La prima volta di Yoshida su God of War

L’ultima fatica di Santa Monica Studio non ha certo bisogno di presentazioni: sfondata la soglia delle 5 milioni di unità vendute in un mese, acclamato da critica e pubblico, per molti potrebbe persino essere uno dei giochi migliori di questo decennio; insomma, quei  cinque lunghi anni di sviluppo sono davvero valsi la candela.
Anni che però non sono stati tutti rose e fiori: quando si stava ancora lavorando a una prima versione funzionante, ha raccontato Cory Barlog (creative director del gioco) durante il Devcom di Colonia, il team di sviluppo stava costruendo l’engine e gli strumenti di base, le meccaniche, i livelli, tutto contemporaneamente, e il risultato non stava piacendo né a lui, né a loro. Durante una sessione di testing uno dei partecipanti minacciò persino di abbandonare il progetto, perché a detta sua si stava rovinando il personaggio di Kratos. Una reazione simile, stavolta da parte del pubblico, si ebbe durante l’E3 del 2016, quando quel trailer lasciò dubbiosi molti fan della serie riguardo a cosa l’ormai ex dio della guerra stesse diventando.

Nemmeno il presidente di Sony Interactive Entertainment Worldwide Studios Shuhei Yoshida rimase soddisfatto da ciò che vide, quando per la prima volta provò il gioco. Da quando prese il controller in mano a quando andò via dalla stanza non proferì parola, ma da come scuoteva la testa e alzava le spalle, era evidente che ciò che vedeva non gli stava piacendo. Il suo giudizio fu noto solo qualche giorno dopo, mentre parlava con un amico di Barlog.

«Oh, stai lavorando a God Of War? Devo proprio dirlo, ci ho giocato l’altro giorno. Ero inorridito»

Il tutto accadde a soli sei mesi dal rilascio, e forse fu proprio questa reazione e il relativamente poco tempo rimasto a dare a Cory, e sopratutto al team, la spinta giusta per sistemare tutto quel che non andava bene, come il sistema di combattimento e i problemi di framerate. Yoshida avrebbe provato il gioco una seconda volta, e non potevano permettersi di fallire. Com’è facile immaginare, Santa Monica riuscì nell’impresa, e quando fu il momento per un’altra sessione di prova, la reazione del presidente fu l’esatto opposto di quella precedente. Lo stesso accadde quel 20 aprile 2018, quando il gioco arrivò sugli scaffali, e fu subito un successo clamoroso.
Ma molti sono stati i titoli che inizialmente non hanno riscosso quel successo che oggi pare scontato. Basti pensare a Dark Souls e Demon’s Souls, inizialmente criticati per il particolare sistema di narrazione e per il loro essere “hardcore”, poi diventati tra massimi esponenti del genere. Ma più recentemente un’altra esclusiva Sony è entrata in scena circondata da dubbi: Gran Turismo Sport, la cui mancanza del single player e la tanto discussa fisica su strada fecero storcere il naso a molti giocatori; il tutto si risolse con l’aggiunta della modalità carriera. Fatto quasi analogo fu quello di Street Fighter V, che inizialmente non comprendeva la modalità arcade, aggiunta mesi dopo. In questi ultimi due casi, l’opinione pubblica è cambiata grazie agli aggiornamenti avvenuti dopo il lancio.
A conti fatti dunque, non si dovrebbe giudicare un videogioco appena si hanno le prime informazioni a riguardo o dopo le primissime partite. Tutto parte dalle case produttrici e da determinate scelte che fanno per i loro prodotti, decise in base a cosa si pensa possa piacere ai più, che possono essere azzeccate o sbagliate; sono gli utenti con il loro feedback che lo sanciscono. A seconda della risposta, quella scelta criticata o ben voluta può essere a sua volta migliorata, stravolta o rimossa, finché non si passa al prossimo gioco da produrre: è un loop che sembra infinito, in continua evoluzione.




