Oppaidius Summer Trouble! – Un’estate indimenticabile

Circa un anno fa avevamo parlato della demo scaricabile su Steam di Oppaidius Summer Trouble!, una particolarissima visual novel, sia per l’art style che per il suo umorismo molto parodistico, con giusto un pizzico di italianità. Ai tempi non abbiamo potuto fare a meno di lodare il già ottimo lavoro del creatore Vittorio Giorgi che è stato capace di consegnare un prodotto di altissima qualità (seppur in uno stadio ancora incompleto). Da Dicembre, dopo un kickstarter di successo, la full version di Oppaidius Summer Trouble! è arrivata su Steam e finalmente abbiamo avuto modo di conoscere la simpatica (e rotondissima) Serafina, una ragazza che appare al protagonista quasi come un miraggio. Come si snoda la nostra avventura grafica? Beh… Scopriamole… Cioè… Scopriamolo insieme!

L’estate non piace a tutti…

In Oppaidius Summer Trouble!, nonostante saremo in grado di scegliere il nome del nostro personaggio, controlleremo un tipo un po’ asociale, abbastanza nerd, che odia l’estate: non si diverte, la vive male per colpa dell’afa e perciò preferisce rimanere a casa a giocare ai videogiochi (con una console che sembra proprio essere un PC Engine Duo-RX). Un giorno però un’improvvisa visita a casa nostra cambierà la vita del protagonista per sempre: ecco Serafina, la nuova vicina appena trasferitasi in cerca di nuove amicizie e giusto di un po’ di Latte! Il nostro protagonista non potrà fare a meno di notare i suoi due ingombranti seni (e il fatto che chieda proprio il latte!) e comincia a non pensare ad altro, al punto di dubitare della sua esistenza. Lo scopo delle conversazioni e delle scelte da compiere, vero fulcro del genere visual novel, sta nell’ascoltarla, capirla ma anche capire il protagonista, sfruttando questa nuova conoscenza per imparare a crescere e superare i nostri limiti. Oppaidius Summer Trouble! in poche parole racconta una storia ed è una visual novel che poco si presta al carattere del giocatore; il personaggio controllato ha delle caratteristiche ben delineate e per tanto, per quanto ci possa divertire il selezionare le risposte in base a un nostro gusto personale, servono delle “risposte giuste” per ottenere il vero finale. Dopo la prima run (in cui si otterrà sempre il finale A) avremo modo di accedere al gioco+ in cui potremo saltare tutti i dialoghi e arrivare direttamente alla selezione delle risposte. Fra i sogni di Serafina, i save/load state e il gioco + il giocatore ha una vasta gamma di metodi che lo possano portare a ottenere il vero finale della storia e ciò non può che essere un grande punto a favore di ciò che riguarda l’interfaccia utente.

È ovvio che i punti focali di questo titolo sono il comparto testuale e quello grafico: le linee dei dialoghi riescono a farci ridere, soprattutto per le possibilità delle nostre risposte che vanno dal normale, all’assurdo e talvolta al pervertito! Non tutte le risposte incideranno sul finale e perciò, di tanto in tanto, potremo divertirci a dare qualche risposta un po’ fuori luogo. Non mancheranno valanghe di easter egg e riferimenti a videogiochi del passato, un tipico tocco di classe per un gioco che, in un modo o nell’altro, offre anche qualche spunto retrò – prima fra tutte la musica resa con il chip sonoro YM2151, utilizzato nei computer Sharp X68000 e in alcune schede arcade Konami e Sega, ma di questo parleremo più avanti –. Di tanto in tanto il gioco svia dalla classica visual novel e ci saranno momenti in cui ci ritroveremo a fare qualcosa di diverso dal leggere e dare risposte, come fare una nuotata a colpi di tasti “destra” e “sinistra”, controllare un ambiente col mouse come un punta e clicca o… Minigiochi di altro tipo! A volte lo storytelling ci offre una sorta di abbattimento della quarta parete, nulla di incisivo come in Undertale ma comunque il tutto è implementato in maniera molto intelligente per quanto semplice: a volte le risposte in un dialogo saranno un po’ “a senso unico”, qualche altra volta il mouse si sposterà da solo, ma su questo argomento non vogliamo dilungarci molto in quanto in generi come questo è molto facile dare spoiler per sbaglio. Il più grande difetto è la scarsa longevità e non ci vorrà molto dopo il primo finale “trovare” le risposte giuste per ottenere i finali B, C, e BC;
In tutto questo, insieme ai finali della storyline, sbloccherete piano piano le immagini della galleria la cui maggior parte saranno artwork utilizzati per segnalare determinate cutscene (in quanto qui non ci sono vere e proprie animazioni). Fra le immagini ce ne saranno alcune da sbloccare tramite il minigioco Oppaidius Poker dalle fattezze di un gioco per Nintendo Game boy. Ogni finale della visual novel ci darà un credito in più al poker (cinque mani) ma vincere, ovvero arrivare al punteggio preposto da un avversario, è tutt’altro che semplice: si gioca col mazzo intero per due persone (quindi costruire una qualsivoglia scala è sempre un grosso rischio) e le coppie al di fuori dei jack, regina, re e asso saranno utili solo per le doppie coppie. Insomma, le migliori strategie per giocare a poker non risultano sempre le migliori e spesso e volentieri si dovranno adottare strategie ben contrarie al senso comune.

Amore o pulsione?

Lo stile di Vittorio Giorgi, creatore, disegnatore e mente dietro Oppaidius Summer Trouble!, accenna sia gli stili più in voga in Giappone, dunque anime/manga, e probabilmente anche un tocco più occidentale visto che vengono a mancare molte di quelle caratteristiche prettamente nipponiche. La sua determinazione nel portare avanti una visual novel, genere dominato principalmente da developer giapponesi e pensato per un pubblico orientale, è veramente da imitare; il panorama videoludico italiano si apre a quello nipponico e lo fa restituendo un genere molto di nicchia e che in Europa (salvo le eccezioni di Phoenix Wright e pochi altri) è sempre stato poco considerato, soprattutto per il gap culturale. Oppaidius Summer Trouble! ha caratteristiche di humor e contesti prettamente italiani e dunque i giocatori occidentali potranno agire senza “sembrare fuori luogo” nonostante le tematiche romantiche/erotiche. Visto che ne stiamo discutendo, questa visual novel cade nel sub-genere ecchi, fatto per la maggior parte di scene “vedo-non vedo” e nessuna scena di sesso esplicito, ma dobbiamo purtroppo anticipare che ci sono scene di topless, quindi, si, rispettate il PEGI 18 o diventerete ciechi, specie se porterete il boobage level a 100 (esatto, è nelle opzioni), a quel punto vi esploderà il cervello – siete stati avvisati –! Per il resto, la grafica include dei bei background dalle fattezze di un gioco per il PC-98 della NEC o il PC Engine, sempre prodotto dalla medesima leggendaria compagnia giapponese, il tutto composto esattamente come se fosse un bel gioco dei primi anni ’90.
Altro punto da tenere in considerazione, che ci riporta all’epoca d’oro delle visual novel giapponesi, sono i temi che si avvalgono del chip sonoro YM2151, utilizzato nei computer Sharp X68000 e in alcune schede arcade Konami e Sega; i temi sono su uno stile synthpop, a cavallo fra anni ’80 e ’90, che si adatta perfettamente a questo genere in voga in Giappone, cresciuto esponenzialmente grazie soprattutto a computer casalinghi come i già citati PC-98, noto per aver ospitato una miriadi di graphic novel a stampo erotico, o il PC Engine. Tuttavia parlare di erotismo, per quanto giusto, non è tutto, specialmente per il fatto che Oppaidius Summer Trouble! tende a riportare (i giocatori più anzianotti) in estati fatte di divertimento spensierato, nuove scoperte ed esperienze, soprattutto in campo sentimentale e non necessariamente carnale, o per lo meno non nel senso più volgare. A testimonianza di ciò è la lettera che Norihiko Hibino, guest musician che ha lavorato in passato per saghe come Metal Gear, Zone of Enders e Bayonetta, ha voluto dedicare allo sviluppo di Oppaidius Summer Trouble! e allo splendido lavoro fatto da Vittorio Giorgi:

«è bello sapere che molte persone in tutto il mondo continuano ad apprezzare questo tipo di contenuti originariamente creati in Giappone. La canzone che ho composto per Oppaidius Summer Trouble! si intitola “One Summer Memory“, ed è un pezzo che rievoca le belle giornate estive. In Giappone le quattro stagioni sono molto distinte fra loro e il godersi la stagione in corso o ripensare a quelle trascorse è una parte molto importante della nostra cultura. Persino una calma mattinata invernale può richiamare un qualche sentimento nostalgico per le stagioni passate in ognuno di noi. Spero che l’ascolto di questa canzone potrà aiutare le persone ad apprezzare qualsiasi stagione in corso e, in particolare, richiamare una bella giornata estiva. Grazie per l’opportunità di essere parte di questo gioco»

Il grosso della colonna sonora stato composto da Luca della Regina, compositore dello SHMUP italiano in corso di lavorazione Xydonia, mentre i restanti guest musician comprendono Masashi Kageyama (Gimmick!, Sunsoft) e Tsuyoshi Kaneko (Segagaga, Yakuza, Thunder Force IV), entrambi compositori di altissimo rango e apprezzatissimi in tutto il mondo. Inutile dire che il lavoro consegnato è di altissimo livello.

