Diversità nei videogiochi: ci interessa davvero?

Le ricerche di mercato ricoprono un ruolo decisamente importante all’interno dell’industry videoludica, proprio come in moltissimi altri settori: conoscere le opinioni e i gusti del grande pubblico è di fondamentale importanza per sapere cosa vorrebbe, cosa sta andando bene e cosa no, cosa va cambiato o mantenuto, per fornire insomma una bussola agli operatori di un settore su ciò che i consumatori preferiscono.
Una tematica oggi non poco importante è quella della diversità gender, e la società di ricerche di mercato britannica Ipsos MORI, assieme a ISFE (Interactive Software Federation of Europe), ha condotto un’indagine riguardo a come come questa viene percepita dagli utenti all’interno dei videogame, prendendo un campione di giocatori, con preferenze di piattaforme varie e di età compresa tra gli 11 e i 65 anni, provenienti da Regno Unito, Francia, Spagna e Germania.

Riguardo l’affermazione «i videogiochi di oggi includono o meno una diversa gamma di personaggi», il 43% degli interpellati si è trovato d’accordo, contro il 10% che ha affermato il contrario, mentre il resto del campione si è espresso come indifferente o non informato sul tema.
La questione invece «i videogiochi dovrebbero includere maggior diversità tra i propri personaggi» ha ottenuto invece il 33% di assenso, il 14% di dissenso e uno spiazzante 53% composto da indecisi. Dei risultati simili sono stati ottenuti da statement come «avere più personaggi diversificati mi porterebbe a una migliore esperienza di gioco» e  «incoraggerebbe più persone ad iniziare a giocare».

È stato inoltre chiesto ai partecipanti al sondaggio quali gruppi vorrebbero che fossero meglio rappresentati all’interno del media: molti hanno votato per una maggiore partecipazione femminile (30%), ma un 14% sembra essere contraria all’idea; quando si è parlato di minoranze sul piano etnico, la situazione è andata perfino peggiorando: il 24% è d’accordo con un’eventuale maggiore presenza di personaggi di minoranze etniche o di colore contro un 20% di dissensi. Due affermazioni hanno persino ottenuto più dissensi che consensi, precisamente la presenza di più personaggi LGBTQ (tema da noi già trattato più volte in articoli come questo), con un 20% pro e un 22% contro, e il fatto che «avere personaggi di tipi diversi invoglierebbe di più all’acquisto» con un 26% di dissensi contro un debole 22%.
Ciò che è più sconcertante di quest’indagine non è tanto quella che pare essere una chiusura di non pochi partecipanti nei confronti del diverso, ma il fatto che la stragrande maggioranza abbia sempre risposto in modo neutro, con disinteresse verso la questione e poca volontà di approfondire la tematica, come se non riguardasse direttamente o risultasse addirittura scomoda.
L’abbiamo detto innumerevoli volte, ma vale la pena ripeterlo: il videogioco è ormai un mezzo di intrattenimento di massa, ed è prodotto artistico ormai al pari dei libri, del cinema, della musica e della tv. Più un simile frutto della creatività umana si espande e prende piede, più sarà probabile trovarne uno che rappresenti al meglio la nostra situazione come singoli individui o come minoranze all’interno della società; giochi come Overwatch o Mass Effect sono dei buoni esempi di rappresentatività e di integrazione della diversità nei character che possono essere di ispirazione per chiunque vorrà produrre qualcosa di “integrante” in futuro, dalla casa super famosa al più umile degli sviluppatori indipendenti. Ma i primi a chiedere che questo avvenga dobbiamo essere noi.




Il dito e la luna: fraintendere il videogame

Ormai avrete sentito tutti parlare della strage di Christchurch, avvenuta il 15 marzo scorso per mano del ventottenne australiano Brenton Tarrant: ha attaccato due moschee della città neozelandese e ucciso un totale di 50 persone, stando ai bilanci attuali. Il motivo dell’attacco? Contrastare la “sostituzione etnica” che in questo momento starebbe dilagando in tutto il mondo, come lui stesso spiega nel suo manifesto pubblicato su 8chan, piattaforma su cui tra l’altro aveva annunciato l’attentato.
Pensare che così tante persone siano morte è ovviamente raccapricciante, ma chi bazzica spesso le zone più “remote” dell’internet sa bene che il mondo è pieno di estremisti di ogni sorta, dai nazionalisti agli anarchici, dagli islamici ai cristiani, maschilisti (i cosiddetti Incel o i Redpill), nazisti e chi più ne ha più ne metta; non è dunque così assurdo pensare che un evento del genere prima o poi, ahimè,  accada.

