Death Note il film – la rece con le mele rosse un tanto al chilo

Perchè Death Note –  il film – fa cagare
(E ve lo scrive uno a cui “Death Note” – l’anime – ha fatto cagare tantissimo)

Ok partiamo dall’inizio.

Nella patria dei jappocosi un mostro con le chiare fattezze di William Defoe si perde un quaderno dove se ci scrivi su il nome di una persona quella muore malissimo, uno sbarbo-giappo si mette carneficinizzare mezza Indocina e un altro sbarbo giappo prova a sgamarlo.

Ora, l’anime secondo molti parla di amicizia, di senso della giustizia, di complesso di onnipotenza, della morte, della rava e della fava; una fetta di generazione in preda a crisi mistiche e il mercato delle mele rosse in netto rialzo.
Stronzate.
L’anime parla di una sola cosa: MONUMENTALI seghe mentali.
No gente, serio: il cardine principale della trama sono le infinite segh… le infinite deduzioni e tecniche investigative dei due giapposbarbi che a colpi di percorsi logici cercano di dimostrare chi c’è l’ha più lun… chi è il più intelligente.

No, davvero, il senso dell’anime è questo: è un poliziesco investigativo.
Prendete la Scienza della Deduzione di Sherlock Holmes, mettetela sotto steroidi pesi e quando ormai delira e ha la bava alla bocca speditela in giappolandia, tra pedofili in erba e sessualità confusa, rinchiudetela in uno stanzino, ravanatela di botte a colpi di katana di legno e quello che ne verrà fuori sarà Death Note.

Un anime dove i tuoi protagonisti si affrontato a colpi di deduzioni via via sempre più inverosimili, dove il protagonista cattivo è bellissimo, intelligentissimo e anche skillattissimo a livello fisico, si trova costantemente circondato da figa mostruosa che vorrebbe regalargliela, ma dalla quale lui sia allontana con malcelato senso di fastidio, forse per rievocare l’antico modello dell’amore platonico greco, dove l’amore tra uomo e uomo era più puro dell’amore di un uomo per una donna, perché non turbato dall’ottenebramento dei sensi, forse perché è semplicemente un coglione e deve affrontare un suo degno pari, intelligentissimo, non bellissimo ma che piace perché freak e anche lui skillatissimo fisicamente.

I due si affronteranno a colpi di piani, complotti, SEGONI MENTALI TITANICI, fino all’ultima deduzione.
E basta, a me fa già cagare un po’ così.

Perché per me, il livello massimo dove la scienza della deduzione può arrivare è quello di “Sherlock” nella 4a stagione della serie della BBC: superato quel livello, la mia sospensione dell’incredulità crolla ed esce sbattendo la porta, bestemmiando pure.
Quindi capirete che, attorno alla decima puntata, all’ennesimo «i miei sospetti su di te sono aumentati dello 0,0001%», senza che nessuno nell’anime scoppiasse a ridere rotolandosi sul pavimento, ho spento il computer e sono andato a prendermi un gelato, che quello stronzo di ELLE se ne mangiava a pacchi.

La coerenza del recensore, questa sconosciuta.
(e soprattutto: dove vuole arrivare?)

Ora, in questa mia avversione verso l’esagerata sospensione dell’incredulità non avrò nemmeno il pudore di difendere la coerenza della mia posizione. A tutt’oggi tollero e venero mostri del “WTF” come I Cavalieri dello Zodiaco e Kenshiro, dove la sospensione dell’incredulità non ha nemmeno ricevuto l’invito a partecipare, ma stranamente ogni volta che vedo un episodio dei suddetti me la ritrovo comunque sulla spalla, gasata pesa, a urlare assieme a me «polvere di diamanti!!!»

Perché ci si mena signori, fottesega delle iperboli quando volano calci e pugni epici. Perché non me ne frega niente che «i pugni che vanno alla velocità della luce» non hanno senso di esistere in un universo strutturalmente costruito: è fighissimo lo stesso vedere due giappocosi in armatura che combattono potentissimi con luci dorate. Questo ti fa dimenticare della sospensione dell’incredulità, non infiniti segoni mentali.

Perché l’urlo di Chen terrorizza, ancora, l’Occidente, e se sento un UATATATATATATÀH!!! o un «Per il Sacro Acquarius!!!» ancora «Lo Spirto Guerrier Entro Mi Rugge»
Combattimenti epici, non due asessuati che giocano a scacchi masturbandosi mentalmente a quattro mani.
Ma queste sono mie opinioni personali.
E soprattutto a noi cosa ce ne sbatte di queste opinioni personali? Cazzo ci frega che a te, Lanfranco, Death Note l’anime ha fatto cagare? Qui si parla del film, perché il film ti ha fatto cagare uguale?
Per un motivo molto semplice signori.
Perché in Death Note “il film” non ci sono i segoni mentali.
Quindi se togli quella che è, secondo me (ma, se non la pensate come me, molto probabilmente avete torto), l’anima dell’anime (ohohoh), per quanto possa fare cagare, ottieni un risultato comunque inferiore.
Che è Death Note, il film.