C’è un luogo e un momento per ogni cosa

Dell’estate 2003 ricordo relativamente poco: una delle stagioni più calde di sempre, La canzone del Capitano di DJ Francesco, i miei primi approcci al calcio, le ginocchia sbucciate, le giornate passate a giocare con quelli che sarebbero stati i miei primi amici; un’estate qualsiasi di una bambina di 5 anni qualsiasi. Ma tra queste ormai polverose memorie c’è un evento a suo modo speciale, che avrebbe segnato la mia vita come pochi altri. I bimbi non sono consapevoli del peso delle loro esperienze, quello c’è tempo per capirlo più avanti. I bambini provano e basta.
In un caldo pomeriggio di luglio trovai un vecchio Game Boy appartenente a mio fratello sul mobile della mia stanzetta, tra le maschere e i costumi da bagno.
Lo notai, lo osservai, lo presi. Era visibilmente vecchio, polveroso, pesante; un pezzo di plastica e di storia tra le mani.
Lo accesi, e per la prima volta vidi quella ormai famosa schermata iniziale che si chiudeva con un effetto sonoro cristallino. Comparvero poi delle scritte, per me ancora incomprensibili, e infine un’insegna luminosa: era appena partito un video, o quello che all’epoca mi pareva tale. Ogni suono era unico, qualcosa di mai sentito prima: c’era un fondale marino, degli esserini che mi ricordavano vagamente delle cozze, poi dei pesci, sulla superficie galleggiava un animale che non riuscivo a riconoscere, transizioni fra le quali si intermezzavano altri esseri, tutti diversi, tutti rigorosamente in bianco e nero. Apparve un drago che sputava fuoco e poi la sagoma di una creatura, più grande e maestosa delle altre, che nuotava velocissima sul fondo dell’oceano. Con gli occhi pieni di stupore e la bocca semi aperta, mentre il mondo stava già esplorando la terza generazione, io avevo appena scoperto l’universo dei mostri tascabili: avevo tra le mani una copia di Pokémon Argento.

Non ricordo perché, probabilmente guidata dall’istinto come è sacrosanto a quell’età, iniziai a premere ripetutamente il tasto A, e mi ritrovai catapultata all’interno della partita. Davanti a me un mondo tutto da scoprire, e così avrei riempito tutti quei caldissimi e noiosi pomeriggi, quando nessuno dei bambini della mia zona era libero per giocare con me. C’era solo un problema: non sapevo leggere. E cosa fa un bambino quando non è capace di fare qualcosa? Chiede a qualcuno più grande di farla al suo posto. Mi precipitai da mio fratello, ai tempi appena dodicenne, gli chiesi di spiegarmi cosa fare.
Non ricordo cosa mi disse, né come finì quella giornata; so solo che da quel momento, nel tempo libero che passavo in casa, magari dopo un pomeriggio in bici o una mattinata passata al mare, che fossi sudata o con i capelli pieni di sale, afferravo il Game Boy e iniziavo a giocare. Muovi il personaggio, incontra avversari, sconfiggili, vai avanti per la tua strada. Qual era il modo migliore per vincere? Non ne avevo idea. Quale posto dovevo raggiungere? Volevo solo camminare e scoprire tutti quei luoghi che il gioco offriva, che aveva in serbo per me. E sapete cosa? Mi divertivo davvero tantissimo. La mia prima, grande iniezione di serotonina videoludica. Era tutto molto bello, e al divertimento si affiancava di pari passo il senso della sfida.
Imparai gradualmente le basi del gioco e capii finalmente il suo vero scopo: dovevo sì scoprire Johto e Kanto, ma per completare il Pokédex: ovviamente dovevo battere gli altri allenatori, ma per il preciso scopo di raccogliere le medaglie e accedere alla Lega per diventare infine Campione. E quando mi decisi ad arrivare sulla cima dell’Altopiano Blu per sconfiggere quelli che erano gli allenatori più forti della regione, e quando buttai giù l’ultimo Dragonite di Lance, sentii addosso tutte quelle emozioni che si provano quando si riesce a fare qualcosa di straordinario dopo essere partiti da zero. Il potenziale emotivo dei videogame si era per la prima volta dispiegato davanti a me, e io lo lasciavo esplodere come fuochi d’artificio nel cielo notturno: era bellissimo e liberatorio.
A quella estate ne seguirono altre, molte portano con sé ricordi legati a vari videogame, e fra questi non mancava mai un gioco della serie Pokémon. Introdussi i miei amici al brand nel 2004, iniziai e completai la mia prima personalissima avventura nel 2005 su Rosso fuoco, subito dopo aver ricevuto un Game Boy Advance SP; nel 2006 feci un piccolo passo indietro recuperando Rubino, dove per ogni leggendario che trovavo dovevo chiamare a raccolta tutti i bambini del quartiere per farmi aiutare, quando eravamo tutti convinti che per catturare un Pokémon fosse necessario premere dei tasti: c’è chi premeva ripetutamente A, chi B, chi si accaniva sulla croce direzionale, chi si lanciava in combinazioni di questi tasti, chi L+R, chi tutto a casaccio. Si provava ogni cosa e si perdevano ore finché quella dannata pokéball non si fosse chiusa.
Ora la saga ha sicuramente preso una piega diversa e c’è chi dice che sia diretta verso un inesorabile declino, e per certi versi sono costretta ad essere d’accordo. Sono piuttosto scettica riguardo i remake di Kanto in arrivo su Switch, ma è sulla prossima generazione che ripongo tutte le mie speranze. Ma poco importa, il meglio è già nella memoria: nessuno mi toglierà mai dal cuore quei giochi che per lungo tempo sono stati i miei migliori compagni d’avventura, soprattutto estivi, che a modo loro mi hanno aiutata a diventare ciò che sono adesso.
Ancora oggi, di tanto in tanto, ascolto la colonna sonora della seconda generazione, e mi piace pensare che quella bimba che giocava con quel vecchio Game Boy americano, con i suoni a 8 bit accompagnati dal rumore delle onde, sia ancora dentro di me, e che non smetta mai di giocare.