Ma ciò che rende questo attacco così particolare è la presenza di piccoli elementi che lo rendono il perfetto, archetipale esempio di “live streaming terrorism”: il tutto è stato filmato con una videocamera montata sulla testa di Brenton e mandato in diretta su Facebook, con tanto di musica di sottofondo e citazione al meme “Iscrivetevi a Pewdiepie” prima dell’inizio della sparatoria. Forse è stata proprio la visuale in prima persona ad aver dato adito a molti giornali e testate (quantomeno italiane) che hanno paragonato il fatto, per l’ennesima volta, a un videogioco sparatutto. Non è un caso che il videogame si trovi anche all’interno del manifesto nazionalista prima citato, dove l’autore afferma, in modo evidentemente provocatorio, che Fortnite gli avrebbe insegnato a essere un killer mentre Spyro 3 gli avrebbe trasmesso il suo spirito nazionalista.
Insomma, credibile quanto un comizio di Salvini, e l’accostamento non è causale, visto che anche qui qualcuno gli ha creduto davvero, prendendo per veri i deliri – chiaramente di matrice troll – di un estremista della destra più becera. Numerosa letteratura scientifica ha appurato in questi anni come il videogame non porti a diventare assassini, o stupratori, né come si diventi neanche bravi cecchini (anzi, vari studi ritengono che apporti numerosi miglioramenti dal punto di vista cognitivo e intellettivo).
Se qualcuno ha intenzione di compiere una strage, non si allena su Call of Duty o Fortnite, sa già esattamente dove far pratica dal vivo e come ottenere tutto il necessario. Se qualcuno prova piacere nello stuprare una ragazza, di certo non l’ha scoperto grazie a Rapeplay (gioco recentemente bloccato da Steam che ha come colpa principale la morbosità e il cattivo gusto) e difficilmente invoglierà persona al male: il male e la criminalità esistono da molto tempo prima dell’invenzione dei videogame.
Puntare il dito verso il videogioco serve solo a demonizzare il media distraendo forse dai veri problemi: è soffermarsi a guardare il dito mentre questo indica la luna. Nel frattempo, 49 persone hanno perso la vita, l’umanità ha dato ancora una volta prova della sua crudeltà, e forse non ci si è soffermati abbastanza sulle cause, sul clima d’odio e xenofobia che prolifera nella nostra epoca.

Bisogna ancora imparare a farsi le domande giuste, e forse bisogna valutare adeguatamente il ruolo del medium nella nostra epoca, ora che tratta temi importanti, ora che molti videogame non sono più intrattenimento, ma opere compiute.




Rockstar Games: tra traguardi stellari e dipendenti scontenti

È ormai un dato di fatto che Red Dead Redemption 2 sia il gioco più acclamato di quest’anno e non solo superando di netto tutti i suoi “coetanei” come Spider-Man, Assassin’s Creed Odyssey e il sempre annuale appuntamento EAFIFA 19, giusto per citare alcuni tra i più recenti. Ha persino raggiunto  il secondo posto tra i giochi più venduti di sempre durante il periodo di lancio, preceduto dal fratello maggiore GTA V, un primato tutto Rockstar Games insomma.
Si può solo lontanamente immaginare quanto lavoro ci sia dietro a titoli dove il free roaming e la cura per i dettagli sono solo alla base e sopratutto, nelle fasi finali dello sviluppo (di solito si parla dell’ultimo anno prima del rilascio), la mole di cose da fare può essere davvero massacrante per un dipendente le cui ore settimanali non sono abbastanza per terminare tutto: ecco che entrano in gioco gli straordinari. Fin qui tutto normale, se non fosse che nessun pagamento extra è stato previsto per chi non avesse un contratto a ore e avesse deciso di rimanere per più tempo in ufficio.

Questa situazione ha creato parecchie reazioni differenti tra i membri dei vari team di sviluppo, molti dei quali hanno voluto raccontare le loro esperienze, spesso discordanti, a Kotaku: chi ha detto di aver considerato l’esperienza di RDR2 ambiziosa e soddisfacente, seppur molto impegnativa; chi invece ha dovuto rinunciare a malincuore a tempo libero, amici e famiglia per portarsi avanti con il lavoro, arrivando a compromettere la propria salute mentale; chi dice di essere passato dalle normali 37 ore settimanali a 60, chi invece a 80; chi è ottimista e spera di ricevere un meritato bonus per le vendite del gioco e chi infine ha deciso di abbandonare tutto. Di contro, Rockstar ha messo in chiaro, tramite Jennifer Kolbeche nessun dipendente è obbligato a prendere parte agli straordinari, sia esso assunto da poco o da molto tempo, e chi decide di non farlo non è in alcun modo screditato o considerato meno lodevole.
Probabilmente in molti vi starete chiedendo il perché di tanto trambusto quando situazioni simili sono all’ordine del giorno in un paese come il nostro, che da altre parti sono “abituati troppo bene”, che “dovrebbero essere grati di avere un lavoro”. Ma tutto ciò non vuol forse dire che in posti come l‘Inghilterra o gli USA il lavoratore è molto più socialmente considerato e tutelato? Facciamoci due domande e chiediamoci se non siamo effettivamente noi quelli in torto, se parlare male della propria situazione lavorativa (quando non è effettivamente buona) sia più da persone deboli che non sanno adattarsi e stare al loro posto o da persone consapevoli di poter meritare di meglio.




La crescita della game industry nell’est Europa

Quando si parla delle nazioni più proficue e importanti nell’industria dei videogiochi, pensiamo subito agli Stati Uniti, al Giappone, al Canada e all’Inghilterra, che nel corso degli anni hanno dettato legge e comandato il mercato del settore. Tra gli anni ’80 e ’90 il videogame è passato dall’essere un passatempo per pochi a un vero e proprio bene di consumo per chiunque e ciò portò e porta tutt’ora molti altri paesi a prendere parte a quella che adesso è una vera e propria “corsa all’oro” del terzo millennio. Tra i tanti che sono entrati nel mercato in tempi relativamente recenti, Italia compresa, una menzione speciale va all’Europa dell’Est, che si è aperta a questo tipo di intrattenimento e alla tecnologia in generale molto più tardi rispetto al resto del mondo industrializzato, a causa del regime comunista dell’Unione Sovietica che negava qualsiasi tipo di importazione. Adesso come allora, prodotti come computer e console sono pure espressioni del capitalismo e per la loro diffusione in quelle zone si dovette aspettare la caduta del Muro di Berlino e lo scioglimento dell’URSS.
Nonostante questa partenza a rilento, ora l’est Europa ha una posizione di tutto rispetto nel mondo dell’industry, sia per produzione che per utenza.

