei poteri a disposizione è estremamente appagante da usare, potenziabili ulteriormente attraverso classici punti esperienza, così come l’arma in dotazione che, grazie all’uso di perk casuali, può generare effetti diversi a seconda delle nostre esigenze, come una ricarica più rapida dell’energia o il minor consumo di proiettili (comunque infiniti).
Tutto perfetto quindi? Benché Control riesca a rendere quasi tutto ciò che vediamo a schermo memorabile, è difficile non rimanere basiti (in senso negativo), dalla realizzazione dell boss fight, in netto contrasto rispetto al resto del titolo. In poche parole prive di mordente e a tratti noiose.
Ma tralasciando questo aspetto, Control è un’esperienza appagante anche dal punto di vista del gioco in senso stretto, con ampia libertà lasciata al giocatore. Nel bene o nel male, la Oldest House è il nostro parco giochi.

Semplicemente un miracolo

Quello che risalta immediatamente, come già accennato, è la gestione della fisica che, tralasciando qualche lecito svarione nel riprodurre la giusta massa degli oggetti, è tra le cose più riuscite del titolo. Si ha sempre la sensazione di stare in un luogo concreto, dove la minima interazione crea delle conseguenze. Tutto questo grazie anche al Northlight Engine, lo stesso utilizzato in Quantum Break ma qui in pieno spolvero: la gestione di un alto numero di poligoni, la loro interazione e filtri di ottima fattura sono solo la punta dell’iceberg di un motore che da il suo meglio nella gestione delle luci attraverso un lavoro encomiabile anche senza l’attivazione del Ray Tracing. Tutto questo ben di dio risulta anche ben ottimizzato e, se ci pensate, è un piccolo miracolo: nelle situazioni più concitate con distruzione “a go go”, effetti luci singoli per ogni elemento a schermo e dettagli ultra, Control riesce a mantenersi stabile e le piccole correzioni avvenute nell’ultimo periodo ne hanno ulteriormente migliorato le performance. Tutt’altra storia invece con Ray Tracing attivo: che la tecnologia sia ancora un po’ acerba lo si è capito, ma fa specie notare come a cotanta bellezza visiva corrisponda a un calo drastico del frame rate, anche con DLSS attivo. Nulla di ingiocabile, ma se volete godervelo appieno, a 4K e RT attivo, sappiate che qualche sacrificio bisogna farlo. Facendo notare con leggero disappunto la mancanza dell’HDR e animazioni non proprio al passo coi tempi, Control rimane una gioia per gli occhi, grazie a una regia impeccabile e con cutscene da brivido che a volte mischiano sapientemente il digitale col live-action, alla stregua di Hellblade: Senua’s Sacrifice.
Dal punto di vista audio, il titolo si presenta solo in lingua inglese con sottotitoli, con ottima interpretazione di Courtney Hope nei panni della protagonista Jesse Faden, e dei comprimari, mai sopra le righe e attenti a un conteso così particolare. Nota di merito infine agli effetti sonori, estremamente peculiari e attenti nel restituire i giusti feedback, sia in fase puramente esplorativa sia durante la presenza dell’Hiss, con un attento studio del sound design, definito appositamente per rendere al meglio questa entità.

In conclusione

Control è semplicemente una piccola perla che, come spesso accade, rimane incompresa. I dati di vendita purtroppo non sono rosei, vuoi per una campagna marketing priva di mordente e un periodo di lancio azzardato. Ma di qualità ce n’è davvero tanta, qualità realizzata col cuore da un team di sviluppo che ha realizzato l’opera che voleva e, di questi tempi, non è cosa da poco. Il viaggio di Jesse all’interno della Oldest House è uno dei più memorabili degli ultimi anni, con Control, in grado di candidarsi senza alcun problema al titolo di miglior gioco dell’anno 2019.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Sapphire Radeon RX 580 8GB NITRO+ Special Edition
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10




Il Re Leone – Ovvero come ho imparato a preoccuparmi e a odiare la bomba

La nostra è un’epoca strana, stretta in un limbo che vede agli opposti un futuro radioso/deprimente e un passato che non smette mai di essere migliore di quanto effettivamente sia stato. E con il cinema (o cinematografò se preferite) la storia non cambia: Star Wars, Ghostbusters, Il Pianeta delle Scimmie, Star Trek, Total Recall, Alien e chi più ne ha più ne metta, hanno visto negli ultimi anni nuove trasposizioni più o meno riuscite e tra queste, non poteva mancare mamma Disney. Negli ultimi anni la moda della riproposizione dei “classici” in salsa live action è letteralmente esplosa – la bomba, nel titolo – con risultati a volte sorprendenti: Cenerentola di Kenneth Branagh riesce effettivamente ad avere una sua identità, approfondendo una struttura narrativa che per forza di cose mancava nell’originale, impreziosito da scelte stilistiche che ne hanno risaltato il tutto. A modo loro, anche Il Libro della Giungla, La Bella e La Bestia, Dumbo e così via sono film che godono di propria linfa vitale, dando un contenuto in più non solo a chi è amante dei cartoni animati ma anche a chi di Disney interessa il giusto. Tutto questo con alti e bassi, sia ben chiaro, ma l’intento – anzi l’impegno – di andare al di là di quanto visto finora è sotto gli occhi di tutti.
E poi arriva Il Re Leone.

Un capolavoro senza tempo (appunto)