Death Note – Il Film; o anche: perché gli americani era meglio se andavano a cogliere cacocciole.

Il film inizia con la medesima premessa dell’anime: nella patria degli “ammerigani” un mostro con le chiare fattezze di William Defoe si perde un quaderno dove, se ci scrivi su il nome di una persona, quella muore malissimo, uno sbarbo amerigheno si mette a carneficinizzare mezzo globo terrestre e un altro sbarbo afroamerigheno prova a sgamarlo.
Come si risolve il conflitto tra i due?

NON SI RISOLVE.

L’unico punto saliente della trama dell’anime, il conflitto tra protagonista e deterunocoso (l’antagonista) nel film, semplicemente, non c’è. Fateci caso. Non dico non c’è l’infinta “mind war” a colpi di segoni tra Elle e Light: no, non ci sta proprio il conflitto tra i due, quasi non c’è scontro diretto.
Light ammazza gente a caso, Elle interviene e, senza una spiegazione esauriente, decide che l’assassino opera a Seattle, Light, per tutta risposta: smette di fare qualsiasi cosa. Non c’è, per dire, tutto il balletto di trappole sgami e sgamini per sfuggire alla sorveglianza in maniera plausibile, non c’è lo sfruttare la pagina o i frammenti per usarli in giro come arma portatile, magari nascosti in un sacchetto delle patatine, che a pensarci bene è un’idea anche un po’ del cazzo ma fa ridere.

Per riprendere a movimentare le cose si è dovuto utilizzare quella cerebrolesa di Mia, che in uno slancio di stupidità non è che pensa, al massimo, di continuare la catena di omicidi per allontare i sospetti da Light, no, decide proprio di ammazzare quanti più uomini dell’FBI possibile, giusto per togliere l’enorme sostegno silenzioso che la polizia forniva e per far puntare un enorme faro tracciante su Light stesso.

La trama continua pressapoco così, il confronto tra Light ed Elle è ridotto ai minimi termini; si incontrano e parlano in due occasioni e in nessuno dei due casi vengono portati sviluppi alla trama.
Il confronto più interessante alla fine pare essere proprio quello tra Light e Mia, il primo omicida con scrupolo, la seconda sempre più presa da un delirio di onnipotenza per proxy; Elle fa da terzo incomodo, perfino nel climax finale viene completamente tagliato fuori e senza un confronto tra Light ed Elle mi spiegate che cacchio di Death Note è?

Oltre questo il film prosegue con la fiera delle occasioni mancate.
Perché il materiale di partenza buono o addirittura interessante in alcuni parti c’è, ma dura lo spazio di un battito di ciglia.

L’impatto di Kira sul mondo poteva essere di una figaggine mostruosa. Nell’anime non mi ricordo chissà quale grande impatto, ma ci sta, gli anime vivono in un mondo tutto loro dove le logiche e le dinamiche sociali sono consolidate da tempo, il mondo attorno ai protagonisti fa solo da sfondo, senza altre interazioni, gli unici elementi vivi sono i protagonisti; anzi sarebbe un’analisi interessante, questa, sulla cultura giapponese, in cui in ogni storia ci sono solo i protagonisti, solo loro, mentre il mondo intorno o impazzisce senza mai interagirci o li ignora.
Come dicevo, un aspetto interessante ma a cui siamo comunque abituati.

Ma in un film occidentale?
Nel film fanno vedere crisi mistiche di massa, riunioni, bordelli in mezzo alla strada, seguaci. Ma senza mai spingere sul freno, senza mai dare l’impressione che su questa idea ci si possa investire qualcosa. Per dare un tocco più realistico alla storia ci sarebbero dovute essere interruzioni armate in ogni angolo del globo. Dichiarazioni del Vaticano, il papa che si suicida perché Kira gli ha accoppato tutti i vescovi pedofili, l’Islam esploso in detonazioni nucleari contro se stesso una volta visti i propri imam falcidiati da un dio della morte giapponese, l’Isis che invade Tokyo, caos, morte e devastazione ovunque.
In Death Note assistiamo a gruppi di sbarbi che fanno le riunioni mistico-alcoliche nelle cantine o nelle chiese abbandonate.

Una potenziale fine dell’umanità così come la conosciamo, derubricata a movimento emo giovanile . (ma gli emo? Che cazzo di fine hanno fatto gli emo? Siamo veramente riusciti a estinguerli? Certo la tendenza a estinguersi da soli già ce l’avevano però figata sono realmente scomparsi…)

E le regole?
Oh, questo lo mettiamo tra le buone cose sprecate. La sottotrama dei precedenti possessori del Death Note, le note di avvertiment….