(Da adesso… Solo pensieri innocui… Come due bei cuccioli… Due…)

Tempi migliori

Recensire una visual novel dalle nostre parti è molto difficile, principalmente per il fatto che al di fuori della saga di Ace Attorney e pochi altri giochi, questo genere non ha mai attecchito veramente, ma ciò non toglie che il lavoro compiuto da Vittorio Giorgi, che firma il tutto con il marchio SbargiSoft, è senza dubbio di alta qualità già a primo impatto. Sicuramente potevano essere migliorati molti punti come la longevità, e con esso l’aggiunta di più finali, l’interfaccia grafica del menù iniziale e della galleria e la modalità poker, ma rimane comunque un validissimo acquisto e un ulteriore titolo indipendente italiano che si aggiunge alla sua sempre più vasta scena videoludica nostrana, disponibile al prezzo di 6,99€ su Steam. Chissà se vedremo Oppaidius Summer Trouble! presto su altre piattaforme come Nintendo Switch o Sony PlayStation 4. Se siete interessati alle visual novel di stampo nipponico Oppaidius Summer Trouble! è sicuramente un titolo da non perdere: un’ottima prima opera per Vittorio Giorgi alla quale auguriamo un buon proseguimento di carriera!




Deltarune: uno sviluppo difficile

Proprio il 31 ottobre, il giorno di Halloween, Toby Fox, il padre di Undertale, ha deciso di omaggiare tutti i fan del suo gioco pubblicando una demo completamente gratuita di un progetto a cui sta lavorando, ma ancora non completato: Deltarune.
Deltarune sarà un possibile prequel del famoso Undertale, ma lo sviluppo sta risultando molto più pesante e difficile. Toby Fox, infatti, ha dichiarato che sta lavorando al nuovo titolo, ma per poterlo completare ha bisogno di una vera e propria squadra di sviluppatori, capaci di aiutarlo nei vari compiti. Con Undertale, in parte, è riuscito a fare tutto da solo, ma adesso il lavoro per Deltarune sarà più complicato, visto l’aggiornamento di grafica, stile e meccaniche di combattimento e soprattutto della costruzione degli ambienti all’interno del gioco.
Questa volta Toby Fox non vuole utilizzare Kickstarter per finanziare la sua nuova creazione e, visto che ancora non ha messo su una squadra per l’arduo compito, ha anche dichiarato che non sa quando possa essere completato e quando verrà pubblicato; quindi non ci rimane che attendere altri aggiornamenti sull’avanzamento del lavoro.




Mega Man 11

È possibile tracciare in Mega Man 9 l’inizio dei videogiochi retro-ispirati: sebbene alcuni di questi giochi esistevano già prima su internet sotto forma di hack o giochi flash su siti come Newgrounds, Mega Man 9 aprì le porte alla retro-rivoluzione di cui oggi siamo protagonisti poiché per la prima volta un grosso developer come Capcom dava credito e peso a non solo tutti quei fan che volevano un nuovo classico titolo del blue bomber, che in quel periodo era protagonista solamente di miriadi di sub-saghe e spin-off vari, ma anche l’importanza e la bellezza dei platform più tradizionali, la cui emozione veniva trasmessa anche con una grafica datata come quella del NES. Da lì sembrava che per Mega Man si prospettasse un futuro molto florido, visto il tempestivo decimo capitolo per l’anno successivo, ma nel 2010 accadde qualcosa di terribile: Keiji Inafune, direttore creativo della saga di Mega Man, abbandonò Capcom e col suo forfait la saga subì un brutto stop. Ben tre progetti, Mega Man Universe (un gioco che avrebbe potuto anticipare il sistema di creazione di livelli in Super Mario Maker), Mega Man Legends 3 e Maverick Hunter, vennero cancellati e a quel punto il fandom del robottino blu cadde nell’abisso, quasi certo di non rivederlo più.
A sparigliare le carte ci pensò Keiji Inafune, con il lancio nel 2013 su Kickstarter il del progetto Mighty No. 9, annunciato come il sequel spirituale di Mega Man; nonostante la risposta più che positiva da parte dei fan che finanziarono il progetto nel giro di un paio di minuti, per via della mancata comunicazione e un marketing discutibile (nonché alcuni brutti bug presenti nella release finale) il gioco che doveva riportare ai fan di Mega Man una sfida che fosse pane per i loro denti si rivelò un amaro fallimento e non a tutti piacque quello a cui giocarono. Nel frattempo Capcom, visto il successo del Kickstarter del loro ex impiegato, decise di rilasciare Mega Man Legacy Collection, contenente i primi sei titoli classici, insieme a un sacco di extra, ideali per far conoscere ai giocatori più giovani di cosa è fatta la saga del robottino blu. Due anni dopo, nel 2017 arrivò Mega Man Legacy Collection 2 contenente i restanti quattro titoli della serie classica ma nella sezione extra di Mega Man 8 i fan fanno una misteriosa scoperta: negli artwork trovano un misterioso disegno che non appartiene al suddetto gioco, né a nessun altro Mega Man presente nella collezione, e perciò cominciarono le speculazioni. La risposta arrivò un pomeriggio (in Europa) del Dicembre 2017 quando in una live di Capcom su Twitch, per festeggiare il 30esimo anniversario di Mega Man, venne annunciato a sorpresa Mega Man 11, un gioco atteso per 8 anni e che finalmente, dopo richieste su richieste da parte dei fan, arrivò alla luce (e apparve anche un Mega Man sfoggiare le stesse caratteristiche dell’artwork misterioso, ovvero il power-up di Block Man).
Il passo dalla rivelazione del trailer al rilascio ufficiale non fu breve ma, durante questo lasso di tempo, Capcom si assicurò di aggiornare regolarmente i fan e dunque ottimizzare il gioco il più possibile, consegnando così un opera di classe, senza sbavature e che, soprattutto, apriva la strada al futuro della saga che, oggi più che mai, sembra luminoso e pieno di sorprese. Andiamo subito a vedere la versione per PC di questo gioco, uscito ovviamente per PlayStation 4, Xbox One e Switch.

Due colleghi

La lore della saga risiede nei lavori di Thomas Light e Albert W. Wily, due scienziati appassionati di robotica che crearono una serie di robot, fra cui i sei robot di Mega Man (il primo titolo per NES), creati per assolvere lavori comuni, i due fratelli Rock (il nome giapponese del blue bomber) e Roll, creati come assistenti di laboratorio, e Protoman (ma qui è una storia non rilevante). A un certo punto il Dr. Wily, accecato dalla più brillante abilità del suo amico Thomas Light, corrompe i sei robot da lavoro portandoli ad attaccare gli umani e li convince a dominare il mondo sotto il suo nome. Il Dr. Light convince così Mega Man, il robot originariamente concepito per funzioni diverse, a convertirsi in un robot da combattimento e così nasce il blue bomber che oggi conosciamo e amiamo. Il Dr. Wily più in là, nonostante la prima sconfitta, proverà più e più volte con altri robot a dominare il mondo senza mai ottenere nessun risultato (per ben 10 volte, pensate!).
L’opening di questo nuovo Mega Man 11 ci mostra un flashback di Dr. Light e Dr. Wily, giovani, di fronte a una commissione universitaria; si discute sul double gear system, un meccanismo creato da Wily in stato di prototipo che se installato nei robot da lavoro gli permetterà di lavorare il triplo, aumentando la loro forza fisica e rendendoli più veloci. La commissione boccia l’invenzione del Dr. Wily per mancanza di etica in quanto, se il meccanismo finisse nelle mani sbagliate, potrebbe generare un robot inarrestabile in caso di rivolta; scaraventando il meccanismo per terra, lo sconfitto dottore se ne va ma Dr. Light, che comunque credeva nel suo amico, lo raccoglie pensando che un giorno gli possa tornare utile. Nel tempo presente, nel classico anno 20XX, il Dr. Wily, svegliatosi da un sogno che rimembrava i medesimi eventi, si ricorda del double gear system e così ne implementa uno nuovo ma gli mancano i robot; durante il giorno della manutenzione di alcuni robot master del Dr. Light, ovvero di Block Man, Acid Man, Blast Man, Torch Man, Bounce Man, Impact Man, Fuse Man e Tundra Man, il Dr. Wily irrompe nel laboratorio con il suo iconico Ufo e lì ruba sotto gli occhi di Mega Man, Roll, l’assistente Auto e il buon dottore spiegando nel contempo che utilizzerà la sua invenzione che gli fu scartata dalla commissione. Il Dr. Light informa Mega Man che, così com’è, non potrà fronteggiare i robot master senza il double gear system ma, fortunatamente per lui, il Dr. Light conservò la versione di Wily sin da dai tempi dell’università; una volta installata questa nuova miglioria Mega Man è pronto per buttarsi in una nuova avventura.