Diversità e inclusività: il nuovo corso di EA

La FIFA eWorld Cup 2018 disputata a Londra dall’1 al 4 Agosto si è conclusa con la vittoria del saudita Mosaad ‘Msdossary’ Aldossary su Stefano Pinna. Il più importante torneo di FIFA 18 ha raccolto quest anno più di 20 milioni di partecipanti provenienti da tutto il mondo tra qualificazioni, play-off e finali. EA non può che essere fiera dei numeri ottenuti e, con l’arrivo di FIFA 19 a Settembre, non potrà che fare di meglio: un momento perfetto per cercare di ampliare ancora di più la propria fetta di pubblico, no?

Ed è proprio ciò che pensa  Brent KoningFIFA Competitive Gaming Commissioner, confidando nell’idea del gioco come qualcosa di semplice e accessibile a tutti: dal gamer professionista, all’appassionato di calcio, a chi si sta approcciando per la prima volta a entrambe le cose. Il brand è tra i più conosciuti nel mondo dei videogiochi e questa fama porta la conseguenza di dover mantenere standard abbastanza alti, che sia EA intesa come azienda o come i prodotti che rappresenta, per mantenere gli sponsor e sopratutto il pubblico soddisfatti. E quale modo migliore per farlo, di questi tempi, se non dimostrarsi favorevoli all‘integrazione?  È un percorso che in realtà EA ha iniziato a seguire più o meno dai tempi di FIFA 16, quando aggiunse per la prima volta il calcio femminile; una buona mossa, ma forse non ancora abbastanza: il torneo di quest’anno ha riunito giocatori da ben 60 nazioni, ma ancora nessuna ragazza tra i finalisti. Inutile assumere che le donne non sappiano giocare a livello competitivo, non quando si è ormai creata una, seppur piccola, realtà tutta al femminile all’interno di tornei come quelli di Overwatch, Starcraft II  e Counter Strike: Global Offensive. Anche se negli ultimi anni il calcio femminile è cresciuto sotto tutti i punti di vista, l’idea che una donna possa approcciarsi a uno sport considerato per tradizione maschile, sia reale che digitale, non è ancora ben vista dal pubblico videoludico.
Ma Electronic Arts è stata ed è ben disposta ad accettare giocatori di qualsiasi sesso, etnia ed età, e questo sicuramente fa contenti tutti. Di questi tempi, se un’azienda si mostra favorevole su temi “delicati” come quello dell’integrazione femminile ed etnica, non solo mantiene una buona immagine davanti alle masse, ma attira come una fiamma con le falene tantissimi sostenitori di quella causa, pur non essendo (non tutti almeno) interessati al prodotto, per non parlare di chi vive quelle situazioni sulla propria pelle.  Così facendo il produttore vince, ma anche i potenziali ed effettivi clienti, perfino chi ne sente semplicemente parlare. Un punto anche favore dei videogiochi come media, in un mondo che tende a generalizzare e a vederli come qualcosa di pericoloso e deviante.
FIFA 19 rappresenterà l’occasione buona per vedere un po’ di rosa ai prossimi campionati mondiali? O i tempi devono ancora maturare?