Per quelle due, tre persone che non hanno mai sentito parlare del Re Leone, oltre ad aspettarvi un destino simile a Cersei Lannister a suon di “Vergogna!”, tocca recuperarlo. È uno dei pochi casi in cui non c’è opinione che tenga, in quanto, il film animato del 1994 risulta essere ancora oggi uno dei migliori lungometraggi di genere della storia del cinema. E il perché è presto detto: il primo classico Disney a vantare una storia originale, attinge sì dai classici stilemi narrativi di genere, costruendo una trama a tratti “shakespeariana” e capace di maneggiare con cura gli elementi più importanti che hanno caratterizzato la narrazione sin dalla notte dei tempi. Amore, odio, vendetta, redenzione, rinascita, consapevolezza sono tutte racchiuse nel personaggio di Simba che durante il suo percorso, ritrova se stesso accettando il proprio destino. Nonostante il contesto e il target di riferimento, Il Re Leone è qualcosa che viene apprezzato soprattutto “da grandi”: il viaggio di Simba è soprattutto interiore e facilmente empatizzato dalla maggior parte degli spettatori. La fuga con successiva “zona di comfort” sono elementi che vanno al di là del semplice Hakuna Matata di Timon e Pumba, una filosofia (concentrarsi sul presente evitando che passato e futuro influiscano negativamente) che è solo l’anticamera di quanto vediamo a schermo. Simba fa suo l’Hakuna Matata, ma va oltre. Il passato per quanto doloroso va accettato e anche l’influenza negativa che può aver sul presente può essere usato come leva per realizzare esperienze migliori, non solo per sé ma per tutto il regno. Evitando di dilungarci ulteriormente, l’originale Re Leone è qualcosa di estremamente attuale e lo sarà probabilmente sino alla nostra estinzione. Questo perché essenzialmente Il Re Leone, parla di noi, di ciò che siamo e di quello che potremmo essere se solo ci conoscessimo un po’ meglio.
Tutto molto bello, tutti molto felici, sino a quando anche qui la mano a forma di dollaro non ha deciso di afferrare per la coda il povero Mufasa.
I bambini – oltre a essere gli esseri più malvagi dell’Universo – sono anche attenti al mondo che li circonda e ovviamente, il digitale ha preso il sopravvento; come naturale che sia, l’attrattiva dei bambini è virata su qualcosa di molto simile a un videogioco. Nulla di male, per carità; abbiamo avuto titoli degni nota come Coco (disponibile finalmente su Netflix), Up, Inside Out ma anche quel Spiderman – Un Nuovo Universo che riesce anche a elevare il genere. Se gli ultimi live action possono aver effettivamente un senso, vantando tra le fila anche un cast umano, ne Il Re Leone tutto questo prende una piega inaspettata e a tratti deludente.

Uno Specchio Oscuro

Partiamo da una premessa: l’emotività scaturita da un’opera e l’opera in sé sono cose completamente diverse. Del resto c’è chi si eccita sessualmente con Indipendence Day pur sapendo che la qualità del film lascia parecchio a desiderare. Ma andiamo avanti.
Il nuovo Re Leone è una riproposizione diretta da Jon Favreau, regista del remake de Il Libro della Giungla oltre che essere uno dei pilastri del Marvel Cinematic Universe. E il film, per forza di cose, funziona: quello che ci si trova davanti è un semplice “copia 1:1” del film originale ma interamente in computer grafica. Il lavoro svolto con la CGi è qualcosa di sbalorditivo, davvero vicino al fotorealismo con ogni piccolo particolare costruito con dovizia, facendo uso di tutte le ultime tecnologie in questo campo. Quello che colpisce sono i paesaggi degni dei migliori documentari su National Geographic, che riescono a risaltare un contesto che in fin dei conti, vede degli animali parlare. Animali semplicemente riprodotti alla perfezione… troppo. La questione “National Geographic” salta fuori quasi immediatamente: nonostante la riproposizione di alcune scene iconiche (indubbiamente suggestive), nessun passo in più sembra essere fatto dal punto di vista puramente stilistico, partendo da una fotografia (digitale) che non riesce in alcun modo a bucare lo schermo. Con la frase “ho visto documentari più belli” si riassume un po’ il tutto, con Caleb Deschanel che in nessun modo sfrutta la vastità di materiali tra luci e colori dell’Africa selvaggia capace di incorniciare una storia che in questo caso ne avrebbe assolutamente bisogno. Tutto risulta fin troppo asettico e questa asetticità la si ritrova purtroppo sui protagonisti. La ricerca della iper-realicità, benché stuzzicante, risulta essere l’autogol più grande della pellicola. Gli animali, hanno la particolarità di aver una piccolissima scelta di espressioni facciali e tranne qualche raro caso, non sono degli ottimi attori. Certo, ci sono attori che non si discostano tanto dal regno animale da questo punto di vista, ma questo abbiamo e questo ci teniamo. Sappiamo tutti quali sono le scene iconiche o qual è la scena iconica: Mufasa e la sua consapevolezza di non saper volare – lo so, è cattiva. Oltre alla mancanza di reale caratterizzazione estetica salvo qualche eccezione, la limitata espressività mozza le gambe a una storia che fa delle emozioni il suo marchio di fabbrica: nessuna espressione terrorizzata sul volto di Mufasa, nessuna trauma sul volto di Simba, nessun ghigno di Scar e soprattutto nessun volto infoiato su Nala. Se quest’ultima non inficia particolarmente sulla narrazione, tutto il resto è un puro colpo al cuore con mani a carciofo. Cosa ne viene fuori quindi? Un film essenzialmente inutile: durante la visione del film non vi è alcun motivo che giustifica questo nuovo adattamento se non il rivivere vecchie emozioni scaturite dall’originale. Ma a questo punto, perché non rivedere quello?
Anche a livello sonoro e scenografico qualcosa non quadra, con riarrangiamento delle celebri musiche di Hans Zimmer, ma che tra alti (sempre con riserva) e bassi non riescono a essere incisive. Prendiamo ad esempio “Sarò Re” di Scar: se nel classico, oltre a essere un elogio al totalitarismo, è intriso di quella teatralità che ha aiutato Scar a diventare un personaggio iconico, tra sbuffi di vapore verdastro, ombre malefiche e anche un bel plotone di iene che LVI avrebbe sicuramente apprezzato, in questa nuova versione, è semplicemente un leone decrepito che saltella tra una roccia e l’altra. Questa scena  rispecchia tutto il film. Tutto è molto edulcorato e in qualche modo sin troppo “distante” per essere empatizzante come il cartone animato.
Inoltre, il cambiamento di struttura narrativa che consente un “live action”, non è stato minimamente sfruttato: l’occasione di vedere approfondita la psicologia di Scar e il rapporto dello stesso con Mufasa, gli anni vissuti da Simba in compagnia di Timon e Pumba e molto altro che avrebbe meritato una maggiore attenzione, semplicemente non esiste, come due scudetti della Juventus. Questa forse è la più grande occasione mancata, ed è strano pensarci considerando che Cenerentola, La Bella e La Bestia, Maleficent e Aladdin hanno avuto un trattamento diverso.
Sul nuovo doppiaggio, elogiando Luca Ward come Mufasa, si prosegue tra alti e bassi in cui spiccano ovviamente Marco Mengoni (Simba adulto) ed Elisa (Nala Adulta) che con le loro voci accompagnano egregiamente le canzoni iconiche del brand, facendo da tramite tra presente e passato… sino a quando le parole non ritmate entrano in scena. Non essendo un musical, si nota una certa discrepanza tra il loro doppiaggio e quello del resto del cast, nulla comunque che infici violentemente la visione.