Due ingranaggi

Questo nuovo Mega Man 11 si concentra dunque sul sistema double gear, una nuova meccanica che dona a questa saga, onestamente un po’ stagna, una sfumatura diversa dal solito e molto originale: col tasto “RT” (“R“, e “R1” nei joypad, rispettivamente, di PlayStation 4 e Nintendo Switch) si attiverà un ingranaggio che renderà più veloce il blue bomber, rallentando dunque l’azione circostante, l’ideale per assestare colpi di precisione o, se siamo muniti di un pollice veloce, concentrare più colpi in poco tempo; con “LT“, invece, attiveremo un altro ingranaggio che, semplicemente, aumenterà la potenza di Mega Man e, se caricheremo un colpo tenendo premuto il tasto per sparare, lanciare ben due colpi di mega buster potenziato, l’ideale per i nemici particolarmente forti e per quei giocatori che conoscono il tempismo perfetto per caricare l’arma e scaricarla al momento giusto. Quando attiveremo una di queste funzioni si riempirà una barra che, se arriverà alla saturazione, impedirà le funzioni double gear fino a quando questa energia non torna a zero, e ci vorranno circa 15 secondi affinché si possa ripristinare; è perciò tanto importante usare queste nuove funzioni quanto saperle economizzarle il più possibile per poi evitare di non ritrovarsele pronte nel futuro immediato. I veterani dei giochi à la Mega Man potranno trovare nel double gear delle similitudini col sistema di corrente elettrica già visto in Azure Striker Gunvolt, senza però la possibilità di ricaricare immediatamente la barra premendo due volte giù, e anche della velocizzazione del tempo in Sine Mora, particolarissimo shooter della Digital Reality e Grasshopper Manufacture. Infine, questo nuovo sistema ha un ultima e potente funzione ma questa si attiverà esclusivamente quando avremo poca energia: premendo entrambi i tasti insieme, “RT” e “LT“, verranno attivate entrambe le funzioni, dunque rendendo Mega Man super potente e super veloce, ma si disattiveranno solamente alla saturazione della barra alla fine della quale ci ritroveremo con un personaggio altamente depotenziato che non potrà sparare più di un proiettile alla volta e non potrà caricare il suo mega buster e perciò sarà molto difficile sopravvivere in queste condizione (ma se ci riusciremo potremo utilizzare questa particolare funzione una seconda volta). Capite le meccaniche del double gear, grazie a un breve tutorial e molto versatile, ci potremo buttare all’avventura vera e propria, ritrovandoci sin da subito nell’iconica schermata di selezione boss tipica della saga.
Al solito, come in ogni capitolo, scegliere il primo stage da affrontare è un po’ difficile sia perché non conosciamo i pattern di attacco del suo boss e sia, se è per questo, perché non conosciamo il suo livello. Una volta trovato “l’anello debole della catena”, ovvero il boss più debole degli 8, otterremo la sua arma speciale che, a differenza del mega buster, consumerà una barra speciale al termine della quale non funzionerà più; il buon giocatore di Mega Man, una volta ottenuta la prima arma speciale, andrà a caccia del boss la cui debolezza è proprio l’abilità appena ottenuta dal precedente e, uno dopo l’altro, debolezza dopo debolezza, sconfiggeremo tutti gli otto robot master fino ad arrivare, come di consuetudine, alla fortezza del Dr. Wily dove ci saranno gli stage finali, di cui uno dei quali sarà un boss rush (in cui dovremmo affrontare tutti gli otto robot master con le solite due vite standard).
La struttura di questo Mega Man 11 è la più classica che ci si poteva aspettare e il blue bomber, a differenza del nono e decimo capitolo, torna a pieni poteri in quanto negli ultimi due giochi era stato privato del colpo caricato; uno dei primi elementi per cui questo nuovo gioco si proietta in avanti e non indietro. Il level design offre esattamente la sfida per la quale la saga è famosa e i nuovi stage riflettono molto bene la personalità del boss che andremo ad affrontare: il livello di Impact Man, che è una sorta di robot che sostituisce le macchine pesanti dei cantieri, è una sorta di area di lavoro/galleria in costruzione, quello di Torch Man è un campeggio in una foresta tendente spesso a prendere fuoco, quello di Block Man ricorda, a larghe linee, le piramidi egiziane e maya, etc. I programmatori hanno veramente voluto trarre il massimo della sfida offrendo dei livelli notevolmente lunghi e irti di nemici, anche se c’è poca varietà all’interno di essi, ma ci hanno dato il minimo per ciò che riguarda i checkpoint, giusto due intermedi e uno finale che, come tipico della saga, è posto nella stanza che precede quella del boss; Mega Man 11 non è di certo un gioco facile, e certamente questo è uno di quei elementi che ne accentuano la piccante difficoltà, ma non sarebbe stato un male se avessero aggiunto giusto almeno un altro checkpoint a metà dei due. Nella schermata di selezione livello è possibile accedere, premendo “LT“, al negozio in-game dove i nostri alleati, il Dr. Light, Roll e Auto, ci riforniranno di oggetti istantanei, come vite, E-tank, i richiami Beat per non perdere una vita quando cadiamo in un fosso e le super armature, e altri permanenti, come chip speciali, anti-indietreggiamento o che aumentano la possibilità di trovare più viti in un livello (che sono la valuta del gioco). Nessun oggetto nel negozio è superfluo o inutile e danno un potenziamento equilibrato che non permette dunque di rendere il gioco nettamente più facile; tuttavia non tutti gli oggetti saranno disponibili sin dall’inizio e dunque si andranno a sbloccare man mano, però non è chiaro qual è il criterio o l’algoritmo (diciamo) per rendere un oggetto disponibile all’acquisto nel negozio. Anche una volta terminata la nostra avventura alcuni oggetti erano ancora bloccati all’interno del negozio e noi non abbiamo ancora capito il perché. Una volta finita l’avventura, però, è possibile ancora spremere ancora delle sane ore di gioco tramite le sfide extra, come sconfiggere i boss nel minor tempo possibile, le corse negli stage facendo scoppiare, sempre più velocemente possibile, dei palloncini blu e evitando quelli rossi, oppure con la bellissima prova del Dr. Light, ovvero 30 stanze in cui adempiere a un obiettivo come distruggere un determinato numero di nemici o semplicemente arrivare al successivo warp per entrare nella successiva.

Questo titolo fa per me?

Al di là di tutto, Mega Man 11, sia in termini di gameplay che in termini di storyline, è un titolo abbastanza semplice: la sfida proposta è, sì, buona, e sicuramente perfetta per i nuovi arrivati, ma particolarmente facile per i veterani che troveranno il tutto un po’ basilare e per loro, se vogliono trovare pane per i loro denti, non rimarrà altro che riavviare una run a difficoltà supereroe che propone dei nemici che si abbattono con più colpi, dei pattern d’attacco da parte dei boss più complessi e difficili da evitare e nessun modo di ricaricare i punti vita e le armi speciali al di fuori delle taniche speciali. La storia proposta non è affatto complessa e pertanto include giusto i personaggi essenziali della saga, dunque niente Bass, Protoman (anche se nulla toglie che li potremo vedere in futuro come DLC, la stessa cosa che è successa a Mega Man 9 e 10) o sgherro parallelo di Dr. Wily; per quanto riduttivo possa sembrare, in fondo questo titolo vuole anche attrarre nuovi fan e, anche se come per The Legend of Zelda questo non è mai stato il caso di questa saga, in questo modo i fan possono tranquillamente giocare a questo nuovo capitolo senza necessariamente aver giocato ai titoli precedenti. Possiamo dunque dire di Mega Man 11 che è un gioco classico che più classico non si può, ma in senso più che positivo in quanto offre sia una vera e propria evoluzione della saga, e dunque porsi come nuovo caposaldo per i capitoli a venire, che un ottimo biglietto da visita a coloro che non hanno mai giocato a un’avventura del blue bomber; vedete quel Mega Man 11 come un Mega Man 1.1, un nuovo luminoso inizio dalla quale poter partire e portare la saga verso nuovi orizzonti.

