L’evoluzione dei controller Pt.2 – gli anni 2000

I controller, dagli arcade alle console casalinghe, hanno fatto tanta strada, passando da controlli digitali a controlli analogici in grado di permettere movimenti a 360°. Quali altre sorprese attendevano i giocatori al volgere del millennio? Controller di precisione assoluta, con un design futuristico e funzioni all’avanguardia? Vediamolo insieme in questo nuovo articolo a continuazione del primo che vi invitiamo a leggere prima di questo.

La generazione 128-bit – la generazione X

Sega, dopo il fallimento del Saturn in Nord-America ed Europa, era decisa a lanciare una nuova macchina da gioco che spezzasse totalmente col passato e per farlo aveva bisogno anche di un controller che offrisse ai giocatori un nuovo modo di giocare i titoli SEGA. Il bianco controller del Dreamcast, che si rifaceva al 3D Pad del Saturn, non sembrava affatto un prodotto SEGA: la disposizione a sei tasti frontali fu abbandonata in favore del layout a rombo, dunque con quattro colorati tasti frontali come PlayStation e Super Nintendo, ma con i classici trigger analogici del precedente pad. Questo controller è in definitiva molto comodo, più piccolo rispetto al suo antenato, anche se non risulta il massimo per lunghe sessioni di gioco: al di là della strana scelta di far passare il cavo dalla parte bassa del controller e non da sopra, fu montata una levetta analogica convessa che, in assenza di una gommina come nel Dual Shock, scivola facilmente dalla pressione del pollice del giocatore, soprattutto quando la mano comincia a sudare dopo lunghe sessioni di gioco; in aggiunta a tutto questo, qualora ci serva, il controller del Dreamcast monta una croce direzionale rialzata, realizzata con plastica durissima e stranamente “iper-spigolosa”, un calvario per chi vuole giocare con gli eccellenti picchiaduro ospitati nell’ultima console SEGA. Tuttavia il nuovo controller per Dreamcast presentava anche due slot, quello frontale indicato per inserire la VMU, ovvero una piccola memory card dotata di un piccolo schermo a cristalli liquidi; non tutti i giochi sfruttarono questa caratteristica (molti giochi mostravano semplicemente il logo del gioco in esecuzione) ma altri invece, come Skies of Arcadia e Sonic Adventure 2, riuscirono a creare una sorta di interazione col gameplay in corso. Nell’altro slot i giocatori avrebbero potuto inserire  il Rumble Pack, più indicato visto che, nonostante possa accogliere una seconda VMU, non è possibile vedere il secondo schermo. Nonostante tutto, parte dell’abbandono dello sviluppo su Dreamcast è dovuto in parte anche al controller: che possa piacere o meno, la verità è che il controller presenta soltanto sei tasti quando PlayStation 2 e Xbox ne presentavano otto e dunque, ammesso che fosse possibile fare dei porting dedicati per Dreamcast, era impossibile per la console accogliere dei giochi che sfruttassero più comandi di quelli previsti. Il controller per Dreamcast non è assolutamente pessimo ma sicuramente SEGA avrebbe potuto fare di meglio.

Cos’è? È un meteorite? Un aquila? Un U.F.O.? No! È il cosiddetto “Duke“, il controller originale della prima Xbox! Questo titanico controller, all’apparenza, sembra presentare un layout a rombo come quello PlayStation o Dreamcast (vista anche la vicinanza fra SEGA e Microsoft in quel preciso periodo) ma in realtà, presenta invece il layout a sei tasti simili ai controller di Mega Drive e Saturn ma disposti in verticale! Non tutti capirono questo sistema e il tutto risultava abbastanza scomodo e poco risoluto. Il controller fu nominato “errore dell’anno 2001” da Game Informer,  ma Microsoft aveva un asso nella manica: il “Duke” fu messo in bundle con la console in tutto il mondo con l’eccezione del Giappone. Per quello specifico mercato Microsoft disegnò un controller che potesse meglio accomodare le più piccole mani dei giocatori giapponesi e così, su richiesta dei fan, il “Duke” fu presto sostituito dal migliore controller “S“. Con questo controller, il cui nome in codice era Akebono (fu il primo lottatore di sumo non giapponese a raggiungere il rank di Yokozuna), i giocatori ebbero in mano un controller veramente di qualità anche se non poteva essere considerato realmente uno dei migliori: fu scelto un più semplice layout a rombo preciso, come quello del DualShock, ma i tasti “bianco” e “nero” finirono in basso a destra dal set principale (i tasti colorati), rendendo il tutto poco comodo, specialmente quando quei tasti servissero immediatamente. I giocatori Xbox dovevano ancora attendere una generazione affinché ricevessero uno dei migliori controller mai realizzati. Il “Duke” però, fra amore e odio, lasciò comunque una qualche traccia nel cuore dei giocatori, tanto che l’anno scorso Hyperkin rilasciò una riproduzione ufficiale di questo strano controller per PC e Xbox One!

In questo rinascimento dei controller anche Nintendo decise di sperimentare con il joypad da lanciare con la successiva console. Il controller per il GameCube è all’apparenza molto strano ma una volta fatto il callo con le prime sessioni di gioco ve ne innamorerete! Il controller si accomoda perfettamente alla forma della mano, offrendo una saldissima presa, ma sarà l’anomala disposizione dei tasti la vera protagonista: al centro troveremo un bel tastone “A”, mentre alla destra, alla sinistra e al di sopra di questo tasto principale, ci saranno i tasti, rispettivamente, “B”, “X” e “Y”, tutti con una forma diversa. Questa scelta fu presa per permettere al pollice, impegnato principalmente col tasto “A”, di raggiungere tutti i tasti attorno, ma principalmente, secondo Shigeru Miyamoto, per permettere una migliore memorizzazione dei tasti del pad. Insieme a questi tre tasti ne troviamo tasti dorsali e una levetta “C” (in sostituzione dei tasti “C” del Nintendo 64) per un totale di sette tasti. Anche questo controller, come quello per Dreamcast, soffriva per un tasto in meno ma a differenza della sfortunata console SEGA, tramite alcuni stratagemmi, riuscirono ad aggiudicarsi dei buoni e gettonati porting dell’epoca anche con quello strano controller.
Più in là Nintendo produsse per GameCube il Wavebird, il primo controller wireless prodotto da un first party dai tempi di Atari. Il controller, che funzionava con le frequenze radio, mancava della funzione rumble ma risolveva in prima persona il problema dei cavi per terra, avviando così il trend, nella generazione successiva, di includere un controller wireless incluso con la console.
Un po’ come il DualShock, questo controller non ne ha mai voluto sapere di morire o passare di moda, tanto è vero che a tutt’oggi è considerato la quintessenza per giocare a qualsiasi gioco della serie Super Smash Bros.; a testimonianza di ciò esistono le “re-release” di questo particolare controller, nonché il Pro Controller PowerA (ufficialmente licenziato) per Nintendo Switch che aggiunge i tasti “home“, “” e “+” e un dorsale sul lato sinistro del controller (ovvero l’ottavo tasto mancante nell’originale).

“Se qualcosa funziona, non aggiustarla”: come anticipato nella prima parte, fu questa invece la filosofia di Sony per questa generazione. Il DualShock 2 rimase quasi lo stesso, implementando principalmente i tasti analogici per tutti i tasti frontali e dorsali, offrendo ancora più precisione del già precisissimo DualShock. PlayStation 2 è la console più venduta di tutti i tempi e un controller così funzionale è a testimonianza della qualità di questa superba macchina da gioco.

Eccellenza e motion control

Prima di introdurre il trend dei motion control, che molto caratterizzò questa generazione, vorremo prima ammirare il fantastico controller per Xbox 360. Questa volta Microsoft si superò consegnando una versione rivisitata del controller “S“, con una presa migliorata, un layout a diamante, permettendo al pollice di raggiungere i tasti con più facilità, quattro tasti dorsali come il DualShock, eliminando i tasti “bianco” e “nero“, e un bel “tastone” home che permetteva anche di avviare la console come un telecomando. La ciliegina sulla torta fu rappresentata dal jack per l’auricolare in bundle con la console in modo da connettere i giocatori online via chat vocale; una feature che diventerà obbligatoria dopo questa generazione. Questo controller diventò in poco tempo anche il controller non ufficiale della scena PC proprio per la sua incredibile versatilità e maneggevolezza e ancora oggi, per chi lo possiede sente il bisogno di acquistare la nuova versione per Xbox One, viene ancora utilizzato da moltissimi giocatori per PC di tutto il mondo. I primi controller in bundle con la console avevano la tendenza, dopo un po’ di usi, al drifting, ovvero un input fasullo dovuto ad alcuni residui di polvere del componente della levetta;  come la non compatibilità con gli HD-DVD e il “red ring of death“, il drifting fu il risultato della scelta di lanciare la console in fretta e furia ma fortunatamente tutti i problemi relativi ai primi lotti di console furono piano piano debellati, dunque anche i controller successivi al lancio, nonché quelli in bundle con i modelli “slim” e “S“, riscontrarono meno problemi di drifting.

Tuttavia, durante questa generazione non fu di certo questo controller a rubare la scena. Era il 2005, durante il periodo dell’E3, quando un trailer mostrò le capacità dello stranissimo controller per l’allora Nintendo Revolution (senza alcun video di gameplay, giusto per dare un ulteriore senso di mistero), in seguito divenuto Wii: la gente che lo utilizzava imitava azioni di ogni tipo, dal brandire uno spada e uno scudo, illuminare una stanza a mo’ di torcia, dirigere un’orchestra, ma anche azioni più comuni come tagliare ingredienti o pescare. In molti storsero il naso di fronte a questo controller a forma di telecomando ma la verità fu che il Wii Remote (o Wiimote) divenne ben presto, in un epoca in cui i tasti d’azione nei controlli erano otto (dieci se contiamo la pressione delle levette), un controller incredibilmente facile da utilizzare grazie ai suoi motion control. Persino genitori e nonni di tutto il mondo finirono per aver giocato, almeno una volta nella vita, a titoli come Wii Sport, Wii Play e molti altri titoli! Sebbene i titoli party erano quelli in cui era coinvolto più movimento, nonché i migliaia di titoli “shovel-ware” che finirono per riempire il catalogo dei giochi ufficiali Wii, non bisogna dimenticare titoli come The Legend of Zelda: Twilight Princess, Super Mario Galaxy, Metroid Prime 3, Mario Kart Wii, Disaster: Day of Crisis, Mad World o No More Heroes in cui il Wiimote aggiunse realmente un layer di profondità finora inesplorato. Il dominio motion control arrivò e tramontò col Wii ma è bene ricordare che fu un periodo molto particolare, tanto che arrivò a influenzare in un qualche modo anche la generazione successiva: ne sono ovvi esempi gli attuali controller DualShock 4 e Nintendo Switch, nonché il gamepad per Wii U (di cui parleremo più avanti).
Impatto a parte, cosa offre un Wiimote? In alto, insieme al pulsante power, troviamo un D-pad che, nonostante la strana posizione, funge perfettamente come un menù rapido in giochi come The Legend of Zelda: Twilight Princess e come metodo di controllo principale se utilizzato in orizzontale, diventando a tutti gli effetti un controller a là Nintendo Entertainment System visti anche i tasti “1” e “2” sull’altra estremità del controller, diventando un controller perfetto per i giochi platform 2D nonché gli stessi giochi per NES presenti nel catalogo della Virtual Console. Preso in verticale, esattamente sulla linea del pollice e indice troveremo un tasto grande “A” e un grilletto “B“, pronti immediatamente per l’uso mentre, sulla metà, troveremo invece i tasti home, “+” e “” (da questa generazione i veri sostituti dei tasti start e select); proprio sotto al tasto home, inoltre, vi è un piccolo speaker che riprodurrà alcuni effetti sonori dal gioco in esecuzione. Tuttavia un Wiimote, soprattutto se si vogliono giocare i giochi più belli, non è niente senza un Nunchuck, l’espansione naturale di questo controller: questa impugnatura offre al giocatore una buonissima levetta analogica e due ulteriori tasti, “C” e “Z“, sulla parte alta dell’impugnatura da premere con l’indice. I tasti effettivi, dunque sono sei (quattro se contiamo che “1” e “2” sono difficilmente raggiungibili in modalità Nunchuck), ma è chiaro che tutto ciò che viene a mancare viene compensato dai movimenti e dalle azioni da compiere, sia con il Wiimote che col Nunchuck, anch’esso parte dei motion control. Al lancio il Wiimote, che funge anche da puntatore (dunque un vero e proprio mouse), doveva includere sia accelerometro, che registra principalmente i movimenti, e un giroscopio che ne registra invece la posizione ma alla fine venne incluso solo il primo; più tardi fu rilasciato il Wii Motion Plus, un accessorio (una sorta di cubo) che ultimò definitivamente il controller per questa generazione aggiungendo il giroscopio, ma in seguito i futuri Wiimote furono costruiti con entrambi i componenti all’interno, rinominando il tutto in Wii Remote Plus. L’esperienza dei controlli per Wii furono strani e, tutto sommato, passeggeri ma i motion control sono a tutt’oggi presenti, in misure più o meno incisive (ma sicuramente meno presenti) a seconda dei giochi, come in Splatoon 2 o Super Mario Odyssey.

Per il resto Nintendo offrì un ulteriore controller a otto tasti rinominato Classic Controller, simile a un controller per Super Nintendo, per giocare al meglio i giochi della Virtual Console, specialmente quelli post-NES. Il Classic Controller Pro, che aggiunse principalmente due maniglie (a là DualShock) per una migliore presa, fu invece il metodo principale per giocare a giochi come Goldeneye 007 (2010) o Samurai Warrior 3 (tanto che venne incluso in bundle), sottolineando invece come i motion control, spesso, risultavano superflui e quanto invece servisse un controller semplice per godersi al meglio alcuni titoli.

L’annuncio del Wiimote colse tutti di sorpresa e fra quelli c’erano anche i concorrenti Microsoft e Sony. La prima lasciò perdere totalmente, almeno per l’inizio, in quanto investire immediatamente avrebbe rappresentato un rischio inutile, senza contare il fare la figura dei copioni, e poi l’analizzare con pazienza il trend dei motion control avrebbe permesso lo sviluppo di un set più originale e avanzato; ovviamente stiamo parlando del Kinect ma qui eviteremo di parlarne in quanto, essendo, sì, un metodo di controllo ma non un controller vero e proprio, non c’è nulla da “tenere in mano” e pertanto rimanderemo questa conversazione a qualche altro articolo. Sony invece cominciò a correre ai ripari in quanto, nonostante le critiche mosse al Wiimote, i motion control erano visti come la prossima grande cosa. Inoltre in pochi sanno che Sony aveva il DualShock 3 pronto sin dal lancio ma una causa legale contro la Immersion Corporation, proprio per la feature del rumble, li spinsero a togliere la vibrazione in favore dei motion control per offrire qualcosa di nuovo. Il Sixaxis fu annunciato otto mesi dopo l’annuncio del Wii Remote e in molti videro uno strafalcione del concetto offerto da Nintendo; il tutto fu aggravato non solo dal fatto che durante l’E3 del 2006 Warhawk fu l’unico gioco per PlayStation 3 a mostrare le capacità del Sixaxis ma gli sviluppatori alla Incognito Entertainment si lamentarono del fatto che il controller Sony arrivò soltanto 10 giorni prima dell’evento. PlayStation 3 fu lanciata fra il 2006 e il 2007 (in Europa) e agli imbarazzanti prezzo di lancio fu incluso un controller sconclusionato, le cui motion feature venivano utilizzate pochissimo, senza vibrazione e anche troppo leggero (dunque prono alla rottura in caso di caduta). Ciò che è peggio è che Phil Harrison, l’allora presidente della Sony Worldwide Studios, ebbe da dire che il rumble era una feature obsoleta e che il motion control era il futuro (senza contare che il Wiimote, seppur senza giroscopio, aveva motion control e vibrazione). I problemi per Sony finirono fra il 2007 e il 2008 quando il più efficiente e iconico DualShock 3, che (come abbiamo scritto nel precedente articolo) implementò i grilletti e la tecnologia wireless con batteria al litio ricaricabile, sostituì definitivamente il Sixaxis, finendo così la motion-avventura per Sony… o così sembrava!