Oh ma aspetta un attimo cazzo…! Ma se nel Death Note c’era scritto un avvertimento su Ryuk, tecnicamente il nome di Ryuk È scritto sul Death Note!!! Cazzo, Ryuk dovrebbe essere già schiattato!!!

Cacchio mi è venuto in mente proprio ora mentre sto scrivendo.

È una cosa pazzesca!!!
Cacchio ma non possiamo fermarci, la recensione deve continuare!

Cercando di non pensare al bug di cui sopra, la sottotrama dei precedenti possessori del Death Note sarebbe stata una potenziale miniera d’oro ai fini dello sviluppo della trama: gli avvertimenti, qualche indizio sul perché William Defoe stesse armando tutto questo bordello, insomma di carne sul fuoco ce n’era, ma la carbonella niente, nessuno s’era ricordata di portarla a casa Netflix.
Che questo è un po’ il leitmotiv del film.

Il problema del film: la voglia di morire dei jappo contro la voglia di sopravvivere degli ammeregani

Che questo è un po’ il leitmotiv del film.

Le idee e il materiale per fare qualcosa di carino c’erano ma l’intenzione di farne veramente qualcosa, di farne un film con le sue sfide allo spettatore e i suoi casini evidentemente no.
Né volontà né intenzione.
L’anime, pur essendo una roboante baracconata senza vergogna, anzi proprio per essere una roboante baracconata senza vergogna, è riuscito comunque a intrattenere centinaia di migliaia di cerebr… di sfig… di ner…, di spettatori in tutto il mondo, ha esaltato e appassionato e convinto un nugolo di geek tisici e disadattati che anche loro potevano essere in qualche modo cool (no, non accade mai, o siete David Tennant o non acchiapperete figa manco a morire stando seduti su una sedia, con i piedi nudi sul bordo a fissare gente con lo sguardo da labrador sotto sperimentazione clinica)
L’Anime ci credeva, ci credeva tantissimo, perché questo è il Giappone, gente che ci crede tantissimo e muore malissimo per la gioia e l’intrattenimento del mondo occidentale; urlare “banzaiiiiiii” fortissimo e schiantarsi a kamikaze contro le portaerei americane ignari dei funghi nucleari che detonano alle loro spalle.
È questo il Giappone che amiamo e che vogliamo.

Il film invece non è che ci credesse poi moltissimo.
Questa è l’America, gente che ruba roba figa altrui, ci investe senza averne capito una mazza, produce roba mediocrissima, fa spallucce perché tanto scarica il debito sulle banche e sui mutui, fallisce, si suicida al crollo della borsa e invade e nuclearizza altri paesi per ristabilire il bilancio interno.
E poi pigliano per il culo noi per pizza e mandolino.

Il film, con vero spirito americano, ce la mette tutta per convincere il pubblico che stavolta ci crede tantissimo anche lui, ti prende William Defoe e lo copre di CGI, ti prende attori molto bravi e intostati duri nella parte, ti fa vedere la cura per il dettaglio e l’occhio della madre, «e il montaggio analogico? Lo vedi il montaggio analogico?» Insomma, ce la mette tutta per prenderti per il culo.
Ma anni di trailer fichissimi che annunciavano film di pura merda ci hanno insegnato da tempo a tenere le chiappe strettissime quando entriamo in un cinema o premiamo il tasto play sul televisore/portatile/computer; è grazie a questa sana filosofia di vita che sono uscito incolume da proiezioni come Batman vs Superman, Jurassic World, X-Men Apocalypse mentre ne sono uscito infottato il triplo con film come Logan, Assassin’s Creed (oh, cazzo volete, a ME è piaciuto, è stranissimo e lo hanno fatto così apposta secondo me) e Rogue One.
Death Note?
Beh non me ne fregava un cazzo prima, quindi non me ne è fregato un cazzo nemmeno dopo, ma posso capire la delusione dello spettatore e del fan dell’anime.
Tirando le somme, un film senza infamia, ma senza nemmeno uno straccio di lode.

 

Per concluderem potrei scrivere di alcune cose che mi sono piaciute.

I personaggi e come giapponesi e americani vedano la Morte in maniera diversa.

I personaggi, può sembrare strano, visto il tono di quanto ho scritto sopra, ma invece no, a me i personaggi così come li hanno esposti sono piaciuti: il mio problema con loro è che, sostanzialmente, non gli facciano fare una mazza, nulla di interessante e coinvolgente, ma il loro muoversi, anche il loro non agire, me li ha fatti risultare simpatici.

Light, uno sbarba liceale con un’intelligenza sopra la media e quindi ovviamente vittima di bullismo. Rispetto all’anime l’ho trovato molto più simpatico e digeribile. Nell’anime, Light era un insopportabile precisino della minchia, un primo della classe perfettino che avresti voluto vedere volentieri cadere con la faccia nel fango ogni singolo minuto della sua vita, fino a perdere quell’aria di superiorità; uno così preso in culo da poter intercettare trasmissioni radiofoniche d’alta quota, insopportabile e tedioso.