Il nuovo contesto di Mega Man

Il richiamo nostalgico è indubbiamente presente in questo titolo ma, fortunatamente, non è il fulcro della costruzione del gioco e pertanto, a differenza del suo ritorno nel 2009, Mega Man 11 offre una bellissima nuova grafica 2.5D; il Blue Bomber, i nemici, le piattaforme e i background sono interamente resi in 3D ma il tutto è inserito in un contesto 2D perfettamente funzionale, funzionante e che offre l’azione tipica di cui la saga è famosa, senza alcuni bug o errori di programmazione di alcun tipo. Lo stile dei personaggi e dei nemici è esattamente quello proposto nella serie classica (che differenzia, dunque, da sub-saghe come Mega Man X o Battle Network), dunque con colori molto accesi, nemici robot stravaganti e una “leggerezza” generale. Sfortunatamente per noi, abbiamo ricevuto una chiave per PC scoprendo in corso d’opera che Mega Man 11 richiede, come spesso accade per molti videogiochi per PC provenienti dal sol levante, degli ottimi requisiti minimi. Nonostante siamo riusciti a soddisfarli, il gioco girava molto lentamente e le opzioni per ridurre la qualità della grafica e ottimizzazione del gameplay nel menù opzioni sono veramente pochissime: risoluzione, modalità (di visualizzazione), anti-aliasing e v-sync. Inutile a dirlo, non bastano per ottimizzare il gioco in un pc poco potente e, nonostante lo abbiamo giocato con un i5 e una scheda Radeon AMD, siamo stati costretti a togliere l’anti-aliasing e il v-sync, ridurre la risoluzione a dei meri 800×600 e visualizzare il tutto in modalità windowed per recuperare più dettagli possibili e un framerate più vicino possibile ai 60FPS, il che è tutto abbastanza assurdo visto che stiamo parlando di un gioco la cui grafica girerebbe perfettamente persino in una console di precedente generazione, Wii U o PS Vita; nonostante tutte queste nostre limitazioni, il gioco non andava alla velocità massima (anche se era molto vicino) e ciò lo si poteva evincere nella schermata della selezione dello stage, durante l’animazione della selezione in cui la musica andava avanti rispetto alle animazioni del boss, dunque anticipando effetti sonori inclusi nella traccia audio e entrare in un imbarazzante silenzio prima del tempo; abbiamo avuto modo di mettere a paragone questa schermata con quella del Nintendo Switch, grazie alla demo gratuita sull’E-shop, confermando tutte le nostre preoccupazioni. Se vi considerate dei pc gamer, e pertanto avete un’ottima postazione, allora Mega Man 11 girerà senza problemi ma se non avete un computer potente e, possibilmente, vi ritrovate una delle tre console principali a casa allora vi converrà considerare questo acquisto al di fuori di Steam.
La musica, composta da Marika Suzuki, ricalca lo stile compositivo tipico della serie classica, una sorta di musica elettronica, vicina al J-pop, ma con sfumature anche dance e a tratti anche rock. Al di là dell’alta qualità delle composizione, anche qui non c’è alcun passo indietro e si è optato dunque per uno stile moderno e fresco, con sintetizzatori e drum machine d’avanguardia, senza alcun richiamo nostalgico chiptune con chip sonori del Nintendo Entertainment System o altre retro-console (l’unica cosa presa direttamente dai vecchi giochi è il rumore della navicella del Dr. Wily); da sottolineare, appunto, è l’assenza di temi classici, ancora una volta sottolineando l’importanza di portare questa serie verso nuovi orizzonti e lasciare che il passato diventi semplicemente parte di una nuova forma espressiva. L’unico difetto di queste nuove composizioni è che sono giusto un po’ blande e i temi portanti delle melodie sono un po’ deboli; diciamo che non c’è quel motivetto che ti resta in testa una volta che smetti di giocare. Le voci inglesi e giapponesi, selezionabili nel menù opzioni (ma solo alla schermata del titolo), sono ben curate anche se l’unico lato negativo è il pacing dei dialoghi doppiati; sebbene le scenette rappresentino un ottimo intermezzo, sviluppate correttamente e sempre sottotitolate in italiano (come tutto il gioco del resto), i dialoghi si fermano ogni due righe, fortunatamente completando un periodo, e nonostante la buona qualità dei dialoghi sembrano comunque un po’ finti. Per il resto la voce in-game di Mega Man, quando annuncia l’attivazione di uno dei due meccanismi del double gear o quando cade in un fosso, è niente male anche se verso la fine del gioco ne avrete le orecchie piene; variare la lingua di tanto in tanto può alleviare questi fastidi.

Il pezzo mancante

Prima di chiudere questa discussione vorremo solo parlare di un ultimissimo punto: non abbiamo fatto altro che elogiare questo nuovo capitolo della saga e Mighty No. 9, a paragone, non regge il confronto in quanto a classe e qualità del prodotto consegnato. L’unica cosa che manca realmente a questo capitolo è appunto la mano di Keiji Inafune, il suo level design e le sfide proposte che solo lui sapeva consegnare, cosa che invece è riuscita alla sua creazione inpendente, secondo noi. Per quanto è stata introdotta una nuova bella meccanica bisogna dire che è anche abbastanza scontata, un gol a colpo sicuro, e dunque manca quel po’ di azzardo tipico di Inafune. La storia in fondo, e anche il finale, si concentra sulla separazione fra il Dr. Light e il Dr. Wily, magari simboleggiando proprio la dipartita di Inafune e dunque, forse, questo titolo potrebbe rappresentare un invito da parte di Capcom a tornare a bordo e dare a Mega Man infinite possibilità nel futuro prossimo, sottolineando il fatto che la compagnia e il suo ex dipendente e persino i due universi fittizi hanno entrambi lo stesso obiettivo. Chissà quali saranno i risvolti futuri fra Keiji Inafune e Capcom ma intanto non possiamo fare altro che goderci questo nuovo Mega Man 11 e sperare che il prossimo anno vedremo un Mega Man 12 o, visto il recente rilascio di Mega Man X Legacy Collection 1 & 2, magari un nuovo Mega Man X9… stiamo delirando, è vero, ma siamo semplicemente troppo contenti della riuscita di questo titolo!
Vi raccomandiamo particolarmente questo nuovo titolo Capcom in quanto propone un gameplay vecchio stile con elementi e grafica moderni, una sfida nuova per i più giovani e un capitolo essenziale per i veterani. Solamente, considerate bene i requisiti del vostro PC prima di spendere questi 29,99€ su Steam per Mega Man 11, altrimenti se avete Nintendo Switch, PlayStation 4 o Xbox One acquistatelo lì. Senza dubbio, uno dei giochi più belli di questo 2018!




Four Last Things

Prima di procedere alla lettura, si consiglia la colonna sonora che segue, partendo dal minuto 4:29:

Il videogame, orgoglioso simbolo di modernità, l’epoca del 4K, il raytracing di NVidia, la tendenza al fotorealismo, l’evoluzione dell’intelligenza artificiale. In Detroit: Become Human David Cage ci racconta di un 2038 in cui gli androidi acquisiscono coscienza comparabile a quella umana, Ken Levine con Bioshock ci porta in quell’Atlantide evoluta che è Rapture, dalle immagini di Cyberpunk 2077 si intravede una fine del secolo per niente rassicurante, ma avanzata sul piano tecnico: se il futuro è un paradiso di avanzamento scientifico, i videogiochi sono oggi il medium deputato a diffonderne verbo, e i developer e i game designer ne sono i cantori.
Quanto sembrerebbe anacronistico se qualcuno prendesse il Rinascimento e lo sbattesse dentro un videogame? Non intendo una riproduzione di quell’epoca, non parlo di ridisegnare per mano di mirabili e raffinati artist scenari e situazioni dell’era post-medievale, magari in versione parodistica, o al contrario cercando il realismo, o ancor di più proponendone una rappresentazione artistica personale. No, dico proprio: cosa succederebbe se un game designer pensasse di prendere dei capolavori dell’arte rinascimentale, di usarne i personaggi, gli elementi, i background, di animarli sulla scena mettendo in sottofondo le musiche del tempo, spaziando dall’opera lirica alle composizioni classiche e di farne un videogame? Pensereste che è un pazzo? Un genio? Un visionario? Un truffatore? Un profittatore, che si avvantaggia furbamente del fatto che opere vecchie di 400-500 anni non siano protette da copyright per utilizzarle a proprio piacimento?
Forse quest’ultima considerazione potrebbe essere in parte vera, ma da sola non renderebbe giustizia al lavoro dietro Four Last Things, singolare punta e clicca creato dallo scozzese Joe Richardson prendendo a piene mani il cuore del Rinascimento e intessendolo sapientemente nella tela di un software.

Di poema dignissima e d’istoria

Il concetto di “peccato” è per secoli gravato pesantissimo sugli esseri umani d’Occidente. Il Rinascimento è stato un momento chiave quando fra protestantesimo, rivoluzione copernicana, luteranesimo e rivelazioni galileane il granitico dogmatismo della fede ha cominciato a scricchiolare sotto i primi colpi dell’analisi scientifica.
La Chiesa era ancora un’istituzione forte, ma il potere spirituale cominciava a frammentarsi: in una visione parodistica, anche la giurisdizione delle anime cambia di parrocchia in parrocchia, e questo è il giusto movente per dare inizio alla bislacca storia di Four Last Things, nella quale ci ritroveremo a dover guidare il nostro personaggio attraverso i sette peccati capitali al solo scopo di ottenere la successiva redenzione. Un cortocircuito paradossale, eh? In realtà la bizzarra narrazione di Richardson ha una sua coerenza: dopo un incipit onirico nel Giardino dell’Eden, vestendo i panni di un Adamo diviso tra il giudizio severo di Dio e la tentazione di Eva, il protagonista si sveglia trafelato e in preda al panico. Roso dai sensi di colpa per i peccati commessi, corre fino alla chiesa più vicina per essere assolto ma la confessione non può essere accettata: gli atti peccaminosi sono stati commessi a Norimberga, Lubecca e Oslo, luoghi fuori dalla giurisdizione di quell’episcopato. Gli alti prelati alla porta indicano però una scappatoia: commettere nuovamente ogni peccato capitale in quel territorio permetterà al nostro di confessarsi e di poter essere perdonato retroattivamente anche per le colpe precedenti. Inizia così, con tanto di “Happy sinning”, il nostro viaggio attraverso il peccato in un’avventura unica nel suo genere: la scrittura è semplice ma ritmata, l’autore gioca in parte con un linguaggio aulico d’altri tempi ma mantiene globalmente uno stile prono, accessibile a chiunque abbia una discreta conoscenza della lingua inglese, unica opzione possibile dato che il titolo non gode di altre localizzazioni. La scrittura non sottovaluta i riferimenti all’epoca e ai suoi costumi, storpiandoli in chiave parodistica e deformandoli sotto la lente del grottesco: la scuola umoristica LucasArts emerge netta, soprattutto nei tempi scanditi in dialoghi e battute, ma anche l’influenza dei lavori dei Monty Python permea un lavoro che, pur non spiccando per originalità autoriale e brillantezza nella scrittura, riesce pienamente nell’intento mimetico, non risolvendosi in pedissequa ripetizione dei modelli di riferimento e mutuandone intelligentemente gli stilemi. È facile pensare alla Nazareth di Life of Brian mentre si cammina per una cittadina rinascimentale deformata, caotica e soprattutto popolata da personaggi bizzarri, che danno vita a dialoghi assurdi e divertenti.