Tra le nazioni più presenti nel mercato (oltre alla Russia) spiccano la Polonia e la Romania, che contribuiscono in modo significativo al fatturato annuale che si avvicina ai 4 miliardi di dollari. Quest’ultima, avendo un costo del lavoro molto basso, ha portato alcuni grandi colossi come Ubisoft, King, Bandai Namco e Electronic Arts ad aprirvi delle sedi che spesso e volentieri collaborano alla realizzazione dei franchise più importanti, ma spendendo molto meno rispetto agli uffici in madre patria; inoltre, sono presenti oltre 80 case indipendenti, molte delle quali riunite all’interno della RGDA (Romanian Game Developers Association). Grazie a questa forte presenza all’interno del paese, il ministro delle Comunicazioni e dell’Informazione Petru Bogdan Cojocaru ha stanziato ben 94 milioni di euro di fondi da cui potranno attingere le aziende al 100% rumene che operano sul campo della tecnologia per aiutarne ed accelerarne la crescita. Questa manovra potrebbe rappresentare la nascita e l’affermazione a livello mondiale di una realtà videoludica made in Romania.

Mentre la patria della Transilvania è ancora in fase di evoluzione e senza una vera e propria casa che faccia da riferimento, in Polonia si respira un’aria diversa, che sa di tempi passati e futuri, strighi e mercenari, magia e tecnologia, e una grande insegna rossa troneggia: CD Projekt Red; divisione dedita allo viluppo di videogiochi di CD Projekt (che si occupa invece di localizzare e tradurre i giochi stranieri in lingua polacca) e diventata famosa grazie alla serie di The Witcher. Insomma, grazie a Geralt e più recentemente grazie all’hype generato da Cyberpunk 2077, la Polonia si è potuta fare un nome e una reputazione a livello mondiale e, i contributi di Techland, 11 Bit Studio e Flying Wild Dog non sono certo da sottovalutare. Inoltre all’interno del paese si svolgono annualmente diversi eventi dedicati agli e-sport di importanza internazionale, come l’Intel Extreme Masters.

I perché del successo polacco vanno ricercati all’interno del sistema di istruzione, che forma ragazzi volenterosi e preparati ed è tra i migliori del mondo e dietro al fenomeno The Witcher, che dal suo primo rilascio nel 2007 ha creato un’ondata di entusiasmo generale che, unita al caratteristico spirito indomabile della popolazione, ha spinto molti aspiranti sviluppatori a mettersi in gioco. La scena del gaming polacco, in tutte le sue forme, è più luminosa che mai.
Una domanda però sorge spontanea: perché in Italia tutto ciò non accade nonostante sia discretamente presente nel settore? Principalmente, il governo non crede e non ha interesse in questo media, quindi non mette a disposizione fondi per chiunque voglia avviare un progetto o una startup. Di conseguenza, lo sviluppatore italiano è di fronte a un bivio: rischiare e investire di propria tasca o andare all’estero dove le opportunità sono maggiori; inutile dire che non sono molti quelli che decidono di restare in patria, dimostrato dal fatto che le aziende nostrane sono poco più di una ventina. E a differenza dei paesi dell’est, il costo del lavoro qui è molto più alto e non incentiva i colossi del settore a inserirsi (infatti solo Ubisoft ha una sede italiana). La situazione va sicuramente migliorando di anno in anno grazie al sensibile aumento di indie made in Italy, ma senza una spinta da parte dello stato con finanziamenti, abbassamenti delle tasse e del costo di lavoro, semplificazioni burocratiche e l’estensione della Tax Credit anche ai videogiochi, il progresso italiano in questo campo resterà lento a differenza di altri paesi, che pur provenendo da situazioni economiche e sociali ben peggiori, sono riusciti a fare la differenza.




L’evoluzione della Overwatch League

Fino a non troppo tempo fa era era quasi impossibile pensare di poter fare carriera grazie agli esport, diventando uno streamer o un giocatore professionista (o perché no, anche entrambe le cose); ma il loro imponente impatto mediatico e la conseguente popolarità stanno letteralmente spianando la strada a chi vuole far parte di questo mondo tuttora in piena espansione, che siano singoli giocatori, squadre o come in questo caso specifico, leghe.
La Overwatch League inizia ufficialmente la sua stagione inaugurale il 10 Gennaio 2018 e vede al suo interno 12 team provenienti da tutto il mondo, ognuno dei quali legati alla città di provenienza, che si contendono a suon di match il titolo di campioni di Lega, un po’ come accade nell’NBA per il basket americano o nella nostrana Lega Serie A per il calcio; non a caso la OWL è attualmente la lega nel campo esport ad avvicinarsi di più a quelle degli sport tradizionali. La stagione si è conclusa lo scorso 28 Luglio con la vittoria dei London Spitfire.