 




Unsighted: un piccolo inno alla diversità

Non è semplice essere uno sviluppatore indipendente, e lo è ancora meno se si è una donna transessuale. Se poi aggiungiamo il vivere in un paese come il Brasile, patria non proprio legata ai videogiochi, diventa tutto ancor più arduo. Questa è in breve la storia di Tiani Pixel, sviluppatrice brasiliana, che insieme a Fernanda Dias e sotto il nome di Studio Pixel Punk è al momento al lavoro sul suo primo gioco: Unsighted, un cyberpunk post-apocalittico – a detta della stessa autrice – fortemente ispirato alle saghe di ZeldaMetroidSouls.
Durante il Brasil’s Independent Games Festival di San Paolo ha avuto modo di mostrare il suo lavoro al pubblico e trattare temi chiaramente a lei vicini, come la rappresentazione dei personaggi LGBTQ nei videogiochi e nella cultura pop in generale (argomento che anche noi abbiamo affrontato qui). Secondo la sua opinione, chiunque inserisca un personaggio del genere all’interno del proprio videogioco dovrebbe anche fare lo sforzo di informarsi il più possibile su tale argomento ed evitare che il risultato non divenga un mero stereotipo, nonostante tutte le buone intenzioni. Bisogna parlare con i diretti interessati, capire cosa fare e sopratutto cosa non fare. L’esempio che è stato preso in causa è quello di Hainly Abrams da Mass Effect: Andromeda: si presenta subito come transessuale e racconta di essere in viaggio per lo spazio solo perché vuole essere accettata. Buone intenzioni, ma non espresse al meglio.

Non solo i trans, ma qualsiasi “tipologia” di persone non dovrebbe essere subito etichettata per evidenziare il loro essere “diverse”, è qualcosa che dovrebbe uscire fuori col tempo e sopratutto non si dovrebbe dare l’impressione che la loro vita giri solo intorno a ciò che sono.
Con Unsighted, Tiani vuole creare un ambiente che possa includere e rappresentare nel modo più naturale possibile, inserendo personaggi considerati fuori dal comune all’interno del mondo dei videogame (a partire dalla protagonista, una donna di colore) e chiunque riesca difficilmente a sentire quella forte connessione a livello personale all’interno di un videogioco, potrà trovarla all’interno del suo titolo.
Questo media sta diventando sempre più importante e determinante anno per anno; in molti dicono che determinati videogiochi sono persino riusciti a segnare e cambiare la loro vita sotto diversi spunti: trovare la forza di andare avanti durante periodi difficili, prendere determinate decisioni, conoscere persone che in futuro diventeranno importanti. È giusto che vengano usati anche per aiutare quelle persone che si sentono diverse e ai margini della società ad accettarsi e sentirsi soddisfatte e fiere di ciò che sono.




Più personaggi queer nei videogiochi

Il tema della comunità LGBTQ e di come questa venga vista, tollerata e più o meno integrata all’interno della società è ormai un argomento portante da anni, e che non cessa di creare fronti opposti in termini d’opinione. Qualunque sia la vostra posizione in merito, il mondo sta di fatto accettando (lentamente, molto lentamente se guardiamo il quadro globale: fino all’anno scorso solo 23 paesi nel mondo accettavano il matrimonio tra persone dello stesso sesso) una realtà che è stata sempre presente ma che solo adesso trova libera espressione. I Gay Pride, come le leggi su unioni civili, adozioni, pari opportunità, matrimonio fanno fronte alle oltre 70 nazioni che ancora considerano l’omosessualità un reato punibile con sanzioni che vanno dalla galera alla pena di morte.
Parallelamente, anche nell’universo dei videogiochi l’omosessualità va trovando espressione come forma di normalità, allontanandosi dallo stereotipo che, nei secoli, ha visto dominare in arti e vari aspetti della creatività soltanto un modello eterosessuale; anche in questo caso il processo non è stato indolore: non si assiste a forte odio o discriminazione, ma ancora un bacio omosessuale come quello visto nell’ultimo trailer di The Last of Us Part II riesce a far discutere la rete. Dopo quasi mezzo secolo di storia del medium, la figura del personaggio queer ha ancora una presenza marginale. I videogame dove è possibile trovare personaggi che si discostino da un modello etero sono davvero pochi se paragonati alla gigantesca mole di titoli disponibili, e questo fornisce il metro di come ancora la cultura popolare affronti in punta di piedi un simile tema.
Nella mia esperienza da giovane videogiocatrice, il mio primo incontro con un character queer è stato circa all’età di cinque anni, quando giocando a Super Mario Advance incontrai Strutzi (Birdo, in originale).