Spargendo gran bellezza ardente foco

«Colui che ’l tutto fe’, fece ogni parte
e poi del tutto la più bella scelse,
per mostrar quivi le suo cose eccelse,
com’ha fatto or colla sua divin’arte.»
(Michelangelo, Rime)

Del resto, già dal punto di vista non solo umoristico, ma soprattutto visivo, è impossibile non pensare subito al gruppo comico inglese: chi abbia visto capolavori come The Meaning of Life o …And now for something completely different avrà riconosciuto i tratti di certi sketch giocati sull’assurdo, ma soprattutto il metodo d’animazione dei dipinti con cui Terry Gilliam ha fatto scuola, e che fu utilizzato per sigle e intermezzi dai Monty Python.
Ecco, i dipinti: tutto il lavoro, dicevamo, è basato su opere artistiche dell’epoca. Four Last Things è il risultato di cut-up, collage e successiva animazione di grandi quadri rinascimentali. Fra i due Pieter Bruegel (Vecchio e Giovane), Van Dyck, Van Eyck , Cranach, il Rinascimento pittorico nordeuropeo trova largo spazio, con Hieronymus Bosch a farla da padrone: apertura e chiusura hanno per scenario parti del Trittico delle Delizie, ma le opere del pittore fiammingo sono numerosissime, dalla Nave dei Folli al Concerto nell’uovo sino al Figliol Prodigo, dal quale Richardson ha addirittura preso in prestito il corpo per il protagonista, mettendogli su il volto del mercante Mathias Mulich, dipinto da Jacob van Utrecht. L’opera del visionario pittore olandese è certamente la colonna portante del gioco, e non solo sul piano visivo: lo stesso titolo, Four Last Things, fa riferimento ai Novissimi, le ultime quattro cose a cui l’uomo va incontro al termine della vita: morte, giudizio, inferno e paradiso. I Novissimi sono rappresentati nei quattro medaglioni che si trovano agli angoli dell’olio su tavola Sette Peccati Capitali dipinto dallo stesso Bosch, conservato al Prado di Madrid e qui utilizzato da Richardson per celebrare il completamento di ogni task: a ogni peccato compiuto segue un “giro di ruota”, la quale altro non è che la figura circolare al centro del dipinto dove sono raffigurati i peccati capitali. È una delle chicche di Four Last Things, che è un tripudio d’arte del XV-XVI secolo, insomma: alcuni scenari sono composti da spezzoni di opere messi assieme a formare un unico quadro, altri sono dipinti (o parti di essi) parzialmente editati, altri ancora sono frutto del lavoro di collage che dicevamo prima. Il risultato è visivamente eccellente, e non è affatto facile da ottenere, non basta avere delle opere d’arte straordinarie e bellissime per ottenere automaticamente la bellezza su schermo: il lavoro difficile sta nell’armonizzarle e far sì che l’insieme abbia un suo equilibrio. Del resto, il gioco è programmato con Visionaire Studio 4, un software acquistabile a circa 50 €, che non poteva fare particolari miracoli senza un buon utilizzo alla base.
Richardson è riuscito benissimo nell’intento di creare un punta e clicca rinascimentale sardonico e visivamente godibile, e lo ha fatto non utilizzando neanche tutto il meglio di quell’epoca storica: molti sanno che la culla del Rinascimento è l’Italia, in rappresentanza della quale non si trova alcun artista blasonato nel gioco, che annovera soltanto Francesco Melzi e Vittore Carpaccio, fra gli artisti del Belpaese.
Più spazio lo trovano i musicisti italiano, dove figurano Giovanni Cavaccio, Giovanni Palestrina e Claudio Monteverdi (trovate a inizio pagina la sua bellissima Tirsi e Clori,) e dove Richardson si è preso qualche libertà in più riguardo l’epoca, inserendo anche Vivaldi e Toscanini, musicisti che arriveranno qualche secolo dopo, ma le scelte in termini di colonna sonora risultano congrue, danno forza alle scene e contribuiscono alla creazione del contesto. E poi, diciamola tutta, potremmo mai rimproverare qualcuno per aver inserito la Gymnopédie no. 1 di Erik Satie, anche se risulta una scelta diacronica?
Il risultato audiovisivo è nel suo insieme meraviglioso.

S’ei piace, ei lice

Ideato nel 2016 durante l’Adventure Jam di GameJolt, e rilasciato nel febbraio 2018 su SteamFour Last Things è un punta e clicca unico e ben congegnato. Nelle sue tre ore scarse di gioco non consta di enigmi particolarmente intricati, ma su un paio bisogna riconoscere una certa elaborazione a Richardson, che avrebbe voluto inserire di più nel gioco, dalla possibilità di inserire una modalità “art view”, grazie alla quale visualizzare i quadri originali, a un doppiaggio che sarebbe stato troppo oneroso per i 4178 £ (circa 4660 €) raccolti su Kickstarter. Il risultato in relazione alle risorse è ammirevole, probabilmente qualche professionalità ad affiancarlo avrebbe aiutato nel perfezionare un quest design non particolarmente intricato e avrebbe evitato qualche fastidioso bug (ogni tanto il personaggio comincia a vagare per lo schermo in maniera incontrollata, sfuggendo a ogni motion pattern predefinito e creando problemi che a volte hanno come unica soluzione il riavvio del gioco, con il rischio di perdere qualche azione, dovendo tornare all’ultimo autosave) ma, considerando che si tratta di un lavoro svolto in larga parte da unico soggetto, Four Last Things è un piccolo miracolo, pur non raggiungendo l’eccellenza. Una scrittura intelligente, un umorismo sospeso tra i Monty Python e i toni di The Secret of Monkey Island (con tanto di esplicito omaggio alla scimmia a tre teste), un’armonia visiva e sonora non comuni ne fanno un’avventura bella e piacevole da giocare e ci costringono a puntare gli occhi sul seguito, un The Procession to Calvary che per qualche giorno è ancora possibile finanziare su Kickstarter che si concentrerà molto di più sull’arte rinascimentale italiana, e che lo stesso Joe Richardson descrive come «if Monkey Island 2 had been made in 17th century Florence by a time travelling Terry Gilliam wannabe».
Non vi sembra ci siano già le premesse migliori?




Binding of Isaac: il gioco di carte supera le aspettative su Kickstarter

Il gioco di carte creato da Edmund McMillen, basato su The Binding of Isaac ha recentemente completato la sua campagna Kickstarter raccogliendo oltre 2 milioni di dollari.
La raccolta, terminata la scorsa notte, ha fruttato un totale di 2.650.780 milioni di dollari grazie a ben 38.334 sostenitori. L’obiettivo iniziale del progetto era di raggiungere i 50.000 $, target raggiunto in 75 minuti: risultato finale stato maggiore del 5.201% rispetto all’obiettivo iniziale.
Al termine della raccolta, McMillen ha festeggiato tramite Twitter e ha ringraziato vari sostenitori che hanno donato somme ingenti.JTNDYmxvY2txdW90ZSUyMGNsYXNzJTNEJTIydHdpdHRlci10d2VldCUyMiUyMGRhdGEtbGFuZyUzRCUyMml0JTIyJTNFJTNDcCUyMGxhbmclM0QlMjJlbiUyMiUyMGRpciUzRCUyMmx0ciUyMiUzRUhVR0UlMjB0aGFua3MlMjB0byUyMCUzQ2ElMjBocmVmJTNEJTIyaHR0cHMlM0ElMkYlMkZ0d2l0dGVyLmNvbSUyRkphdm9uRnJhemllciUzRnJlZl9zcmMlM0R0d3NyYyUyNTVFdGZ3JTIyJTNFJTQwSmF2b25GcmF6aWVyJTNDJTJGYSUzRSUyMGFuZCUyMCUzQ2ElMjBocmVmJTNEJTIyaHR0cHMlM0ElMkYlMkZ0d2l0dGVyLmNvbSUyRmdhcmltYXNoYXJtYSUzRnJlZl9zcmMlM0R0d3NyYyUyNTVFdGZ3JTIyJTNFJTQwZ2FyaW1hc2hhcm1hJTNDJTJGYSUzRSUyMGZvciUyMGtpbGxpbmclMjB0aGVtc2VsdmVzJTIwdG8lMjBtYWtlJTIwYWxsJTIwdGhpcyUyMGhhcHBlbiUyMGFuZCUyMHRvJTIwJTNDYSUyMGhyZWYlM0QlMjJodHRwcyUzQSUyRiUyRnR3aXR0ZXIuY29tJTJGZm91cnplcm90d28lM0ZyZWZfc3JjJTNEdHdzcmMlMjU1RXRmdyUyMiUzRSU0MGZvdXJ6ZXJvdHdvJTNDJTJGYSUzRSUyMGZvciUyMGNvbm5lY3RpbmclMjB1cyUyMHRvZ2V0aGVyJTIwYW5kJTIwc3VwcG9ydGluZyUyMHRoZSUyMGNhdXNlLiUyMHRoaXMlMjB3b3VsZG50JTIwaGF2ZSUyMGhhcHBlbmVkJTIwd2l0aG91dCUyMHlvdSUyMGd1eXMuJTNDJTJGcCUzRSUyNm1kYXNoJTNCJTIwRWRtdW5kJTIwTWNNaWxsZW4lMjAlMjglNDBlZG11bmRtY21pbGxlbiUyOSUyMCUzQ2ElMjBocmVmJTNEJTIyaHR0cHMlM0ElMkYlMkZ0d2l0dGVyLmNvbSUyRmVkbXVuZG1jbWlsbGVuJTJGc3RhdHVzJTJGMTAyMjc0NTAzMzkxMTQxNDc4NSUzRnJlZl9zcmMlM0R0d3NyYyUyNTVFdGZ3JTIyJTNFMjclMjBsdWdsaW8lMjAyMDE4JTNDJTJGYSUzRSUzQyUyRmJsb2NrcXVvdGUlM0UlMEElM0NzY3JpcHQlMjBhc3luYyUyMHNyYyUzRCUyMmh0dHBzJTNBJTJGJTJGcGxhdGZvcm0udHdpdHRlci5jb20lMkZ3aWRnZXRzLmpzJTIyJTIwY2hhcnNldCUzRCUyMnV0Zi04JTIyJTNFJTNDJTJGc2NyaXB0JTNFJTBB