Non si sa ancora quando comincerà la prossima, ma l’aggiunta di otto nuove squadre è sicuramente un buon punto di partenza e dimostra come questo primo “anno di rodaggio” abbia avuto un riscontro decisamente positivo. Nate Nanzer, Commissioner della Overwatch League, si è mostrato molto ottimista durante un’intervista rilasciata a Gamesindustry.biz.
Fra i temi trattati, si è parlato del rapporto tra esport e Olimpiadi: Nanzer era presente al meeting di Losanna tenutosi la scorsa estate e l’ha visto come una grande opportunità per poter finalmente parlare dell’argomento in materia approfondita ma, a parer suo, a causa dell’enorme quantità di variabili di cui tener conto, è ancora presto per vedere i videogiochi competitivi tra le discipline olimpiche.
Per quanto riguarda invece ciò che non è andato bene nella stagione ormai conclusa, quello della tossicità della community è stato uno dei problemi più grandi. Giusto per tirare fuori qualche esempio, un giocatore dei Dallas Fuel è stato temporaneamente allontanato dalla lega e dalla squadra stessa dopo aver fatto dei commenti omofobi durante uno stream e una commentatrice è stata più volte offesa e minacciata di morte sotto un suo tweet durante il giorno della Festa della Donna. Secondo Nanzer non è un problema legato strettamente alla community o al gioco stesso, ma riguarda più il rapporto tra le persone e Internet, che può far diventare tossico qualsiasi ambiente. A prescindere da ciò, all’interno della lega si cerca sempre di creare un posto che sia il più sicuro e tranquillo possibile per chiunque.

E parlando di donne, una domanda che gli è stata spesso posta è il perché della presenza marginale di figure femminili nelle competizioni, visto che solo due ragazze in tutta la lega hanno partecipato quest’anno. A nome di tutta la OWL, Nanzer ha detto che non si è ancora trovata una risposta, e che si sta cercando un modo per cambiare le cose. Una possibile soluzione è quella di creare una “lega in rosa” che comprenda solo squadre al femminile, ma perché dividere i due sessi se nel giocare ai videogiochi non ci sono caratteristiche fisiche particolari che li rendono diversi? C’è da dire però, che molte giocatrici professioniste hanno deciso di proposito di non partecipare per la paura di essere facili bersagli per la community.
È un tema spinoso e la questione non può essere completamente risolta solo dalla Overwatch League o dalla Blizzard stessa, ma possono diventare un punto di riferimento non solo per le donne che vogliono entrare nel mondo degli esport, ma per qualsiasi tipo di minoranza e si spera di poter iniziare a far qualcosa già a partire dal prossimo anno.




Quando i Pokémon arrivarono in occidente

Quello del 1998 è un periodo che purtroppo non posso ricordare, essendo nata in quell’anno, ma posso ben immaginare ciò che provarono quei bambini e ragazzi americani quando a maggio seppero, grazie a un annuncio durante l’E3 di Atlanta, che quel gioco che tanto aveva venduto e stava vendendo in Giappone, sarebbe arrivato nel loro continente nel giro di pochi mesi: chi già dall’anno prima non aspettava altro (poiché era già stato mostrato in piccola parte), chi non aveva idea di cosa si trattasse ma rimase incuriosito, chi esaltato, chi scettico, chi vedendo per la prima volta la serie animata mandata in onda pochi mesi dopo implorò i genitori di spendere quei quasi 30 dollari per la cartuccia ed eventualmente anche un grosso extra per lo stesso Game Boy e chi invece andò a rompere il salvadanaio a forma di maialino per tirare fuori i risparmi.  Quando poi arrivò quel 28 settembre, i mostri tascabili entrarono di fatto nel mercato occidentale con Blu e Rosso, ma anche nei cuori di moltissimi giocatori: 151 esserini che aspettavano solo di essere catturati e allenati, luoghi da scoprire, nemici da sconfiggere; un replay del rilascio originale, ma in un altro continente e a oltre due anni di distanza, mentre l’Europa ne avrebbe dovuto aspettare ancora un altro.

Filmato iniziale di Pokémon Rosso, che presenta qualche differenza rispetto a quello di Pokémon Blu

E rieccomi quindi a parlare di Pokémon, la saga che mi ha accompagnata sin da quando ho mosso i miei primi passi nel mondo dei videogame. Ma questa volta cercherò di non fare la nostalgica, a differenza di come feci quando parlai di Pokémon Giallo (dove ho anche parlato della trama e che quindi salterò) e della mia esperienza su Pokémon ArgentoVediamo piuttosto cosa avevano di così tanto speciale questi primi due capitoli, che avrebbero poi reso unico il brand intero.


Gli  “Originali 151”

Gotta catch ‘em all!

Il primo aspetto unico – manco a dirlo –  sono proprio i Pokémon: l’idea che ci sia un ecosistema vario all’interno di un gioco è qualcosa che intriga molto ancora oggi e immaginate cosa poteva significare per un ragazzino negli anni ’90 sapere di poter avere una così vasta scelta di personaggi da collezionare, poterli allenare come meglio credeva, decidere se allenare i più forti, i più rari, o semplicemente i preferiti, insegnare o meno determinate mosse, decidere o no se farli evolvere, equipaggiare determinati strumenti che aumentavano certi parametri piuttosto che altri; con una personalizzazione così, che ai tempi non riusciva a offrire neanche un Final Fantasy, letteralmente ci si affezionava a quei piccoli mostri. E non dimentichiamo che tutto questo era possibile per la prima volta all’interno di una console portatile. Non è solo il come si gioca a rendere unico e bello un titolo, ma anche il dove.