In Conclusione

La domanda da cui bisogna partire è “ne avevamo bisogno?”. Visto il risultato la risposta sembra scontata, eppure, è molto probabile che le nuove generazioni lo adoreranno. Sarà adorato anche da coloro che vivono la loro vita un quarto di emozione alla volta, cresciuti a pane e Disney e intrisi ancora di quella magia che è facile perdere semplicemente guardandosi attorno. Viviamo in un mondo in cui il dollaro regna sovrano e questo lungometraggio possiede un “non so ché” di pericoloso: cosa vuole il pubblico? È veramente in grado di scegliere cosa guardare e di far selezione? Tutte domande senza senso per i più, ma è la consapevolezza del pubblico a decide di quale qualità vogliamo usufruire.
Il nuovo Re Leone dunque, non riesce a elevare il prodotto originale, non riesce ad approfondire personaggi e tematiche e non riesce a regalare suggestioni visive degne di nota. Sta lì, come qualcosa avvenuto dopo una sbronza ma ancora presente nei nostri ricordi, un errore, qualcosa da dimenticare ma che ormai fa parte di noi. Ci sarà un sequel? Molto probabile, ammesso e concesso che importi a qualcuno ma quei pochi, saranno comunque entusiasti come bimbi nel rivedere le avventure di Simba – Il Leone Bianco.

– Cavolo, ce l’avevo fatta a non citarlo. Proprio all’ultimo. –




A Plague Tale: Innocence – Piccola Peste

Asobo Studio sembra un nome uscito dal nulla, alle prese col suo primo titolo. A guardar bene è così, ma a guardare ancora meglio il team in questione vanta un’esperienza quasi ventennale, con collaborazioni in molti progetti di rango e un gioco del tutto proprietario come Fuel. Adesso il developer francese ha deciso di fare sul serio, e con A Plague Tale: Innocence ha fatto di tutto per dimostrarlo.

La selva oscura

Uno dei periodi più controversi della storia dell’uomo è paradossalmente uno dei meno raccontati nei videogame. Il 1300, il basso Medioevo del grande scisma d’Occidente, è un pessimo secolo sotto tanti punti di vista: leggera era glaciale, carestia, Inquisizione Cattolica, la Guerra dei Cent’anni e soprattutto la Peste Nera. Se pensate di vivere in una brutta epoca solo perché Instagram ha cancellato il vostro account, con A Plague Tale: Innocence avrete modo di rivedere le vostre convinzioni affrontando uno spaccato di un mondo terribile in cui qualunque cosa congiura per vedervi morto. Amicia e Hugo, i protagonisti francesi della nostra storia, non solo sono vittime di un mondo avverso ma anche la rappresentazione di un’umanità che cerca di sopravvivere “nonostante tutto”. Dopo la morte dei loro genitori, infatti, comincerà un viaggio che possa garantire la salvezza di entrambi, oltre che essere motivo di crescita. A Plague Tale possiede tra i suoi innumerevoli pregi quello di raccontare nella maniera più egregia due storie diverse in parallelo, con ottime cutscene che non segnano un distacco netto dalle fasi di gameplay: la quindicenne Amicia è alla ricerca della propria autoaffermazione in un mondo dominato dal caos, mentre il piccolo de Rune, cresciuto isolato dal mondo esterno, si trova improvvisamente in un limbo, tra un’infanzia bruscamente strappata via e una maturità che, per forza di cose, deve essere la più rapida possibile.  In ogni caso, sia per Amicia che per Hugo, la parola “Innocence” riassume in maniera molto diretta ciò che i protagonisti si apprestano a perdere.
Emozione, stupore e magniloquenza sono tre parole che riassumono la trama del titolo, capace di toccare le corde giuste del videogiocatore, immergendolo in un mondo distante nel tempo ma capace far apprezzare ogni piccola conquista del genere umano.

Amicia, f*ck Yeah

A plague Tale: Innocence è essenzialmente un gioco stealth con elementi puzzle-solving, con meccaniche classiche in cui è possibile accucciarsi e nascondersi tra la vegetazione per sfuggire dalla vista dei nemici. Tutte meccaniche già viste quindi, ma in grado di funzionare alla perfezione in un contesto inconsueto. Amicia è abile con la fionda, unica vera arma disponibile in grado di colpire mortalmente i nemici privi di elmo o di distrarli. Proprio la distrazione è una dinamica chiave, a volte da sfruttare in piccoli puzzle ambientali, cercando di creare un percorso sicuro tra le ronde nemiche, che vantano una basilare intelligenza artificiale.  Quello per cui il titolo verrà però ricordato è l’enorme e mortale orda di topi, simbolo di peste, in grado di divorarci in pochi secondi. Attraverso l’utilizzo dei bracieri e luci possiamo allontanare il vorace branco, che altrimenti ci ucciderebbe  all’istante. Per proteggerci dai malvagi ambienti francesi, si potrà ricorrere a un crafting molto esemplificato, ma adeguato al potenziamento del nostro equipaggiamento che include la creazione di sostanze alchemiche in grado di farci avanzare nei momenti più intricati. Non si avrà però mai reale filo da torcere nell’avanzamento del gioco: il titolo non ha l’intento di sfidare la pazienza e le meningi del giocatore, facendo della sua natura story-driven il suo punto di forza.
Il vero potenziale del lavoro Asobo lo si ha soprattutto nelle fasi avanzate, dove l’intero arsenale sarà a nostra disposizione: l’approccio ai “livelli” diventa così libero, con il giocatore intento a studiare una possibilità adeguata per superare l’ostacolo. In questo intervengono anche meccaniche co-op in game, con il nostro piccolo Hugo in grado di intrufolarsi in piccoli anfratti, aprendo passaggi per Amicia, oppure per risolvere poco intricati puzzle ambientali. In fondo A Plague Tale è un titolo semplice ma efficace, in grado di intrattenere per tutti i suoi 17 capitoli.