Nel film, Light è un ragazzo come tanti ma con una fibra morale molto più sviluppata e molto più vecchio stile. Sembra quasi il fantasma distorto di un modo di pensare che ormai non c’è più.
I buoni dei vecchi tempi non sarebbero mai scesi a compromessi (il padre di Light infatti, incarna questi valori), ma le nuove generazioni? Cresciute così distorte in un mondo così fottuto? Se a un giovane delle nuove generazioni in perfetta buona fede dai una pistola carica che cosa farà?
Anche qui, sull’intelligenza di Light, un’altra occasione sprecata.
Viene fatto capire che non solo è intelligente ma che lo è anche di molto sopra la media, lo riconosce anche ELLE ma, a parte far vedere che fa abitualmente i compiti a casa di una quindicina di studenti diversi e qualche lieve altro accenno, niente di tutto questo ci viene mostrato. No, gli sgami arzigogolati sul Death Note non bastano.

Quindi Light simpatico, intelligente, motivato e, soprattutto, si rovina perché va in cerca di figame, al contrario della sua inutile controparte nell’anime.

Insomma uno di noi che rischia tutto non per colpa di polizia, investigatori privati o dei della morte, ma perché la sua ragazza lo forza a fare puttanate.

Elle.

Elle mi è piaciuto; il personaggio iperintelligente ma autistico con sindrome di Asperger un po’ ci aveva rotto il cazzo, ma bisogna dire che ai tempi dell’anime l’idea ancora non era così abusata quindi ci sta.

Poi non so perché in America si è andato formando questo stereotipo del nero secchione, boh, tipo Billy nei Power Rangers.
Il fatto è che agli americani la persona intelligente fa paura. Essendo un popolo cresciuto col mito del cowboy texano che poi altro non è che un vaccaro zoofilo, che si spaventa se gli apri un libro davanti, la persona intelligente deve essere per forza diversa o stravagante, in qualche modo lontana da lui. Ecco quindi che se prima avevamo un Peter Parker intelligente ma imbranato, ora abbiamo un Barry Allen chiaramente autistico e che fa le faccette buffe mentre non riesce a guardare negli occhi Bruce Wayne.

Pur tuttavia, l’attore di Elle riesce a dare un tocco più personale al personaggio, vuoi che lo rende un po’ più fosco e violento dell’Elle originale, vuoi che se la tira un po’ di più anche degli altri autistici intelligentissimi che sono comparsi sugli schermi di recente, vuoi perché a una certa scarduna pure lui e si mette a fare bordello, vuoi perché l’attore sembra molto bene sul pezzo; insomma a me questo Elle m’è piaciuto. Non c’è tutto il delirio messianico della lavata dei piedi a Light e siamo molto contenti così grazie. C’è lui che si siede a cazzo di cane (ma in maniera credibile) ovunque, senza nessun rispetto per la proprietà o la prossemica altrui, lui che fa vedere, realmente, che di cervello ne ha a pacchi e c’è lui che ingurgita caramelle come se il diabete non fosse stato ancora scoperto.

Porta a casa ogni scena in cui appare, bravo.

Mia.

La mia misoginia di base non me la fa nemmeno risultare antipatica. Probabilmente perché le hanno dato un piglio abbastanza realistico, a lei che colpita dal bravo ragazzo se ne va comunque sotto braccio al maschio alfa perché, anche per le donne, occorre che lo si ammetta ad alta voce, tira di più il pelo di bue che la gentile fighetta della scuola. Poi però quando il ragazzo che l’aveva colpita si ritrova al centro di una storia di macabri morti per decapitazione, lei, vuoi perché un po’ incuriosita, vuoi perché un po’ zozzona, a ‘sto fighetta ci si avvicina.

E da lì la storia prosegue senza scossoni, Light, giustamente, le rivela cosa sa fare nella speranza di bombarsela, lei, donna, giustamente ci sta; perché alle donne non è che piaccia proprio il fisicaccio, piace il potere e, quando si accorge di essere inciampata in quello che potenzialmente potrebbe diventare il nuovo dio in terra del terzo millennio, si accoda volentieri.

Fino al punto in cui giustamente chiedersi: ma perché devo stare comunque appresso al fighetto? Perché non posso essere io la nuova dea in terra?

E tutti i casini che ne conseguono.

Il babbo, Ryuk e il giappo-Alfred di Elle.

Il padre di Light: espressione di quella morale vecchia scuola qui però tragicamente messa in un angolo, nemmeno più disperata ma atarassica.
Un buono vecchia scuola con dei saldi principi morali, davanti alla moglie arrotata sull’asfalto, se vinto da suoi scrupoli, si ridurrebbe a un barbone alcolizzato, ma qui no, una critica ancora più feroce se vogliamo; il buono vecchio stampo non fa nulla: non riesce a far nulla con la legge, quindi finisce nel non far nulla nella vita, privo di ogni emotività e passivo, reale vittima di questo mondo moderno.