La tecnologia Sixaxis finì direttamente all’interno di PS Vita, mentre su PlayStation 3, intenti e decisi a rilasciare un vero e proprio motion control, Sony rilasciò il PlayStation Move. Nonostante ancora scelsero di copiare direttamente ciò che faceva Nintendo, il nuovo controller Sony risultò ben costruito ed ebbe, fra alti e bassi, un buon successo: nonostante i movimenti potevano sostituire l’ausilio di qualche tasto, furono inclusi tutti i tasti di un DualShock intorno al controller e i primi giochi dedicati al Move, che dovevano essere giocati con la nuova ridisegnata Eye-toy, mostrarono degnamente il potenziale di questi controller. PlayStation Move, durante l’era della PlayStation 3, non ebbe il successo sperato ma questi furono interamente implementati per l’utilizzo di PlayStation VR, e dunque ancora oggi utilizzati dai giocatori di tutto il mondo.

(Nota: il Sixaxis non è presente in questa galleria in quanto differisce soltanto per la scritta “DualShock 3” sul lato alto del controller. Al di là dei motion control, che ovviamente in foto non si vedono, i due controller sono esteticamente identici.)

La mid-gen e i controller odierni

Con Wii Nintendo riuscì ad avvicinare molti casual gamer allontanando però molti hardcore gamer che nel frattempo, intenti a provare il gaming in HD, si spostarono verso Xbox 360 e PlayStation 3. Wii U fu rivelata durante l’E3 del 2011 e con essa il proprio “tablet controller”. Dopo una creativa disposizione dei tasti su Gamecube e un accantonamento generale durante la precedente generazione, Wii U proponeva un ritorno alle origini con una disposizione di tasti più vicina al Classic Controller Pro per Wii, un giroscopio e un touch screen per, letteralmente, vedere i giochi da una prospettiva totalmente diversa; insieme a tutto questo fu incluso un microfono, degli speaker e una telecamerina sulla parte alta dello schermo, dando come l’impressione che fosse una specie di Nintendo DS fisso. Nonostante le premesse, in pochi riuscirono a immaginare realmente un utilizzo innovativo del touchscreen, col risultato che pochissimi giochi sfruttarono al 100% le sue caratteristiche, come Pikmin 3, Splatoon ma soprattutto Super Mario Maker; insieme al controller, ad affondare fu l’intero sistema in quanto i developer difficilmente trovavano un vero utilizzo per il tablet controller, ma ciò che è peggio è che il pubblico non capì realmente cosa fosse il Wii U (un’espansione del Wii? una nuova console? Ne parleremo qualche altra volta).
In tutta questa grande confusione, il nuovo controller non sembrava piacere a tutti: c’era a chi piaceva e c’era chi lo odiava, e fra quelli c’erano sicuramente gli hardcore gamer, proprio quelli che la compagnia di Kyoto sperava di richiamare a sé. Fortunatamente per Nintendo, che si assicurò in ogni caso di rendere i precedenti Wiimote compatibili per il nuovo sistema, lanciò con la console anche il più versatile Pro Controller, molto più simile a un controller per Xbox 360. La particolarità di questo controller, come per il tablet, sta principalmente nel fatto di avere le levette analogiche allineate, entrambi sopra la parte inferiore in cui vi è il D-pad e i quattro tasti principali; in tutto questo, come ormai tutti i controller di quest’epoca, vi sono quattro tasti dorsali di cui due trigger. Il Pro Controller fu indubbiamente una mossa verso la direzione giusta ma, come sappiamo, non bastò per far spiccare Wii U fra Xbox One e PlayStation 4 lanciate l’anno successivo. L’esperienza di Wii U, anche in ambito di sistema di controllo, fu di grande aiuto in seguito per coniare Nintendo Switch.

Il nuovo controller per la Xbox One è una vera e propria evoluzione del già ottimo controller per Xbox 360, riportando in auge tutto ciò che rese grandioso il precedente controller, migliorandolo in maniera esponenziale. In seguito, Microsoft rilasciò anche l’Elite Wireless Controller con la quale, grazie a un kit dedicato, è possibile personalizzare il proprio controller con tasti programmabili sul dorso e anche sostituire levette e D-pad, offrendo un grado di personalizzazione mai visto in ambito controller.

Sony invece, forse anche un po’ a malincuore, sostituì l’ormai vecchio design del DualShock con uno nuovo più rotondeggiante, moderno e realmente all’avanguardia. Insieme alle novità del touch pad, dei sensori di movimento correttamente implementati e il led sul dorso del controller, il nuovo controller della PlayStation 4 si adatta ai tempi moderni offrendo al giocatore un immediato tasto share con la quale è possibile caricare sui social network i momenti salienti del proprio gameplay. In quanto a precisione, il controller per PS4 ha un retaggio che va indietro sino al primo DualShock, il che è senza dubbio un sinonimo di garanzia in quanto qualità dell’immissione degli input di gioco.

La natura ibrida di Nintendo Switch ha invece portato al concepimento di un controller formato da due pezzi, simile nell’esecuzione al Wiimote e il suo Nunchuck ma ben lontano dal suo concetto interamente focalizzato nei motion control. I due Joy-Con, sia in modalità portatile che in modalità fissa, offriranno al giocatore la tipica disposizione a diamante ormai tipica dei controller Nintendo, mentre le levette, a differenza del gamepad per Wii U o del suo Pro Controller, stavolta si presentano disallineate per permettere tramite un solo set di Joycon la possibilità di giocare in due giocatori semplicemente tenendo il controller in orizzontale; in tutto questo i controller sono stati muniti di accelerometro, giroscopio e la nuovissima feature HD Rumble, un particolare tipo di vibrazione in grado dare un layer ancora più profondo di realismo (tipico è l’esempio delle biglie in 1 2 Switch). I Joy-Con, purtroppo, si sono resi protagonisti di uno spiacevole malfunzionamento, ovvero quello del drifting dopo circa un anno assiduo di gameplay ma Nintendo, per fronteggiare il problema, si è offerta di riparare i Joy-Con anche dopo il superamento della data di garanzia.
Nel caso voleste evitare il problema del drifting, nonché prendere in mano un controller più tradizionale, allora vi converrà passare al più preciso Pro Controller che offre le stesse feature dei Joy-Con (persino il riconoscimento degli Amiibo) ma con una presa decisamente più comoda e rilassata. In più è presente un D-pad in quanto scartata nei Joy-Con per permettere due pezzi perfettamente speculari e che si prestassero al gioco in due giocatori. Se non vuoi essere considerato un principiante a vita allora ti converrà passare al Pro Controller stasera stesso!

Futuro?

Finisce così la nostra strada che ci ha portato dai joystick ai joypad ma ovviamente, nonostante gli headset VR e chissà quali future diavolerie, i controller saranno destinati ad accompagnare per sempre il giocatore. Quali saranno le future innovazioni per i controlli? Come si controlleranno i videogiochi di prossima generazione? E in tutto questo: qual è il vostro preferito? Fatecelo sapere nei commenti!




L’evoluzione dei controller Pt.1 – Dal digitale all’analogico

Da giocatori ci concentriamo spesso su tanti aspetti dei videogiochi: grafica, artwork, sonoro, storia, contenuti extra e molto altro, ma ciò che li lega realmente è la giocabilità. E cosa detta la giocabilità? Qual è quella bacchetta che dirige quella sinfonia rappresentata dal gioco? Ovviamente è il controller, un accessorio fondamentale per godersi appieno gli infuocati gameplay di moltissimi videgame. Facendo eccezione della cara accoppiata “mouse e tastiera“, entità indissolubile dalle postazioni PC, daremo uno sguardo ai controller first party delle console con la quale sono stati lanciati, dalla comodità alle innovazioni apportate, nonché eventuali evoluzioni come il passaggio dal controller originale PlayStation al Dual Shock.

Dal Joystick al D-pad

In principio c’erano le arcade e i loro ingombranti cabinati diedero una soluzione tanto facile quanto intuitiva. Il piano di controllo presentava solitamente uno stick e dei tasti per eseguire delle azioni, come sparare in giochi come Berserk e Space Invaders o saltare in Donkey Kong. I videogiochi dei tempi erano molto semplici e spesso e volentieri era molto raro trovarne uno che usasse più di un tasto. Nonostante tutto, i primi produttori di console ebbero parecchia difficoltà a tradurre quel set di controlli in un qualcosa di casalingo e a basso costo (proprio per questi  motivi gli arcade stick, come il controller base del Neo Geo, costano parecchio). Il Fairchild Channel F, lanciato nel 1976, si avvicinò parecchio al set da salagiochi, incorporando direzione e azione (nonché anche rotazione) sullo stesso stick, ma fu il controller dell’Atari 2600, rilasciata l’anno successivo, a restituire più fedelmente l’esperienza arcade in quanto più semplice e intuitivo. Anche soltanto vedendo in fotografia si riesce tranquillamente a immaginare l’impugnatura del contoller: la mano sinistra finisce per gestire lo stick mentre la mano destra si occupa di tener saldo il controller e con il pollice premere il tasto rosso che si andrà a posizionare perfettamente sotto di esso. La semplice impugnatura permise a chiunque di capire come funzionassero gli all’ora nuovi videogiochi e furono mosse del genere che portarono l’Atari 2600 di diventare la più venduta macchina da gioco della cosiddetta seconda generazione di console. Lo stile “joystick” fu emulato immediatamente, come dimostrano i controller base per Magnavox Odyssey² (punto cardine del nostro ultimo articolo), Colecovision e Commodore 64, ma la vera sorpresa è che questo set, nonostante la rivoluzione del D-pad e delle levette analogiche (di cui ovviamente parleremo più avanti), è sopravvissuto fino a oggi, principalmente come flight stick usati solitamente nei simulatori di volo per PC.
Va inoltre ricordato che Atari fu anche la prima compagnia a offrire dei controller wireless (radio) first party; più in là vennero prodotti controller wireless per tutte le console ma fu solo tanti anni dopo, col Nintendo Gamecube, che una compagnia first party prese in considerazione di produrre controller wireless per la propria console.

Parallelamente allo stile “Joystick“, anche nelle arcade apparvero giochi che sfruttavano quattro tasti disposti a croce che in un qualche modo indicavano la possibilità di eseguire qualcosa di direzionato: è il caso di Vanguard, famosissima prima hit della SNK, la cui navicella pilotata poteva sparare in quattro direzioni (ricordiamo che è possibile provare Vanguard nella SNK 40th Anniversary Collection). Il controller dell’Intellivision (di cui parlammo nel nostro vecchio articolo delle impressioni a caldo dell’Intellivision Amico) anticipò il concetto del D-pad con il suo strano dischetto metallico girevole in grado di registrare ben 16 direzioni ma il risultato non fu dei migliori in quanto concepito come una sorta di sostituto dello stick, dunque messo in alto nel controller, e perciò risulto scomodo e poco intuitivo.
In Giappone intanto un giovane Gunpei Yokoi, tornando a casa dal lavoro, vide un signore giochicchiare sulla metropolitana con la sua calcolatrice tascabile spingendo tasti a caso. Da quell’immagine il geniale inventore visionò un videogioco che fosse portatile, tascabile e possibilmente costruito con la stessa tecnologia della calcolatrice. Quello che ne venne fuori furono i primissimi Game & Watch, la prima incursione di Nintendo nel campo dei videogiochi portatili (la prima in assoluto fu la MB Microvision) e questo stesso concetto si evolverà in futuro nello stravolgente Game Boy. A ogni modo, i Game & Watch presentavano spesso metodi di controllo sempre diversi, a seconda del gioco, ma fu nel 1982 che il D-pad, come vera e propria crocetta direzionale, fece la sua prima apparizione nel Game & Watch di Donkey Kong, appartenente alla serie Vertical Multi Screen (a sua volta, questi particolari modelli con due schermi, apribili a conchiglia, ispireranno invece la creazione del Nintendo DS… vedi un po’!).

I Game & Watch erano piccoli e la loro tecnologia poteva permettere soltanto gameplay semplici e passeggeri, perciò il D-pad, per quanto innovativo, non veniva usato costantemente per questi portatili. Fu invece col Famicom che il D-pad prese piede e divenne un punto di riferimento per tutti i controller a venire: lo stile “Joystick” fu messo da parte per il nuovo modello “Joypad” in cui il controller passò da una presa verticale a una orizzontale che permetteva i movimenti con il pollice della sinistra e le azioni, una in più rispetto al controller di Atari, con quello della mano destra. Nintendo stava per lanciare il Famicom con tasti quadrati e di gomma ma poco prima del lancio il design dei controller fu cambiato in favore dei più classici tasti rotondi e di plastica, da sempre i più indicati in quanto quelli in gomma sono proni al deterioramento e spesso finiscono per funzionare sempre con più difficoltà (gli stessi tasti start e select dei controller Nintendo pre-N64 finivano per deteriorarsi). Con questo design furono girate le primissime pubblicità del Famicom: notate bene la forma dei tasti.

I controller del Famicom fuorono saldati all’interno della console e nel secondo controller i tasti start e select furono scartati in favore del microfono, caratteristica poco utilizzata ma che comunque diede un certo grado di innovazione, tanto che fece ritorno molti anni dopo col Nintendo DS. Il Famicom arrivò qualche anno dopo in America, Europa e Australia col nuovo nome Nintendo Entertainment System: oltre al nome fu rinnovato l’aspetto generale della console, più simile a un dispositivo HI-FI da mettere nello stesso mobile in cui venivano messi videoregistratori, mangianastri e giradischi, e ovviamente i controller, stavolta staccabili, con i cavi che uscivano dal lato lungo alto dei pad (e non dai lati corti come nel Famicom), più tozzi, senza la feature del microfono e con un nuovo design più serioso e futuristico.

Questo modello fu subito imitato da SEGA e Atari con le loro console Master System, terzo re-design della serie SG-1000, e Atari 7800 che rimpiazzarono loro vecchi joystick con dei joypad (Atari lanciò i suoi nuovi joypad soltanto in Europa). Il design del D-pad Nintendo era (ed è a tutt’oggi) un marchio registrato così i concorrenti aggiunsero una specie di dischetto nei loro controlli direzionali, una buona soluzione per evitare ripercussioni legali da parte di Nintendo. I loro nuovi controller furono tanto comodi quanto la loro controparte ma, per quanto il tasto start fu incorporato nei tasti d’azione, per mettere in pausa il gioco bisognava avvicinarsi alla console per premere l’apposito tasto per fermare il gameplay se si voleva fare una capatina in bagno.

La generazione 16-bit

Ad aprire le danze per le console di nuova generazione fu NEC con il suo PC-Engine (o Turbografx-16 negli Stati Uniti). Il controller in bundle con la console non portava alcuna innovazione, il suo design era pressappoco identico a quello del Famicom/NES, ovvero una croce direzionali, due tasti azione e due tasti menù; tuttavia, a rendere unico questo controller erano le sue levette per regolare il turbo, feature solitamente trovata in molti controller di terze parti qui invece inserite in un controller first party, probabilmente l’unico in tutta la storia dei videogiochi.

SEGA Mega Drive, o Genesis in Nord-America, arrivò in Giappone nell’Ottobre del 1988. Con il rinnovato hardware arrivò un nuovo precisissimo e più grande controller: la croce direzionale fu incastrata in un dischetto e il controller presentò un tasto d’azione in più e un tasto start di plastica al di sopra della stringa dei tre; questo controller fu inoltre il primo ad abbandonare il design quadrato “a telecomando” in favore del più moderno e comodo design tondeggiante, decisamente più ergonomico.