Olio su schermo

Un altro punto a favore della prima fatica di Asobo è il comparto tecnico, che sembra essersi ispirato ai dipinti del XVI e XVII secolo, mostrando scene, ambienti e paesaggi dai tratti morbidi e suggestivi. La Francia del 1300 è caratterizzata a dovere: un mondo freddo, pericoloso, in cui “giustizia” fa pericolosamente rima con “morte”. Si passa da zone in cui è possibile rilassare il ritmo ammirando un tramonto, ad ambienti terribili come campi di battaglia mostrati in tutta la loro crudezza e zone desolate in cui la morte ha già fatto il suo passaggio. Il tutto è rappresentato in maniera egregia, con texture definite e con una particolare attenzione agli abiti del tempo. Meno eclatanti le animazioni facciali, un po’ legnose ma che non rovinano per nulla l’esperienza sul piano emotivo
A dare un altro colpo al nostro cuore ci pensa la colonna sonora, composta da Olivier Deriviere che tra violini, violoncelli e contrabbasso riesce a risaltare ogni momento del gioco in modo superlativo, anche se purtroppo poco varia. Il doppiaggio – non disponibile in italiano – è estremamente curato in inglese, ma nella lingua originale, il francese, riesce a esprimersi al meglio, trasportando con maggior carica il giocatore nelle terribili vicende della Francia medievale.

In conclusione

Nonostante la facilità con cui si arriva ai titoli di coda, A Plague Tale: Innocence riesce nell’intento di raccontare una storia matura, capace di intrattenere e in qualche modo di far immergere il videogiocatore in una delle epoche più ostiche della storia umana. Il primo vero titolo di Asobo dunque, centra in pieno l’obiettivo, diventando un ottimo trampolino di lancio verso più grandi progetti futuri.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Sapphire Radeon RX 580 8GB NITRO+ Special Edition
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10




Kunos Simulazioni e il Libero Arbitrio

Quando si parla di videogiochi in Italia, molto spesso capita di cascare nella banalità e soprattutto nella disinformazione. Figuratevi quando si parla di produrre dei software sul nostro stesso territorio. Fortunatamente, negli ultimi anni, la scena videoludica italiana sta crescendo, trainata sicuramente da Milestone, ma che vede in crescita alcune software house concorrenti in grado di dire la propria nel mercato globale. Una di queste è proprio Kunos Simulazioni, alle luci delle ribalta grazie al progetto Assetto Corsa, in grado in poco tempo di entrare nell’elité dei giochi di guida, se non di più.
Sta arrivando Assetto Corsa Competizione, secondo titolo ufficiale della casa di Stefano Casillo & Co., contornato dalle voci di Assetto Corsa 2. Eppure, nonostante l’eccellenza, non tutto è andato nel verso giusto.

La Scalata

Di Kunos Simulazioni si narrano storie come se appartenessero a leggende antiche, miti appartenuti a epoche mai viste e che forse possiedono un briciolo di verità. Quel che Kunos ha fatto con Assetto Corsa è qualcosa di strabiliante effettivamente: nonostante la campagna marketing sia stata ridotta all’osso, è bastata la qualità intrinseca del titolo e il passaparola tra gli utenti a dare ad Assetto Corsa quella spinta verso l’Olimpo dei giochi di guida. Passando da netKar (l’inizio di tutto) a Ferrari Virtual Academy, Assetto Corsa rappresenta la summa di tutto il lavoro svolto sino a quel momento. Il successo è dovuto principalmente al motore proprietario della software house, in grado di replicare fedelmente (per quanto possibile) il comportamento dinamico della vettura che, unito alla realizzazione dei circuiti tramite Laser-Scan, ha reso il titolo il più preciso gioco guida sul mercato. Tralasciando un interfaccia che più scarna non si può, Assetto Corsa è puro “car-porn” e un amante di motori NON può non viverlo. Esatto, viverlo. Il lavoro di Kunos è l’unico gioco di guida a regalare sensazioni maschie in grado di far aumentare il testosterone di ogni uomo. È grazie a questo che Assetto Corsa ha avuto successo, perché è stato in grado di sostituire YouPorn nelle giornate solitarie di ogni persona armata di volante e pedaliera. Ma a parte gli scherzi, un titolo di questo calibro è una vera pietra miliare del genere, tanto che persino Porsche ha deciso di utilizzare il titolo per permettere ai propri clienti di saggiare le potenzialità delle vetture ben prima della prova su strada e anche la FIA (Federation Internationale de l’Automobile) ha strizzato l’occhio verso Casillo. Il Porsche Pack (insieme alle altre espansioni) e Assetto Corsa Competizione ne sono la dimostrazione. Ma senza errori non si cresce, che Kunos ha deciso a un certo punto di mettere in pratica questa massima.

Setup Azzardato

Tutto bene insomma, sino a quando non si decise di approdare su console. Portare Assetto Corsa su PlayStation 4 e Xbox One era una scelta azzardata sin dai primi rumor: un “simulatore” di guida per un pubblico che usa quasi esclusivamente un pad sembrava un controsenso ma purtroppo, i problemi erano altri. Assetto Corsa su PC ha vissuto di continui aggiornamenti e DLC a pagamento, ovviamente leciti visto l’alta qualità dei modelli strutturali e dinamici delle auto. Ma a un certo punto, lo sviluppo fu interrotto, proprio in concomitanza con l’arrivo su console del titolo. Del resto quando un team è composto da una manciata di persone è difficile dedicarsi a due progetti contemporaneamente. Fu così che Assetto Corsa PC venne abbandonato, nonostante gli ampi margini di miglioramento, a fronte della conquista del mercato console, che vedevano in Gran Turismo, Forza Motorsport e l’outsiders Project CARS, darsi battaglia per il “trono” – ma con una sceneggiatura migliore…–. Assetto Corsa in versione console era sopratutto un modo per sondare il terreno: c’era spazio per un titolo di guida “hardcore” nel mercato dei semi-simulatori? La risposta è stata “ni”. Se è vero che una certa fetta di pubblico, abituata già a titoli di guida, possedendo inoltre volante e pedaliera, ha apprezzato il lavoro fatto da Kunos, dall’altra non c’è stata una vera conquista di nuovi utenti. Nonostante dotato di nuova e più accattivante interfaccia, la versione console possedeva un modello di guida più permissivo, cercando di adattarsi all’uso di un pad ma sopratutto a un pubblico per la maggior parte poco avvezzo con la minuziosità di particolari in un titolo con mire simulative. Il problema, è che questo “abbassamento” di difficoltà finì di scontentare anche i pro-gamer e chi Assetto Corsa l’aveva amato su PC. Inoltre, a un certo punto, anche in questo caso lo sviluppo cessò. Probabilmente per via degli iniziali lavori per Assetto Corsa Competizione, la versione console finì in un limbo e ben presto dimenticato, a favore di un Forza Motorsport costantemente aggiornato, un Gran Turismo verso la risalita e un Project CARS che comincia a ritagliarsi una buona fetta di estimatori.
Possiamo sicuramente trarre degli insegnamenti molto banali da questa faccenda, ma andiamo oltre. Assetto Corsa è un titolo di una certa potenza mediatica tra gli estimatori del genere, ma anche per case costruttrici e organizzatori di eventi automobilistici. È qui che entra in scena la Blancpain GT Series e l’inizio di un nuovo capitolo per Kunos.
Un titolo così di nicchia avrà successo? Solo il tempo potrà dircelo, sperando che lo sviluppo non sarà interrotto dalle idee per Assetto Corsa 2 che, tranquilli, arriverà.