Ha anche ringraziato i vari artisti che hanno contribuito alla realizzazione delle card art e anche la moglie Danielle per il suo sostegno.

«Un enorme grazie a tutti voi ragazzi là fuori che avete sostenuto e/o partecipato. Non mi sentivo così bene da secoli»

McMillen punta a consegnare The Binding of Isaac: Four Souls ai sostenitori entro novembre 2018, sette anni dopo il lancio del gioco indie originale.




L’importanza di Steam Spy e dei suoi numeri

Steam Spy è un servizio ideato da Sergey Galyonkin, Director of Publishing Strategy (DPS) di Epic Games, che ha voluto raccogliere e rendere pubblici tutti i possibili dati delle vendite di Steam che possano servire ad aziende e a privati. Ovviamente, non essendo un servizio proprietario di Valve, i dati che forniva Steam Spy non erano precisi, ma si avvicinavano moltissimo alla realtà. Con i suoi dati e i suoi numeri (circa 50 mila persone ogni giorno visitano il sito) Steam Spy ha rappresentato, dal 2015 a poco tempo fa, un punto di riferimento sia per gli utenti sia per molte software house indie, aiutandole a scegliere con precisione le mosse da compiere nel mercato mondiale.
Purtroppo ad aprile di quest’anno, Valve, per ostacolare questo servizio, ha cambiato la policy della privacy della sua piattaforma, stroncando quasi del tutto il lavoro di Steam Spy. Questo aggiornamento ha reso tutte le librerie degli utenti private di default, rendendo molto più difficile e molto meno preciso l’algoritmo di Galyonkin.
La mossa di Valve però, non ha colpito solamente Galyonkin, ma ha intaccato il lavoro di migliaia di giovani software house che basavano il loro lavoro sui dati forniti dalla stessa piattaforma.
Galyonkin ha creato Steam Spy proprio per questo tipo di utenti, per aiutare quelle software house che non hanno molte risorse e che non possono andare a richiedere questi dati a pagamento. Nel 2012 una situazione molto simile ha visto protagonista Lars Doucet che ha vissuto in prima persona quello che sta passando Galyonkin in questo periodo. Doucet, nel 2012, quando ancora Steam Spy non esisteva, aveva condiviso sul proprio blog una serie di dati del suo ultimo gioco. Lo scopo di Doucet era quello di mostrare i passi avanti che Defender’s Quest aveva fatto e non si immaginava che poco dopo avrebbe ricevuto centinaia di ringraziamenti da parte di piccole software house che hanno utilizzato i dati forniti dallo sviluppatore come punto di riferimento. Purtroppo, come è successo a Galyonkin, Valve ha deciso di cambiare i termini di servizio per gli sviluppatori, vietando la pubblicazione e la condivisione di dati inerenti alle vendite dei propri giochi su Steam.

Un altro esempio può essere quello di Octosoft, che dopo aver concluso un primo Kickstarter per lo sviluppo di Renaine, ha quasi rischiato di fallire, ma grazie a Steam Spy è riuscito a dimostrare che il progetto era promettente e che avrebbe venduto bene, ottenendo dei fondi che hanno permesso di assumere più membri nel team di sviluppo e di aumentare la qualità del prodotto finale.
Molte altre software house hanno sfruttato i dati offerti gratuitamente da Steam Spy per crescere o per poter ricevere delle donazioni o dei fondi da privati e aziende.
Alcune si sono servite dei dati per spiegare in maniera semplice, ma dettagliata il pubblico e l’ipotetico guadagno di un determinato videogioco. Questo è il caso di Samuel Cohen di Altered Matter, che ha dovuto presentare il suo progetto a un comitato che non aveva dimestichezza con i dati del mercato videoludico, ma con l’aiuto di Steam Spy è riuscito a mostrare le potenzialità del gioco e quindi ricevere i finanziamenti che hanno portato alla conclusione dello sviluppo di Etherborn.
La scelta di Valve non solo ha colpito Galyonkin e il suo lavoro, ma ha anche privato moltissimi sviluppatori di dati essenziali per la loro crescita e soprattutto per il loro futuro.
Galyonkin è fiducioso sul futuro di Steam Spy e spera di ricevere direttamente da Valve il via libera per utilizzare tutti i dati relativi alla vendite per metterli a disposizione delle aziende e delle piccole software house che ne hanno bisogno.
Ma probabilmente Valve sta già pensando di creare una propria piattaforma che possa fare lo stesso lavoro, ma in maniera più completa e approfondita.




Agony – Pacatamente, come non piace a noi

Quando fu annunciato tramite Kickstarter nel 2016, Agony riscosse un certo interesse tra il pubblico, per via della sua visione molto cruda dell’Inferno e soprattutto, di una direzione che mal si sposava con organi di controllo come l’ESRB (Entertainment Software Rating Board). Infatti, Agony, sin dalle prime battute, era così al di là di ogni titolo horror visto finora che l’organo lo valutò come titolo “per soli adulti”. Una classificazione che al team di sviluppo polacco Madmind Studio non è andata giù, al punto da indurli a cercare in tutti i modi di ottenere una categoria PEGI che non fosse rossa. Una volta ottenuta, le cose non sono comunque andate per il verso giusto: Agony è gradualmente divenuto un titolo potenzialmente castrato sotto quasi tutti i punti di vista e alla sua release definitiva fu valutato con diverse insufficienze. Noi di GameCompass ci siamo presi il nostro tempo, attendendo alcune patch riparatorie e giocato con attenzione questo titolo che però – come vedremo – non merita il paradiso ma nemmeno l’inferno nella misura in cui vi è stato scagliato da molte testate.

Attento a cosa chiedi quando preghi…

Riassumere gli eventi di Agony non è operazione semplice: impersoniamo Amraphel/Nimrod (il protagonista viene chiamato in entrambi i modi, ma il perché non è del tutto chiaro), un’anima dannata, arrivata all’inferno dopo una morte probabilmente violenta. Il suo desiderio è quello di tornare in vita, ma solo la Dea Rossa è in grado di esaudire la sua ambizione. La sua ricerca coincide con il nostro obiettivo, anche se non tutto andrà nel verso giusto. E non ci riferiamo soltanto alla storyline del protagonista, ma anche al gioco nel suo insieme. Tutto è riassumibile con la parola “confusione” e lo svolgimento della trama ne è un chiaro esempio.
Il nostro peregrinare tra le lande degli Inferi sembra non portare da nessuna parte, ogni avvenimento risulta abbastanza slegato da quanto accaduto precedentemente. Ogni nostra azione ha delle conseguenze, ma di questo ce ne accorgeremo una volta scoperto che Agony propone ben sette finali diversi, molto “criptici” e di cui probabilmente uno soltanto – almeno secondo il ragionamento di chi scrive – comunica realmente qualcosa. La “questione delle scelte” è uno dei tanti problemi di game design del titolo e, per far capire meglio di cosa stiamo parlando, è bene procedere con metodo comparativo: prendiamo Prey di Arkane Studios, che ha tra l’altro ricevuto un recente aggiornamento; all’interno del titolo possiamo compiere diverse scelte, alcune di queste “invisibili”. Per intenderci, se in Mass Effect la scelta da intraprendere ci viene letteralmente sbattuta in faccia, in Prey tutto è molto più velato e dipendente davvero dal nostro tipo di gameplay. E in Agony? Nel titolo Madmind risultano invisibili nel vero senso della parola, soprattutto perché si ha sempre la sensazione di non possedere alcun libero arbitrio. Non è chiaro cosa influisca e cosa no, e se da un certo punto di vista può sembrare un’ottima cosa – quasi un espediente meta-ludico – la realtà dei fatti è che questo aspetto non è stato progettato nel migliore dei modi, con il risultato che la confusione regna sovrana. Non bastano nemmeno le tante note sparse qua e là, le quali aggiungono informazioni che si fatica a mettere assieme, finendo facilmente nel dimenticatoio, così come tutte quelle citazioni bibliche volte a crear atmosfera, ma che rimangono tristemente fine a se stesse.
L’offerta ludica di Agony si amplia con altre due modalità: Agonia ci porterà ad affrontare il titolo attraverso ambienti generati proceduralmente, mentre la più interessante modalità Succube ci consentirà di impersonare un demone, portando il giocatore a scoprire nuovi percorsi e nuovi modi di affrontare il gioco. Questa modalità secondaria – a conti fatti – è forse quella più gradevole tra quelle offerte dal titolo.