Gli scambi e le lotte

Questi sono ancora oggi gli aspetti più “social” della serie. Come tutti i giocatori che hanno provato almeno un capitolo sapranno, è impossibile completare il Pokédex “da soli”, o comunque senza aiuti esterni alla cartuccia di partenza, poiché ogni versione ha dei Pokémon esclusivi che non si possono trovare nell’altra. I metodi leciti per acchiapparli tutti erano due: trovare qualcun altro con la versione opposta e scambiarsi i Pokémon desiderati attraverso il cavo Game Link o essere abbastanza ricchi (o tremendamente soli, a seconda dei punti di vista) da poter acquistare due Game Boy e due cartucce diverse, e fare il procedimento in solitario. Ma cose tristi a parte, probabilmente era la prima volta che l’intervento di qualcun altro fosse fondamentale al completamento del gioco, e non poteva essere diversamente dato che adesso come allora, uno dei pilastri fondamentali di Pokémon è l’interazione con gli altri; come il nostro personaggio in giro per Kanto incontra una moltitudine di NPC diversi durante il suo viaggio il giocatore non deve essere da meno, con la console in tasca e un mondo intero a disposizione.
E cosa si fa quando non si ha più niente da scambiare ma ancora tanto tempo a disposizione? Ovviamente si combatte per vedere chi dei due ha la squadra migliore, e per quei pochi minuti i Pokémon si fanno vivi, la tensione è vera, la voglia di vincere è tanta. Che si vinca o si perda, alla fine della lotta ci si stringe la mano o ci si da il cinque, magari può pure volare qualche parola di troppo, ma alla fine si torna amici come prima, almeno fino alla prossima battaglia.

Facile ma non troppo

Ultimo ma non per importanza è il fattore difficoltà. Il gameplay intuitivo e gli obbiettivi chiari sin da subito stimolano il giocatore giovane e inesperto, che si trova davanti a un percorso di crescita graduale, con momenti mai eccessivamente impegnativi se preceduti da una buona dose di grinding. Le cosiddette fasi “post game” (ovvero tutto ciò che accade dopo aver battuto la Lega), sicuramente più ardue, attirano invece chi già mastica un po’ di giochi di ruolo; non si parla però di livelli di difficoltà troppo alti per il tipo di giocatore in questione. Menzione speciale per il glitch di Mew, che richiede una serie di azioni molto specifiche per farlo apparire, che ha portato ad avvicinarsi al brand una categoria d’eccezione, quella che raggruppa chi ama trovare buchi nella programmazione e “rompere i giochi”.

Pokémon Rosso e Blu non sono certo dei giochi privi di difetti a differenza di come li definiscono alcuni fan particolarmente nostalgici, essendo fortemente limitati dalla memoria delle cartucce e dalle capacità di calcolo del Game Boy, e da un sistema di combattimento sicuramente ben studiato, ma ancora allo stato grezzo e che sarebbe migliorato solo col tempo. Ricordare fa bene, ma idealizzare secondo la logica del “i primi sono sempre migliori dei seguiti” è un pensiero privo di senso critico e forse anche egoista, poiché chiuso a ogni tipo di critica. Nella società come nei videogiochi, il cambiamento non va rifiutato a priori.
Che celebriate oggi l’anniversario di questi due pionieri o il 27 febbraio, che i suddetti giochi vi piacciano o meno, è sempre giusto pensare ogni tanto a quando tutto è partito.




Il mercato delle licenze nei videogame

C’era un periodo, tra gli anni ’80 e i primi 2000, in cui il videogioco rientrava ancora tra quegli hobby di nicchia e veniva poco considerato o addirittura schernito dai media. Non che oggi non si trovino articoli o notizie al telegiornale che tendono a mettere i videogiochi in cattiva luce ma, se un tempo c’era solo poca consapevolezza, ora è l’ignoranza a guidare la mano di certi giornalisti che poco informati.
Piccoli sfoghi a parte, in quegli anni c’era anche chi aveva visto del potenziale in quegli ammassi di pixel, specie se abbinati a prodotti più di successo come i film. Fu Atari Games ad avere l’idea per prima, e sfruttando il successo di Indiana Jones ottenendone la licenza, pubblicò nel 1982 Raiders of the Lost Ark per Atari 2600, un anno dopo l’uscita dell’omonima pellicola di Spielberg. Il gioco ricevette un buon feedback da pubblico e critica ed è considerato uno dei migliori per la console. A partire da lì altre aziende seguirono l’esempio del colosso arcade, che continuò la pubblicazione di titoli su licenza tra cui rientra – ahimè – E.T. the Extra-Terrestrial, considerato da molti come il più grande fallimento videoludico di tutti i tempi.
Qualche anno più tardi, molti produttori si dedicarono invece sui film d’animazione Disney creando giochi degni di menzione, come Disney’s Aladdin e Disney’s Tarzan, rispettivamente prodotti da Capcom ed Eurocom, The Jungle Book The Lion King di Virgin Interactive, THQ si occupò invece del lato Pixar con Finding Nemo, Cars e Ratatouille.


Screenshot preso da Disney’s Tarzan per PlayStation, uscito nel 1999.