Ace Combat 7: Skies Unknown – Rombi di Tuono e Cieli di Fuoco

Sono passati molti anni dall’ultimo volo di Ace Combat, il “simulatore” aeronautico più famoso al mondo. La sua è una storia lunga, così come la trama dei vari capitoli, via via intrecciata per formare una narrazione intrisa di personalità. Poi gli aerei, da quelli più iconici a quelli ultra moderni e, come da tradizione, prototipi dalle più disparate forme e capacità belliche. Ace Combat mancava tanto a un certo segmento di pubblico e l’arrivo del settimo capitolo ufficiale non è che una gioia per tutti i sensi di cui l’uomo dispone (tranne olfatto e gusto perché la tecnologia è pur sempre questa).

La guerra non cambia mai

Nel corso degli anni anni Ace Combat ci ha abituati a numerosi intrecci di trama che via via si son fatti ancor più intensi. Nonostante questo però, il settimo capitolo ufficiale viene in contro alle esigenze di tutti, riuscendo a essere comprensibile per i neofiti ma in grado di rispolverare vecchi ricordi e chicche per i fan. Entrano in scena dunque le battaglie aeree più intense del franchise sul pianeta Strangereal, il mondo alternativo protagonista di tutte le vicende narrate finora, in cui i vari stati si danno battaglia a suon di missili di vario tipo. Pur avendo avuto capitoli ambientati nel futuro, questa volta le vicende si svolgono nel presente, un 2019 che vede Erusea e Osea darsi battaglia per il controllo dell’Ascensore Spaziale, ormai unico modo per colonizzare lo spazio. La sua costruzione è proprio la causa del conflitto: dopo l’impatto con un asteroide, uno dei continenti, Usea, era sul lastrico, aiutato successivamente da tutti i paesi del pianeta tranne il regno di Erusea che adesso, non vede di buon occhio l’influenza di Osea in questo territorio. Inizia dunque la cosiddetta Lighthouse War, una guerra che mette in campo nuove tecnologie in grado di soppiantare i piloti umani.
Proprio l’utilizzo di droni e la ricerca scientifica atta al loro perfezionamento è uno dei temi trattati all’interno della trama di questo capito, composto da 20 missioni. L’argomento è di stretta attualità: si parla spesso di come l’uso più intenso di droni da battaglia e armi intelligenti stia pian piano stravolgendo l’operato e il significato stesso di guerra. I cosiddetti Assi, i piloti migliori dei cieli di tutto il mondo, rischiano di aver ben presto tarpate le ali, trasformando l’eliminazione dell’obbiettivo in una serie di codici binari. Benché non sia il fulcro delle vicende, questo argomento è trattato come solo i giapponesi riescono a fare, un concentrato di teatralità e suggestioni. La Lighthouse War è in grado di richiamare numerosi ricordi come Farbanti, la capitale di Erusea o la struttura Stonhenge, in un mosaico di vecchio e nuovo ben strutturato e raccontato anche grazie a ottime cutscene in CGI.
La narrazione procede dunque spedita, ricca di colpi di scena e dal buon ritmo generale, accompagnata da una regia a dir poco perfetta.
Unico, possibile piccolo neo, è riscontrabile nei sottotitoli a volte difficile da leggere in mezzo al trambusto generale. Ricordiamo che il doppiaggio è solo disponibile in giapponese o inglese.
Ma l’offerta ludica di Ace Combat 7 non si ferma alla sola campagna single player, permettendo un multiplayer che vede tra le sue fila anche una battle royale (un tempo semplicemente deathmatch). Inoltre, suggestiva è anche la possibilità di poter utilizzare visore VR, in cui, all’interno dell’abitacolo, possiamo immedesimarci in qualunque Top Gun del mondo.

E Maverick muto

Anche per chi non è avvezzo con questo tipo titoli, come da tradizione, Ace Combat permette l’approccio adeguato a ogni tipo di videogiocatore. Di fatti, potremmo scegliere due modalità di gameplay che ne modificano comandi e semplicità di utilizzo: ma scegliere tra principiante ed esperto non è così scontato. Se la prima consente un utilizzo semplificato, con l’andare del tempo finisce per esserlo troppo e limitante, in quanto in fasi avanzate, la maggior possibilità di movimento offerti dalla modalità esperto consente approcci più aggressivi ma anche più divertenti, sfruttando soprattutto lo stallo. Nonostante dunque il gameplay abbia spiccate virate verso l’arcade, il titolo riesce a essere godibilissimo, ma solo se non ci si lascia “spaventare” dall’utilizzo immediato della modalità esperto che in fin dei conti, è la modalità “normale”.
Ma ben prima di solcare i cieli di Strangereal, bisogna prepararsi: il briefing pre-missione è fondamentale, non solo a livello narrativo ma segna anche la strategia che il videogiocatore avrà di lì a poco. Grazie alla tecnologia radar infatti, è possibile sapere in anticipo la posizione e la tipologia dei nemici e, questa conoscenza, influisce sulla scelta dell’aereo da utilizzare e gli armamenti. E qui arriva il bello: gli aerei, i veri protagonisti e suddivisi per tipologia, hanno caratteristiche e possibilità belliche differenziate ma ulteriormente potenziabili una volta sbloccati vari perk. È qui che il punteggio ottenuto in missione ha la sua rilevanza: la progressione da mezzi basilari ai caccia più evoluti, avviene tramite un complesso albero di sblocco di potenziamenti e aerei, con percorsi diversi: ad esempio, se il nostro obiettivo finale è pilotare F-22 Raptor, dovremo seguire un determinato percorso che porta il giocatore a ignorare tutto il resto. Ovviamente questo avvantaggia la rigiocabilità.
Il parco aerei vanta numerose chicche come il discusso (in Italia) F-35, o il russo Sukhoi Su-47, unico aereo (esistente) del lotto ad avere ali a freccia negativa. Un peccato non aver a disposizione caccia come quelli cinesi (come il J-20) o aerei iconici come l’F-117 Nighthawk. Un peccato è anche la poca possibilità di personalizzazione offerta, tralasciando una manciata di stemmi e skin.
Una volta scelto l’armamento a disposizione, siamo pronti a partire. Ace Combat 7 è uno dei pochi titoli a emozionare già dall’inizio della missione, con un insieme di regia, colonna sonora e gameplay che si mischiano, divenendo un unico mezzo in cui il giocatore può immergersi. Le battaglie sono vere e proprie coreografie con nemici che possono contare su una discreta intelligenza artificiale a livello di difficoltà normale. Ma anche qui, la massima difficoltà, unita al controllo esperto, è una delle esperienze più eccitanti offerte dal panorama videoludico, raggiungendo il picco durante le boss fight (poche a dir la verità). Tutti gli armamenti a disposizione hanno un range e un numero fisso di utilizzi (tranne la mitragliatrice in modalità principiante) per cui, dosare con cura ogni missile è fondamentale se non si vuole rimanere a secco proprio sul finale.
A rendere le cose ulteriormente interessanti è la simulazione degli effetti atmosferici, tra temporali, fulmini e raffiche di vento, in grado di avere un forte impatto sulla manovrabilità del mezzo o sui sistemi elettronici. Se non si sta particolarmente attenti in certi frangenti, schiantarsi al suolo o contro una montagna è un ottimo modo per ricominciare dal checkpoint. Questo sistema meteo dunque, non è solo di facciata: tutti gli elementi atmosferici sono in grado di influire attivamente rendendo alcuni scorci di missioni ancor più complessi. Senza contare inoltre, che i nemici sfrutteranno molto spesso i banchi nuvolosi per sfuggire all’agganciamento dei missili, sparendo dal nostro campo visivo.