…potresti ottenerlo

Tutta la struttura ludica di Agony si basa sullo stealth. Come survival horror il gioco riprende i canoni classici che ultimamente siamo abituati a vedere nel genere in termini di gameplay: fare poco rumore, nascondersi ove necessario e scampare dalle grinfie di creature di qualsivoglia natura, in questo caso demoni. Il problema però è che alcune meccaniche inserite non funzionano a dovere, rovinando per la maggior parte l’esperienza. La morte – come ci viene detto – fa parte del gioco e, al suo sopravvenire, abbiamo la possibilità di far migrare la nostra anima verso un ignaro malcapitato e prenderne possesso. Se questa meccanica a prima vista sembra interessante, richiedendo di “scappucciare” i dannati per poter trasmigrare – sempre che sia stata attivata l’opzione “possessione facile”, altrimenti… – una volta inserita la possibilità di possedere un demone crolla l’intero castello di carta. Il survival horror diviene tutt’altro, con quasi la sensazione “di aver rotto il gioco”. La possessione di un demone infatti – se usata con astuzia – può liberarvi l’intero campo dai nemici, trasformando gli inferi in una stravagante vacanza. C’è da dire che la possessione ha un limite di tempo, in cui, se non trovassimo proprio nessun corpo da controllare, scoccata l’ora, sarà game over. Ma anche qui, fatta la legge, si trova l’inganno.
È proprio questo il punto. Agony sembra ancora un work in progress in cui nessuno degli elementi proposti funziona a dovere. Un altro esempio è – l’incredibile – gestione dei checkpoint, mal calibrati in termini di distanza e soprattutto utilizzabili soltanto tre volte. Una volta sfruttati tutti i jolly – morti – dovremo utilizzare quello precedente e, di conseguenza, rifare intere porzioni di gioco. Questo si scontra anche con un level design spesso caotico e in cui risulta difficile orientarsi, dato che molti luoghi soffrono dell’eccessiva ripetitività degli asset. Fortunatamente, in nostro soccorso arrivano i fasci di luce – non quelli del ’25 – proiettati dalla nostra mano e in grado di indicarci la via. Di numero limitato e ricaricabili solo nei checkpoint o raccogliendo idoli sparsi per le mappe, che risultano molto utili a districarsi nei diversi percorsi verso la meta, rappresentando la classica “manna dal cielo” anche se, la direzione indicata alle volte, è quella più scomoda o contraria a quella intrapresa.

Se non vedi non ci credi

Uno degli elementi maggiormente castrati è la direzione artistica dell’Inferno e delle sue creature. La ricostruzione degli ambienti rende l’insieme molto tangibile, soprattutto nei luoghi chiusi, nei quali si può notare anche una certa ripetitività di oggetti e strutture. Fortunatamente è anche in grado di offrire scorci di un certo spessore, in cui si ha davvero l’impressione di viaggiare in un luogo trascendentale. Ma questi bei momenti, in cui si può assistere a ottimi giochi di luce e direzione artistica ispirata, sono anche – e per la maggior parte – di un anonimato disarmante. Molto di quanto mostrato sa di già visto, e anche le creature realizzate ad hoc per il titolo non sono certo memorabili. Questo nonostante alcuni riferimenti cristiani palesi e soprattutto l’intento di portare il tutto verso il concetto di lussuria, anche se a volte in maniera quasi volgare e posticcia.
Gli aspetti strettamente tecnici presentano elementi senza infamia e senza lode, dove le ultime patch hanno messo la pezza su alcuni problemi – ormai classici – da day one: il framerate risulta abbastanza stabile e i vari filtri funzionano discretamente bene. È un titolo che non colpisce per pura potenza tecnica, e quel che è presente non viene nemmeno risaltato da un impianto luci di livello; la maggior parte delle volte faremo veramente fatica a vedere cosa succede. Tutto è buio… anche con una torcia in mano. Manca una vera e propria rifinitura anche dopo alcune patch riparatorie, visibile soprattutto nella gestione dei geo data e nella fisica.
Anche l’audio non spicca particolarmente, vantando un discreto doppiaggio inglese (sottotitolato in italiano) e un’adeguata campionatura di suoni “classici” da horror.

In conclusione

Dove si posiziona dunque Agony? Come potete aver capito, non è un titolo affatto eccelso, ma non si tratta nemmeno di quell’ “agonia” di cui si è spesso parlato riferendosi al titolo. È un lavoro che merita senza dubbio il Purgatorio, in attesa di una versione (Agony Unrated) che probabilmente non arriverà mai. Alla fine della fiera dunque, Agony  è un classico menù scozzese: poca roba e nulla di veramente interessante, prendere o lasciare. Vi farà arrabbiare? Probabile. Vi chiederete cosa succede? Sicuramente. Vi lascerà qualcosa? Difficile, ma non «lasciate ogne speranza, voi ch’intrate».

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




Moonlighter: la storia del suo fortunato successo nel mondo indie

Al giorno d’oggi, sviluppare un gioco in maniera completamente indipendente è abbastanza ostico, soprattutto se si vuole competere con gli altri titoli e si vuole vendere. Moltissime software house non ci riescono, ma fortunatamente sono altrettante quelle che coronano il loro sogno: pubblicare e vendere il proprio prodotto.
È il caso di Digital Sun, un giovane studio che, dopo alcuni progetti in outsourcing, hanno deciso di sviluppare qualcosa da soli: Moonlighter.
La storia di Moonlighter sembra rispecchiare quella dello studio: il protagonista è Will, un giovane commerciante che combatte i mostri per appropriarsi di tesori da riuscire a vendere nel suo negozzietto, ma Will ha un sogno segreto, quello di diventare un eroe.
La pubblicazione di questo gioco è stata resa possibile grazie alla collaborazione e, soprattutto, all’interesse di Square Enix Collective, un programma di Square Enix che ha lo scopo di sostenere e aiutare le piccole software house nello sviluppo dei loro giochi.
Tutto cominciò circa tre anni fa, quando WildFrame, casa madre di Digital Sun, era un piccolo gruppo di sviluppatori che avevano acquistato delle piccole “aziende” per riuscire a esternalizzare il lavoro. Dapprima Digital Sun aveva ricevuto il compito di sviluppare dei semplici cloni di Flappy Bird o alcuni giochini poco impegnativi e innovativi, ma con il passare del tempo hanno imparato a gestire gli incarichi assegnati, riuscendo a guadagnare denaro e imparare a sviluppare i giochi.
La maggior parte dei primi guadagni veniva utilizzata per pagare i dipendenti e le varie spese e solo una piccola parte andava come fondo per il progetto che avevano in mente, mentre la maggior parte dei fondi proveniva dalla campagna Kickstarter, che ha raccolto circa il 25% del costo totale del gioco.
Oltre ai fondi raccolti, ad aiutare lo sviluppo, è stata la conformazione di WildFrame, (che a oggi, comprende quattro società con compiti differenti) e questo ha aiutato tantissimo i ragazzi di Digital Sun che hanno potuto trovare un pubblico più ampio a cui presentare il loro gioco.

Moonlighter è stato pubblicato da 11 bit studios lo scorso 29 maggio per PS4, PC e Xbox One, e già ha raggiunto circa 90.000 download solamente su Steam. Questo traguardo è stato possibile dopo un duro lavoro per ottenere la fiducia non solo da parte dei clienti, ma anche per ulteriori partnership.
Square Enix Collective è stato il primo passo. In questa piattaforma, Digital Sun ha pubblicato le prime idee su quel che sarebbe stato Moonlighter e ha ricevuto risposte estremamente positive. Quindi, quando lanciarono la campagna Kickstarter, avevano già una sorta di fanbase che poteva sostenerli e lo stesso sito di raccolta fondi ha aiutato il progetto a essere pubblicizzato. Ma per fare ciò, ha detto Javier Gimenez, CEO di Moonlighter, il gioco doveva essere a un buon punto dello sviluppo per poter garantire e soprattutto acquisire fiducia dagli investitori.
Tutto questo è stato reso possibile grazie alla collaborazione con 11 bit studios che ha insegnato e preparato il team al marketing e, ovviamente, ha dato dei consigli molto importanti sullo sviluppo di alcune parti del gioco.
L’episodio di Digital Sun con Moonlighter è uno dei tanti esempi di una software house indie che è riuscita a ottenere ottimi risultati dopo un lungo e faticoso lavoro. Gimenez non è d’accordo sul fatto che le altre società indie debbano seguire lo stesso esempio della sua azienda, ma con il successo di Moonlighter, che ha superato di gran lunga le aspettative dell’azienda, dimostra l’importanza di affidarsi a società più competenti e prendere decisioni aziendali intelligenti e mirate.