Nel 1990 Nintendo rispose al Mega Drive con il Super Famicom, la loro nuova macchina 16-bit (per vedere tutti i risvolti della grande console war dei 16 bit vi consigliamo di leggere questo articolo). Come Sega, Nintendo accompagnò il nuovo hardware con un nuovo rinnovato controller: anche la compagnia di Kyoto optò per un design più curvo ma aggiunse alla stringa dei due tasti d’azione del Famicom/NES un ulteriore stringa di due tasti al di sopra della prima, avviando così il trend del layout a diamante/romboidale, il tutto un po’ più obliquo rispetto al precedente controller i cui due tasti erano perfettamente orizzontali; in aggiunta alla nuova stringa doppia vennero anche aggiunti i due tasti dorsali “L” e “R” posizionati sul bordo alto del controller dove poggiavano naturalmente le dita indice di entrambe le mani, offrendo così al giocatore un controller a 6 tasti molto intuitivo e per nulla complicato.

Nonostante SEGA fosse il leader del mercato, il Mega Drive aveva solo tre tasti d’azione, tre in meno rispetto al Super Famicom/Super Nintendo  e la loro mancanza si sentiva principalmente per i super popolari Street Fighter II e Mortal Kombat che sfruttavano un set di sei tasti: per Street Fighter II: Special Champion Edition, la seconda versione del picchiaduro Capcom scelta come base per il porting per SEGA Mega Drive, bisognava alternare pugni e calci premendo il tasto start (togliendo al giocatore qualsivoglia possibilità di mettere il gioco in pausa) mentre per il porting di Mortal Kombat il tasto start fu impiegato per la parata dando al giocatore uno strano metodo per alternare pugno forte e pugno debole. SEGA più in là non poté fare altro che lanciare un nuovo controller a sei tasti, diversamente da quello Nintendo disposti a stringhe di tre uno sopra l’altro. Se non altro questo controller ricalcava perfettamente il set di tasti di Street Fighter II in Arcade e molti giocatori, ancora oggi, preferiscono questo specifico set per i tornei dei più recenti capitoli. Tuttavia SEGA dovette rinnovare il proprio controller mentre Nintendo rimase con lo stesso set dal lancio fino alla fine del ciclo vitale del Super Famicom/Super Nintendo, offrendo dunque un efficiente controller sin dall’inizio.

Il layout a tre tasti proposto da SEGA, sia a doppia stringa che a singola stringa, fu comunque ritenuto molto comodo e, così come la libreria dei giochi di Mega Drive e Super Nintendo, la disposizione dei tasti diventò anch’essa un motivo di preferenza. A testimonianza della sua comodità ne sono controller per Atari Jaguar e quello per 3DO che alla stringa di tre tasti, ne aggiunse due  dorsali e un tasto menù in più. Quest’ultimo controller è famoso per aver incluso, nel pad stesso, una porta per il multigiocatore (permettendo dunque, potenzialmente, a un infinito numero di giocatori di partecipare a un gioco multiplayer!) e un jack per gli auricolari, qui usato per ascoltare il sonoro ma che verrà ripreso, anni più tardi, per permettere ai giocatori di comunicare in ambiente online in controller come quello per Xbox e Dual Shock 3. Anche NEC utilizzò questo layout per lanciare il suo controller a sei tasti da lanciare col porting di Street Fighter II: Champion Edition per PC-Engine e lo stesso design (anzi, lo stesso controller) fu messo in bundle col PC-FX, suo successore meno fortunato.

La generazione 32/64-bit e l’arrivo degli analog stick

Ad avviare le danze per la nuova generazione fu SEGA che con il suo Saturn lanciò il suo nuovo controller che si rifaceva al Mega Drive: fu diminuita la corsa dei tasti per una maggiore precisione nei controlli e ne furono aggiunti due  dorsali per un totale di otto, a oggi il numero essenziale per ogni buon controller che si rispetti. In Nord-America ed Europa i controller che arrivarono avevano dimensioni diverse da quelli del Giappone: il design era sostanzialmente più massiccio e in molti lo trovarono scomodo; pertanto SEGA più in là sostituì i controller in bundle con la console con i più piccoli, comodi e leggeri controller destinati al Sol-Levante, stavolta di colore nero lucido come il design per la console in Nord-America e Europa. Questo controller non portò grandi innovazioni ma è a oggi uno dei più comodi e belli mai realizzati.

Come oggi si sa, PlayStation nacque da un accordo fallito fra Sony e Nintendo e il suo controller ne riflette le conseguenze: la disposizione dei tasti si rifà a quella del Super Nintendo, una forma a rombo più retta e per niente inclinata, con l’aggiunta di due tasti dorsali extra, facendo partecipare anche le dita medie di entrambe le mani al gameplay. Il controller Sony aggiunse due impugnature al di sotto del pad per una presa ancora più comoda e solida, l’ideale soprattutto per chi non avesse mai preso in mano un controller. Teiyu Goto, il suo designer, ebbe la geniale idea di utilizzare simboli, anziché lettere, che rappresentassero funzioni universali per qualsiasi videogioco:

  • Il triangolo verde rappresenta il punto di vista: alla punta del triangolo ci sarebbe la testa mentre la sua area rappresenta il suo campo visivo;
  • Il quadrato rosa rappresenta un foglio di carta: questo tasto sarebbe dovuto servire a richiamare i menù o i documenti;
  • La croce e il cerchio, rispettivamente blu e rosso, rappresentano il “no” e il ““: questi tasti sarebbero dovuti servire per prendere decisioni.

Anche se questo schema non fu mai assoluto, la disposizione dei simboli risultò molto intuitiva e fu molto facile memorizzare questo nuovo layout di tasti.

Tuttavia, la vera rivoluzione fu lanciata col controller Nintendo 64, il primo a includere (dal lancio) una vera levetta analogica, per un totale controllo dei movimenti a 360°. Il tridente, come spesso chiamato dagli appassionati, presentava una disposizione di tasti frontali con i due grossi “B” e “A” uno sopra l’altro e un set di tasti “Cdisposti a croce accanto ai primi due, dando al giocatore una disposizione simile a quella del Saturn ma chiaramente con funzioni diverse: i tasti “C“, di colore giallo, servivano a dare al giocatore un primordiale controllo dual analog in modo da offrire al giocatore un sistema per controllare la telecamera in giochi 3D come Super Mario 64 o Banjo Kazooie o mirare in sparatutto come Quake e Goldeneye 007. In quanto a dorsali il controller ne offriva tre ma, non ci si trovava mai con un gioco che sfruttasse tutti e nove i tasti, bensì sempre con otto: dietro l’impugnatura della levetta analogica si trova il tasto “Z” e pertanto, qualora il giocatore dovesse usare questa impugnatura, non gli verrà mai richiesto di premere il tasto “L” che si trova al di sopra dell’impugnatura col D-pad.
Nonostante in molti non trovassero ergonomico questo controller (in molti ancora oggi lo impugnano in maniera sbagliata) esso rappresentò il punto di svolta per tutti i controller a venire e, come risultato, Sony e SEGA dovettero rivisitare i propri mentre, Nintendo, ancora una volta, rimase con lo stesso pad dal lancio fino alla fine del suo ciclo vitale.

Chiusa una porta si apre un portone e infatti Sony rilasciò il più completo controller DualShock, con due levette analogiche per permettere tutto ciò che offriva  il rivale del N64, e l’innovativa funzione rumble inclusa all’interno del controller, a differenza del controller Nintendo a cui serviva attaccare il rumble pak. In aggiunta a queste feature innovative, le levette analogiche reagivano alla pressione esattamente come dei tasti, diventando ufficialmente “L3” e “R3“. Molti titoli furono ripubblicati per offrire i nuovi controlli analogici, come Resident Evil: Director’s Cut Dual Shock Ver., ma le future pubblicazioni si concentrarono nell’offrire sia il controllo analogico che il controllo tramite D-pad che, nonostante la coesistenza, cominciava a cedere il passo a questo nuovo tipo di controlli.
Il nuovo controller Sony fu così efficiente che il design generale, fra la prima PlayStation e la terza, subì pochissime rivisitazioni, offrendo al giocatore una presa e un controllo vicino alla perfezione: per la successiva generazione Sony cambiò i tasti digitali in tasti analogici, che ovviamente reagiscono alla quantità di pressione applicata, mentre su PlayStation 3 furono implementati i trigger analogici e resero l’intero controller wireless, con la possibilità di ricaricare la batteria a litio via USB. Alla fine il controller cambiò radicalmente soltanto con l’arrivo di PlayStation 4, con la quale fu implementato il piccolo led per identificare il giocatore, il touch pad e accelerometro a tre assi e giroscopio a tre assi, migliorando e implementando correttamente quello che non riuscirono a consegnare con il controller Sixaxis (di cui parleremo più avanti).

SEGA dal canto suo aggiornò il suo sistema di controllo con il nuovo e rinnovato 3D Pad, un controller decisamente più grande rispetto al modello base. Incluso in bundle con Nights into Dreams…, il 3D Pad può sembrare un controller scomodo e ingombrante ma in realtà è invece risulta ergonomico offrendo una presa più rilassata, particolarmente efficiente in giochi picchiaduro come Vampire Warriors: Darkstalkers’ RevengeStreet Fighter Alpha 2 o Virtua Fighter 2. Sebbene non abbia la funzione rumble e i controlli analogici non siano stati implementati per tutti i giochi a venire, il 3D pad fu invece il primo controller a implementare i Trigger analogici dorsali, caratteristica fondamentale di ogni buon controller per console o computer.

Col cambio della prospettiva, dai giochi 2D a quelli 3D, cambiarono anche i controller che da questo punto in poi, non sarebbero mai più stati gli stessi. Mutano i giochi, mutano i controller. Come sarebbero stati i controller successivi? Aspettate il prossimo articolo e continueremo a ripercorrere l’evoluzione dei controller fino al giorno d’oggi!




Atari Jaguar: quando la potenza non è tutto

Atari: il marchio che introdusse i videogiochi al mondo negli anni ’80, un tempo magico, in cui la grafica e il suono venivano compensati con l’immaginazione del singolo giocatore. Come sappiamo e abbiamo accennato anche in un nostro precedente articolo, Atari godeva di grandissima fama, tanto da essere sinonimo di videogioco, ma la crisi del 1983 portò alla chiusura di Atari.Inc e il suo marchio cadde nell’oscurità, per sempre eclissato da Nintendo. Sotto la leadership di Jack Tramiel, fondatore di Commodore che acquistò i suoi asset hardware per poi rilanciarli sotto il nuovo brand Atari Corporation, la compagnia si rialzò in piedi con lancio di Atari 7800; sebbene la console non costituì un fallimento, grazie anche alla deliziosa feature della retrocompatibilità con Atari 2600, questa non riusciva a reggere il confronto con Nintendo a livello di marketing, software e supporto di terze parti, neppure con il computer/console Atari XEGS, rimanendo di conseguenza una console di nicchia e per pochi appassionati. Nel 1989 Atari lanciò Lynx, la prima console portatile a colori e con display retroilluminato, un anno prima del più aggressivo Sega Game Gear che presentava più o meno le stesse caratteristiche. Ancora una volta, nonostante le sue ottime capacità, la nuova console Atari (che cominciò il nuovo trend interno di chiamare le proprie console con nomi di specie feline) non ebbe lo stesso supporto del Nintendo Gameboy e Sega Game Gear, finendo dunque per rappresentare la nicchia. Vale ricordare però che il Lynx, come l’Atari 7800 e i computer XEGS e ST, erano molto popolari in Europa, specialmente in Regno Unito che rappresentò, in un certo senso, il nuovo core-market dell’azienda. Dopo il 1992 Atari, che fermò la produzione del 7800, non aveva più nulla sul fronte delle console casalinghe, mentre nel frattempo Nintendo e Sega se le davano di santa ragione “a colpi di bit”. Con l’arrivo di Sega Mega Drive (o Genesis in Nord America) i giocatori vennero messi di fronte alla nuova parolina “bit”, un termine che in realtà nessuno sapeva cosa significasse realmente ma stava a sottolineare, in un qualche modo, la potenza hardware di una determinata console o computer. Grazie “all’esposizione dei bit” Sega potè accaparrarsi un netto vantaggio contro il Nintendo Entertainment System con i suoi 16bit, otto in più rispetto alla controparte, ma con l’arrivo del Super Nintendo la guerra, da lì in poi, fu combattuta ad armi pari.
Atari, visto anche che il Turbografx 16 di NEC non decollava al di fuori del Giappone (dove si chiama PC Engine), capì che bastava “averlo grosso” per vincere la partita… Il numero dei bit – maliziosi che non siete altro –! In questo scenario Atari avviò ben due progetti capitanati dall’esperienza di alcuni ingegneri provenienti dal Regno Unito, uno che avrebbe permesso di sbaragliare la competizione corrente e un altro per la generazione futura, visto che la successiva generazione di console cominciava a prendere qualche sembianza; questa è la storia dell’Atari Jaguar, una console che più di tutti ricordò ai giocatori che la potenza non è tutto.

(Jaguar, Jaguar, JAGUARRRRRRRRRRR!!)

Sete di conquista

Prima di parlare del Jaguar bisogna parlare del Panther, la console 32bit che avrebbe dovuto competere originariamente contro Super Nintendo e Sega Genesis. Il progetto originale risale nel 1988 anno in cui Atari, spinta dal voler riconquistare il cuore dei giocatori di tutto il mondo, avviò il progetto di un prototipo utilizzando la tecnologia di un Atari XEGS e la scheda video del Atari Transputer Workstation. Lo sviluppo andava bene ma i progressi non entusiasmavano nessuno all’interno dell’azienda; Richard Miller, vicepresidente di Atari Corporation (che fonderà più in là la VM Labs che ha portato il mondo il Nuon), andò a chiedere aiuto alla Flare Technolgy, una piccola compagnia inglese fondata da tre ex ingegneri di Sinclair Research, ovvero Martin Brennan, Ben Chese, che andò a lavorare più in là con Argonaut Games alla quale si deve il chip FX montato nelle cartucce dei giochi 3D dello SNES come Star Fox e Stunt Race, e John Mathieson, suo ex collega e amico. Flare era nota per aver prodotto il chip Flare 1 montato in alcune schede arcade ma soprattutto nel Konix Multisystem, console 100% inglese che fu cancellata per diversi motivi: il chip poteva permettere uno scaling mai visto prima, ancora più veloce di quello nell’Atari ST. Atari diede dei fondi a Flare per migliorare il chip esistente e inserirlo nel Panther e avviare parallelamente il progetto del chip Flare 2, che sarebbe stato parte dell’Atari Jaguar.
Grazie al supporto di Atari, Flare potè cominciare lo sviluppo di una nuova console 32bit contenente il nuovo chip migliorato, che venne chiamato Panther come l’automobile della moglie di Martin Brennan (la Panther Kalista) e, presto, la denominazione del chip finì per rinominare l’intero progetto e il prodotto definitivo. In tutto questo, con due progetti avviati, Atari sperava prima di mettere in difficoltà la competizione corrente col Panther e poi, successivamente, lanciare il Jaguar con i suoi 64bit, anticipando la prossima generazione e porsi dunque come la più potente (visto che si vociferava già delle console 32bit). Il Panther era quasi pronto ma i suoi dev kit, da distribuire agli sviluppatori, non funzionavano una volta assemblati; Atari avrebbe dovuto investire ulteriori risorse per risolvere questo problema ma per sua fortuna lo sviluppo del Jaguar era in netto anticipo e perciò si deliberò nel non continuare a produrre il progetto 32bit. Al Consumer Electronic Show del 1991 Atari annunciò la cancellazione del Panther ma in compenso annunciò quella del Jaguar che sarebbe stato pronto per il 1993, un predatore pronto a fare a brandelli la concorrenza e riconquistare il suo trono all’interno del mercato dei videogiochi.