Ma il cielo è sempre più blu

Skies Unknown è un titolo basato sul compromesso, per quanto concerne il comparto tecnico; il focus è incentrato sulla stabilità dei frame per secondo che, in un titolo come questo, è assolutamente fondamentale. Ciò non vuol dire però che ci troviamo di fronte a qualcosa di scadente: spicca tra tutto, la costruzione dello skybox grazie alla tecnologia TrueSKY, talmente ben realizzato da sembrar vero, con annessi effetti atmosferici in grado di arricchire quanto vediamo a schermo. Volare tra i cieli è qualcosa di suggestivo a prescindere, una peculiarità non di poco conto considerando che in fin dei conti, si tratta nuvole e atmosfera. Le debolezze del titolo si riscontrano una volta che il nostro mezzo si avvicina al terreno, con città, villaggi, strutture di vario tipo e vegetazione molto spesso di bassa qualità anche se, in certi frangenti si può anche chiudere un occhio. Questo perché a rendere il tutto estremamente godibile è la ricercatezza stilistica di alcune scene (anche in game), capace di mostrare una regia e una fotografia in grado di esaltare momenti che altrimenti passerebbero inosservati ai più. Ma veniamo alla realizzazione degli aerei, i veri protagonisti. La loro realizzazione può contare su un adeguato numero di dettagli, ancor più evidente al loro interno con ogni cockpit realizzato ad hoc. Grazie ad Ace Combat possiamo ammirare ogni singolo aereo sino ai particolari, rendendoci conto di come la tecnologia della costruzione di questi mezzi, sia cresciuta a livelli esponenziali. Ma ahinoi, l’esplorazione visiva degli aeroplani, mostra i compromessi citati poc’anzi: taxture e shader di bassa qualità, qualche imprecisione nella modellazione lasciano l’amaro in bocca, senza contare l‘eccessivo aliasing presente sopratutto durante i replay.
Dove invece si punta all’eccellenza, come da tradizione del resto, è sulla realizzazione della colonna sonora, che svolge un ruolo primario nell’accompagnare l’azione entrando di prepotenza nello script della regia. Le musiche composte da Keiki Kobayashi, ormai storico musicista della serie per conto di Bandai Namco, regala una delle migliori colonne sonore dell’anno – riascoltata durante questa scrittura –, costruendo brani ritmati conditi dalla classica dose di orchestrale ed elettronica. Musica e Regia divengono un tutt’uno consentendo al settimo capitolo di entrare nel novero dei migliori titoli della serie anche da questo punto di vista. Memorabile.

In conclusione

Ace Combat 7: Skies Unknow è prima di tutto un omaggio ai fan, una piccola perla per gli amanti del genere in grado di suscitare meraviglia infantile dinanzi all’eleganza mortale dei mezzi a disposizione. Quasi tutto funziona alla perfezione, dalla narrazione alla splendida colonna sonora che, in qualche modo, riesce a far dimenticare alcune magagne tecniche. Ace Combat 7 riesce nell’impresa di riportare in auge un brand storico, avvicinando magari i nuovi gamer a una saga che ha fatto della spettacolarità il suo marchio di fabbrica.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Sapphire Radeon RX 580 8GB NITRO+ Special Edition
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10




GameCompass Talk Show #41- Il futuro è adesso

Il futuro è più vicino del previsto con l’imminente uscita di Google Stadia nel mercato. D’altro canto anche Nintendo decide di investire nella tecnologia VR tramite il nuovo Nintendo Labo VR Kit. Ne parlano in studio: Marcello Ribuffo, Andrea Celauro e Dario Gangi.

 




Fallout di nome e di fatto

La caduta della società per colpa di una qualche guerra nucleare (o “nuculare” se gradite) venuta dal nulla, è stato l’incubo del mondo sin da quando il Giappone ha visto che danni poteva provocare la fissione dell’atomo. Col passare degli anni e della tecnologia il terrore ha toccato vette di un certo rilievo: la Guerra Fredda e l’Orologio dellapocalisse (Doomsday Clock) sembravano sancire quel fall-out che tutti ormai davano per scontato ma capace di ispirare autori di opere di varia natura come Kubrick e il suo Il dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba sino, alla serie protagonista di questo articolo. Fallout, franchise nato a fine anni ’90, è passato attraverso innumerevoli cambiamenti – riusciti o meno – muovendo il pubblico come solo pochi titoli riescono a fare. Questo non è un articolo incentrato su un excursus storico ma cercheremo di capire come qualcosa che sembrava un’ovvia evoluzione si sia trasformata in una tragedia videoludica a tratti esilarante.