A quell’età non avevo la minima idea di cosa fosse un trans, e quando da più grande scoprii che Strutzi lo era, rimasi piacevolmente colpita di come Nintendo (già alla fine degli anni ’80, in Super Mario Bros. 2, dove se ne registra la prima presenza) avesse integrato un personaggio del genere nei suoi giochi.
Oggi, più informata e consapevole, non posso non fare caso al fatto che moltissimi dei personaggi apertamente gay, lesbiche, bisessuali o trans non vadano incontro a un destino felice. Basti guardare giochi come le saghe di Mass Effect  e Dragon AgeThe Last of Us Life is Strange: nei titoli di Bioware è possibile avere relazioni omosessuali: molti NPC sono apertamente gay, lesbiche, bi o trans, e chi ci ha giocato sa come tanti di questi, o i loro partner, siano destinati a un epilogo tragico. La solfa non cambia con Life is Strange dove il rapporto tra Max e Chloe (o prima ancora Chloe e Rachel) sembra destinato a non essere mai felice. Se le forme creative sono figlie della propria epoca ed espressione del proprio tempo, anche questo sembra essere sintomo della condizione attuale di chi vive l’omosessualità nella nostra epoca, dove l’accettazione è maggiore rispetto ai secoli passati, ma ancora la strada da fare è molta.
I videogame in questo senso mostrano coraggio: sempre a fine anni ’80 in Final Fight viene introdotto il personaggio di Poison, in questi anni saghe come Shin Megami Tensei e Dragon Ageper non parlare di avventure come Fable The Longest Journey. Naughty Dog ha introdotto il tema in maniera forte e senza mezzi termini già in Left Behind, DLC del primo capitolo di The Last of Us dove Ellie vive con naturalezza l’amore verso la sua compagna già alla sua giovanissima età. Nel secondo capitolo la vediamo alle prese con una nuova relazione, e si spera che, nonostante vivano ancora in un mondo dai contorni apocalittici, il loro futuro non sia così nefasto. Naughty Dog ha una grande responsabilità sulle sue spalle.
La comunità dei gamer LGBTQ richiede a gran voce personaggi rappresentativi, magari con finali più felici, con uno spazio che consenta loro le stesse esperienze ed emozioni di un qualsiasi altro videogiocatore.
La strada, tutto sommato, è quella giusta.




Genitori consapevoli per un’esperienza di gioco migliore

Per molti genitori, i videogiochi online, o il videogioco in generale, possono rappresentare un mondo sconosciuto e/o pericoloso per il proprio figlio, che potrebbe addirittura danneggiarlo mentalmente. A volte il gioco è solo una parte di un problema ben più grande, altre volte il problema si trova all’interno del gioco stesso e, quando accade qualcosa di effettivamente spiacevole, non c’è scusa che tenga, la soluzione universale sembra essere quella di allontanare il ragazzo dalla “fonte”, in modo che il fatto non si possa più ripetere e invitare gli altri a fare altrettanto.
Qualcosa di analogo è accaduta recentemente all’interno di Roblox, un multiplayer online creato ad hoc per bambini o ragazzi molto giovani, che conta 64 milioni di giocatori e dove la fantasia degli utenti fa da padrona indiscussa. Il problema arriva quando si fa uso improprio della libertà data per creare situazioni totalmente contrastanti con l’ambiente di gioco, in questo caso un ambiente volto a far socializzare e divertirsi: l’avatar di una bambina di sette anni è stato “stuprato” da altri tre giocatori che avevano creato degli strumenti a forma di pene. Chiaramente la scena non era esplicita, ma sfruttando e usando impropriamente determinate azioni che è possibile fare è stato possibile arrivare a una rappresentazione fortemente allusiva, che ha comunque cambiato in negativo l’esperienza di gioco della vittima. La madre è venuta a conoscenza dell’accaduto e ha raccontato tutto su un post su Facebook, dicendo di essersi sentita traumatizzata e violata, invogliando altri genitori a disinstallare il gioco dai device dei loro figli, per impedire che potesse accadere lo stesso anche a loro. Ovviamente i colpevoli sono stati segnalati agli sviluppatori e bannati in modo permanente.
Per molti la reazione della madre potrà risultare naturale ma, pur risultando comprensibilissima l’istintiva reazione di un genitore, quella di invogliare i giocatori ad abbandonare la piattaforma è la soluzione migliore?