Dall’annuncio al lancio

L’annuncio a sorpresa al CES del 1991 non solo infiammò la stampa ma convinse anche i giocatori; il Jaguar si poneva sia come una console più potente di SNES e Mega Drive che una console di prossima generazione in grado di competere, persino superare, le future rivali 3DO, Sega 32X, Saturn e PlayStation. In tutto questo Atari riuscì anche ad accaparrarsi degli ottimi 3rd party come Micro Prose, Virgin Interactive, Gremlin Graphics, Activision, InterplayUbisoft, che lanciò proprio nel Jaguar il primo Rayman, e molti altri. Per tutto il 1993 Atari svelò a poco a poco le specifiche della console e futuri add-on come il Jaguar CD, un headset VR e un modem per il gioco in rete (questi due prodotti non uscirono mai), il tutto fino all’uscita su tutto il suolo americano previsto per il primissimo 1994. Nel Novembre del 1993 furono inviate 50.000 unità fra New York e San Francisco in test market e i risultati furono strabilianti: la console andò sold out in un giorno e poco dopo i pre-order in Europa toccarono le 2 milioni di unità. Arrivati a questo punto IBM, che produceva i componenti della console, si ritrovò con le spalle al muro non potendo soddisfare una domanda così grossa e così Atari, contro il suo stesso interesse, decise di concentrarsi sul mercato americano, accantonando il mercato dove andavano più forti; di conseguenza, al lancio, in Gran Bretagna arrivarono solamente 2.500 unità.
Ciononostante, per Atari le cose stavano girando per il verso giusto: insieme all’eccellente test market a New York e San Francisco, il Jaguar vinse nel Gennaio del 1994 il premio il “best new game system” su Videogame Magazine, “best new hardware system” su Game Informer e “technical achievement of the year” su DieHard GameFan. I più tecnici furono certamente attratti dalle potenti qualità del Jaguar: la console di base era in grado di creare oggetti 3D con texture, poteva produrre sprite alti 1000 pixel, era possibile cambiare la risoluzione nei background 2D (in modo da poter rendere, per esempio, meno visibile un layer più lontano, creando un ottimo effetto di profondità) e ostentava effetti luce e altri effetti speciali veramente all’avanguardia.
La console attrasse inizialmente una base di giocatori di tutto rispetto grazie sia a un’aggressiva campagna di marketing, il cui slogan principale era “do the math” (più o meno “fai i conti”, in quanto le pubblicità sottolineavano il “gap dei bit” fra il Jaguar e le restanti console), e una buona linea di titoli di lancio e altri che arrivarono man mano; dopo gli iniziali Cybermorph, Raiden e Evolution: Dino Dude arrivarono l’incredibile Tempest 2000, Wolfenstein 3D e Doom, i cui porting erano i più belli e i più vicini al PC (ai tempi) e Alien vs Predator che diventò la killer app del sistema. In aggiunta a tutto questo, a metà del 1994 Atari vinse una causa legale contro Sega per violazione di brevetto: la compagnia giapponese dovette pagare alla compagnia di Jack Tramiel 50 milioni di dollari in spese giudiziarie, fu costretta ad acquistare azioni Atari per 40 milioni e rilasciare alcuni giochi esclusivi Sega su Atari Jaguar (che non uscirono mai). Jaguar aveva tutte le carte in tavola per diventare un competitor importante nel mercato ma Atari non aveva fatto i conti con il nemico numero uno della macchina: la sua stessa scheda madre.

(Il controller del Jaguar, come quello del ColecoVision e Intellivision, aveva un tastierino numerico sulla quale era possibile attaccare degli overlay. È stato, probabilmente, l’ultimo controller con una tale feature.)

Tom & Jerry

Sin dal lancio i giocatori si accorsero che Cybermorph, che era uno shooter sulla falsariga di Star Fox ma presentava una struttura più aperta, era molto più avanzato di Raiden e Evolution: Dino Dudes e che questi due  sembravano dei normalissimi giochi 16 bit. Col tempo, nonostante la console ricevette tanti grandi titoli, i giocatori si accorsero che qualcosa andava storto e che non tutti i giochi sfruttavano le vere capacità dell’Atari Jaguar. Si dice appunto che questa console è in realtà una console 32+32bit e che dunque non è una vera macchina 64bit; ma qual è la verità?
Il cuore della macchina era un processore Motorola 68000 ma in realtà era supportato da altri due processori RISC chiamati “Tom” e “Jerry“: Tom si occupava di tutto il piano grafico, dunque era la GPU e generava gli oggetti in 3D, mentre Jerry si occupava del comparto sonoro, dunque processava i segnali audio e gli effetti sonori. In pratica i programmatori dovevano programmare grafica e sonoro separatamente su quei due chip in modo che venissero mandati al Motorola 68000 che avrebbe processato il tutto e “generato” il gioco al giocatore; John Mathisen descrisse il chip principale come un project manager, che non fa nessun effettivo lavoro ma è lì per dire a tutti cosa fare. Programmare sul Motorola 68000 era molto più facile visto che era un chip montato nei primi computer Macintosh, il Commodore Amiga, l’Atari ST e persino il Sega Mega Drive; per venire in contro alle date di scadenza, visto che il sistema Tom & Jerry non era chiaro a tutti, i giochi venivano programmati direttamente sul Motorola 68000 in quanto molti programmatori avevano già programmato per quel determinato chip, e perciò molti dei giochi vennero fuori con una veste tutt’altro che 64bit, alcuni porting erano persino più carenti delle controparti 16bit. La credibilità del Jaguar si sgretolava piano piano e, contrariamente alle previsioni di Jack Tramiel che si aspettava almeno 500.000 unità vendute in un anno, alla fine del 1994 i dati di vendita riportarono solamente circa 100.000 unità. Adesso per Atari arrivava l’anno 1995, anno in cui il Jaguar sarebbe dovuto entrare in competizione con Sega Saturn e Sony PlayStation.

(I due grossi chip sulla sinistra sono Tom e Jerry, mentre il chip più grosso sulla destra è il Motorola 68000)

La seconda fase

Al CES del Gennaio 1995 Atari comincia l’anno nuovo col botto: vengono annunciate le date di uscita e il prezzo per il Jaguar CD, insieme all’annuncio di dei dischi proprietari dalla capienza di 790Mb, Jaglink, che premette di collegare due Jaguar, per il VR headset (annunciato per il Natale ma mai uscito) e per moltissimi giochi. Due mesi dopo viene annunciato un price drop di 149,99$ e Atari dedide di non sviluppare molti dei suoi prodotti: la produzione di XEGS, ST e Falcon si fermano sin da subito mentre il Lynx verrà abbandonato alla fine del 1995. Era chiaro, a quel punto, che Atari era pronta a tutto pur di vendere il Jaguar. Sam Tramiel, figlio di Jack che prese le redini di Atari alla fine degli anni ’80, per fronteggiare l’imminente uscita di Sega Saturn e Sony PlayStation, si rese disponibile per molte interviste al fine di promuovere la loro console casalinga ma a molti sembrava che si stesse arrampicando sugli specchi: ad Aprile, su Next Generation Magazine, disse che Saturn e PlayStation erano destinate a fallire per il loro prezzo (che a lui sembrava esorbitante), mentre a Luglio, nella medesima rivista, dichiarò che il Jaguar aveva venduto 150.000 unità, che il 50% degli utenti Jaguar avrebbe comprato il Jaguar CD, che “l’interno del Saturn era un casino”, ignorando il proprio complicato sistema Tom & Jerry e che il Jaguar presentava le stesse caratteristiche, se non più potente, del Saturn e poco più debole di PlayStation (mentre in reltà la console Sega era, su carta, più potente di della console Sony!).
Le affermazioni di Sam Tramiel gli si rivoltarono contro quando prima Sega Saturn e poi Sony PlayStation superarono di molto, già nel periodo di lancio, le vendite complessive di Jaguar di un anno di attività; persino 3DO, rimasta inizialmente indietro, superò la console Atari con 500.000 unità vendute. In tutto questo, i giochi promessi al CES 1995 tardavano ad arrivare e l’accordo con Sega, per la perdita di quel caso giudiziario, non uscirono mai. Nell’Ottobre del ’95, un mese dopo l’uscita del Jaguar CD, Atari decise di destinare meno risorse al Jaguar, tentando di reinvestire ciò che è rimasto nella produzione hardware e software PC; successivamente, a Novembre, venne chiuso lo studio Atari che produceva i giochi first party e nel natale del 1995 il Jaguar fu venduto per 99,99$, l’ultimo e definitivo price drop. Come se non bastasse, Sam Tramiel subì un lieve attacco di cuore che costrinse il padre Jack di nuovo alla direzione dell’azienda che aveva comprato dalla Warner Communication.

Dalla chiusura alla seconda vita di Jaguar

Nel Gennaio 1996 furono riportati i disastrosi dati di vendita di Atari Corporation: l’azienda fatturò solamente 14.6 milioni di dollari, significativamente meno dei 38.7 milioni del 1994, mentre nell’anno trascorso furono venduti solamente 125.000 unità, decisamente meno rispetto a quanto dichiarato da Sam Tramiel su Next Generation Magazine; a tutto questo si aggiungevano 100.000 unità invendute e solo 3.000 unità vendute in Giappone, dove fu distribuito in pochissimi negozi. Sebbene nel 1996 alcuni giochi continuavano a uscire, la produzione di Atari Jaguar terminò di lì a poco. Atari Corporation, in Aprile, si fuse con JT Storage e più tardi, nel 1998, vendettero il nome ad Hasbro.
Contrariamente a ogni aspettativa, la sfortunata console riemerse dal dimenticatoio: nel Maggio 1999 Hasbro non rinnovò la licenza sull’Atari Jaguar, facendo ricadere i diritti sul dominio pubblico; da quel momento in poi, qualsiasi sviluppatore, grande o piccolo, è libero di produrre e vendere un gioco per Jaguar senza il permesso di Hasbro. Furono rilasciati subito tre giochi precedentemente cancellati, uno dei quali della Midway e ancora oggi, l’Atari Jaguar è casa di una scena homebrew veramente vasta; l’ultimo titolo uscito per la console è stato Fast Food 64, rilasciato il 23 Giugno del 2017. Dal 2001 al 2007 i rimanenti Jaguar sono stati venduti dalla catena di negozi inglese Game per 30£, fino al price drop finale di 9,99£. E ancora, come se non bastasse, lo stampo industriale per creare la console esterna è stato usato dalla compagnia Imagin per creare un utensile per dentisti e riutilizzata di nuovo per il gaming nel fornire il design esterno della console cancellata Retro VGS/Coleco Chameleon. Che dire? È una bestia che proprio non ne vuole sapere di morire!

(Un video dell’utente bframe che ci mostra tutti i giochi dell’Atari Jaguar)

Mamma, possiamo tenerlo?

Come abbiamo accennato, Atari Jaguar è di dominio pubblico e perciò abbiamo tutto il diritto di emulare la console e i giochi. Tuttavia, al di là dei recenti sviluppi sull’emulazione, stando a molti utenti l’emulazione di Jaguar è ancora un po’ carente e spesso e volentieri molti giochi presentano bug o si bloccano improvvisamente (e non è un problema relativo ai PC). Dunque l’alternativa, visto che ancora nessuno ha prodotto un sistema clone (e Polymega non ha annunciato un modulo dedicato), è proprio quella di comprare un Atari Jaguar originale. Anche se i prezzi sono un po’ più alti del loro prezzo originale, bisogna dire che per una console che ha venduto meno di 300.000 unità è un prezzo equo; andare a caccia dei videogiochi, dunque delle orrende cartucce (in senso buono) con la maniglia in alto, è un discorso a parte in quanto dipende sempre dalla reputazione di un gioco e dalla tiratura e come abbiamo visto, contrariamente a ciò che si possa pensare, ce ne sono tanti. Assicuratevi che la console vi arrivi con il suo cablaggio proprietario per montarlo alla TV via RCA. Discorso a parte va fatto per il Jaguar CD: questo particolare add-on, a differenza dei più comuni Sega CD o PC-Engine CD, è famoso per essere particolarmente fragile ed è facile incappare in uno dei tanti Jaguar CD non funzionanti e, se lo collegherete alla TV, ve lo farà sapere con la famosa “red screen of death” che indica un problema di comunicazione fra la base e l’add-on; come se non bastasse, l’add-on è ancora più raro della console in sé e perciò rischiate di sprecare oltre 200€ per un Jaguar CD morto. È un acquisto che va fatto molto attentamente, anche per la base, ma se state attenti e siete interessati alla sua particolare libreria di giochi potrete portare a casa una gran bella console che ha detto molto e, sorprendentemente, ha ancora molto da dire!




Food Party: prodotti alimentari nei videogiochi

L’alimentazione è un bisogno primario degli esseri umani e, da giocatori, possiamo dire che è forse più forte nei gamer. Dobbiamo pur smettere di giocare, spegnere la console o il PC per poi addentare un bel panino, goderci un gustoso piatto di pasta o, visto che le calorie bruciate di fronte allo schermo non sono tantissime, rifocillarci con della sana frutta. Non tutti i videogiochi ci spingono a mangiare: magari passando da tutti quei fast food in Dead Rising o guardando quei cosciotti di maiale in Castlevania potrebbe venirci un insolito languorino, ma che succede quando il cibo stesso diventa il protagonista del gioco? Oggi, un po’ come abbiamo fatto tempo fa con le celebrità, vogliamo fare un excursus di sapori – più o meno sani – e gaming dando uno sguardo ad alcuni titoli il cui fine non è necessariamente la produzione di un gioco avvincente ma venderti un prodotto! In questo articolo troverete dei giochi il cui fulcro è la promozione di un brand alimentare, perciò, salvo casi eccezionali, non parleremo di casi product placement come il KFC in Crazy Taxi, le promozioni e gli oggetti speciali di Subway in Uncharted 3: Drake’s Deception o le mentine Airway in Splinter Cell: Chaos Theory. Al solito, la lista non sarà completissima perciò se ci dimentichiamo qualcosa fatecelo sapere pure nei commenti!

(COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA!)

Domande esistenziali

Sin dall’alba della nascita dei prodotti di consumo l’uomo è da sempre stato messo di fronte una domanda tanto semplice quanto decisiva: Coca Cola o Pepsi? Sin dal loro arrivo sul mercato, più o meno intorno alla fine del ‘800, le due compagnie si sono letteralmente odiate, una guerra combattuta prodotto su prodotto. Nel 1983, visto che Pepsi nel 1975 diede un duro colpo alla compagnia rivale con dei test a occhi bendati nei supermercati americani, Coca Cola distribuiva alle convention un gioco per Atari 2600 senza etichetta, insieme alla console (che per la crisi, tanto, costavano pochissimo), intitolato Coke Wins ma più in là rinominato dal pubblico Pepsi Invaders per via della sua estrema somiglianza con Space Invaders (tanto che, infatti, il titolo nasce dal codice madre del gioco Taito ed è pertanto considerabile, in tutto e per tutto, un hack). Il titolo, sviluppato da Atari stessa, mirava a promuovere il marchio Coca Cola, infatti lo scopo del gioco era annientare la schiera di navicelle che in cielo formavano sei pericolosissime scritte “PEPSI“, capitanate da altrettanti alieni residuati da Space Invaders, e quando si vinceva appariva la scintillante scritta “Coke Wins“; tuttavia, essendo il marchio del nemico così in bella vista, sembrava che stessero promuovendo la compagnia rivale anziché il promotore stesso e perciò oggi in molti vedono in questo gioco l’esempio lapalissiano di un colpo di zappa sui piedi. Il gioco non fu mai venduto al pubblico ed è pertanto uno dei più rari di sempre: delle copie sono state vendute su eBay per prezzi che oscillavano dai 1000 ai 2000 dollari americani. Se volete provare questo rarissimo gioco vi converrà ovviamente provarlo su un emulatore… oppure, potreste comprare una Coca Cola per 2 euro al bar!