Anche Electronic Arts approfittò delle pellicole più famose uscite in quegli anni, portando su console e PC l’intera saga di Harry Potter. E non scordiamoci della trilogia di Spider Man, trasformata in videogioco grazie ai molteplici titoli di Activision.
Di giochi su licenza insomma ce ne sono a bizzeffe, alcuni degni del confronto con l’opera da cui sono tratti, altri dei flop totali. Ancora oggi continuano a uscirne ma a differenza delle generazioni precedenti, questi sembrano rappresentare un successo quasi assicurato, come i Batman: Arkham, Star Wars: Battlefront, La terra di mezzo, South Park; perché i developer di sobbarcano il rischio dei costi ingenti per l’acquisto di una licenza?
A rispondere a questa particolare domanda è Mark Caplan, presidente di BDLabs, un’azienda specializzata nel fare da tramite o mettere in contatto i possessori intellettuali di una determinata opera con chi voglia acquistarne la licenza: interpellato da GamesIndustry, Caplan ha spiegato che, grazie alla diffusione di molteplici piattaforme di gioco, oggi ci sono molte più opportunità per chi voglia entrare nell’industry e creare qualcosa di nuovo, e se questa rappresenta da un lato anche un’ottima occasione per i publisher di investire sulle loro IP, dall’altro molte case produttrici sentono il bisogno di acquistare delle licenze per espandere il proprio business. E questo vale da entrambi i fronti: se un tempo erano solo gli operatori dell’industry videoludica a comprare le licenze da altri settori, adesso cinema ed editoria acquistano diritti per trasporre opere videoludiche.
Per quanto possa sembrare rischioso comprare i diritti di un’opera senza sapere se questa sarà un “acquisto azzeccato”, vale la pena tentare il tutto e per tutto;: pensiamo all’attualissimo Spider-Man di Insomniac Games. Davvero niente male come inizio per essere il loro primo gioco su licenza, no?




20 anni di Pokémon Giallo

Che siate fan o meno della serie Pokémon, quello di Pikachu è un nome che difficilmente passa inosservato: antonomasia nel 90% in cui mamme/papà/zii/nonni vedono un esserino dalle forme tipicamente nipponiche, non importa se sia un altro Pokémon, un Digimon o uno Yo-kai, per loro sarà sempre e solo un Pikachu, allo stesso modo in cui tutte le console fisse sono “la PlayStation”. Tutto ciò dà l’idea dell’importanza del topo giallo, mascotte indiscussa del brand, presente negli spot televisivi e soprattutto nella serie animata; le console Sony  sono sempre state più popolari rispetto alle controparti, tranne che sul mercato handheld, dove la grande N ha fatto e fa da padrona indiscussa. E se oggi quel mostriciattolo elettrico è ancora così popolare, è anche grazie a Pokémon Giallo, uscito in Giappone il 12 settembre 1998, esattamente 20 anni fa, e arrivato da noi “solo” due anni più tardi.

Successivo a Rosso e Blu (o Verde nel paese del Sol Levante) e considerato più una versione aggiornata e migliorata di questi ultimi che un gioco a sé, quest’edizione speciale ha portato piccole ma importanti novità all’interno della saga, alcune permanenti, altre esclusive del capitolo, altre ancora riprese solo in seguito.
Per chi non lo avesse mai giocato, la trama è rimasta pressoché la stessa dei capitoli precedenti ma con qualche variazione, per renderla più vicina a quella dell’anime: vestiremo i panni di un bambino di 10 anni che inizia quasi per caso la sua avventura come allenatore di Pokémon partendo da Biancavilla, la sua città natale. Il nostro starter sarà un Pikachu catturato poco prima dal Professor Oak, il quale chiederà a noi e a suo nipote (che partirà con un Eevee a disposizione) di esplorare la regione di Kanto per catturare e raccogliere informazioni su tutti i Pokémon esistenti (ai tempi solo 151) all’interno del Pokédex, un’enciclopedia virtuale creata ad hoc. Oltre a ciò, dovremo creare il nostro personalissimo team per sconfiggere allenatori, capipalestra (modificati sempre per essere fedeli all’anime), il malvagio Team Rocket (con Jessie e James come ospiti d’eccezione) e la temuta Lega Pokémon per diventare Campione.

«Realizzare una guida completa di tutti i Pokémon del mondo… era questo il mio grande sogno!»

Fin qui la differenza sostanziale con gli altri capitoli sta nel non poter scegliere il nostro starter e, volenti o nolenti, Pikachu sarà la nostra unica opzione. E, proprio come nell’anime il Pikachu di Ash non aveva intenzione di passare buona parte della propria vita all’interno di una PokéBall (chiamatelo fesso), il nostro non farà eccezione, e camminerà accanto a noi durante le scorribande in giro per Kanto, almeno finché lo terremo in squadra. E non sia mai che vi venga in mente di farlo evolvere!
Qui fa la sua prima apparizione una delle feature più amate dai fan, quella del Pokémon accompagnatore, che consente di portarsi un mostriciattolo in giro e poter interagire con lui per conoscere il suo stato d’animo e il livello di affinità con l’allenatore. Dopo Giallo, questa caratteristica verrà ripresa solo molti anni più tardi e in modo parziale su Diamante/Perla/Platino (solo in un determinato luogo e con Pokémon speficici) e completamente su HeartGold/SoulSilver dove possiamo andare a spasso con chiunque e quasi ovunque; ci si aspetta lo stesso anche dai futuri Let’s Go Pikachu e Let’s Go Eevee.
Non a caso abbiamo prima citato l’affinità tra allenatore e Pokémon: da questa versione in poi entra in campo il fattore affetto, che misura appunto quanto il nostro Pikachu è affezionato a noi. A partire da giochi successivi, Oro e Argento, l’effetto sarà esteso a tutti i mostri tascabili e avrà effetti rilevanti sul gameplay: alcuni di loro infatti potranno evolversi solo quando raggiungeranno un livello di affetto abbastanza alto.
E ovviamente non scordiamoci del minigioco Spiaggia di Pikachu.