Voler allontanare un pubblico sensibile da ambienti dove avvengono fatti del genere è un atto di difesa istintiva, ma mette in atto un’ulteriore, piccola ingiustizia nei confronti di chi ne ha già subita una. Di certo a subirne le conseguenze dovrebbe essere chi causa il problema, senza negare il divertimento videoludico a chi segue le regole e la netiquette.
Gli sviluppatori di Roblox hanno allora creato una guida per i genitori, in modo che entrambe le parti possano collaborare per dare agli utenti finali, cioè i ragazzi, quello che tutti vogliono: un’esperienza di gioco divertente e priva di pericoli.
Le soluzioni prospettabili sono due: la prima è di difficile attuazione, e consiste nel controllare qualsiasi cosa venga creata dagli utenti e assicurarsi che sia qualcosa di innocente e che non possa essere usata in modo improprio; ma i moderatori non potrebbero mai gestire agevolmente 64 milioni di utenti, né rilevarne violazioni come quella sopra raccontata. La seconda opzione è quella del dialogo, cioè creare un rapporto di collaborazione e sicurezza tra giocatori, genitori e moderatori per allontanare il prima possibile tutti quegli elementi che rovinano l’esperienza di gioco: se il ragazzo trova qualcuno del genere deve parlarne subito con la famiglia o, meglio ancora, direttamente con lo staff del gioco, il tutto in modo genuino e senza vergogna.
La nostra è un’epoca dove questi aspetti sono difficili da gestire, ci si sta affacciando adesso al medium videoludico in maniera più approfondita e non è facile interpretare i problemi e individuare le forme di protezione più efficace. Un’etica del giocatore è ancora in divenire, le regole si costruiscono giorno per giorno, i pericoli non sono pochi, soprattutto per i minori. Ma il gioco ha anche fini formativi, i vantaggi apportati dal videogame sono stati anche studiati dalla scienza: scappare non è la soluzione.
Quindi, cari genitori, se mai dovesse succedere ai vostri figli qualcosa come quanto raccontato sopra, non disinstallate, non sequestrate: informatevi sul da farsi, cercate delle guide, contattate gli sviluppatori e collaborate affinché si possano approntare rimedi e vi sia il minor impatto possibile sulla futura esperienza da giocatori dei vostri ragazzi, che hanno diritto di continuare a vivere esperienze virtuali. Se li indirizzerete anche verso le migliori esperienze videoludiche, se passerete loro un messaggio di equilibrio riguardo quanto e come fruire del mezzo, contribuirete alla loro crescita, e creerete allo stesso tempo un ambiante di gioco migliore per tutti.
Giocare dovrebbe essere anche un momento di edificazione umana, atto a farci dimenticare tutto il male intorno a noi: quel di cui potremmo essere vittime nel mondo virtuale, è grave, ma, sfruttando una safe-zone che è quella davanti al monitor, può insegnarci a essere più guardinghi nella realtà di tutti i giorni. E queste esperienze, questi insegnamenti, sono quelli che più di ogni altra cosa dobbiamo imparare a difendere.




Il pessimismo di Keita Takahashi

Se avete vissuto appieno la sesta e la settima generazione PlayStation (gli anni di PlayStation 2 e 3), quello di Keita Takahashi è un nome che sicuramente non può esservi sfuggito. Un tempo parte di Namco Bandai e ora sviluppatore in proprio, il game designer giapponese ha ottenuto una certa fama grazie ai suoi titoli particolari e fuori dagli schemi per quanto i temi trattati siano semplici e talvolta persino bambineschi: dall’inglobare all’interno di una palla oggetti, persone e continenti per farla diventare talmente grande da diventare una stella nella serie di Katamari all’essere una sorta di verme quadrupede in Noby Noby Boy che deve allungarsi sempre di più per raggiungere, a partire dalla Terra, pianeti sempre più lontani.
Nel 2010 Takahashi ha lasciato Namco a causa della non buona esperienza avuta in azienda e per qualche tempo si è dedicato alla creazione di un parco giochi a Nottingham, progetto che però non è mai stato concluso.