Nel 1983, su Atari 2600 e Intellivision, ci fu un’altra famosa promozione, stavolta per un prodotto assente nei supermercati italiani: parliamo di Kool-Aid Man, gioco che promuove la famosa bevanda fruttata americana “fai-da-te”. Su Atari 2600 controlleremo la famosa brocca animata che da tanti anni promuove il brand e lo scopo del gioco è evitare i Thirsties in corsa, perché altrimenti verremo schiantati a destra e a manca nell’area di gioco e fermarli quando allungano le cannucce per bere dalla pozza di Kool-Aid nel fondo. Poco tempo dopo, per Intellivision, uscì un gioco in cui il nostro obiettivo era quello di controllare due bambini intenti a collezionare i tre ingredienti principali per fare una bella brocca di Kool-Aid (la bustina con la polvere, dello zucchero e una brocca di acqua ghiacciata… sbaglio o stiamo facendo pubblicità gratuita?). Anche qui, i Thirsties, i nemici di Kool-Aid Man, saranno alle nostre calcagna e se ci prendono due volte per noi sarà game over; ma se riusciremo a preparare la bevanda in tempo chiameremo la cara brocca sorridente e goderci il Kool-Aid in santa pace!

(Oh yeah!)

Basta aperitivi, abbiamo fame!

Avete fame? Non vi va di andare in cucina a preparavi un hamburger? A quanto pare, nell’anno 2025 (dunque fra sette anni, tenetevi forte!), i ricercatori Burger King creeranno un Whopper così buono che non dovrete spostarvi dal divano, sarà lui a venire da voi! In Whopper Chase, gioco del 1987 per Commodore 64, ZX Spectrum e MSX, controlleremo il famoso hamburger di casa Burger King alla volta delle fauci di un avventore che lo chiama per telefono; per strada dovremo eliminare pomodori e cetrioli ostili e chef gelosi a colpi di maionese in eccesso (sapete, quella che scola via ai lati del panino morso dopo morso). Il gioco è stato prodotto in Spagna su musicassetta ed era possibile ottenerlo con un Whopper solo nei Burger King spagnoli; al di là dell’intento commerciale la diffusione è stata un successo e come conseguenza i prezzi su eBay, oggi, non sono per niente proibitivi nonostante la circoscrizione al territorio iberico. Di sicuro, nel 1987, i bimbi spagnoli saranno andati ben più volentieri al Burger King con questa scusa (e forse saranno anche ingrassati parecchio)!

Ronald McDonald alla riscossa!

Poteva McDonald’s tirarsi fuori dalla guerra dei software digitali per promuovere i loro ristoranti fast food per famiglie? Nel 1992 arriva M.C. Kids (non Mc Kids…) su Nintendo Entertainment System, noto come McDonald’s Land in Europa, un grazioso platformer ispirato primariamente a Super Mario Bros. 3 per quel che riguarda il design dei livelli e l’overworld diviso in sette mondi. Contrariamente a quel che si possa pensare, il gioco non mette in risalto i prodotti McDonald’s ma di certo è una gran bella presentazione delle mascotte dei loro ristoranti come Ronald McDonald, Birdie, Grimace e l’avido Hamburglar che in questo gioco ruba una borsa magica al famoso (e spaventoso) clown. Per avanzare nell’overworld ci servirà collezionare delle carte da consegnare alle mascotte una volta terminato un livello – gameplay che verrà ripreso anni più tardi nel terribile Spartan per Nintendo Switch –; di certo non è fra i platformer migliori che il NES possa offrire ma per essere un gioco su licenza e, in tutto questo, anche una chiara trovata commerciale per promuovere i ristoranti McDonald’s il risultato non è male e il gioco, nonostante alcuni difetti, risulta tuttavia godibile.

Dopo questo titolo, McDonald’s rientrò nel mondo dei videogiochi con altri due platformer per Sega Mega Drive o Genesis in Nord America: il primo è Global Gladiators del 1992, un gioco in cui due ragazzini di nome Mick e Mack vengono catapultati nel loro fumetto preferito (guarda caso pieno di doppi archi dorati) grazie a una magia di Ronal McDonald, e l’altro è McDonald’s Treasure Land Adventure del 1993. L’ultimo titolo è davvero niente male, specialmente perché dietro allo sviluppo di tale gioco c’è il leggendario studio Treasure, noto per aver prodotto alcuni dei migliori videogiochi mai sviluppati come Gunstar Heroes, Dynamite Headdy, Guardian Heroes, Radiant Silvergun e Ikaruga! Che dire? Anche i migliori hanno bisogno di un Big Mac di tanto in tanto!

I’ vogl na pizz!…

Ai napoletani sicuramente non piacerà ma per gli americani è una garanzia quando non ci si vuole avventurare in un ristorante italiano sconosciuto: Domino’s Pizza è un brand molto famoso negli Stati Uniti e dal 2015 è presente anche nel territorio italiano con otto ristoranti a Milano e uno a Bergamo. Il titolo che vedremo adesso è Yo! Noid, videogioco con protagonista il Noid, protagonista e mascotte delle pubblicità di questo popolare brand americano. A differenza dei giochi McDonald’s il gioco, che in realtà era un titolo per Famicom di Capcom originariamente uscito come Kamen no Ninja Hanamaru, risulta molto carente sia sul piano della dinamicità, offrendo un gameplay poco bilanciato per il fatto che il Noid viene annientato solo dopo un colpo e una grafica buona ma confusionaria sul piano dell’uso dei layer di scorrimento. Ad aggravare la situazione sono presenti le orrende sezioni dei pizza eating contest in cui bisognerà mangiare più pizza di un altro Noid; queste sono delle vere e proprie boss battle in cui regna la casualità, in quanto i due partecipanti pescheranno in maniera radomica un numero da un selettore e, il partecipante col numero più alto aggiungerà un punto sul suo pizza meter. Meglio andare a mangiare una pizza!

… e una Pepsi!

Più tardi, nel 1999, anche Pepsi si buttò nel mercato videoludico proponendo un titolo a oggi molto discusso, una vera e propria bestia rara, visto che uscì solo in Giappone, ma molto divertente e soprattutto bizzarra. Sviluppato dallo studio giapponese KID, Pepsiman per PlayStation è una sorta di gioco d’azione in cui controlleremo l’iconico (non in Italia) supereroe gasato nel intento di portare una Pepsi a chi ne ha bisogno, come un militare nel deserto; il gioco si presenta come uno runner sullo stile di Metro Cross o Penguin Adventure – oggi sarebbe un gioco ideale per smartphone – e bisognerà evitare bizzarri ostacoli come dei lavori in corso per strada, stendibiancheria nei giardini, camion carichi di Pepsi e lattine giganti che ci inseguono come il masso all’inizio di Indiana Jones e i Predatori dell’Arca Perduta. Stranamente, il gioco è interamente doppiato in inglese, il che lo rende tranquillamente giocabile per chi non parla giapponese, e con alcune cutscene girate a Los Angeles che includono la presenza dell’attore Mike Butters, ricordato per essere stata la prima vittima del killer in Saw: l’Enigmista; a quanto pare era programmata una release internazionale ma alla fine il gioco rimase relegato al Giappone.
Il gioco, tuttavia, non segna la prima apparizione di Pepsiman in un videogioco; il supereroe era presente nel picchiaduro Fighting Vipers nel 1996 per Sega Satun (di cui potrete vedere un footage nel fondo di questo articolo sul Polymega, anche se Pepsiman non è presente) dove divenne un personaggio sbloccabile grazie a un accordo pubblicitario fra Pepsi e Sega.

Prima di concludere il discorso di questi particolari titoli promozionali vogliamo parlare un secondo dei “videogiochi originali” presenti nelle confezioni delle merendine Ferrero. A oggi è molto difficile tracciare tutte le “release” di questi titoli, che comprendono titoli del calibro de Gli Straspeed e la Strarace e il videogioco de i Magicanti, delle mascotte Ferrero durate per poco tempo, ma vale la pena di ricordare lo spettacolare Fresh Adventure, un lentissimo e davvero scadente platform con il pinguino del Kinder Pinguì e Fetta al latte; perché spettacolare? Per questo esatto motivo:

GameCompass per la vostra salute

Ci sono ancora molti giochi che promuovono brand alimentari, come Cool Spot per le console 16 bit che promuoveva la 7-Up, Chester Cheetah: Wild Wild Quest per Sega Mega Drive e Super Nintendo che promuoveva il brand di chips Cheetos e persino i recenti Dash of Destruction e Crash Course per Xbox 360 per promuovere il brand Doritos. Tuttavia, i giochi che abbiamo promosso finora contengono prodotti ipercalorici che nel peggiore dei casi, possono portare a malattie come il diabete.
Per scongiurare casi come questi la Novo Nordisk, una compagnia danese specializzata nel trattamento del diabete e nella produzione di insulina, si è buttata nel ring nel 1992 con Captain Novolin per SNES, un titolo sviluppato da Sculptured Software per sensibilizzare i bambini affetti da diabete (ma solo quelli col Super Nintendo. Al diavolo quelli col Mega Drive o i computer!). Nel gioco ci verranno spiegate le migliori soluzioni per trattare questa brutta malattia e per proseguire le avventure dell’unico supereroe affetto da diabete di tipo 1 bisognerà di tanto in tanto rispondere a qualche domanda sull’argomento; sia genitori che bambini hanno trovato questo gioco molto utile nonostante il gameplay poco interessante ma bisogna anche ammettere che mirare alla sensibilizzazione a un problema così grande e spesso sottovalutato è un obiettivo veramente nobile… il vero problema, giusto per concludere in bellezza, era che il gioco veniva venduto a prezzo pieno e nessuna parte dei proventi venne investita per la ricerca; dunque, alla fine dei conti, il vero obiettivo del gioco era venderti l’insulina della Novo Disk!

Dunque, state attenti a cosa mangiate, non andate a mangiare cibo spazzatura di frequente o altrimenti vi toccherà giocare con Captain Novolin!

(Bene Captain Novolin, ha salvato il mondo! Per festeggiare che ne direbbe di un bel pezzo di tor… ops…)



Polymega: la nuova frontiera del retrogaming

Le librerie digitali di PC e console sono inondate da titoli dall’aspetto vintage ma per ora, dopo la chiusura di LOVEroms e LOVEretro e dell’effetto domino che si è venuto a creare, gli interessati a riscoprire i veri e propri titoli del passato per ora non vivono giorni facili. Sia Steam che gli store digitali delle console non stanno offrendo una vera alternativa alle tanto amate ROM e i rivenditori su eBay sembrano voler girare il coltello nella piaga. Per quanto nero possa sembrare lo scenario attuale qualcuno si sta già muovendo e un ambiziosissimo progetto avviato un anno fa sta per vedere la luce: stiamo parlando della Polymega, una console di una nuova compagnia chiamata Playmaji e fondata da ex dipendenti di Insomniac e Bluepoint games (senza contare che questi hanno lavorato a giochi tripla A come Ratchet & Clank e Titanfall) e che promette compatibilità con ben 13 sistemi (in realtà 30 se contiamo che questa “frankenmacchina” è region free). Questi, per la gioia dei più appassionati, sono:

  • Sony PlayStation
  • Neo Geo CD
  • Turbografx 16/PC Engine
  • Turbografx 16 CD/PC Engine CD-ROM2
  • Supergrafx
  • Super CD ROM2
  • NES
  • SNES
  • Sega Mega Drive
  • Sega CD
  • Sega 32X
  • Sega CD32X
  • Sega Saturn (quest’ultima annunciata a sorpresa con il trailer di lancio per l’apertura dei preorder)

Chiunque di fronte una tale lista rimarrebbe senza fiato e i retrogamer di tutto il mondo potrebbero ritrovarsi un sistema che potrebbe risolvere un’infinità di problemi, dallo spazio in casa ai soldi da spendere per i sistemi, i giochi ed eventuali pezzi di ricambio o per la manutenzione di quest’ultime (specialmente per le console a CD costruite con un sacco di pezzi mobili o batterie RAM da cambiare). Ma cosa è esattamente questa macchina? Come può promettere una compatibilità così ampia e come risolverebbe l’attuale fame del retrogaming?

I can make this work

Il termine “frankenmacchina” che abbiamo usato poco fa descrive perfettamente la natura di questo prodotto – cara Accademia della Crusca, il mio codice IBAN è… –: la console è composta da una base, il cuore della macchina, in cui è presente il lettore CD che permette di leggere tutti i sistemi a supporto ottico (dunque ben sei sistemi) e a questa possono essere aggiunti dei moduli che leggeranno le cartucce originali, le cui ROM verranno caricate nel sistema interno per essere emulate (pertanto non sarà necessario inserirle ogni volta che vogliamo giocare con un determinato gioco), e saranno compatibili con i controller originali. Nella base troveremo inoltre due porte USB (come spiega la sezione FAQ del sito di Polymega e da come possiamo vedere dal trailer introduttivo), sarà compatibile con bluetooth e, visto che gli sviluppatori promettono aggiornamenti per il sistema operativo interno, sarà possibile connettere la macchina a internet per accedere a un futuro store, che verrà lanciato nell’ultimo quarto del 2019, dove poter scaricare giochi e, se l’obiettivo dei 500.000$ verrà raggiunto nei primi 35 giorni, persino mandare il proprio gameplay in streaming su Twitch e YouTube. Il sito ha da poco aperto i preorder: il modello base, che comprende un controller standard simil PlayStation 4 per giocare ai sistemi CD, costa 249,99$ (al cambio attuale, in Euro, sono circa 215,60€) mentre i singoli moduli, che verranno venduti insieme a dei controller cablati simili a quelli dei sistemi emulati, costeranno 59,99$ (attualmente 51,74€) e al loro interno saranno caricati ben cinque giochi. Essendo un sistema moderno, l’attacco principale della console sarà l’HDMI ma, come un NES mini o SNES mini ci permette, sarà possibile regolare l’immagine e pertanto decidere se scegliere il formato 4.3 o 16:9, se mostrare tutti i pixel, mostrare gli “scalini” o avere un’immagine “pixel perfect“. Come già accennato, questa console estrarrà le ROM dalle cartucce per poi, essenzialmente, emularle all’interno dei moduli (e permettere tutto quello quello che permettono gli emulatori: save e load state, fare screenshot, registrare il gameplay, etc) ma gli sviluppatori hanno promesso di creare degli emulatori da zero, senza l’ausilio di altri software preesistenti.

Cosa significa Polymega per l’industria?

Prima di sottolineare come Polymega potrebbe incidere sul mercato vogliamo, per prima cosa, evidenziarne alcuni aspetti. Innanzitutto, questa console viene incontro alle richieste dei retrogamer finora rimaste inascoltate; nessuna terza compagnia, le molte che operano nel campo del retrogaming per offrire nuovi dispositivi per le vecchie macchine, aveva finora pensato alle piccolezze di alcune di queste, come offrire la compatibilità con il 32X per i cloni del Sega Mega Drive, offrire un’alternativa moderna agli ormai costosissimi Turbografx 16/PC Engine, senza contare che il loro modulo leggerà, praticamente, le sei cartucce del Supergrafx (console che si sarebbe dovuta comprare a parte anche possedendo una delle due versioni della console NEC), ma soprattutto offre la prima vera soluzione per i giochi su compact disk la cui compatibilità, grazie agli aggiornamenti firmware, potrà essere espansa a ben altre console a supporto ottico in futuro come il Sega Dreamcast (continuamente citato nella sezione FAQ) il 3DO o persino la PlayStation 2. Non dimentichiamoci inoltre che l’annunciata compatibilità con i giochi per Sega Saturn è molto importante perché da sempre questa console ha avuto la negativa fama di essere la più difficile da emulare per via del suo arduo sistema dual core, parallelamente all’essere una delle più ricercate fra i retrogamer. Similarmente, i moduli da comprare a parte, che potranno anche essere sviluppati da altre compagnie, continueranno ad uscire per offrire ai giocatori nuove soluzioni per console come il Nintendo 64, Atari 2600 o chissà cosa!
La console, diversamente da altre come il Retron 5 di Hyperkin o l’AVS di Retro USB, vuole porsi letteramente come un faro per i retrogamer e, come già citato precedentemente, vuole lanciare uno store digitale dove offrire legalmente tutte le ROM apparse finora nei maggiori siti di emulazione come emuparadise.me; questo significa anche, e soprattutto, raggiungere gli sviluppatori originali e coinvolgerli in tutto e per tutto nel progetto Polymega, ponendosi come una quarta console attuale ma dedicata esclusivamente al retrogaming. Alcune grandi compagnie come Capcom o Irem hanno già espresso interesse verso questo particolare mercato fornendo, pur sempre in quantità limitate, delle cartucce commemorative funzionanti e operative prodotte da RetroBit di Street Fighter II, Mega Man 2 e Mega Man X, R-Type III e Holy Diver (ebbene sì, un gioco ispirato a Ronnie James Dio e ai Black Sabbath! Un giorno ne parleremo), senza contare che altre compagnie, anche senza il consenso dei publisher, hanno prodotto molte reproduction cartridge per giochi ormai andati persi nelle obbrobriose aste eBay come Nintendo World Championship. Grazie a Polymega potrebbe esserci un rinnovato interesse in questi prodotti repro che potrebbero persino coinvolgere i giochi su disco, cosa che finora nessuna compagnia ha mai preso in considerazione, e dunque vedere delle nuove stampe – dei reproduction disk oseremo dire – di molti giochi per Saturn, Neo Geo CD o TG16/PC Engine CD, spesso dimenticati nel vastissimo oceano retrò. Playmoji, probabilmente visti i recenti sviluppi, non si è espressa sul tema ROM da caricare via USB o backup, per ciò che riguarda i giochi su CD, però hanno lasciato intendere che una volta caricata l’immagine sul sistema, potranno essere patchati; questo aprirebbe Polymega all’intera scena hack e delle traduzioni. Che dunque che potrà esistere un modo per permettere tutto questo? Probabilmente lo sapremo solo una volta che metteremo le mani su questo fantastico prodotto.