Ryuk.

Questo Kiru non neutrale ha fatto storcere il naso a molti, ma è questo l’Occidente, bellezza.

In Giappone l’idea della morte stessa è molto più neutrale che in altre parti del pianeta. Del resto, c’è un motivo se hanno il più alto tasso di suicidi al mondo, se il seppuku è riconosciuto come una pratica nobile, se “kamikaze” è una parola giapponese; per loro la morte è un’entità ben presente nella cultura del popolo, né malevola né benevola, semplicemente c’è e tu non puoi farci un cazzo.

Ma questo Death Note è americano, e la faccia di William Defoe tutto è meno che neutrale. Per l’Occidente la morte fa più paura di qualsiasi altra cosa.
Più di qualsiasi altra cosa, si può e si deve sopravvivere a ogni costo, non importa quanto ci si possa compromettere; il sacrificio è contemplato solo per garantire la sopravvivenza della propria prole, in questo caso sopravvivenza “by proxy”. La morte non può essere tua amica, i suicidi vanno ancora all’inferno nel mondo occidentale, l’eutanasia è un tabù non ancora infranto.

Kiru è la morte come il mondo americano la vede. Cattiva, sadica, infida. Non ha nessuna spiegazione logica e se c’è a noi non è dato saperlo. Non ti fidare di Kiru, non è tuo amico. La morte qui non ha valenza positiva, non ha la faccia di Brad Pitt e non accompagna Antony Hopkins oltre il viale del tramonto.

Se seriamente vi aspettavate altro da un film americano, vi siete persi un po’ di cose.

E questo è quanto. Tirando le somme Death Note è un chiaro esempio di trasposizione all’americana di qualcosa che gli yankee non hanno compreso fino in fondo o che i dirigenti statunitensi non hanno compreso proprio.

È un Death Note svuotato di significato, con un chiaro e robusto investimento in denaro per copiare al meglio tutta la superficialità del progetto e non la sostanza.

Abbiamo Elle, Light, Dei della Morte, mele rosse morsicate e quaderni maledetti, ma tutto l’intrigo, la follia omicida, il delirio messianico, il duello mortale tra due menti ossessionate, la filosofia, la deduzione, il gioco di specchi, le regole del gioco, il gioco e la morte di Death Note no, quelli non ci sono.

Magari vi andrà meglio la prossima volta.




For Honor

Ok brava gente di Nottingham è tempo di bilanci (???) e di nuove (e buone, e cattive) notizie quindi eccoci a parlare della nuova fatica Ubisoft, chiedendoci: sarà ancora la solita tempesta di merda e bug dei loro precedenti lavori e, in tal caso, sotto tutto quanto, ci sarà qualcosa di buono?
(Se ve lo state chiedendo: sì, la frase introduttiva è totalmente inutile)

Uh, mi ricorda qualcosa?

For Honor, nuovo gioco targato Ubisoft, pone la risposta a un quesito che nessuno si è mai veramente posto: il sistema di combattimento di Assassin’s Creed, potrebbe essere utilizzato per un gioco di combattimento online? E se si quanto ci possiamo marciare sopra?
Nato nel lontano 2000 – non ci interessa davvero ricordarlo – la serie di Assassin’s Creed (che rispondeva ad altre domande mai veramente poste a proposito di Prince of Persia) ci portava tra stradine polverose, torri, mura di pietra e minareti a guidare un muslim-nigga-ninja-parkour tra le strade di Medina (no, Medina non credo sia stata nemmeno mai menzionata, ma va bene come nome per luogo esotico e mediorientale) squarciando gole a irritanti figure politiche locali e mettere in atto nuovi e divertenti modi per morire o castrarsi arrampicandosi un po’ ovunque.
E mostrando, in mezzo a tutto questo, un sistema di combattimento tanto semplice quanto effettivamente accattivante e divertente.
No, davvero, quel sistema di parate a tempo che si traduceva in perfetti colpi mortali, quel meccanismo di colpi susseguiti con il giusto tempismo per inanellare esecuzioni letali (più preciso era il tempo, più velocemente terminava il duello), un sistema per rompere la guardia dell’avversario che aggiungeva quel gusto di tattica in più, rendevano veramente piacevole affrontare nemici armati di spade d’acciaio brutalmente affilate e protetti da armature rose dalle sabbie dei deserti in un gioco che in teoria puntava tutto sull’esplorazione dinamica e sulla corsa fra tetti e minareti morendo in modi buffi e divertenti.
Il sistema di combattimento rimase sostanzialmente invariato per la quasi decina di capitoli della saga principale, a parte alcune stronzate nel mezzo poi eliminate con uno “scusate-ci-siamo-sbagliati-fate-finta-di-niente”, mietendo regolari apprezzamenti (via via in quantità minore, ma solo perché a secco di novità dagli esordi) finché alla Ubisoft probabilmente qualcuno avrà detto: ma farci un gioco di combattimenti su?