Castlevania: Grimoire of Souls per iOS. I perché di tali scelte

Konami ha fatto un po’ di fatica da quando Hideo Kojima ha lasciato la compagnia che ha dato i natali al suo Metal Gear e altre popolarissime serie come Contra, Ganbare Goemon e Silent Hill; sono diversi anni ormai che il popolarissimo developer cerca di trovare una propria identità all’interno della scena videoludica. In fondo, si fa viva quando c’è da lanciare qualche  nuova IP come il recentissimo Metal Gear Survival o l’annuale Pro Evolution Soccer anche se, specialmente per i fatti relativi al licenziamento di Kojima, non sembrano entusiasmare mai i fan. A ogni modo non è che lo storico developer non abbia titoli da sfornare o non sia pronto per un ritorno in grande stile: i fan ebbero un barlume di speranza quando, nel 2015, Konami lanciò un sondaggio che chiedeva agli utenti quali fossero i titoli che più conoscevano e, un primo risultato si vide con l’uscita di Super Bomberman R per Nintendo Switch, un titolo addirittura ripescato dalle IP di Hudson Soft (compagnia che Konami comprò nel 2012).
In questi giorni è apparso un nuovo probabile frutto di quel sondaggio, il ritorno di una delle saghe più amate di sempre: Castlevania: Grimoire of Souls. La popolare saga degli ammazza-vampiri è in stallo da Castlevania: Lords of Shadows 2, un bel gioco ma che, come i precedenti Lords of Shadows e Lords of Shadows: Mirror of Fate, portò la saga in acque sconosciute. Koji Igarashi, lo storico direttore che diresse la saga dopo il leggendario Symphony of the Night, lasciò Konami perché contrario alla loro decisione di metterlo dietro allo sviluppo di titoli mobile distogliendolo, se non altro, dalla sua visione di Castlevania in favore di MercurySteam (gli sviluppatori dietro agli ultimi tre capitoli della saga) che non vedeva di buon occhio.
D’allora Igarashi, similarmente a Keiji Inafune quando lasciò Capcom, lanciò uno dei kickstarter più efficaci della storia, indirizzato verso la creazione di Bloodstained: Ritual of the Night, con l’obiettivo finale di 500.000 dollari; raggiunse 5 milioni in pochissimo tempo e si aspetta il suo rilascio in questo 2018. Konami, visto anche l’interesse dei fan verso il titolo indipendente di Igarashi, ha sicuramente pensato bene di produrre e annunciare Castlevania: Grimoire of Souls (un po’ come ha fatto Capcom con l’annuncio di Mega Man 11, giusto per offrire un’alternativa al malandato Mighty No. 9), annuncio che è stato in grado di far tremare la terra per una frazione di secondo. Anche se le immagini mostrano molti personaggi cari alla saga, un art-style tradizionale, una grafica 2.5D e,  uno “story mode” con la possibilità di un multiplayer in cooperativa (simile forse a quella già vista in Castlevania: Harmony of Despair), Konami ha comunque – e decisamente – smorzato l’entusiasmo generale, annunciando il rilascio per dispositivi iOS. I prodotti Apple, anche se non pensati appositamente per il gaming, sono ottimi dispositivi in grado di restituire un’azione di tutto rispetto, ma è chiaro che quando si pensa a titoli classici come questi non è la prima piattaforma che viene in mente ai giocatori; dunque, perché questa scelta?

È probabile che Konami non voglia semplicemente lanciare titoli per l’utenza che conosce e desidera ancora dei nuovi Castlevania ma, da quel che sembra, una mossa del genere evidenzia la volontà di raggiungere più giocatori possibili. Ogni persona fisica con un cellulare, in fondo, è un potenziale giocatore e, in un’epoca in cui il mercato cinese si apre verso il gaming, in grado di diventare in pochissimo tempo leader nel settore, è chiaro che Konami voglia ricavarsi uno spazio in questo nuovo scenario rinnovando, nel processo, la sua immagine; se non altro, anche se non nel modo in cui potremmo pensare, Konami è stata molto presente nella scena mobile in questi ultimi anni ed è possibile che il loro core business si stia spostando piano piano in quel determinato settore. Può dunque essere che Castlevania: Grimoire of Souls non sia “il loro Mega Man 11” poiché non vogliono semplicemente consegnare qualcosa ai fan della saga storica ma anche far conoscere la saga a chi non l’ha mai presa in considerazione, soprattutto in un paese come la Cina in cui le saghe classiche sono semi-sconosciute.
Tuttavia, Konami sa ancora che i giocatori che vogliono un loro ritorno in pompa magna si trovano principalmente fuori dalla scena mobile ed è per questo che titoli come Metal Gear Survive e Super Bomberman R non sono mancati, assenti nell’App Store e Google Play e che probabilmente, mai ci saranno. Gli iPhone e gli iPad non sono le “migliori console di gioco” (anche se i comandi su touch screen possono essere quasi sempre sostituiti da un bel controller fisico bluetooth) ma ciò non significa che non potremmo vedere questo titolo in altre piattaforme. Nintendo Switch, per esempio, ha accolto positivamente molti titoli già presenti su mobile (come Sparkle 2) e il processo contrario non è neppure un’assurdità al giorno d’oggi (basti pensare alle versioni mobile di Minecraft o Playerunknown’s Battleground). Ci sono ancora pochissime informazioni su questo nuovo titolo Konami: anche se stiamo parlando di un titolo mobile, le immagini sembrano promettere bene (ricordando molto Castlevania: The Dracula X Chronicles per PSP) e il solo fatto di rivedere Simon Belmont, Alucard, Soma Cruz, Charlotte e Shanoa e altri, scartando così lo stile e i personaggi dell’universo alternativo di Lords of Shadows, è certamente un buon punto a loro favore.
Qualsiasi saranno le scelte di Konami, tuttavia, sappiamo che queste non saranno mai fatte senza logica e se hanno deciso di puntare su mobile avranno certamente dati di mercato a supporto delle loro azioni anche se, comunque, non esclude a prescindere un rilascio per console o PC più in là. Ci auguriamo, inoltre, che questo non sia l’ultimo revival delle saghe storiche Konami e che potremo presto vedere presto dei nuovi Contra, Gradius, Ganbare Goemon, Zone of the Enders o Suikoden su console, PC o mobile (tutto pur di poterli rigiocare).




La gestione economica nello sviluppo degli indie game

È ormai noto a tutti che il business dei videogiochi fattura miliardi di dollari in tutto il mondo, tutti gli anni; ma è altrettanto vero che la maggior parte dei game designer o developer che intraprendono la strada della produzione videoludica non sanno come amministrare i propri fondi.
A evidenziare questo problema è Jason Della Rocca, cofondatore di Execution Labs, un incubatore che aiuta i developer indipendenti a poter portare avanti il loro progetto.
Della Rocca ha fatto notare come uno studio indie sia avviato principalmente da chi sviluppa giochi e come la maggior parte di essi sottovaluti l’importanza di avere una figura atta alla gestione economica, in modo da riuscire a ricoprire tutte le spese e investire i soldi per la crescita dell’attività. Molte volte è uno stesso programmatore o un grafico a preoccuparsi delle casse dell’azienda, mettendosi a capo dello studio, ma si tratta spesso di un soggetto non avvezzo al mondo della strategia aziendale e con poca esperienza nel procacciare fondi e nel pitching (banalmente, promuovere l’idea di business per ottenere finanziamenti).
Molti studi indie vedono i finanziamenti come una soluzione a tutti i loro problemi, e non pensano invece a come gli stessi soldi possano servire per creare delle opportunità al loro progetto. Gli sviluppatori non pensano che quei soldi potrebbero servire per dare vita a una fanbase più  vasta o per investirli e, in futuro, ricavare un maggiore guadagno.

Molte volte i programmatori in vesti di amministratori del business si ritrovano a dover pagare una squadra di programmatori e tutti i costi relativi al progetto, e per riuscire a mantenere viva la società dovranno ricercare fondi o da investitori VC (Venture Capital) o dai publisher. Proprio per questo Della Rocca sottolinea come sia importante distinguere fra le due forme di finanziamento.
Della Rocca sconsiglia ai piccoli studi di rivolgersi agli investitori VC se vogliono risolvere dei problemi impellenti, perché i Venture capitalist puntano a un guadagno alto, accettando anche di investire in dei progetti fin dalla loro nascita, e avranno molta difficoltà a investire su un prodotto che presenta dei problemi; la migliore opzione in questi casi è quella di rivolgersi sempre di più ai publisher o a raccolte fondi su Kickstarter o crowdfunding, semplicemente perché è più sicuro e meno difficile che richiedere un finanziamento da un investitore VC, che ha come unico obbiettivo quello di guadagnare il più possibile.
Gli investitori degli equity, invece, puntano di solito a un guadagno più basso, correndo meno rischi, e forniscono il capitale in cambio di una forma di piccola partecipazione, e a loro è possibile rivolgersi nel caso in cui i soldi servano per una migliore gestione ordinaria o per qualche spesa di gestione straordinaria non eccessivamente gravosa.
Al Games Capital Summit, che si terrà il 22 maggio (occasione per gli sviluppatori indie di farsi conoscere e ricevere qualche finanziamento) Della Rocca ha dichiarato che la sua società farà da “pre-filtro”, indirizzando gli sviluppatori sotto l’egida di Execution Labs verso i Venture Capitalist o verso gli investitori equity in relazione ai singoli progetti.