Questioni sul sito e il chip FPGA

Un po’ di tempo addietro, il sito è stato chiuso per qualche giorno e, alla riapertura, che ha lanciato definitivamente i preorder, sono state cambiate alcune specifiche del sistema: tutti i cambiamenti sono stati spiegati in un articolo su Nintendolife, redazione molto vicina alla compagnia che sta producendo il Polymega. Playmoji ha aperto uno stand durante l’ultimo E3 in cui era possibile provare la base della console e alcuni moduli, il tutto ancora in stadio di prototipo; lì hanno raccolto i primi feedback dei potenziali consumatori e in molti si sono lamentati dei lag durante l’emulazione dei giochi per PlayStation. Gli ingegneri hanno considerato attentamente l’opinione dei giocatori e così si è optato per ottimizzare l’hardware della console cambiando il vecchio processore FPGA quad core Rockchip RK3288 di 1.8Ghz che emula i sistemi in questione, un tipo di chip montato in console come l’Analogue NT o l’AVS; per spiegarlo in breve, le schede madre delle vecchie console non vengono ricreate da capo o in una maniera diversa per evitare questioni con le case produttrici originali, ma l’intero hardware viene emulato all’interno di un processore chiamato FPGA. Adesso, all’interno del modulo base, il chip in questione è stato sostituito da un più potente Intel CM8068403377713 dual core, il ché dovrebbe un fattore positivo (e che avrebbe probabilmente permesso l’emulazione per Sega Saturn) ma non è un chip specifico FPGA che permette l’emulazione ibrida dei sistemi sopracitati; per altro, questi chip dovrebbero essere inseriti all’interno di ogni modulo ma adesso il tutto grava sul nuovo chip montato all’interno della base. È possibile che il cambio del processore non gravi per nulla sull’emulazione dei sistemi e che i competenti sviluppatori in questione sanno quello che fanno (senza contare che un prototipo funzionante è apparso all’E3 e presentava solamente problemi per l’emulazione PlayStation) ma dalla riapertura del sito Playmoji non ha rilasciato nessuna dichiarazione ufficiale oltre all’articolo su Nintendolife e le domande degli appasionati alla ricerca dell’emulazione perfetta sono ancora senza una risposta ufficiale. Ad alcuni non interessa e sono certi, visto che il nuovo processore è più potente del precedente (e dunque semplicemente facendo 2 + 2), che il sistema possa essere addirittura migliorato ma ad altri sorgono altri dubbi, specialmente visto lo strano silenzio della compagnia dopo il rilascio dell’articolo e la riapertura del sito. Bisogna dire che la zona FAQ del sito è veramente esaustiva ma ancora molte domande necessitano di una risposta abbastanza tempestiva.
Vale ricordare inoltre, che il Polymega non è un kickstarter o un crowdfunding ma c’è un reward system dalla quale, in base alle prevendite, si raggiungeranno degli obbiettivi che permetteranno di creare nuove feature per gli acquirenti, come compatibilità espansa per il lettore CD e nuovi moduli; se l’obiettivo minimo di 500.000$ non verrà raggiunto le console verranno richiamate e rilanciate successivamente seguendo il feedback dei compratori ed è per questo che Playmoji, ora più che mai, deve garantire una buona comunicazione con chi sta per prendere in considerazione l’acquisto del sistema. Di certo non si tratta di una truffa come il Coleco Chameleon (tratteremo questo tema in futuro) in quanto il sistema è già stato mostrato funzionante all’E3 e le persone dietro al progetto sono davvero competenti ma le uniche domande che per ora gli appassionati si pongono sono: sarà un sistema all’altezza delle aspettative? Vale la pena comprare questo sistema al lancio? E se il lancio va male?

Aggiornamento del 13/09/2018

Proprio di recente, per fortuna, gli sviluppatori hanno dato prova della potenza del loro  sistema e tutto sembra essere tornato alla normalità. Sul loro canale YouTube sono apparsi ben tre video di gameplay di alcuni giochi per Sega Saturn, che si avviano dalla selezione dei titoli nel sistema operativo; con questa mossa gli sviluppatori hanno dimostrato che il processore è in grado di emulare perfettamente questa macchina problematica (visto che alcuni si sono lamentati del fatto che alcuni video di gameplay mostrati nel trailer di lancio appartenessero ad alcune controparti arcade) e perciò, se è in grado di emulare il Saturn, è fondamentalmente in grado di emulare tutto il resto. In breve, la console 32 bit di Sega era la prova del nove e Polymega l’ha superata. Il primo video mostra un gameplay variegato: vengono caricati Guardian Heroes, Sega Rally Championship, Panzer Dragoon Zwei, Fighting Vipers, Dungeons and Dragons Collection: Shadow Over Mystara (questo titolo è molto importante poiché richiede l’esclusiva cartuccia RAM da 4 Mb da inserire nel Saturn, dunque questa è la prova che è anche in grado di emulare questo hardware esterno) e House of the Dead (giocato col controller, visto che le lightgun dei tempi non funzionano più coi televisori nuovi). Il secondo e il terzo video mostrano un ulteriori gameplay di Sega Rally Championship e Fighting Vipers girare a 60 FPS, meglio di come potrebbe fare un Sega Saturn originale. In tutti i video, insieme al gameplay cristallino, viene inoltre mostrata la capacità di creare dei save state e ricominciare esattamente dal punto in cui si lascia l’azione, sottolineando dunque che la macchina estrae letteralmente l’immagine per poi emularla. A questo punto, tutti i peccati di Playmoji sono stati assolti ma rimane giusto qualche dubbio: l’ultima cosa che gli utenti vorrebbero solamente vedere, stando ai commenti sui video, è uno stream su Twitch/YouTube in cui mostrano gli sviluppatori giocare effettivamente con la Polymega, inserire qualche disco e vedere il sistema che estrae l’immagine, provare e scambiare qualche modulo, etc… Si spera dunque che gli sviluppatori diano ancora più prove a sostegno della versatilità di Polymega (anche se, in realtà, ne hanno date abbastanza all’ultimo E3) ma a ogni modo, finalmente, alla preoccupazione più grande, ovvero l’efficienza del nuovo chip, è stata data una risposta molto esaustiva.
Per le comunicazioni ufficiali da parte degli sviluppatori vi basterà seguirli sul loro canale YouTube e sulla loro pagina Facebook.

(video del gameplay variegato)

(Sega Rally Championship a 60 FPS)

(Fighting Vipers a 60 FPS)



Dusty Rooms: le celebrità nei videogiochi

Super Mario, Link, Lara Croft, Master Chief, Nathan Drake, Crash Bandicoot, tutti personaggi in grado di venderti una console, persino con uno spin-off… Puzzle! Tuttavia, vi era un tempo in cui non a tutti piacevano i personaggi fittizi, in cui si diceva: «Interessante… Ma a questo gioco manca qualcosa». Per compensare queste mancanze nei videogiochi, alcuni imprenditori poco laboriosi pensavano che pagare qualcuno per farlo apparire nel proprio gioco garantisse delle entrate e perciò, a oggi, abbiamo una marea di titoli sponsorizzati dalle celebrità che trasudano di tempi andati e persi per sempre (in alcuni casi, meglio così). Partendo dagli albori, daremo uno sguardo ad alcuni di questi “interessanti” giochi; è difficile mapparli con precisione (tanto quanto tracciarne l’inizio) per cui faremo del nostro meglio per risultare esaustivi. Se ce ne dimentichiamo qualcuno fatecelo presente – con garbo – nei commenti! I titoli che prenderemo in considerazione sono quelli in cui un personaggio celebre sia presente all’interno del gioco interpretando se stesso e non personaggi fittizi per cui potrebbe essere famoso (esempio: un gioco della serie Indiana Jones non è un gioco che include Harrison Ford, neanche nel caso in cui l’attore originale doppi il personaggio da lui interpretato).

Gli anni ’80

Che ci crediate o no, la pratica di schiaffare un personaggio famoso in un software esiste sin dagli albori dei videogiochi. Stando a qualche ricerca, si potrebbe tracciare un inizio con Pelé’s Soccer del 1980 per Atari 2600. Già chiarissimo l’intento dei programmatori a far più soldi possibili con un software non fantastico ma sponsorizzato da un leggendario calciatore; è vero che su Atari 2600 bisogna attivare un po’ l’immaginazione e, il gameplay di molti giochi, soprattutto gli sportivi, era in uno stadio particolarmente primitivo. Nessuno, ha ancora capito quale sia Pelé in quel gioco. C’erano due squadre, composte da tre giocatori ciascuno, e perciò è difficile credere che tutti i giocatori siano la celebrità che sponsorizza il gioco; è per questo che alcuni, a oggi, dicono scherzosamente che Pelé sia la palla! È giusto dire che solitamente i giochi sportivi sponsorizzati erano per lo più buoni come le serie di Tony Hawk’s Pro Skater e Colin McRae Rally (ancora viva sotto il rebranding Dirt), il particolare Mike Tyson’s Punch Out!! e i diversi titoli arrivati su Sega Mega Drive al lancio. A ogni modo, lasciamo perdere lo sport, visto che è un argomento fin troppo vasto, e torniamo di nuovo ai tempi di Pele’s Soccer per parlare di un altro tipo di celebrità.

Prima del popolare Michael Jackson’s Moonwalker, i Journey, popolarissima band degli anni ’70-’80, finirono su un gioco per Atari 2600 chiamato Journey Escape basato sul loro più recente album, intitolato, appunto, Escape. Lo scopo del gioco era portare i membri della band e il loro cachet della serata a bordo del loro tour-bus, che era in realtà un’astronave a forma di scarafaggio, evitando fotografi, promoter senza scrupoli e groupies, facendoli aiutare dai roadie a forma di Kool-aid (qualcuno non ci stava con la testa quando hanno programmato questo gioco, eh si…); il loro brano Don’t Stop Believin era reso col primitivo chip sonoro dell’Atari 2600 ma fortunatamente i Journey poterono riproporre i loro brani col nuovo gioco arcade del 1983 (intitolato semplicemente Journey) che mostrava più chiaramente i membri della band che dovevano andare alla ricerca dei loro strumenti (e non di certo evitare le groupies, cosa a cui nessuna band avrà mai rinunciato!).

Un’altra band diventò iper-popolare negli anni ’80 e, come i Journey, ebbero il loro videogioco su licenza. Frankie Goes to Hollywood, nome del gioco per i principali computer degli anni ’80 che promuoveva l’omonima band dance rock, era una sorta di avventura grafica con una distinta componente puzzle; l’obiettivo del gioco era raggiungere il tanto discusso “Pleasuredome” raccogliendo dei punti amore, sesso, guerra e fede ma consegnando prima un assassino alla giustizia. Insomma, un gioco veramente strano ma che incarnava quasi perfettamente l’eccentricità della band. Spettacolari inoltre le versioni Syd, ascoltabili dunque nel Commodore 64, dei loro successi Welcome to the Pleasuredome, Relax, Two Tribes e l’intro The World is my Oyster. Direi imperativo se siete fan di questa band!

Ma lasciamo perdere la musica per un momento e concentriamoci su Chuck Norris Superkick, gioco per Atari 2600, Colecovision, Commodore 64 e Vic-20. Questo fantastico titolo della Xonox vi mette nei panni dell’uomo più virile al mondo per far sì che gli sciagurati che osano attaccare Chuck Norris capiscano chi è che comanda anche nel mondo dei videogiochi! Il titolo non è ispirato a nessun film, ma il fatto che si giochi nei panni del glorioso Chuck basta già da sé; procuratevelo altrimenti Chuck Norris verrà a casa vostra sfondando il muro con un calcio volante!

Gli anni ’90

La strategia di Sega, con la sua nuova console 16-bit, era quella di appellarsi a un target più maturo, e chi incarnava quello spirito di ribellione tipica degli anni ’90 meglio dell’iconico cantante Michael JacksonMichael Jackson’s Moonwalker uscì per prima in versione arcade ma fu con il rivisitato porting su Mega Drive che divenne un titolo leggendario (a modo suo). I controlli erano buoni, l’atmosfera si ricollegava direttamente all’omonimo film e il gameplay era tanto semplice da poter essere giocato persino da coloro che non avevano mai toccato un videogioco prima d’ora, anche vostra sorella che vi chiedeva in prestito i vinili di Michael Jackson e ve li restituiva graffiati. Era possibile colpire e far fuori intere orde di nemici con calci e pugni (con una sfumatura prettamente “Jacksoniana”), col cappello, con le piroette ma soprattutto coinvolgendo gli sgherri di Mr. Big a danzare fino alla morte a suon di Smooth Criminal, Beat it, Bad e Billy Jean! L’obiettivo di ogni livello era ripulire ogni schermata dai nemici e andare alla ricerca di un certo numero di bambini ma, per quanto semplice, era un gioco abbastanza avvincente e divertente… E no, nessuna battuta su The King of Pop e i bambini!

Anche se alcuni dicono che la faida fra Michael Jackson e Prince sia infondata, qualche anno dopo il rilascio di Moonwalker l’autore dell’iconica Purple Rain rilasciò, puta caso, il suo personalissimo gioco su Windows e Mac. Prince Interactive era un punta e clicca alla Myst in cui il giocatore doveva collezionare i cinque frammenti del simbolo di Prince (chi conosce l’artista sa di cosa stiamo parlando) fra le diverse stanze dei suoi personalissimi Paisley Park Studios risolvendo dei puzzle più o meno completi; un gioco abbastanza semplice e che a oggi è solo uno dei tanti strani giochi in Full Motion Video che spopolavano su PC, 3DO e Sega CD. Nel caso in cui la sua autopromozione tramite questo videogioco non fosse abbastanza, all’interno in una delle stanze era possibile fare partire delle clip in cui musicisti del calibro di Eric Clapton, Little Richard e Miles Davis parlavano della loro esperienza con Prince; una vera e propria agiografia videoludica!