L’erba del vicino

Il primo cambiamento evidente accadde nel 2008, anno in cui Fallout 3 scosse il mondo proponendo un open world vasto, ricco di NPC e con una direzione artistica che riprendeva sì lo stile dei predecessori ma esaltato ulteriormente dalle nuove tecnologie. E funzionò. Nonostante le critiche di qualche estimatore della serie originale, il terzo capitolo diede modo a Bethesda di saggiare i frutti della felicità offerta dal pubblico. Fallout 3 è stato un titolo importantissimo sotto tanti punti di vista: un mondo così vasto e aperto era il realizzarsi di un sogno per molti videogiocatori che, in qualche modo, non fecero caso agli eccessivi bug presenti nel gioco. Come tradizione infatti, la creazione dell’open world non è stato semplicissimo e già dal terzo capitolo le cose non sembravano andar bene. Del resto era una delle prime volte che qualcosa del genere saltava fuori e se abbiamo gli attuali open world lo dobbiamo anche a questo titolo.
Eppure, il migliore della serie è uno spin-off. Fallout: New Vegas, tra le mani di Obsidian, divenne qualcosa di estremamente complesso in cui la narrazione venne direttamente influenzata da nuove idee, racchiuse in una sola parola: libertà. Il nuovo Fallout era in grado di esaltare la capacità di immedesimazione del videogiocatore, empatizzando per una o per l’altra fazione presenti, tutte con l’intento di conquistare le ultime tecnologie funzionanti dopo l’olocausto nucleare. L’NRC (la Repubblica della Nuova California), la Legione di Caesar, i Great Khan e le altre erano uno sguardo diverso della società, chiamando il giocatore al ragionamento politico e soprattutto alle conseguenza della vittoria di una o dell’altra fazione. Fallout: New Vegas riesce a mettere nella stessa stanza l’imperialismo dell’Antica Roma, il capitalismo moderno dell’RNC, la dittatura del Sign. House, Oligarchia e sopratutto l’Anarchia, modelli di governo diversi ma ben raccontati, approfonditi sia per tematiche che ideologie. Inutile dire come la scelta finale dell’RNC sia la più saggia e forse la più ovvia una volta scoperto che questa è l’unica a possedere un reale governo, mezzi e strutture in grado di garantire un futuro per gli abitanti del Mojave. Ma tutti gli NPC hanno qualcosa da raccontare e tutta la regione ha qualcosa da insegnare.
Questo picco però, non è proseguito con il quarto capitolo ufficiale che, benché sia stato un buon titolo, in qualche modo non scaldò i cuori dei fan. In Fallout 4, qualcosa cominciava a scricchiolare, a fronte di un comparto tecnico e ludico che poco si scostava dai predecessori. E poi i bug, glitch di varia natura, crash improvvisi…insomma, il marchio di fabbrica.
Ma perché si finisce a parlare di questo? Perché ha segnato la morte di Fallout 76, senza girarci intorno.

Vita e morte di un gioco qualunque

Perché è successo? Perché Fallout 76 non è riuscito ad avere quel successo che, in fin dei conti, sembrava scontato? Fallout è proprio una delle poche serie che si presta all’MMO: tanti personaggi, personalizzazione, esplorazione, cooperazione e così via. Tutto sembrava perfetto, tutto geniale, con in più la possibilità di lanciare testate nucleari sul territorio, cambiandone per sempre la fisionomia. Allora cosa è andato storto? Avete presente quando alcuni videogiocatori o presunti tali, indicano la non importanza del comparto tecnico, volgarmente definito “grafica”? Ecco, questo è il punto (Google presta attenzione che interessa pure te). Per quanto, l’idea sulla carta sia stata a prova di bomba H, deve esserci un’infrastruttura dietro in grado di sostenerla e il Creation Engine, motore degli ultimi due titoli, semplicemente, non ce la fa. Nato nel 2011 – già vecchio – il Creation Engine è sicuramente un motore grafico versatile ma capace di gestire solo in parte tutto il ben di dio all’interno del mondo di gioco. Come citato in un articolo precedente, un open world non è altro che una “bomba alla legge di Murphy” pronta a esplodere, e serve qualcosa di affidabile in partenza. La domanda è una sola: perché non sviluppare un motore apposito per Fallout 76? Proprio Todd Howard, game director Bethesda, intervistato al Pax East lo scorso Marzo, ha vuotato il sacco, affermando come lo sviluppo del titolo sia stato molto complicato, tragico in certi aspetti. Ben quattro team sono al lavoro sul gioco e, a dir la verità, si è cercato in tutti i modi di porre rimedio alle magagne viste finora, lanciando upgrade gratuiti che hanno sicuramente migliorato ogni aspetto del titolo. Ma oltre la mera tecnica, inspiegabili scelte di design ne hanno ulteriormente sancito la fine. Il fulcro di Fallout è praticamente assente: cittadine, NPC, narrazione diretta (presente solo su terminali e postille) oltre a un evidente riciclo di vari elementi presi di peso dai titoli precedenti… e non solo.
Eppure, se solo si fosse stati un po’ più cauti e lungimiranti, molti dei problemi al lancio non sarebbero accaduti, semplicemente posticipandolo. Meglio un ritardo che il linciaggio no?
Fallout 76 è però qualcosa di importante: ha sancito una volta per tutte l’importanza dell’infrastruttura alle spalle di un titolo ma soprattutto, l’esigenza di un pubblico sempre più informato e critico; un insegnamento che molti danno per scontato ma che alle volte viene dimenticato. A questo punto Fallout 5 cosa sarà? Probabilmente prenderà piede dal nuovo The Elder Scrolls VI sulla base di un Creation Engine ulteriormente aggiornato (purtroppo) ma siamo sicuri, che Todd Howard e Co. in qualche modo, abbiano imparato la lezione.




Dove finisce Activision e comincia From Software

È passato ormai un po’ di tempo dall’uscita di Sekiro: Shadows Die Twice, del quale avete già potuto leggere tra le nostre pagine. Come già accennato nella recensione, Sekiro è un prodotto creato tra l’unione di una software house (From Software) e un publisher (Activision) molto diversi nel modo di approcciarsi al pubblico, tanto da preoccupare i fan di Miyazaki sin dal primo trailer di presentazione. L’influenza di Activision si sente, dando ai conoscitori dei souls la sensazione che Sekiro sia frutto di uno scontro di “giochi di potere” e di compromessi: acquisire maggior pubblico a discapito della libertà progettuale o portare avanti le proprie idee con il rischio di allontanare i giocatori? Come per il duo Salvini-Di Maio, i diversi approcci sono chiaramente visibili, cercando in qualche modo di accontentare tutti, con risultati più o meno buoni.