E così fu

Alla Ubisoft quindi si chiesero: ok, abbiamo, chissà come, un sistema di combattimento all’arma bianca in un videogioco semplice e accattivante per alcuni, ma che pretesto usiamo per far scannare la gente tra sé?
Ipotesi 1) Un reame magico vuole invadere il nostro mondo, allora, per scongiurare il pericolo, vengono indetti una decina di tornei dove i nostri campioni dovranno affrontare i lor…
No no, già fatto, cazzo dici…
Ipotesi 2) Un tizio a capo di un’organizzazione terroristica o di ecoterroristi – non abbiamo ben capito questa parte ancora – va in giro per il mondo a fare danni e tizi palestrati da ogni parte del mondo si menano a cas…
No, no! Già fatto anche questo.
Ipotesi 3) Ok, sentite qua: padre, figlio e il figlio del figlio, quindi il nipote, si menano e, non si sa perché, cercano di ammazzarsi da quarant’anni, peggio di Beautiful, ma per farlo scomodano multinazionali, organizzazioni terroristiche cyborg, burdell…
No! Già visto cazzo!
Ipotesi 4) Allora. Medioevo basso, Rinascimento, non abbiamo nemmeno mai capito questo, una spada maledetta va in giro a seminare il caos per il mondo e un manipolo di guerrieri da ogni parte del mondo cerca di impossessarsene per motivi personali finc…
NO! Già visto! Ottima storyline, comunque.
Cerchiamo qualcosa di più semplice!
Mmh… Pirati vs. Ninja?
Ma non dire cazzate.
Cavalieri vs. Barbari?
Mh, forse ci siamo, ma manca ancora qualche cosa…
Cavalieri vs. Barbari vs. Samurai?
GENIOH!

E così nacque questo gioco

Questo gioco, in buona sintesi, si basa su un meme medio-grosso dell’internet, su due meme distinti volendo, e cerca di ricavarci sopra un qualcosa di robusto e soprattutto credibile.
Le basi del gioco sono le seguenti:
Uno dei meme più vecchi del panorama ludico della nostra generazione – parliamo di anni ottanta, roba molto vecchia, roba da D&D prima edizione – si basa sul conflitto tra la figura del cavaliere in armatura massiccia e spadone a due mani, da un lato, e il barbaro mezzo nudo con ascione bipenne e tanta frenesia di sangue, dall’altro; è un po’ un sottotesto nemmeno troppo esplorato che può apparire in qualsiasi tentativo di creazione artistica di genere, partendo da D&D, appunto, con la conflittualità tra la classe guerriero vs classe barbaro, e su quale sia la migliore (guerriero ovviamente, lo dice la parola stessa, guer-rie-ro, se c’è una tecnica o un modo che serve per accoppare meglio un’altra persona in combattimento allora lui DEVE conoscerla), ma anche passando in maniera nemmeno troppo evidente per Warcraft, con, per esempio, i paladini dell’Alleanza in armatura spada e scudo contro gli orchi selvaggi dell’Orda, fino ad altre decine di giochi di ruolo e produzioni artiche e letterarie di genere: in Conan, ad esempio, dove vediamo il nudo cimmero disprezzare armature e orpelli mentre massacra decine di cavalieri di Aquilonia.
Un principio volendo anche più profondo della natura narrativa moderna affondando le sue radici culturali nel passato, quando gli ordinatissimi e disciplinati soldati romani si scontravano contro le tribù barbariche del nord che calavano nude, feroci e gioiose nella battaglia, i romani vincendo solitamente, perché andare nudi in battaglia era un po’ un’idea del cazzo di solito.
Fino alla figura estremamente antica del cavaliere cristiano, che, erede del mondo apollineo greco, schiavizzato nella Sacra Chiesa Romana, si scontrava contro i Berserker indomiti e sanguinari, invasati da Odino, nelle estreme regioni del nord dell’Europa Medievale.
Ecco, un tema così ricco, vasto e potente per la nostra memoria collettiva risolto in venti secondi di pretestuosità videoludica.

E i samurai invece?