Ad ogni modo, i giochi dei rispettivi Michael Jackson e Prince coinvolgevano, in un certo senso, il loro animo musicale nel gameplay; fu così che la Midway pensò di inserire gli iconici Aerosmith in un contesto che rispecchiava quella voglia di casino tipica dei loro pezzi, ma che con la loro musica centrava ben poco! Un governo corrotto, nel futuristico anno 1996, mette al bando la cultura giovanile, inclusi musica, televisione, riviste e videogiochi; toccherà a noi dunque salvare gli Aerosmith (la missione più importante a cui pensare in tempi di crisi del genere) a colpi di mitragliatrice e CD esplosivi (avete capito bene) in Revolution X! Il gioco era uno shooter in stile Virtua Cop o Time Crisis, con una forte componente FMV, uscito originariamente in versione arcade prima che alcuni programmatori avessero la rivoluzionaria idea di togliere la compatibilità con le light gun casalinghe su Super Nintendo, Sega Mega Drive, Saturn e Sony PlayStation; e menomale che gli Aerosmith cantavano “I don’t want to miss a thing“!

Il peggiore

Ci sono ancora una marea di giochi sponsorizzati dalle celebrità come Bad Day on the Midway dei Residents, la misteriosissima band Avant-Rock, Spice World delle Spice Girls, il first person shooter Psycho Circus: the Nightmare Child dei Kiss, Ed Hunter degli Iron Maiden e molti altri. Tuttavia, vorremo finire questa carrellata anni ’90 con il più iconico in termini di bruttezza: abbiamo visto che i giochi finora discussi avevano sempre qualcosa di pertinente con la celebrità o la band proposta nel gioco; il gioco di cui parliamo invece è un puro volo pindarico, impossibile immaginare come si possa aver collegato il giocatore di basket Shaquille O’Neal con il Kung Fu. Ovviamente stiamo parlando dell’infimo Shaq Fu, un picchiaduro che include dei personaggi fittizi in un mondo di fantasia… e Shaquille O’Neal! Il gioco non solo è una delle peggiori trovate commerciali mai concepite nella storia dell’umanità, ma anche uno dei peggiori giochi mai creati in termini di gameplay e controlli. Pensate che esiste un apposito sito creato appositamente per distruggere ogni singola copia di Shaq Fu, sia per SNES che per Sega Mega Drive. Tuttavia, il culto di questo gioco su internet ha permesso nel 2014 di lanciare il Kickstarter per Shaq Fu: a Legend Reborn, progetto che è stato finanziato con successo e che ha visto il suo rilascio proprio pochi giorni fa. Evidentemente, le cose alla fine sono girate per il verso giusto per Shaquille O’Neal!

E oggi?

Oggi i giocatori sono fin troppo svegli e un gioco del genere, buono o cattivo che sia, non sopravviverebbe alle ire degli utenti di Reddit, Twitter e Facebook. A ogni modo, non troppo tempo fa abbiamo comunque visto dei bei party game che si sono saputi distinguere e hanno offerto ai giocatori tante belle ore di gioco: parliamo ovviamente dei titoli tematici di Guitar Hero direttamente pubblicizzati dalle band (vedi Guitar Hero: Aerosmith, Guitar Hero: Metallica, etc…), Beatles & Green Day: Rock band e Singstar che ha visto persino la promozione dell’italianissimo Vasco Rossi.
La storia di Shaq Fu: a Legend Reborn ci insegna che tutto è possibile e perciò, chissà, magari presto vederemo giochi assurdi come Al Bano in Wonderland, Sgarbi Fu oppure un Leisure Suit Silvio!




Dusty Rooms: la tragedia di Sonic X-Treme

Oggi il Sega Saturn è decisamente una delle console più gettonate fra i retrogamer e sta vivendo una seconda vita grazie a internet e alla condivisione di informazioni riguardanti tutti quei giochi oscurati dalle più popolari Sony PlayStation e Nintendo 64, molti dei quali mai arrivati dal Giappone. Tuttavia, in molti concordano nel dire che uno dei più grandi fattori che ha sancito il fallimento di quest console, insieme ad altri fattori riguardanti il complesso hardware e le pubblicità poco convincenti, è stato quello di non avere un titolo dedicato a Sonic, la mascotte che riuscì a dar filo da torcere a Mario e Nintendo. Nel Sega Saturn è possibile trovare Sonic Jam, una compilation contenente i quattro titoli per Sega Mega Drive ottimizzati per la nuova macchina, Sonic 3D Blast, essenzialmente un porting del titolo per la precedente console 16-bit, e Sonic R, un discutibile gioco di corse (senza veicoli) con i personaggi della saga; nessuno di questi titoli fu mai posto come principale della saga da lanciare, se non altro, contro Super Mario 64 e il nuovo Crash Bandicoot. Poteva mai Sega pensare di lanciare la sua nuova console senza un gioco di Sonic? Ovviamente no. Sonic X-treme sarebbe dovuto diventare non solo il nuovo titolo principale del porcospino blu ma anche la killer-app che avrebbe lanciato il Saturn una volta per tutte, ma purtroppo il gioco non uscì mai. Ma come mai Sega cancellò un progetto così grande e perché la loro console 32-bit rimase senza un gioco dell’iconico porcospino?

Verso il 3D

La storia di Sonic X-Treme comincia nel 1993: Sonic è in capo al mondo con ben tre titoli principali (Sonic the Hedgehog, il suo sequel e Sonic CD), altri due giganteschi titoli in uscita (Sonic the Hedgehog 3 e Sonic & Knuckles) e un’infinità di spin-off su Mega Drive, Master System e Game Gear. Yuji Naka, ideatore del personaggio, e Hayao Nakayama, presidente di Sega in quel periodo, chiamarono il Sega Technical Institute, lo studio di Sega negli Stati Uniti che si occupò della saga dopo il primo capitolo insieme al Sonic Team, chiedendo un nuovo rivoluzionario titolo del porcospino blu basato sulla serie a cartoni animati della ABC per una nuova console Sega (che ai tempi non aveva chiaro quale sistema, fra 32X e Sega Saturn, lanciare). Lo studio americano non aveva idea di cosa proporre in Giappone, soprattutto per il mancato sviluppo di Sonic & Knuckles. Sega Technical Institute si divise letteralmente in due: una parte rimase negli Stati Uniti per completare l’ultimo titolo 2D di Sonic per Sega Mega Drive mentre l’altra andò in Giappone per proporre nuove idee per un titolo principale. Furono proposte 3 idee:

  • Sonic 16: titolo 2D e proponeva un insolito gameplay basato sullo stealth. Un gioco decisamente interessante, ma nulla a che vedere con il velocissimo gameplay dei giochi precedenti e perciò venne scartato. A ogni modo, molte parti della sceneggiatura, apparse su internet più tardi, vennero prese come spunto per essere utilizzate più in là con il progetto di Sonic X-treme.
  • Isometric Game: al di là di non avere neanche un vero nome, questo progetto non superò mai lo stadio concettuale e non venne presentato alcun gameplay. Di questo progetto ne presero gli asset, alcuni anni più tardi, per Sonic 3D Blast ma quel sistema di gioco, un po’ sperimentale, non poteva mai andare oltre lo stato di spin-off.
  • Sonic Mars: fra i tre progetti questo era considerato il più valido in quanto era concepito totalmente in 3D e sul 32X ma Yuji Naka, anche se approvò il progetto, non era totalmente impressionato da ciò che vide. Fu l’unico progetto a passare allo sviluppo ma alcune dispute interne, insieme all’insuccesso dell’ultimo add-on per Mega Drive, portarono all’abbandono del capo programmatore e al momentaneo alt generale. Chris Senn, che lavorò all’eccellente Comix Zone, fu messo a capo del progetto: scartò il tema del cartoon ABC e interruppe un’altra volta lo sviluppo in attesa che Sega definisse meglio il successore del Mega Drive. Come i precedenti 3 progetti, anche questo, fu cancellato.

Malgrado tutto, Sonic Mars mise il team di sviluppo sul giusto binario, ovvero sul Sega Saturn, e un nuovo definitivo progetto fu avviato… e ancora una volta cancellato! Sonic Saturn non uscì mai dallo sviluppo né fu mai annunciato ufficialmente ma alcuni concept art e immagini dei prototipi confermarono la grafica 3D, l’idea per un bonus stage che fu usato, più in là, per Sonic 3D Blast e uno stile molto realistico e un po’ più serioso dei precedenti titoli (i fan si accorsero inoltre che alcune piastrelle dei pavimenti furono usate più tardi per Sonic R). A questo punto, per l’ennesima volta, il Sega Technological Institute dovette non solo ricominciare da capo ma dividersi ulteriormente: un primo team capitanato da Chris Senn e Ofer Alon (che chiameremo più in la “Team-A“) avrebbe sviluppato i livelli mentre un secondo capitanato da Chris Coffin (che chiameremo “Team-B“) avrebbe sviluppato gli scontri contro i boss, utilizzando un motore preesistente per 32X, ed entrambi sarebbero stati supervisionati da Mike Wallis. Finalmente esisteva un assetto definito per poter sviluppare il titolo definitivo di Sonic per Sega Saturn ma questo schema, prima o poi, si sarebbe rivelato poco efficace.

(La demo di Sonic Mars su 32X)

Uno sviluppo faticoso

Quello che si creò dalla divisione in due team… furono ulteriori divisioni! All’interno dei gruppi di lavoro si crearono altri piccoli sottogruppi e mantenere una comunicazione costante fra i due team era molto difficile per il numero generale dei dipendenti e le suddivisioni; nonostante tutto, entrambi i team stavano facendo un bel lavoro e i primi risultati stavano venendo fuori. Il Team-A aveva sviluppato un motore su un computer Mac che animava i personaggi, resi con un 3D prerenderizzato simile a Donkey Kong Country, e produceva una prospettiva “fish eye” (in italiano diremo a grandangolo) che davano ai livelli una rotondità mai vista prima (che avremmo visto molto più tardi in giochi come Super Mario Galaxy). L’ambiente girava intorno a Sonic e questa sarebbe stata la caratteristica chiave del nuovo titolo Sega. A un certo punto dello sviluppo sarebbero stati introdotti dei livelli specifici per altri personaggi: Knuckles sarebbe stato protagonista di alcuni livelli con una prospettiva top-down (simili a quelli di Contra 3: the Alien Wars), Tails avrebbe affrontato dei livelli simili a quelli che sarebbero stati i suoi in Sonic Adventures per Dreamcast e per Tiara, un nuovo personaggio femmina introdotto in Sonic Mars, stavano programmando dei livelli classici in 2D. Il motore grafico, prima prodotto su Mac e poi utilizzato su Windows, restituiva un azione fluidissima su computer ma i programmatori sopravvalutarono le capacità del Saturn; il prototipo, a detta dei programmatori che ci lavorarono, girava fra i 3 e i 4 FPS sulla console e perciò dovettero ricorrere a un aiuto.
A questo punto il Team-A aveva bisogno di supporto e fu così che coinvolse la casa produttrice Point of View. La nuova compagnia propose al team un loro motore mostrando l’immagine di un Sonic poligonale sopra una superfice a scacchi e una sfera in aria; Chris Senn non fu totalmente impressionato dalla loro tecnologia e non aveva intenzione di scartare il motore alla quale aveva lavorato tanto perciò lasciarono perdere la loro offerta. Tuttavia, su consiglio di Ofer Olan, la Point of View fu coinvolta nel progetto preesistente per migliorare il motore del Team-A e farlo funzionare meglio su Saturn e così, da una costola del suddetto team, si formò un Team-C capitanato da Chris Senn (uscendo definitivamente dal suo team originale).

(Il motore dei livelli del Team-A e Team-C)

L’ira dal Sol Levante

Nel Marzo del 1996 Hayao Nakayama programmò un volo per gli Stati Uniti per controllare il lavoro del Sega Technical Institute. Il Team-C, malgrado tutto, riuscì a ottimizzare il motore per il Saturn, lavorando giorno e notte fino all’arrivo del presidente di Sega. Chris Senn e Ofer Alon si diressero al meeting per trovare un Nakayama furioso che camminava verso il senso opposto; stupiti dalla reazione del presidente capirono che il meeting era già avvenuto e il Team-A aveva presentato una versione vecchissima del loro lavoro, una di quelle che girava fra i 3 e i 4 FPS. Tuttavia, Nakayama fu soddisfatto dal lavoro del Team-B, e decise che il gioco doveva essere sviluppato tramite quel motore (che non aveva la caratteristica chiave del motore del Team-A poiché basato sulle boss fight); Chris Senn e Ofer Alon tentarono in tutti i modi di mostrare al presidente la versione più recente del loro lavoro ma egli aveva già lasciato l’edificio mettendo così un punto definitivo al lavoro del Team-A e Team-C sollevando allo stesso tempo i due programmatori e Point of View dai loro incarichi.
Il progetto si avviò verso una fase più definitiva: il Team-B, il cui capo Chris Coffin sarebbe diventato il nuovo lead programmer, avrebbe condotto il resto del progetto (che assunse la nuova denominazione “Project Condor“) e questo sarebbe dovuto essere pronto per Natale, in tempo per competere contro Super Mario 64 e Crash Bandicoot. A questo punto della storia c’è un evento che coinvolge il motore grafico di Nights into Dreams… ma non si sa esattamente cosa sia successo; tutti i fatti riguardanti questo progetto sono state fornite da Chris Senn nel suo sito Sonic X-treme Compendium (oggi offline) ma da questo punto in poi egli non è più presente e perciò il prossimo evento è un po’ avvolto nel mistero. Essendo stata fissata una data per Natale, il Team-B aveva bisogno immediatamente di mezzi per completare il loro gioco. Avrebbero chiesto dal Giappone il motore per Nights into Dreams… ma, apparentemente, senza alcun permesso da parte di Yuji Naka che sviluppò il popolare gioco per Saturn; il noto creatore di Sonic bloccò immediatamente i lavori mettendo un punto ai progressi fatti col suo motore grafico. Si dice anche che il motore di Nights non fu mai utilizzato in sé ma bensì plagiato, scatenando ugualmente l’ira di Yuji Naka. A ogni modo, di tutte le versioni, questa è l’unica versione trapelata su internet e, a oggi, è possibile scaricare l’immagine per poterla provare sul proprio Sega Saturn o su un emulatore. La iso è giusto una sorta di tech demo e perciò si può giusto correre per delle collinette, attraverso un fiume, collezionare una cinquantina di anelli e non c’è alcun nemico.

(La tech demo giocabile, realizzata col presunto motore di Nights into Dreams…)

La fine

Project Condor, ancora una volta, dovette ripartire da zero. Erano solamente rimasti alcuni modelli di grafica 3D e Chris Coffin doveva immediatamente fare qualcosa. Lavorò giorno e notte insieme al veterano della saga Hirokazu Yasuhara per poter arrivare alla scadenza e il gioco, arrivati a questo punto, assunse una grafica puramente 3D e cominciava a prendere una forma deliziosa; sfortunatamente, proprio per l’assiduo impegno che stava dedicando al progetto, si beccò una grave polmonite ad Agosto e i dottori dissero che se avesse continuato sarebbe potuto persino morire. Chris Coffin dovette annunciare a Mike Wallace che il gioco non sarebbe stato pronto per il tempo stabilito e così il progetto fu cancellato definitivamente. Sega, in vista del Natale del 1996, decise di fare un porting di Sonic 3D Blast per Mega Drive e Nights into Dreams… divenne il titolo più venduto per Saturn. Chris Senn tentò di salvare il progetto chiedendo a Sega di poter continuare lo sviluppo per un rilascio su PC ma le sue richieste non furono ascoltate. Più in là, vedendo un interesse dei fan riguardo a Sonic X-Treme, annunciò Project-S, un gioco indipendente ispirato a ciò che sarebbe stato questo gioco ma purtroppo cancellò il tutto nel 2010.