Come molti altri giochi per Game Boy, anche Pokémon Giallo entra nella nostra categoria “missione nostalgia”, e pensare che siano passati ben 20 anni dal suo rilascio non può che far sentire “vecchi” chiunque abbia ricordi d’infanzia legati a questo titolo specifico. Che vogliate tornare bambini o approcciarvi al brand per la prima volta, il consiglio è ovviamente quello di giocarci. Se non avete idea di come reperire una copia fisica ma possedete un Nintendo 3DS o 2DS, la versione digitale è sul Nintendo eShop che vi aspetta. Andate, e acchiappateli tutti!




Sessismo in casa Riot

Gli episodi di sessismo nel mondo del lavoro non sono purtroppo una novità, e nemmeno il nostro campo sembra salvarsi. Tempo fa abbiamo parlato della differenza dei salari medi tra uomini e donne all’interno delle software house, ma stavolta il caso è molto più specifico e intricato: la casa produttrice in questione è l’ormai ben nota Riot Games, che dietro la fama e i fatturati stellari nasconde un ambiente tutt’altro che favorevole per la crescita professionale del gentil sesso. Un’indagine condotta da Kotaku ha raccolto una serie di testimonianze da parte di 28 persone tra dipendenti ed ex dipendenti che dimostrano come la politica dell’azienda sia totalmente opposta alla sua “tolleranza zero su discriminazione, molestie e bullismo” e “celebrazione della diversità” che tanto afferma di rispettare.


Jinx, uno dei champion di League of Legends.

Le difficoltà per una donna che vuole entrare in Riot iniziano sin dal colloquio. Uno dei requisiti fondamentali per entrare è, manco a dirlo, quello di essere gamer, o meglio “core gamer“, anche per ruoli che non riguardano direttamente i videogiochi, come quello delle pubbliche relazioni o del marketing. Lo stesso co-fondatore Marc Merrill afferma che «assumere videogiocatori è un punto critico per il nostro successo». Ma le statistiche parlano chiaro: un’indagine statistica condotta da  Quantic Foundry su un campione di oltre 270.000 persone in tutto il mondo ha riportato che, tra gli assidui giocatori di MOBA, le ragazze costituiscono solo il 10%, addirittura il 7% se si parla di FPS. E se non ami questi generi, se non sei bravo, allora non sei un vero core gamer, o un “Rioter”, e le probabilità di essere assunto calano vertiginosamente, per quanto tu possa essere preparato o specializzato nel ruolo per cui ti stai applicando. Se oltre a questo porti anche la gonna, la situazione non può che peggiorare. Sarà per questo che l’80% del personale della software house è composto da maschi?
Una delle dipendenti che ha preso parte all’analisi di Kotaku ha raccontato di come, durante il suo colloquio, dopo aver esaustivamente risposto a tutte le domande, le fossero state chieste cose sempre più specifiche, come per cercare apposta qualcosa all’interno del suo profilo da giocatrice che non andasse bene. Nonostante fosse stata in seguito assunta, le fu detto che secondo il suo intervistatore lei non aveva la “grinta” per entrare in Riot e che non si sarebbe mai comportato in quel modo se al suo posto ci fosse stato un uomo. E anzi a lei andò bene; altre ragazze con un curriculum di tutto rispetto sono state scartate perché non erano “abbastanza gamer”.
In un altro caso, durante un colloquio telefonico con una ormai ex dipendente che aveva da sempre giocato agli RPG, le domandarono se avesse mai giocato a dei “veri videogiochi”, come Call of Duty.  Un’altra ex impiegata affermò di essere un’appassionata di giochi da tavolo, le venne detto che questo non la rendeva una gamer.
Un’altra ancora ha raccontato che quando si presentò per una posizione che non aveva a che fare con il lato gaming, non fu presa sul serio perché preferiva World of Warcraft a League of Legends.

«Ci sono tutti questi termini generici che vengono usati per trovare qualcosa di sbagliato nelle donne che però non sono specifici. Quando sento dire “lei è emotiva” direi “Okay, perché pensi che sia emotiva?” “Beh sembrava che si stesse emozionando troppo e che stesse sulla difensiva” “L’altro candidato ha fatto lo stesso e ti è piaciuto perché aveva grinta”. Perché è diverso? Forse perché questa persona è di sesso differente? Sento persone che confrontano due candidati di sessi diversi, ed entrambi possono essere dello stesso calibro e aver fatto lo stesso colloquio, ma descritti in modo differente»

Un’altra dipendente ha riferito via email a Kotaku  di aver sentito alcune candidate venire descritte come “aggressive” o “troppo ambizione”, mentre nulla è stato detto in merito alle loro effettive abilità. Per quando riguarda i colloqui con gli uomini, non ha mai sentito nulla del genere.