Ecco, se per il primo conflitto For Honor attinge da un’idea che affonda nella radice stessa della nostra cultura il secondo conflitto è basato su un meme molto più moderno e molto più fesso che è: “ma è migliore la spada occidentale o la katana?”, dove legioni di bimbominkia che compongono la fanbase di questa ultima – che ha l’unico pregio di aver avuto un’ottima campagna pubblicitaria– si scontrano contro la dura realtà dei fatti, cioè che una spada Reitschwert ad una katana la distruggeva sempre e comunque.
Con tali e tante premesse creative che genere di gioco salterà fuori direte voi?
Boh, onestamente ce lo stiamo chiedendo anche noi.
For Honor si basa sostanzialmente su alcuni conflitti e meme nati o portati su internet e un sistema di combattimento divertente ma di certo non innovativo, che punta sostanzialmente tutto sulle dinamiche di puro gameplay tra giocatori tesi a volersi scannare nella maniera più caciaronissima e metallara possibile, quindi, al netto di una cornice narrativa apparentemente ancora più scarna, e che definire pretestuosa pare addirittura già pretestuoso in partenza, il fulcro del gioco pare essere quello di menarsi solo e menarsi duro. E a questo punto conviene addentrarci in quello che è il sistema di gioco.

Classi e poste

Allora molte altre considerazioni del gioco, a questo punto sono partite a parlare per prima cosa del sistema di classi che, come abbiamo detto più sopra, dovrebbe incarnare quello che è l’anima del gioco.
Noi noi, a noi c’è rompe er cazzo partire così perché A) non lo reputiamo interessante, lo sappiamo già, tre tipi diversi che se vojono menà B) il vero punto di interesse, per me, in un gioco di combattimento è il sistema di combattimento.
For Honor si avvale, come abbiamo già detto, di un sistema di combattimento preso di peso da Assassin’s Creed in generale (anche perché è bene ricordare che nemmeno il sistema di AC è rimasto sempre coerente con se stesso), con alcune importanti innovazioni, diciamo che, anche se non uguale, se avete giocato ad AC vi troverete con la sensazione di stare provando qualcosa di già conosciuto.
La base principale del sistema di gioco sono le pose, che, mutuando un termine dalla scherma reale, potremmo chiamare “poste”, per utilizzare un termine più specifico e caro ai ricostruttori della scherma storica o, più semplicemente, e per farlo meglio comprendere a tutti potremmo utilizzare il termine “guardie”, sicuramente più usato e riconoscibile e legato alle arti marziali in generale, anche se originario proprio della scherma.
Il gioco quindi pone la scelta fra tre “poste” o “guardie” principali. Si parte da una modalità che potremmo definire “a riposo”, dove potremmo semplicemente correre, camminare ed arrampicarci, a una modalità di “puntamento” dove designeremo un bersaglio specifico da aggredire e colpire in tutta similitudine rispetto ad AC dove, appunto, si passa da una modalità di corsa ad una modalità di combattimento. Una piccola nota di gameplay fatto di non poter puntare i “minions” ovvero i NPC di basso livello presenti nel gioco, i soldati semplici, insomma, il cui unico scopo designato è fare da carne da macello per i nostri avatar per raggiungere determinati obiettivi di gioco (far avanzare il nostro fronte e far arretrare il fonte nemico), per ricaricare abilità personali o per semplice sadica soddisfazione personale.
Quindi, tolti i minions da macellare con spensierata allegria, ci troveremo a puntare solo i soldati di più alto livello, ovvero quelli gestiti dagli altri giocatori o, in mancanza di questi, da una IA decisamente più aggressiva e agguerrita.
Ed è nella scelta della “guardia”, della “posta” che si impernia tutto il nucleo del gioco. L’aspetto principale di questo gameplay risiede, come dicevamo, infatti nel poter scegliere tre guardie differenti, una guardia alta che intercetta i colpi portati dall’alto, una guardia sinistra ed una guardia destra che intercettano rispettivamente i colpi portati lateralmente a destra e a sinistra; ed è principalmente qui che ruota tutta la meccanica di gameplay perché noi, in uno scontro 1 contro 1, dovremo cercare di intercettare l’esatta direzione dei fendenti che ci verranno scagliati contro cercando di prevedere, anticipare e gareggiare in riflessi contro il nostro oppositore.
Tutto qui.
Questa innovazione diciamo che tanto innovazione non è, un sistema del tutto simile lo si può trovare ad esempio nell’indie game War of the Roses, uscito nel 2013 e sostanzialmente con le stesse basi di For Honor, se si esclude un’ambientazione storicamente accurata e ricercata, una profondità di spirito maggiore, e un’esecuzione frenata però da un’inevitabile mancanza di mezzi, duelli all’arma bianca in multiplayer tra schiere di cavalieri con visuale in terza persona. Dove la dinamica dei duelli era determinata dal dover intercettare la direzione della lama dell’avversario muovendosi nella sua stessa direzione. Reso molto molto più complicato da un gioco dal tempismo più dinamico e con nessun tipo di sistema di “avviso” se non quello puramente visivo.
Quindi l’idea di dover intercettare la direzione dei colpi di spada non è nemmeno così nuova come si potrebbe pensare, ma sicuramente in questo gameplay viene resa in maniera dinamica e divertente.
Un’altra nota piacevole è che, partendo dal primissimo tutorial, si potrebbe essere indotti a pensare che il giochino di intercettare la direzione dei colpi sia estremamente semplificato, visto che la traiettoria del fendente ci viene indicata non solo dall’animazione, ma anche dal grosso h.u.d. centrale, i cui tre settori si coloreranno di rosso in corrispondenza della direzione del colpo; ecco, niente di tutto ciò – la velocità dei colpi del nostro avversario e la rapidità con cui potrebbe cambiare direzione – può rendere la sfida decisamente impegnativa, come è facilmente intuibile fin dalle primissime missioni di tutorial.
Questo si traduce, almeno da come si è visto nelle prime esperienze con le demo e le beta, ad esempio in una ricerca del puro attacco, nell’essere i primi a colpire, una situazione dinamica del tutto vicina a quella di uno scontro reale dove, mancando la capacità tecnica di intercettare o schivare i colpi (considerando comunque che è più semplice passare all’attacco che cercare di parare oltre un certo limite di tempo) si preferisce attaccare forsennatamente e con foga.
Ora, che questa modalità di gioco sia frutto solo dell’inesperienza dei giocatori nuovi a questo tipo di gameplay, e che magari in futuro un sistema di gioco più tecnico venga maggiormente impiegato e premiato non possiamo saperlo, ma sarà sicuramente un ottimo punto di partenza per dinamiche di gameplay più particolari e studiate.