Fiori nei cannoni

L’impatto con l’ultima fatica della casa di Tokyo può essere un po’ straniante per i conoscitori dei “soulsborne”: siamo abituati al mini tutorial iniziale, con striminzite righe di testo capaci di spiegare “alla larga” le principali meccaniche del titolo, ma in Sekiro tutto questo prende una piega particolare. È già qui che l’influenza di Activision si nota, spiegando per filo e per segno ogni meccanica presente e, nel caso in cui la nostra memoria facesse brutti scherzi, è possibile trovare tutte le spiegazioni nel menu di pausa. Come se non bastasse, è presente anche una sezione allenamento dove il non-morto Hanbei presterà il suo corpo immortale per provare nuove abilità in tutta sicurezza. Nei souls l‘unico modo per far pratica è rischiare la vita. Si capisce già da questi frangenti come la visione dell’autore e l’apertura delle sue idee al mondo sia un reale frutto del compromesso, invogliando i giocatori a proseguire nei meandri di Ashina. Ma per Hidetaka Miyazaki lo “smarrimento” del videogiocatore – così come la difficoltà – ha un ruolo chiave all’interno del gioco, in cui ognuno di noi deve essere pronto a gettare il cuore oltre l’ostacolo per superare i momenti critici. Queste idee sono enfatizzate ovviamente dalla ricercatezza artistica e da alcuni elementi ripresi direttamente dalla cultura giapponese come una statura fisica più elevata rispetto al nostro Lupo, in grado di far avvertire il rango sociale ma, soprattutto, l’idea di essere sempre di fronte a qualcosa di più grande rispetto a noi. Fortunatamente tutto questo non viene scalfito dall’intervento di Activision, anche se in certi frangenti la sua ingerenza è così palese da far sorridere.
Le variazioni possono già percepirsi in elementi come la narrazione, da sempre un aspetto molto criptico dei prodotti From Software, costituita da centinaia di frammenti sparsi nel gioco e che bisogna mettere assieme di volta in volta per riuscire ad avere un quadro completo. Sebbene in Sekiro: Shadows Die Twice questa componente risulti sicuramente ben più diretta rispetto ai souls e a Bloodborne, a volte si ha la sensazione che sia fin troppo chiara. Già la descrizione degli oggetti, presenta informazioni più esplicite che in passato, nonostante la mole sia la medesima; il risultato è che invece di avere un puzzle di solo cielo composto da mille pezzi, se ne ha uno più accessibile, capace di invogliare anche il “giocatore della Domenica” ad approfondire le tematiche del titolo. Ma questa accessibilità si palesa in maniera “violenta” con gli NPC, non solo abbastanza loquaci ma anche molto espliciti sul da farsi. Ogni oggetto − o quasi − ha la sua funzione, descritta a chiare lettere così come le indicazione su dove e come proseguire. Il giocatore dunque è decisamente accompagnato per mano e lontani sono i ricordi in cui una volta arrivati ad Anor Londo in Dark Souls, bisognava affidarsi all’istinto per poter proseguire. Purtroppo (o per fortuna) questo elemento è stato quasi completamente estirpato: siamo sì immersi in un mondo di cui sappiamo ben poco, ma l’essere guidati da una mano ben visibile spezza in qualche modo la magia e possiamo facilmente presumere che Miyazaki avesse ben altri piani.

Una dura verità o una dolce bugia?

Chi ama e chi ha amato i souls in questo decennio è ben conscio del fatto che la difficoltà ha un valore particolare, quasi religioso, in questa tipologia di videogame. I combattimenti, l’orientamento per le intricate mappe, il portare avanti le quest dei vari personaggi secondari, sono sfide che il videogiocatore appassionato ama e che sono capaci di regalare un forte senso di gratificazione una volta arrivati al finale. Sekiro tutto questo lo fa egregiamente (o quasi) ma, come ormai si evince, in maniera diversa: in qualche modo tutto risulta meno criptico, accompagnando il giocatore in “segreti” che effettivamente non sono tali. L’accessibilità dettata da Activision in questi casi è forse un punto dolente, capace di togliere quella magia e senso della scoperta a cui normalmente From Software ci ha abituati: come dimenticare il Grande Vuoto di Dark Souls o le Tombe Dimenticate del terzo capitolo, come non pensare a Lautrec o al destino di Anri. From Software ha sempre gettato l’utenza in un mondo descritto da qualche riga, senza appigli particolari per sopravvivere; insomma, bisogna essere audaci, scaltri e intuitivi per andare avanti. È questo il vero fascino dei lavori di Miyazaki, ma che in quest’ultima opera, in qualche modo, lo si percepisce meno: abbiamo fin troppe informazioni e indicazioni, non solo su come proseguire ma persino di gameplay.
Molte di queste parole hanno valore puramente soggettivo: diventa chiaro come per alcuni questo nuovo approccio sia molto più fruibile e sicuramente più orientato alle masse; eppure qualcosa non quadra. Il gioco – come descritto in fase di recensione – è punibilità allo stato puro, malvagio sotto quasi tutti i punti di vista. Allora perché stendere un “tappeto rosso” per l’Inferno? Forse infatti, “eticamente” parlando, Sekiro: Shadows Die Twice è disonesto: tutti felici, tutto comprensibile ma basta poco per tornare a casa dalla mamma, piangendo. Nei souls duri e puri, subito un boss quasi insormontabile, senza capire i perché di ogni cosa e via; si soffriva certo, ma almeno il contesto era schietto.
L’ormai definibile genere souls, col tempo, si è diramato in più segmenti, arrivando anche a ibridi particolari come Immortal: Unchained – ingiustamente maltrattato da parte della stampa e che difenderò fino alla morte. Il filo conduttore è sempre lo stesso, un approccio duro sin da subito, un tacito accordo tra videogiocatore e programmatori che non può essere scalfito. In Sekiro questo accordo vale solo certi frangenti, separati nettamente: From Software ha creato un combat system geniale e immediatamente iconico, cattivo ma in grado di esaltare chiunque e un impianto artistico magniloquente. Activision ha messo il proprio zampino sulle scelte narrative in senso stretto: i dialoghi, le descrizioni degli oggetti, nonché i tutorial, sono aperti al pubblico, comprensibile anche al videogiocatore occasionale. E qui arriva il plot-twist: questa partnership è stata capace di aprire gli occhi a From Software, escogitando nuovi modi di approcciarsi al pubblico? Il netto contrasto tra il pubblisher e la software house col tempo potrebbe sparire, in favore di un’amalgama perfetta nel futuro secondo capitolo (ops, spoiler). Ma di tutto questo, ne parleremo successivamente, di come Sekiro II possa diventare la pietra miliare di From Software, grazie a un migliore compromesso tra le parti.