(La fase finale del progetto)

Cosa rimane

Finita l’esperienza di Sonic X-Treme, il Sonic Team si potè concentrare su Sonic Adventure per la futura Dreamcast. La lezione era stata imparata e il nuovo titolo Sega uscì senza problemi dovuti alla comunicazione o alla programmazione. Tuttavia, nel 2010, venne rilasciato Sonic Lost World per Nintendo Wii U, 3DS e Windows, titolo non scelto a caso poiché, appunto, presenta dei mondi rotoscopici e sferici proprio come il gioco che non uscì mai (appunto “Lost World“). Non sapremo mai come sarebbe stato Sonic X-Treme ma vorremo comunque porre una domanda: avrebbe potuto questo titolo salvare il Sega Saturn? La concorrenza era spietata e sia Crash Bandicoot che Super Mario 64 erano giochi incredibilmente belli; per poter mettere il Saturn in un piano di rilevanza Sega avrebbe dovuto mettere un gioco competitivo e, vista la programmazione frammentaria, probabilmente Sonic X-Treme sarebbe stato pieno di difetti e troppo differenziato. Bisogna anche ammettere che la mancata uscita di questo titolo ha permesso però a Saturn, molti anni dopo, di spiccare come console da collezione: grazie alla mancanza di un vero gioco di Sonic, molti Developer (interni ed esterni) hanno provato a far spiccare la loro IP per dare alla console Sega un identità diversa dalla competizione e dunque oggi abbiamo una libreria di giochi con una varietà impressionante. Solo su Saturn possiamo trovare Nights into Dreams…, Panzer Dragoon Saga, Virtua Fighter 2, Fighters Megamix, Guardian Heroes, Radiant Silvergun e molti altri. Sotto questo aspetto la mancata uscita di Sonic X-Treme potrebbe persino rappresentare un bene per la console ma è ovvio che la cancellazione del progetto non ha potuto dare all’hardware un vero volto per coloro che volevano saperne di più sulla console. Chissà se almeno, verso la fine, il gioco sarebbe stato davvero all’altezza della competizione; purtroppo non lo sapremo mai.




Dusty Rooms: la saga di Thunder Force

Come abbiamo ribadito in molti altri nostri articoli, la retromania è in piena attività; molti titoli vengono riscoperti e sempre nuovi modi per giocarli, che riguardino nuovi hardware come le retroconsole, le console originali o altri discussi nella precedente rubrica, vengono proposti ai giocatori più nostalgici. Oggi, specialmente su Nintendo Switch e Steam, un vecchio genere videoludico sta tornando di moda e i più appassionati sperano ogni giorno nel ritorno delle loro saghe preferite, che siano sequel, remake o remastered: parliamo degli shoot ‘em up, uno dei generi più antichi del gaming e uno dei più iconici. Negli anni ‘80 e ’90, sia nelle arcade che a casa, titoli come Gradius, R-Type, 1943, Darius, Pulstar e molti altri erano sulla cresta dell’onda e appassionati e casual hanno sempre apprezzato questo genere per la sua natura avvincente e tosta difficoltà; nonostante il genere fosse in continua evoluzione (vedi l’avvento, più tardi, dei Bullet Hell) e continuavano a uscire titoli sempre più raffinati, come Radiant SilvergunEinhänder, Darius Gaiden, Ikaruga, Gradius V e R-Type Final, in occidente fu messo da parte poco per volta e molte nuove uscite furono riservate al giappone dove gli SHMUP (abbreviazione comunissima di “shoot ‘em up”) sono sopravvissuti nonostante il calo nelle arcade (che per loro non fu destabilizante). A oggi il genere è abbastanza in fermento grazie alle uscite indie, come Crimzon Clover: World Ignition e Super Hydorah, e ai colossi del genere, come CAVE , G.Rev e Treasure, che allietano gli appassionati con vecchie e nuove uscite, di questi tempi in tutto il mondo grazie a piattaforme come Steam, ma le sage storiche degli anni ’90, soprattutto Gradius e R-Type, sembrano in stallo.
Una delle saghe di cui si sente di più la mancanza, e una fra le più amate degli appassionati degli SHMUP, è certamente Thunder Force di Technosoft, un developer che regalò ai giocatori molti shooter come Herzog Zwei, Hyperduel e Blast Wind ma anche altri titoli come Devil’s Crush, che era un gioco pinball, e Nekketsu Oyako, un beat ‘em up; a ogni modo, Thunder Force era certamente il loro franchise di punta, una saga di titoli in grado di dettare legge sul fronte degli SHMUP e uno di quei tanti titoli della libreria del Sega Mega Drive/Genesis in grado di far voltare la testa ai possessori del Nintendo Entertainment System e persino Super Nintendo.

Le umili origini e il Mega Drive

Al contrario di ciò che si possa pensare, il primo Thunder Force uscì nel 1983 su molti computer giapponesi come lo Sharp X-1 e il NEC PC 8801, anni prima di Gradius e R-Type (cui, solitamente, vengono considerati gli innovatori del genere); nonostante il precoce arrivo sul mercato, il gioco era un semplice “top down shooter”, sulla scia di Bosconian e Sinistar ma con i bersagli in superfice come in Xevious (dunque ben lontano da ciò che il genere sarebbe diventato più in là), e l’obiettivo era volare nell’area di gioco, con la nostra navicella della federazione spaziale, per distruggere le basi dell’Impero Orn. Un po’ come Steet Fighter (l’omonimo titolo che diede il via alla nota saga picchiaduro), il primo Thunder Force non ebbe grande risonanza nel mondo degli shooter e ciò che avrebbe reso grande la saga Technosoft doveva ancora arrivare.
Quattro anni dopo arrivò il sequel Thunder Force II, prima sul (fantastico) computer giapponese Sharp X68000 e poi su Sega Mega Drive, dove in Nord America fu inserito nella linea dei titoli di lancio. L’arrivo sulla console 16-bit fu molto importante non solo perché la saga arrivò ai giocatori di oltreocenao ma anche perché Technosoft fu uno dei primi developer a firmare per Sega ed erano pronti a evidenziare tutte le grandi caratteristiche del Mega Drive. Il titolo introdusse tantissime novità che caratterizzarono la saga di fronte alla spietata concorrenza delle altre case videoludiche: gli stage top-down vennero affiancati da degli stage sidescroller tradizionali (alla Gradius), venne inserito il sistema di power up tipico della saga ma soprattutto il nuovo timbro caratteristico dell’audio e delle composizioni (su uno stile molto rock/metal) contribuì a dare al gioco una colonna sonora, per l’epoca, spaventosa. La strategia chiave del gioco, ma più precisamente di tutta la saga, si cela soprattutto nel tirar fuori le giuste armi nel momento più propizio: come ogni SHMUP che si rispetti, in Thunder Force II bisogna collezionare i power up in volo ma, a differenza di molti altri titoli simili, tutti rimangono disponibili al giocatore ed è dunque possibile riselezionarli, durante il gameplay, a seconda della situazione che ci viene posta davanti; ogni arma, che variano a seconda del tipo di gameplay, ha i suoi pregi e difetti e pertanto conoscere ogni singolo power up (e dunque icona del gioco) è essenziale per gestire ogni tipo di situazione anche perché, se verremo colpiti, perderemo ogni power up collezionato ripartendo col pattern d’attacco base. Le due versioni sono semi-identiche ma preferire l’una o l’altra è questione di gusti personali: la versione per Sharp X68000 ha una grafica migliore, delle cutscene di presentazione, qualche power up in più e alcune clip vocali tagliate dalla versione per Mega Drive (come la famosa: «Shit!»); la seconda presenta degli stage sidescroller più ampi in larghezza, qualche arma esclusiva, una difficoltà più abbordabile e, a oggi, è possibile reperirlo con più facilità. Dopo un inizio un po’ sottotono il nuovo titolo della Technosoft era decisamente più definito e l’occidente accolse più che positivamente Thunder Force II (seppur nessuno giocò mai al primo titolo) rimanendo affamato per un nuovo titolo.

Thunder Force III e l’arrivo nelle arcade

Nel 1990 arriva Thunder Force III e anche questo, come il predecessore, porta diverse novità: ci fu un grosso miglioramento sul fronte del comparto grafico, quando si perde una vita viene perso solamente il power up che si stava usando al momento dell’esplosione, è possibile cambiare la velocità della navetta durante il gameplay e, il più importante, i livelli top-down vengono soppiantati definitivamente in favore di dei livelli sidescroller eccellenti.
Il successo di Thunder Force III, sempre fortemente caratterizzato dalle “sonorità Technosoft”, fu tale da ricevere un porting per il mercato arcade che prese il nome di “Thunder Force AC”, il primo titolo della compagnia per le sale giochi. Questo titolo era più o meno un porting della versione per Mega Drive ma furono cambiate alcune cose come l’interfaccia grafica per la selezione dei power up e i punteggi (che adesso si trovavano in basso) e due stage che furono ridisegnati e accompagnati da nuovi brani; Thunder Force AC uscì più in là per Super Nintendo con il nome di Thunder Spirits ma il porting che ne uscì fu problematico e certamente non all’altezza né del cabinato né dell’originale per Mega Drive. Il gioco soffriva di rallentamenti quando le schermate erano troppo “affollate” (chiamarli cali di framerate è errato per questo tipo di console) e, nonostante il superiore chip sonoro, non riuscì a restituire le sonorità tipiche della saga; titoli come questo confermarono con più decisione che lo SNES era, sì, una macchina superiore al Mega Drive ma il suo processore (più lento rispetto alla concorrenza) non riusciva a restituire l’azione frenetica tipica degli SHMUP e pertanto la console Sega ne ospitò diversi, uno più bello dell’altro. La migliore versione casalinga è indubbiamente quella per Mega Drive e Thunder Force III rimane a oggi uno dei migliori shoot ‘em up per il sistema.

L’eccellenza di Thunder Force IV

Thunder Force IV, rilasciato nel 1992, perfezionò un concept già eccellente di suo, portando il Sega Mega Drive, per cui ne era esclusivo, al limite delle sue capacità. Gli sviluppatori trassero il massimo sia in termini di potenza, mantenendo un azione sempre al massimo della velocità, che in termini di qualità grafica grazie a un ingegnosissimo uso dei diversi layer di scorrimento della console Sega, dando una sensazione di profondità come pochi altri titoli per i tempi; inoltre, Thunder Force IV fu uno dei pochissimi titoli del Mega Drive a essere ottimizzato per il 50Hz, il che significa che la versione PAL non solo girava a 60HZ, come un gioco NTSC, ma non aveva neppure le bande nere al di sopra e al di sotto dello schermo. I tre compositori della colonna sonora (Toshiharu Yamanishi, Takeshi Yoshida e Naosuke Arai) composero ben oltre un’ora e mezza di musica, sempre dalle sonorità rock, metal, jazz e fusion, e si avvalsero non solo del chip FM, tipico del Mega Drive, ma anche del chip PSG che era presente all’interno della macchina per permettere la compatibilità con i titoli per Master System; il risultato che ne uscì fu semplicemente strabiliante!
Thunder Force IV non fu un gioco soltanto un gioco impressionante in termini di potenza ma anche in termini di gameplay, in quanto presenta, probabilmente, i livelli più belli della serie e una nuova arma che si ottiene dopo il livello 5, e anche in termini di storytelling in quanto la scena finale lasciò i fan della saga nel dubbio più totale in quanto non si capì esattamente cosa successe al Rynex, la nave pilotata dai giocatori, al termine della cutscene di chiusura. Secondo molti, anche tenendo conto delle specifiche dell’hardware e delle tecniche utilizzate per svilupparlo, questo titolo rappresenta il punto più alto della serie; l’unica pecca di questo gioco, circoscritta solamente per il mercato Nord Americano, è il cambio del titolo in Lightening Force: Quest for the Darkstar, scritto per altro con un errore ortografico (la grafia corretta è “lightning“), e perciò, nonostante le ottime recensioni e riscontri nei negozi, pochi fan sapevano che questo titolo era in realtà il sequel di Thunder Force III.

Il salto al 3D

Con l’arrivo del Sega Saturn, prima di rilasciare il successivo episodio della saga, Technosoft decise di rilasciare nel 1996, in Giappone, una bellissima collezione, divisa in due volumi, contenente tutti i titoli della serie (escluso il primo): Thunder Force Gold Pack 1 conteneva Thunder Force II e III, mentre il Gold Pack 2 conteneva Thunder Force AC e VI. Il nuovo Thunder Force V, uscito nel 1997 per la console 32-bit di Sega, fu il più profondo in termini di storyline: il Rynex vagò per secoli nello spazio in condizioni critiche e fu trovato da dei terrestri che ripresero il controllo della nave grazie a un’intelligenza artificiale sulla luna che, più avanti, si sarebbe ribellata e avrebbe dichiarato guerra alla terra. In termini di gameplay fu introdotta una bellissima nuova arma chiamata “Free Range” e la possibilità di mandare il propri power up in “over weapon”, rendendoli temporaneamente più potenti ed efficaci rispetto alla loro forma base. La maggior parte degli elementi sullo schermo, soprattutto la nave pilotata e i nemici, furono resi in 3D ma il gioco mantenne il suo stile 2D e ciò lo rese impopolare di fronte al nuovo scenario videoludico più interessato in giochi esplorabili in tre dimensioni; neppure la versione per la più popolare Sony PlayStation, rilasciata l’anno successivo in tutto il mondo, sembrò attecchire con i fan, specialmente con i più casual di cui solitamente la saga riusciva ad attrarre facilmente a sé.
Thunder Force V è un titolo a ogni modo solidissimo e la sua colonna sonora è fra le più spettacolari della sua saga, specialmente grazie supporto ottico che permise una qualità audio nettamente superiore ai chip sonori delle console della vecchia generazione. Anche qui, come un po’ per Thunder Force II, scegliere l’una o l’altra versione è questione di gusti: la versione per Sega Saturn (uscita solo in giappone) ha la migliore grafica, migliori effetti grafici e qualità sonora mentre quella per PlayStation, seppur soffre nei comparti in cui la concorrenza è migliore, ha un miglior rendering dei filmati, effetti sonori più complessi, modalità di gioco, artwork e easter egg aggiuntivi e può vantarsi di meno cali di framerate.

Un ritorno sottotono e tardivo

Un sesto Thunder Force era in programma per il Sega Dreamcast ma con il fallimento della console il progetto fu scartato; tuttavia, nonostante non esista uno screen di questo progetto, la colonna sonora fu rilasciata con il nome di Broken Thunder.
A ogni modo, Technosoft si tirò fuori dall’industria videoludica e chiuse i battenti nel 2001 reincarnandosi nella società “Twenty-one company” che si occupa di ricerca e sviluppo e detiene i diritti delle loro IP; Sega riuscì ad acquisire i diritti per Thunder Force VI e in seguito fu sviluppato per PlayStation 2 e rilasciato esclusivamente in Giappone nel 2010. Nonostante contenesse numerosi riferimenti ai vecchi titoli, Il gioco, che uscì abbastanza tardi per essere un gioco della generazione dei 128-bit, fu ampiamente criticato per la facilità generale del gioco, dal momento che il giocatore aveva accesso a tutte le armi sin dall’inizio, per la mitezza degli stage e dei movimenti della telecamera poco curati. Il rilascio per una console considerata obsoleta e circoscritta al Giappone non aiutò la serie a riemergere dal dimenticatoio.

Nuovi propositi

Dopo questa breve riapparizione della saga, Sega ha annunciato nel 2016 di aver comprato le IP della Technosoft dalla Twenty-one company e perciò possono sviluppare le loro IP per dei futuri progetti; quello stesso anno Thunder Force III prese parte all’ultima parte di Sega 3D Classic Collection per Nintendo 3DS ma di recente, esattamente lo scorso aprile, hanno annunciato che Thunder Force IV sarà parte della collana Sega AGES per Nintendo Switch. Visti dunque gli ultimi risvolti, avremo presto un Thunder Force VII?
Beh, noi non lo sappiamo (e forse non è ancora il momento) ma vi possiamo dire con certezza che se c’è un momento per recuperare questa fantastica serie shoot ‘em up è proprio adesso. Ogni titolo di questa saga contiene sempre il giusto equilibrio fra azione e difficoltà e pertanto è una serie adatta sia ai veterani che ai neofiti del genere. Se volete affacciarvi al panorama SHMUP i giochi Thunder Force (specialmente il terzo e il quarto) rappresentano un ottimo punto di partenza e vi offriranno una sfida che, al giorno d’oggi, è semplicemente assente.