L’arte della guerra

Un buon motivo per sperare per il meglio, da questo punto di vista, è il sistema di perks e talenti che è stato allestito attorno al gioco: ci riferiamo al così detto sistema “arte della guerra”, un sistema che, in teoria, dovrebbe permetterci di calibrare la potenza dei nostri colpi, la cadenza e la velocità, anche in merito a un preciso metodo di gioco (ad esempio difensivo, rispetto a uno offensivo.)
Staremo a vedere.
Bisogna ammettere che, a questo punto dell’esperienza di gioco, sia l’hype che l’effettivo divertimento tendono a salire parecchio: le prime esperienze beta, i primi scontri all’arma bianca contro un IA o un’altra persona reale dall’altra parte regalano un divertimento che da molto tempo non si provava, il cercare la tattica giusta, allenare l’occhio a prendere le misure dell’avversario, crearsi la propria build personale ottimizzando nella maniera più efficiente il proprio sistema di gioco, sono esperienze che al primo impatto possono ben definirsi esaltanti ma resta da vedere se dopo la fase di esaltazione iniziale rimanga qualcosa di solido. Penso che solo il tempo potrà dirlo.
Quello è un ottimo sistema di bilanciamento se possibile.
Per intenzioni e realizzazione, For Honor sembra non avere falle nelle sue ambizioni; se poi ci spostiamo su considerazioni meramente grafiche, non ci vengono riservate brutte sorprese nemmeno lì, anzi.
Il motore AnvilNext sembra dare il meglio di sé dopo le numerose esperienze, anche molto negative, con i precedenti AC, le animazioni sono assolutamente fluide e dinamiche, le texture nitide, l’environment e lo sviluppo dei modelli 3D è, ovviamente, tutto all’altezza di casa Ubisoft, forse una delle migliori software house dal punto di vista della creazione artistica di personaggi e ambienti virtuali. Certo il concept design (essendo anche l’idea alla base non proprio originale) non brilla per innovazioni, anzi, in molti punti fa proprio pesare una sensazione di già visto ma alla fine è, indubbiamente, un “già visto” come dio comanda e un assoluta gioia per gli occhi.
Unica nota possibile di scazzo per quanto riguarda il comparto tecnico possiamo farla su come alla Ubisoft abbiano deciso di strutturare il multiplayer, con un sistema di hosting server riservato esclusivamente ai giocatori, dispensando quindi mamma Ubisoft dal mettere a disposizione dei server per i suoi, si prospetta, numerosi giocatori, ma le partite saranno di volta in volta hostate dai giocatori, con tutte le crisi isteriche e l’ internet rage che è possibile prevedere e che fanno nascere seri, serissimi dubbi, sulla longevità del brand che la Ubisoft sta evidentemente cercando di creare.

Huzzah! Huzzah! Huzzah!

Tirando le somme For Honor sembra essere un gioco che vuole puntare dritto al sodo, senza perdersi per strada in obbiettivi che non intende evidentemente raggiungere e con l’onestà, bisogna dirlo, di non voler nemmeno fare finta di provarci o di voler abbindolare qualcuno. É un gioco di combattimento puro e semplice dove si chiede al giocatore semplicemente di godersi l’esperienza nel miglior modo possibile. Se è quello che cercate (e sono in molti a cercarlo) allora avrete il vostro gioco dell’anno.
E per il futuro magari non è detto che si possa evolvere in qualcosa di ancora più profondo al quale potervisici affezionare meglio.
In alto le spade e che il sangue scorra a fiumi allora, e speriamo che basti per sostenere il tutto.