La sede di Riot Games a Santa Monica, California.

Ma le cose si fanno ancora più difficili per chi entra; dietro un ambiente ben curato dotato di palestra e caffetteria e con cibo gratis, si nasconde una realtà tutt’altro che serena, che rasenta il tossico. Anche col contratto ormai firmato, le Rioter dovranno fare i conti con altri episodi di sessismo e discriminazione: pochissime di loro riescono a essere promosse e ad avere una posizione di rilievo, e quando si preparano per fare il salto, nella maggior parte dei casi trovano quel posto magicamente già occupato da qualcun altro con cui sicuramente non condividono il bagno.
Sembra che non vengano neanche ascoltate, come racconta Lacy, una delle dipendenti che ha scelto di testimoniare, ma anche di lasciare la compagnia a causa di come veniva trattata. Un giorno provò a fare un esperimento, chiedendo a un suo collega di proporre un’idea di cui lei aveva già parlato durante una riunione, ma che non fu ascoltata, e proprio come immaginava, quella stessa idea venne accolta con incredibile entusiasmo.

«Qui la “Bro culture” è terribilmente reale. È come lavorare all’interno di una grande fratellanza»

Fortunatamente però, chi decide di restare non è totalmente solo. Soha El-Sabaawi, presente in azienda da più di due anni e mezzo e precedentemente a capo di un’organizzazione no-profit che aveva come scopo quello di aiutare e valorizzare le sviluppatrici di videogiochi, ha come obbiettivo quello si sensibilizzare a favore della diversità e dell’inclusione attraverso dei corsi, sia per i dipendenti che per gli intervistatori.

Le soluzioni dunque ci sono, le abbiamo davanti agli occhi, ma troppo spesso succede che anche chi crede davvero nel cambiamento quasi quasi perde le speranze nel vedere che dopo tutti gli anni e le parole spesi in favore dell’emancipazione e dell’uguaglianza ci si ritrova ancora in un mondo prevalentemente sessista, dove c’è ancora chi rischia di non potersi pienamente affermare nel lavoro o anche solo come persona, solo perché è nato con i genitali “sbagliati”. La storia del progresso umano è davvero curiosa: siamo riusciti a capire che siamo simili alle scimmie, ma non che tra di noi siamo tutti uguali.

Fonte: Kotaku




E3, Gamescom e Tokyo Game Show verso il declino?

La Gamescom di Colonia si è appena conclusa e ha portato con sé non troppe novità: degne di menzione le nuove schede grafiche della serie RTX di Nvidia, componenti che, una volta sul mercato, faranno davvero la differenza nel campo del PC gaming. Per il resto, tranne pochissime nuove IP, si è parlato di titoli già esistenti o annunciati durante il trimestre estivo o precedente. Similmente accadde lo scorso giugno, quando molti dei giochi che ci si aspettava di vedere per la prima volta all’E3 furono invece annunciati pochi giorni prima della conferenza, tra leak e pubblicazioni volute dagli stessi produttori, rendendo l’esposizione più un momento di conferma che di novità. Dopotutto siamo nell’era dell’Internet 3.0, divulgare informazioni non è mai stato così immediato e semplice e questa non poteva che essere una delle conseguenze dirette,  complice anche il fatto che ormai l’utenza media vuole esige hype costante come fosse una droga, con informazioni sui giochi che fanno leva sull’emotività di ognuno. Viene quindi da pensare che i tre appuntamenti annuali, Gamescom, E3 e Tokyo Game Show, per quanto grandi sia per dimensione che per importanza, potrebbero non essere più abbastanza, considerando anche che sono tutti concentrati nel quadrimestre Giugno-Settembre e, come già ribadito, il pubblico ha sempre bisogno di novità. Per coprire il gap durante il periodo invernale e primaverile, oltre ai leak e qualche “notizia bomba” di tanto in tanto, alcuni colossi dell’industria creano degli eventi specifici per tenere aggiornati i suoi utenti riguardo a cosa è attualmente in produzione e cosa si vorrebbe produrre: si pensi alla PlayStation Experience (che manca da due anni all’appuntamento invernale essendo stata spostata ad agosto) e ai vari Nintendo Direct, che in verità non hanno una cadenza fissa e che anzi, vengono letteralmente annunciati da un giorno all’altro, più volte l’anno. Proprio in favore dei Direct, Nintendo si sta pian piano tirando fuori da queste esposizioni, a partire dalla sua quasi totale assenza al prossimo TGS.

Quest’anno la “trinità” degli eventi di settore sta sicuramente ricoprendo una grandissima importanza a livello mediatico (l’E3 2018 è stata l’edizione più seguita dal 2005), ma con l’andazzo attuale la situazione rimarrà la stessa anche fra tre o cinque anni? O saranno eventi “minori” ma più frequenti come le Games Week o eventi proprietari come Quakecon (Bethesda) e PlayStation Experience a salire alla ribalta? Stiamo entrando in un’era dove lo stesso videogioco, passatempo di nicchia fino a qualche anno fa, sta diventando un media di consumo e di massa, un po’ come i libri e la televisione. Chi dice però che questo vada visto come qualcosa di negativo, quando proprio noi videogiocatori ci lamentiamo del fatto che ciò che ci piace non venga considerato alla stregua di un’opera teatrale o di un film? Per una volta, far diventare qualcosa “di moda” potrebbe rappresentare la scelta giusta.