Buona parte delle sue creazioni ha riscosso un buon successo tra il pubblico, e anche il suo ultimo titolo, Wattam, attualmente in cantiere e atteso entro la fine di quest’anno per PS4 e PC, sembra stia già riscontrando un feedback positivo. Questa volta non si dovrà diventare fisicamente grandi o lunghi, ma l’unica cosa che si dovrà ingrandire sarà la nostra cerchia di amici. Sì, l’obbiettivo principale di Wattam è quello di creare legami con ogni sorta di personaggio che si incontrerà durante la nostra avventura.
Come già detto, sono tutti tutti giochi molto vivaci che ispirano felicità e spensieratezza, ma paradossalmente ciò che prova l’autore riguardo la sua carriera è tutt’altro che felice. Nonostante i numeri parlino chiaro, Takahashi non crede che i suoi giochi siano stati dei veri successi, non al pari dei tripla A, e pensa che non sia riuscito a fare davvero la differenza all’interno dell’industry videoludica. Si sente pessimista persino sul titolo a cui sta attualmente lavorando, nonostante voglia veramente andare controcorrente e cambiare la visione standard del videogioco. Proprio come accadde con Katamari e Nobi Nobi, teme che la sua opera non possa piacere proprio per il suo essere diversa dai giochi più amati dal grande pubblico.
È vero che molti dei videogiochi più famosi hanno tante cose in comune che aiutano a renderli, appunto, famosi, ma è anche capitato, sopratutto nel mondo indie, di assistere a dei veri e propri boom di notorietà che hanno portato giochi di generi discostanti da quelli che attirano di più a diventare delle vere e proprie pietre miliari. Sarà la stessa sorte che toccherà a Wattan o avrà ragione il suo creatore?




eSport e Olimpiadi sempre più vicini

Si parla ormai da mesi della possibilità di introdurre gli eSport all’interno dell’evento sportivo più antico e famoso al mondo; c’è chi è contrario perché, così facendo, si andrebbe a “imbrattare” lo spirito delle olimpiadi stesse, chi è favorevole e reputa che i videogiochi competitivi vadano trattati alla stregua delle competizioni sportive, chi pensa che sia tutta una trovata commerciale, chi no, e così via. È sicuramente un tema che ha fatto, fa e farà discutere e potrebbe persino cambiare le sorti di come il videogioco viene considerato dal pensiero comune. Ma mentre se ne continua a parlare,  c’è chi sta facendo effettivamente qualcosa, a partire dall’Olympic Council of Asia che inserirà ufficialmente gli eSport all’interno dei Giochi Asiatici di Hangzhou 2022.

Nel frattempo anche il CIO (Comitato Olimpico Internazionale) sta iniziando a prendere seriamente la cosa, avendo organizzato un meeting con il GAISF (Global Association of International Sports Federations), ma anche giocatori professionisti, sponsor, publisher, organizzatori, media e rappresentanti del Movimento Olimpico, per esplorare le sinergie, costruire dei punti in comune e impostare una piattaforma per la futura unione tra gli eSport, l’industria del gaming e appunto, il Movimento. Il meeting si svolgerà all’interno del Museo Olimpico di Losanna, in Svizzera, il prossimo 21 luglio. Verranno trattati anche delle particolari tematiche, come “Il mondo degli eSport”, “Cosa definisce il Movimento Olimpico?”, “Un giorno nella vita di un giocatore professionista” e “Parità dei sessi in tutti gli sport”.
Qualunque sia l’esito della riunione, che comunque rappresenta un passo molto importante nella storia dei giochi olimpici, gli eSport non potranno sbarcare alle Olimpiadi prima di Parigi 2024 (anche se vederli per la prima volta a Tokyo 2020 sarebbe stato il massimo). Non resta che incrociare le dita.

 




Speciale E3: Annunciato il remake di Resident Evil 2

Parte di questa conferenza è sicuramente all’insegna del gore, e Resident Evil non poteva non mancare. Tra topi, zombie e cadaveri dilaniati, ecco che spunta l’immancabile protagonista: Leon Scott Kennedy. Resident Evil 2 uscirà il 25 gennaio 2019.




Speciale E3: Black Ops III gratis per un tempo limitato

Durante la conferenza Sony, è stato annunciato che a partire da stanotte, Call of Duty Black Ops III  entra a far parte dei titoli gratuiti per i possessori di PlayStation Plus, ma solo per un mese: dall’11 giugno all’11 luglio. Insieme a ciò, sono state annunciate delle nuove mappe, chiamate Back in Black Maps, ottenibili preordinando Black Ops IIII. 

https://youtu.be/RdYCdeu4rII